Modena Lez 3 - Università degli Studi di Parma

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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Capitolo 7: Aspetti semantici del calcolo dei predicati.
Per il calcolo delle proposizioni si è giustificata la scelta della semantica, pur avvertendo
sulla non necessarietà della scelta classica. Lo stesso si può dire per il calcolo dei predicati. Qui ci si attiene alla linea tracciata sull'argomento da A. Tarski (1902-1983) e ben
illustrata dallo stesso autore nell'articolo Tarski A.: 1991, 'Verità e Dimostrazione', Le
Scienze, Milano, Quaderno n. 60.
Il punto fondamentale è l'esigenza di un metalinguaggio e la sua distinzione dal linguaggio oggetto per evitare problemi logici assai intricati, come ad esempio il Paradosso
del mucchio (Sorite).dovuto ad Eubulide di Mileto (IV sec. a.C.), cui si deve pure il più
famoso Paradosso del mentitore, detto anche Paradosso di Epimenide, dal nome del cretese Epimenide di Cnosso (VI sec a.C.), annoverato tra i mitici sapienti di Grecia, citato da
S. Paolo nell'Epistola a Tito, 1.12.
In estrema sintesi il Paradosso del mentitore si può riassumere nella frase
Io mento
In una accezione assoluta di verità, propugnata da Aristotele, il soggetto dice il vero se la la
frase è vera, ciò accade se il soggetto dice il falso. Se il soggetto è mendace, cioè dice il
falso, allora la frase risulta vera.
Spesso la distinzione tra linguaggio oggetto e metalinguaggio non è avvertita come necessaria perché c'è netta distinzione tra gli oggetti che vengono studiati ed il linguaggio
che si adopera per farlo. Ad esempio parlando di neutroni, a nessun fisico verrebbe in
mente di stare a distinguere tra le particelle subatomiche e le lettere "n", "e", "u", "t", "r" e
"o" dell'alfabeto che costituiscono la parola "neutrone". Quando però gli oggetti dello
studio sono enti linguistici, questa differenza incomincia a diventare importante e talora
difficile. Un esempio chiaro e semplice: è possibile studiare la grammatica della lingua
inglese utilizzando la lingua italiana. In questo esempio si usa un linguaggio per studiarne
un altro. Se si scrive
"The" è l'articolo determinativo,
è chiaro che il linguaggio oggetto di studio è l'Inglese, e lo studio è fatto mediante l'Italiano, che in questo caso funge da metalinguaggio. Queste distinzioni chiare sembrano
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
confondersi nel seguente esempio più matematico. Nelle scuole elementari si fa il primo
incontro con l'operazione di moltiplicazione definita come somma ripetuta
5⋅3 = 5 + 5 + 5.
In questa scrittura, che è una buona definizione, per altro consueta, c'è un piccolo neo:
l'addizione è un'operazione binaria, come tale sarebbe più corretto scrivere 5⋅3 = (5 + 5)
+ 5, oppure 5⋅3 = 5 + (5 + 5), poi sfruttando la proprietà associativa dell'addizione, si
giunge a scrivere come sopra. In seconda elementare l'insegnante dovrebbe spendere
tempo per sottolineare che la proprietà ricordata permette addizioni con più di due termini
per evitare incomprensioni successive e soprattutto perché, visto che l'addizione è un'operazione binaria, perdono di senso le scrittura 5⋅1 e 5⋅0, se non sono definite esplicitamente, come parte integrante della definizione di prodotto.
Nella definizione di
5⋅3 come la somma di 5 con se stesso tre volte,
è importante osservare i ruoli dei numeri: in 5⋅3 sono indicati due numeri naturali, in «la
somma di 5 con se stesso tre volte» è rimasto un solo numero, 5, mentre 3 è passato dallo
stato di numero a quello di aggettivo numerale cardinale, oggetto linguistico, oggetto del
metalinguaggio con cui si studiano i numeri naturali; il linguaggio oggetto qui è quello dei
numeri naturali. Questa situazione, responsabile come hanno osservato E. Fischbein e G.
Vergnaud 1 di difficoltà di concettualizzazione delle operazioni di moltiplicazione tra
numeri diversi dai numeri naturali, si ripresenta, aggravata alle scuole superiori. Spesso la
potenza con esponente naturale è definita da
an = a⋅a⋅…⋅a (n-volte)
Qui, a differenza di quanto fatto nelle scuole elementari, c'è spesso l'uso delle lettere come
variabili per numeri reali e per numeri naturali, così mentre il bambino ha da compiere un
ben preciso numero di iterazioni, alle superiori il numero delle iterazioni è variabile e
indeterminato. Ancora c'è però il passaggio dal linguaggio al metalinguaggio, svelato dalla
dicitura n-volte. In questo caso però non si ha più una buona definizione per l'uso misto di
linguaggio e metalinguaggio. Per risolvere questo problema, la Matematica ha predisposto
lo strumento della ricursione. Si possono definire rispettivamente la moltiplicazione e
l'elevamento a potenza mediante i seguenti schemi ricorsivi:
1 Si veda Fischbein E.: 1985, 'Ostacoli intuitivi nella risoluzione di problemi aritmetici elementari', su Artusi
Chini L. ed. Numeri e operazioni nella scuola di base, Zanichelli, Bologna, 122 - 133; e Vergnaud G.: 1985, 'Il
campo concettuale delle strutture moltiplicative', su Artusi Chini L. ed. Numeri e operazioni nella scuola di base,
Zanichelli, Bologna, 86 - 121.
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n⋅0 = 0

n⋅(m + 1)
= n⋅m + n
a0 = 1
 n+1
=
a
an⋅a
Con questa definizione la natura di numero non viene perduta dal moltiplicatore né dall'esponente. Un altro aspetto interessante è l'utilizzazione dell'infinito potenziale: per conoscere a172 basta conoscere il valore di a171 e moltiplicarlo per a, e così via. Il Teorema di
Ricursione (da precisare bene), cioè l'affermazione che dato uno schema ricorsivo come
quelli precedenti, esiste una ed una sola funzione che soddisfa le richieste, fa passare
dall'infinito in potenza all'infinito in atto, in quanto la funzione è data contemporaneamente
alle infinite coppie ordinate di numeri che ne costituiscono il grafico.
Nasce il problema di chiarire se le due moltiplicazioni (potenze), quella iterativa e quella
ricorsiva sono le stesse operazioni. Ebbene, sorprendentemente, la risposta è negativa, ma
gli strumenti logici che servono per provare ciò sono assai raffinati ed esorbitano da
questa presentazione.
Un altro esempio di uso del metalinguaggio: nella teoria dei gruppi denotati additivamente si può formulare la richiesta relativa all'opposto affermando
∀x∃y(x + y = 0).
Se si confronta questa affermazione con la proprietà di Archimede per i numeri reali, ciò
che dati comunque due numeri reali 1, c'è sempre un multiplo del valore assoluto del
primo che supera il secondo, in simboli
∀x,y∃n(n|x| > y)
apparentemente la forma è la stessa: una quantificazione universale seguita da una esistenziale e poi una formula. Invece si tratta di due richieste assai diverse: nella prima si
parla degli elementi di un gruppo, nella seconda interviene una quantificazione esistenziale
sui numeri naturali e non c'è modo di sostituire questa richiesta con una formula o un
insieme anche infinito di formule, questo perché nel principio di Archimede si mescolano
linguaggio e metalinguaggio (quello in cui si parla di multiplo, come visto prima).
Ci sono solitamente indicatori dell'uso del metalinguaggio: sono frasi del tipo "è vero"
oppure "è falso". Anche quando si dice "le dimostrazioni sono equivalenti" o "conseguenza logica" o ancora "implica logicamente", come visto nel Capitolo 3, ci si muove nel
metalinguaggio. C'è però da distinguere tra l'uso del metalinguaggio indispensabile per la
trattazione semantica e quello che va al di là di essa. Ad esempio se si afferma che una
1 In questa forma non si ha il principio di Archimede, dato che basta prendere x = 0 e y ≠ 0 per non trovare alcun
numero naturale che soddisfi la richiesta. Bisogna aggiungere quindi la condizioen x ≠ 0, ma per mettere in
evidenza quanto si vuole qui, la struttura dei quantificatori, si preferisce non introdurre l'opportuna
relativizzazione.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
formula è vera si resta nella semantica, mentre nel brano successivo, ci si muove in contesto metalinguistico:
Dodero N., Baroncini P., Manfredi R.:1990, Elementi di matematica per gli Istituti Tecnici industriali a indirizzo sperimentale, Vol. 4, Ghisetti e Corvi, Milano, pag. 147:
«Teorema. Ogni funzione che ammette derivata finita in un punto, è continua
in tale punto.
… Questo teorema non è invertibile: vi sono funzioni che sono continue in un punto, ma
non sono in esso derivabili.»
Altri esempi possono essere trovati. Il metalinguaggio (meglio i metalinguaggi) non è
evitabile, se non si vuole cadere in contraddizioni irresolubili, però bisogna imparare a
convivere con esso, non confondendolo col linguaggio oggetto. In particolare la semantica
ha bisogno del metalinguaggio come si mostra sotto. C'è poi il fatto che nel trattare argomenti di matematica si usano strumenti matematici del metalinguaggio, in particolare,
come si vedrà, la Teoria degli Insiemi. Ciò introduce una sottile distinzione tra la Teoria
degli Insiemi come esempio di linguaggio oggetto e quella utilizzata nel metalinguaggio.
Nel seguito si presenta una semantica formale, accanto ad essa è presente una semantica
"intesa" anche nel momento in cui si formalizza come mostrato nei vari esempi riportati
nel Capitolo 5 ed anche nel Capitolo 1.
Fare semantica vuol dire interpretare. Il problema della nterpretazione è risolubile, in
termini matematici, col concetto di struttura. Spesso si intendono interpretazione e struttura come sinonimi. Un'interpretazione è costituita da due parti, il dominio di
interpretazione e le operazioni e relazioni che interpretano i diversi enti: le costanti
(individuali), gli operatori, i predicati. Bisogna tenere conto inoltre delle costanti logiche e
dei quantificatori. In un qualche modo bisogna pure interpretare le indeterminate,
facendolo finalmente diventare variabili. Ancora una volta si prende spunto dalla Matematica della scuola. All'inizio di testi anche classici di Geometria per il biennio, al momento della presentazione degli enti fondamentali, non è raro incontrare affermazioni che
sono apparentemente prive di senso: un punto non è un punto, cioè il segno lasciato dalla
matita sul foglio, così una linea non è una linea, eccetera. Insomma, a parte i nomi che
possono confondere, ma non cambiare perché hanno tradizione millenaria, gli enti geometrici di cui si parla non sono quelli "reali", i quali, semmai, possono essere utilizzati come
modelli di quelli "veri", con qualche imprecisione inevitabile. Questa esperienza dice che il
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
piano semantico è diverso da quello morfologico (e sintattico, nell'esempio) 1. Si deve
avere a disposizione una collezione di enti che avranno funzione di prestanome per quegli
enti linguistici che si vogliono interpretare. Ma invece di parlare di collezioni, in Matematica, ormai, è diffuso il concetto di insieme, di cui sono note anche le proprietà. E' naturale
riferirsi ad esso come ambito privilegiato. Non è che sia una scelta del tutto "indolore",
come hanno dimostrato le polemiche tra Leon Chwistek (1884 - 1944), Ferdinand
Gonseth e Tarski sull'argomento, ma fino ad oggi è la migliore. Così per interpretare i
simboli dell'alfabeto si fissa un insieme M, non vuoto. Le costanti sono interpretate in
fissati elementi di M, le indeterminate in variabili su M 2, vale a dire alla indeterminata x,
simbolo linguistico, si associa la variabile x, il cui dominio di variazione è dato da M. Per i
simboli funzionali, l'interpretazione sarà quella di funzioni (nel linguaggio algebrico,
operazioni). Ma ha importanza l'arietà: un simbolo funzionale n-ario è interpretato in una
fissata funzione con n argomenti, il cui valore però sarà ancora un elemento di M: si tratta
cioè di un'operazione n-aria. Ecco perché si diceva prima che il concetto importante è
quello di struttura. Restano i predicati. Anche in questo caso ha importanza l'arietà. Come
si è detto in questa Logica, a differenza di quella aristotelica, si dà la preminenza alle
relazioni, schematizzate dai predicati. Di conseguenza l'interpretazione suggerita per
predicati è quella delle relazioni. Qui però non si parla solo di relazioni binarie, le più
consuete in Matematica, basti pensare all'eguaglianza, alla diseguaglianza, all'appartenenza,
alla perpendicolarità ed al parallelismo, ma anche a relazioni unarie (i sottinsiemi del
dominio M ) e pure a relazioni ternarie (di cui un esempio è la relazione "stare tra" di
Hilbert), eccetera. Insomma, per generalità, i predicati n-ari saranno interpretati in relazioni
n-arie sull'insieme M , vale a dire in sottinsiemi di M n. Si definisce in tal modo una
funzione di interpretazione. Il linguaggio degli insiemi e delle strutture funge da
metalinguaggio. In esso si interpreta il linguaggio formale dei predicati del 1° ordine,
linguaggio oggetto. Anche insiemi e strutture sono oggetti di studio matematico che, a
loro volta possono essere analizzati con l'ausilio di un ulteriore metalinguaggio. Così nasce una gerarchia di metalinguaggi che è inevitabile.
Anche fissando il dominio M, restano possibili numerose interpretazioni dello stesso
alfabeto. Bisognerebbe specificare a quale interpretazione ci si riferisce, per questo è bene
indicare un'interpretazione del linguaggio come una coppia ordinata ⟨M, ⟩ in cui compare
J
il dominio di interpretazione M , ma anche l'assegnazione di valore alle costanti
(individuali), ai simboli funzionali ed ai predicati, la funzione di interpretazione , ap-
J
1 Per i "pasticci" che possono accadere quando non si coglie la differenza tra questi aspetti, si veda l'articolo di
Bernardi C., Bindi R.: 1989, 'Questo è il titolo di un'articolo sull'autoreferenza'. MD , Anno III, n. 1, 6 - 12.
2 D'ora in si usa un carattere diverso, mantenendo il simbolo, per distinguere tra indeterminate e variabili.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
punto. Come si vede non è stato detto nulla finora sull'interpretazione delle costanti logiche. Ma il significato delle stesse si ha quando si fissano le clausole che portano al concetto di verità. Col calcolo delle proposizioni, cosa significa vero è abbastanza semplice,
coi predicati la cosa è più complessa e si avrà una più articolata definizione di verità.
Un esempio è offerto dalla formula x ≤ 3. Si possono interpretare in modo assai semplice i simboli che qui intervengono (anche perché non ci sono connettivi e neppure
quantificatori): c'è un numero, una costante del linguaggio, ma è inutile sottilizzare troppo:
ci vuole un insieme numerico, ad esempio l'insieme dei numeri naturali e si interpreta ogni
costante nel numero corrispondente. Per rimarcare la differenza tra la costante e la sua
interpretazione qui si usano caratteri diversi: con 3 si indica la costante, con 3 la sua
interpretazione nel numero naturale. C'è un predicato binario, indicato col simbolo infisso
≤ e ad esso si associa, tanto per fare le cose semplici, l'ordine naturale. Resta da
"interpretare" l'indeterminata, come detto sopra, in una variabile. Ma il risultato di questa
interpretazione non è né vera né falsa (non è una pL-proposizione!), dipendendo dal valore
della variabile. Se, ad esempio, la variabile assume il valore 1, visto come numero naturale,
non come costante, allora la formula è vera nell'interpretazione. Questa situazione si riassume dicendo che la formula x ≤ 3 è soddisfacibile nella interpretazione considerata ed è
soddisfatta per x = 1. Per semplificare la scrittura, si rappresenta simbolicamente questa
situazione. Gli ingredienti che ci servono sono: l'interpretazione, cioè il dominio di
interpretazione, nel caso e la funzione di interpretazione , che associa alla costante 3 il
J
N
N
numero naturale 3 ed al predicato binario ≤ la relazione d'ordine naturale su . La
struttura ⟨ , ⟩ è l'interpretazione in cui si valuta la formula, scegliendo un valore per
NJ
l'indeterminata, ora che è diventata una variabile. Una proposta è quella di utilizzare la
seguente pesante scrittura, nella quale però sono presenti tutti gli ingredienti:
NJ
⟨ , ⟩ y x ≤ 3 [x = 1 ]
NJ
da leggersi in ⟨ , ⟩ è soddisfatta (la formula) x ≤ 3 per x = 1. La formula non è soddisfatta se x = 5, ciò che si esprime scrivendo
NJ
/ x ≤ 3 [x = 5 ].
⟨ , ⟩y
La formula avrebbe potuto essere più complessa, pur restando una formula atomica. Ad
esempio considerando x+3 ≤ y⋅2. In questa, pur semplice, formula atomica, sono presenti
termini più complessi e c'è la necessità di interpretare i simboli funzionali presenti in
operazioni. Sempre per semplicità i simboli di addizione e moltiplicazioni verranno interpretati, rispettivamente, nella ordinaria addizione e moltiplicazione. Tuttavia resta il problema della soddisfacibilità. Ad esempio si ha
NJ
⟨ , ⟩ y x+3 ≤ y⋅2 [x=6,y=5],
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
dato che 6+3 = 9 ≤ 5⋅2 = 10. Questo esempio mostra che considerato un termine in cui
compaiano delle indeterminate, e fissata un'interpretazione per i simboli funzionali e le
costanti presenti, dopo aver assegnato valori alle variabili, si ottiene un valore per il termine
stesso, che ovviamente dipende dai valori delle variabili.
Per far meglio comprendere la presentazione, si interpretino i simboli presenti nell'ultima formula in modo diverso. Si consideri come dominio ancora l'insieme dei numeri
naturali e sulle costanti la nuova interpretazione coincida con la vecchia (ma non è una
scelta obbligata), ma il predicato ≤ venga interpretato come la relazione di divisibilità, al
simbolo di addizione si associ l'operazione di M.C.D., massimo comune divisore, ed al
simbolo di moltiplicazione, l'operazione di m.c.m., minimo comune multiplo. Si indichi
con
questa nuova interpretazione, ebbene, con la scelta fatta per le variabili, si ha
H
M.C.D.(6,3) = 3 ; m.c.m.(5,2) = 10 , ma 3 /| 10 , dunque
N H⟩ y/ x+3 ≤ y⋅2 [x= 6,y= 5].
⟨ ,
Questo esempio mostra l'importanza della funzione di interpretazione. Tuttavia spesso, per
semplicità e quando non ci sono ambiguità, si sottintende tale funzione e si lascia indicato
solo il dominio. Questa è una pratica assai diffusa: ad esempio in Algebra si indica un
gruppo solo col suo sostegno, pur sapendo che nel caso di gruppi anche finiti (di ordine
non primo e maggiore di 3) ci possono essere più strutture non isomorfe sullo stesso
insieme 1. Allora per individuare le varie interpretazioni della parte propria dell'alfabeto, si
usa scrivere (non per semplificare, ma per chiarezza), la struttura ad esponente. Insomma
si avrà: 3 ⟨N , ⟩ = 3 ∈ ; 2 ⟨N , ⟩ = 2 ∈ ; ≤ ⟨N , ⟩ = ≤ ⊆ 2 ; +⟨N , ⟩ = + : 2 → ;
⋅⟨N, ⟩ = ⋅ : 2 → . Invece con l'altra interpretazione si ha 3⟨N, ⟩ = 3 ∈ ; 2 ⟨N , ⟩ =
2∈ ; ≤ ⟨N, ⟩ = | ⊆ 2; +⟨N , ⟩ = M.C.D. : 2 → ; ⋅⟨N, ⟩ = m.c.m. : 2 →
; Nella prima interpretazione ai due termini x+3 e y⋅2 restano associate le due funzioni,
indicate ancora con (x+3)⟨N, ⟩ e (y⋅2)⟨N, ⟩, con dominio e codominio nei numeri naturali, tali che (x+3)⟨N , ⟩[x= 6,y= 5] = 6+ ⟨N , ⟩3⟨N , ⟩ = 6+3 = 9, (y⋅2)⟨N , ⟩[x= 6,y= 5] =
5 ⋅⟨N , ⟩2 ⟨N , ⟩ = 5⋅2 = 10. Nella seconda interpretazione, si ha per la stessa scelta di
valori per le variabili: (x+3)⟨N, ⟩[x = 6 ,y = 5 ] = 6 + ⟨N , ⟩3 ⟨N , ⟩ = M.C.D.(6,3) =3 ,
(y⋅2)⟨N, ⟩[x= 6,y= 5] = 5 ⋅⟨N , ⟩2 ⟨N , ⟩ = m.c.m.(5,2) = 10 . La scelta di valore per
N
J
J
N
N
N
H
J
N
N
J
J
J
N
H
J
J
H
H
H
J
J
N
N
N
J
N
N
N
H
N
J
H
H
J
H
H
H
le variabili fa sì che le due funzioni assumano valori naturali. La soddisfazione della
formula si ha per quei valori che stanno tra loro nella relazione che interpreta il predicato.
Così la soddisfazione della formula x+3 ≤ y⋅2 è demandata ad una domanda sulla relazione: ⟨(x+3)⟨N , ⟩[x = 6 ,y = 5 ],(y⋅2)⟨N , ⟩[x = 6 ,y = 5 ]⟩∈≤ ⟨N , ⟩? Se la risposta è sì, come
J
J
J
1 Anche in queste note, se non c'è pericolo di ambiguità, si sottindente spesso la funzione di interpretazione. Ad
esempio si parla di funzione polinomiale in , non esplicitando la funzione di interpretazione.
R
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
NJ
nel caso dell'interpretazione ⟨ , ⟩, allora si può dire che la scelta fatta per le variabili
NH
soddisfa la formula nell'interpretazione. Se la risposta è negativa, come nell'interpretazione
⟨ , ⟩, la scelta delle variabili non è opportuna per soddisfare la formula. In generale si
pone
J
DEFINIZIONE. Sia ⟨M, ⟩ un'interpretazione dei simboli propri dell'alfabeto
(X) tale che Lib(t) ⊆ {x1,…,xk}. Siano a1,…,ak∈ M ; si
. Sia t∈
associa al termine t un elemento di M indicato col simbolo
(t)⟨M, ⟩[x1=a1,…,xk=ak] come segue 1 :
• se t = c∈ , (c)⟨M, ⟩[x=a] = (c)∈M;
• se t∈{x 1 ,…,x k }, quindi se t = xs , con 1 ≤ s ≤ k, (x s )⟨M , ⟩[x = a ] =
as∈ M ;
• se t = f(t1,…,th), con f∈ h e t1,…,th∈
(X), (f(t1,…,th))⟨M, ⟩[x=a] =
(f)((t1)⟨M, ⟩[x=a],…,(th)⟨M, ⟩[x=a])∈M.
A
J
J
TA
C
J
J
F
J
J
J
TA
J
Da questa complessa definizione si ottiene subito che il valore dell'interpretazione del
termine dipende dai valori assunti dalle variabili corrispondenti alle indeterminate, quindi
ad ogni termine t se Lib(t) ⊆ {x1,…,xk}, si associa un'operazione (t)⟨M, ⟩: M k → M .
J
In particolare alle indeterminate sono interpretate nelle proiezioni.
J
DEFINIZIONE. Sia ⟨M, ⟩ un'interpretazione dei simboli propri dell'alfabeto
.
• Data la formula atomica t 1 = t2 in cui sono libere le indeterminate
x1,…,xk, siano a1,…,ak∈M, si dice che in ⟨M, ⟩ è soddisfatta la formula
t1 = t2 per x1 = a1,…,xk = ak, in simboli,
A
J
J
⟨M, ⟩ y (t1 = t2) [x1=a1,…,xk=ak],
se
(t1)⟨M,J⟩[x1=a1,…,xk=ak] = (tn)⟨M,J⟩[x1=a1,…,xk=ak].
J
• Data la formula atomica r(t1,…,tn) in cui sono libere le indeterminate
x1,…,xk, siano a1,…,ak∈M, si dice che in ⟨M, ⟩ è soddisfatta la formula
r(t1,…,tn) per x1 = a1,…,xk = ak, in simboli,
J
⟨M, ⟩ y r(t1,…,tn) [x1=a1,…,xk=ak],
se
1 Per brevità, una volta individuati in modo non ambiguo gli insiemi {x ,…,x } ⊆ X e {a ,…,a } ⊆ M , invece di
1
k
1
k
scrivere x 1= a 1,…, x k= a k, si usa la scrittura x = a , di origine vettoriale.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
⟨(t1)⟨M,J⟩[x1=a1,…,xk=ak],…, (tn)⟨M,J⟩[x1=a1,…,xk=ak]⟩∈r⟨M,J⟩.
Le formule atomiche sono i mattoni fondamentali per la costruzione delle formule; una
volta ben compreso il concetto di soddisfazione per le formule atomiche non c'è (quasi)
problema ad estenderlo alle altre formule, dato che il significato delle costanti logiche è in
qualche modo racchiuso dal nome con cui si nominano. Ad esempio se si considera la
congiunzione, ci si attende che il suo significato sia affine a quello della congiunzione linguistica, e così via.
Poiché la definizione di formula è data per ricursione, anche quella di soddisfazione è
data per ricursione, dopo aver specificato cosa accade per le formule atomiche.
J
DEFINIZIONE. Sia ⟨M, ⟩ un'interpretazione dei simboli propri dell'alfabeto
. Siano ϕ e ψ formule tali che Lib(ϕ)∪Lib(ψ) ⊆ {x1,…,xk} e siano
a1,…,ak∈M. Si ha
• ⟨M, ⟩ y (¬(ϕ))[x1=a1,…,xk=ak] sse ⟨M, ⟩ =
|/= ϕ[x1=a1,…,xk=ak].
• ⟨M , ⟩ y ((ϕ)∧(ψ))[x1=a1,…,xk=ak] sse ⟨M, ⟩ y ϕ[x1=a1,…,xk=ak] e
⟨M, ⟩ y ψ[x1=a1,…,xk=ak].
• ⟨M , ⟩ y ((ϕ)∨(ψ))[x 1= a1,…,x k= ak] sse ⟨M , ⟩ y ϕ[x1=a1,…,xk=ak]
oppure ⟨M, ⟩y ψ[x1=a1,…,xk=ak].
/ ϕ[x1=a1,…,xk=ak]
• ⟨M , ⟩ y ((ϕ)→(ψ))[x1=a1,…,xk=ak] sse ⟨M , ⟩ y
oppure ⟨M, ⟩y ψ[x1=a1,…,xk=ak] 1.
• ⟨M , ⟩ y ((ϕ)↔(ψ))[x1=a1,…,xk=ak] sse ⟨M , ⟩ y ϕ[x1=a1,…,xk=ak]
equivale a ⟨M, ⟩y ψ[x1=a1,…,xk=ak].
• ⟨ M , ⟩ y ( ∀ x ( ϕ ) ) [ x 1 = a 1 , … , x k = a k ] sse per ogni a ∈ M ,
⟨M, ⟩ y ϕ[x=a,x1=a1,…,xk=ak].
• ⟨ M , ⟩ y (∃ x (ϕ ))[ x 1 = a 1 , … , x k = a k ] sse esiste a ∈ M tale che
⟨M, ⟩ y ϕ[x=a,x1=a1,…,xk=ak].
A
J
J
J
J
J
J
J
J
J
J
J
J
J
J
J
J
J
J
La definizione è oltremodo pesante e mal si presta alla prassi didattica. Bisogna dare però atto a Tarski che questa sua proposta è un efficace mezzo per arrivare a definire il concetto di verità che si può usare in Matematica. Non c'è alcuna pretesa di definire una verità
assoluta con connotati teologico-filosofici. C'è un progetto più modesto, ma egualmente
interessante. I pensatori che si sono cimentati sul tema hanno offerto delle soluzioni
parziali al problema, anche riferendosi alla Matematica, non applicabili direttamente, così
come invece è la definizione di Tarski. E' chiaro inoltre che la definizione che qui si
1 Si ribadisce, anche nel caso predicativo, l'interpretazione materiale dell'implicazione.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
presenta si basa su due cardini: la Teoria degli Insiemi e la possibilità di avere un linguaggio di riferimento, diverso da quello formale, in cui dare significato ai connettivi formali.
Per evidenziare ciò si sono scritti in neretto i connettivi (e la sbarra che traduce la negazione) ed i quantificatori di questo linguaggio di riferimento, in termini tecnici il metalinguaggio che viene usato nella definizione. Senza questi strumenti, insiemi e metalinguaggio, la definizione non si regge. Si capisce che dovendo trattare un problema così complesso, non ci si poteva aspettare una soluzione più semplice. Anzi ulteriori approfondimenti in logiche non classiche, hanno mostrato la forza e l'eleganza della definizione detta.
Dal punto di vista didattico sono molto scettico sulla possibilità di dare, o solo far trovare, una simile definizione, perché mi sembra al di là della portata degli studenti. Forse un
approccio può essere quello storico per fare capire come il concetto si sia evoluto, partendo dalla Metafisica di Aristotele; in cui lo stagirita suggerisce una concezione assoluta
della verità, riferita però all'ambito linguistico. I seguaci di Platone identificarono la verità
con un'accezione ontologica, come ciò che è proprio della Realtà "vera". A queste concezioni "assolute" della verità si oppone la Scuola di Megara (V - IV sec. a.C.), in particolare
con l'opera di Eubulide. Col Cristianesimo si ha l'identificazione della verità con Dio stesso. Per la Scolastica la verità (metafisica) è un termine trascendentale mentre comincia ad
apparire la verità logica, a sua volta distinta dalla verità morale. S. Tommaso d'Aquino
(1221 - 1274) ripristinava la verità logica in senso aristotelico, pur con una interessante
nozione dinamica del concetto. Cartesio (1596 - 1650) parla delle idee chiare e distinte
come criterio per la verità. L'accezione ontologica è stata ampiamente combattuta da
Thomas Hobbes (1588 - 1679), Baruch Spinoza (1632 - 1677) e John Locke (1632 1704), per trovare poi un sostenitore acceso in Friederik Hegel (1770 - 1831) che identifica la verità con l'Idea. Precorritrice degli sviluppi moderni è poi l'idea di Gottfired Willelm Leibniz (1646 - 1716) che la verità sia ottenibile mediante calcoli. Questo percorso
che dai filosofi greci al lavoro di Tarski: Concetto di verità nei linguaggi formalizzati, del
1935, ha richiesto diversi secoli. Il contributo tarskiano è così importante che potrebbe
giustificare un'azione concertata del docente di matematica con i colleghi di lingua straniera e filosofia sul tema.
Finora si è parlato solo di soddisfacibilità, ma da questa alla verità, anzi al concetto più
forte, quello di validità resta poca strada.
DEFINIZIONE. Sia ϕ formula tale che Lib(ϕ) ⊆ {x1,…,xk}.
a) Si dice che ϕ è vera in ⟨M, ⟩, in simboli ⟨M, ⟩ y ϕ, se per ogni scelta
di a 1 ,…, a k ∈ M si ha ⟨M , ⟩ y ϕ[x 1 = a 1 ,…, x k= a k]. Si dice anche che
⟨M, ⟩ è modello di ϕ.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
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Si dice che ϕ è falsa in ⟨M , ⟩, se per ogni scelta di a1,…,ak∈ M si ha
/ ϕ[x1=a1,…,xk=ak]. Si dice anche che ⟨M, ⟩ è contromodello di
⟨M, ⟩ y
ϕ.
b) Si dice che ϕ è valida, in simboli y ϕ, se per ogni interpretazione
⟨M, ⟩, ⟨M, ⟩ y ϕ.
Si dice che ϕ è una contraddizione se per ogni interpretazione ⟨M, ⟩, ϕ è
falsa in ⟨M, ⟩.
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La verità è allora relativa ad un'interpretazione. Per essere vera la formula ϕ deve essere
soddisfatta comunque si interpretino le variabili, nella fissata interpretazione. La validità è
ben di più. Una formula può essere vera in un'interpretazione e non esserlo in un'altra; la
validità richiede la verità in tutte le interpretazioni. Come si vede è molto forte. Anzi, a
prima vista, proprio perché le richieste sono tante, ci si aspetta che ci siano ben poche
formule valide. Così non è: si possono trovare intere classi di formule valide, ad esempio
tutte le formule che sono tautologie, ma altre ancora.
Una precisazione abbastanza importante. Vista l'articolazione del concetto di verità, nel
caso del calcolo dei predicati non accade lo stesso che nelle proposizioni. Se una formula
non è vera (in un'interpretazione) non è detto che sia falsa, cioè non soddisfatta da alcuna
assegnazione di valore alle variabili. Se non è vera, significa che c'è qualche assegnazione
alle variabili che non soddisfa. Analogamente non valida non vuol dire contraddizione, ma
solo che c'è qualche interpretazione in cui non è vera. Così la negazione di falso è soddisfacibile e la negazione di contraddizione è verificabile.
Riassumendo questa situazione, utilizzando anche le formule negate, la formula ϕ è:
• soddisfacibile in ⟨M, ⟩ se esiste una assegnazione di valore alle variabili che soddisfa
la formula, quindi ¬(ϕ) non è vera in ⟨M, ⟩;
• vera in ⟨M, ⟩ se ogni assegnazione di valore alle variabili soddisfa la formula, quindi
¬(ϕ) è falsa in ⟨M, ⟩;
• non vera in ⟨M, ⟩ se c'è una assegnazione di valore alle variabili che non soddisfa la
formula, quindi ¬(ϕ) è soddisfacibile in ⟨M, ⟩;
• falsa in ⟨M, ⟩ se ogni assegnazione di valore alle variabili non soddisfa la formula,
quindi ϕ è non soddisfacibile in ⟨M, ⟩ e ¬(ϕ) è vera in ⟨M, ⟩;
• non falsa in ⟨M , ⟩ se c'è una assegnazione di valore alle variabili che soddisfa la
formula, quindi ϕ è soddisfacibile in ⟨M, ⟩ e ¬(ϕ) non è vera in ⟨M, ⟩;
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valida se è vera in ogni interpretazione e quindi ¬(ϕ) è una contraddizione;
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non valida se esiste un'interpretazione in cui non è vera, quindi esiste un'interpretazione ⟨M, ⟩ tale che ¬(ϕ) è soddisfacibile in ⟨M, ⟩;
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
•
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contraddizione se è falsa in ogni interpretazione, quindi per ogni interpretazione
⟨M, ⟩, ϕ non è soddisfacibile in ⟨M, ⟩ e ¬(ϕ) è valida;
non è una contraddizione se esiste un'interpretazione ⟨M, ⟩ tale che ϕ non è falsa in
⟨M, ⟩, perciò ϕ è soddisfacibile in ⟨M, ⟩, quindi ¬(ϕ) non è valida. In questo caso si
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dice anche che ϕ è verificabile.
Questa complessa situazione si semplifica con l'uso degli enunciati cioè quelle formule
il cui Lib è vuoto. Infatti un enunciato non ha indeterminate libere, quindi qualunque valore si assegni alle variabili, l'enunciato è soddisfatto oppure no, vale a dire è vero o falso
nell'interpretazione. Per enunciati il concetto di soddisfacibile e vero coincidono.
Ad ogni formula si possono associare enunciati in vario modo, ad esempio sostituendo
tutte le indeterminate con costanti. Il modo più semplice è però quello di considerare le
chiusure universali 1. Si osservi inoltre che la chiusura universale di ¬(ϕ), ∀(¬(ϕ)) non è
¬(∀(ϕ)). I rapporti tra formula e chiusura universale, per ogni interpretazione ⟨M, ⟩, sono
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dati da
• ⟨M, ⟩ y ϕ sse ⟨M, ⟩ y ∀(ϕ);
• ⟨M, ⟩ y
/ ϕ sse ∀(ϕ) è falsa ⟨M, ⟩.
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Se ϕ è un enunciato si ha
ϕ è vero in ⟨M, ⟩ sse ϕ non è falso in ⟨M, ⟩, perciò ¬(ϕ) è falso in ⟨M, ⟩;
ϕ è falso in ⟨M, ⟩ sse ϕ non è vero in ⟨M, ⟩, perciò ¬(ϕ) è vero in ⟨M, ⟩.
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Anche per gli enunciati però non si può affermare che se ϕ non è valido, allora è una
contraddizione.
Anche se la considerazione degli enunciati semplifica la ricerca, in generale, il problema
della verità e della validità, non ha quei connotati di effettività o decidibilità che invece ha il
problema analogo nel calcolo delle proposizioni. Ciò è una conferma delle difficoltà del
calcolo dei predicati.
Altri concetti, esportati dal calcolo delle proposizioni a quello dei predicati, risentono
della complicazione inevitabile di quest'ultimo. Ad esempio,
LA
DEFINIZIONE Siano ϕ, ψ∈
(X), si dice che ϕ implica logicamente ψ, o
che ψ è conseguenza logica di ϕ, in simboli ϕ ⇒ ψ o ϕ y ψ se la chiusura universale di ψ è vera in ogni interpretazione in cui è vera la chiusura
universale di ϕ.
1 Di chiusure universali di una formula ce ne sono diverse, ma si prova che se una di esse è vera in un'interpretazione, allora tutte le altre sono vere e se una è falsa, tutte le altre sono false. Per questo, barando un poco, si
parla de la chiusura universale, anche se essa non è unica.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Si dice che ϕ equivale logicamente ψ, in simboli ϕ ⇔ ψ o ϕ y| ψ se la
chiusura universale di ψ è vera in ogni interpretazione in cui è vera la
chiusura universale di ϕ e viceversa.
Le nozioni di modello e conseguenza si generalizza ad insiemi di formule:
T LA
DEFINIZIONE. Dato un insieme di enunciati,
⊆
(X), si dice che una
interpretazione ⟨M , ⟩ è modello di , in simboli ⟨M, ⟩ y , se ogni
formula di è vera in ⟨M, ⟩.
(X), si dice che ϕ è conseguenza logica di , in simboli y
Data ϕ∈
ϕ, se ogni modello di è modello della chiusura universale ∀(ϕ).
T
LA
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T
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T
T
T
T
Sui testi universitari si può trovare la nozione di soddisfacibilità data in modo differente.
Ad esempio invece di indicare le variabili si preferisce parlare di successioni come interpretazione contemporanea di tutte le indeterminate. Altre soluzioni prevedono un passaggio preliminare mediante il quale si aggiungono al linguaggio gli elementi del dominio
come nuove costanti, per poi considerare solo la verità di enunciati ottenuti sostituendo alle
indeterminate queste nuove costanti. Si tratta di variazioni che poco mutano la sostanza.
Ogni approccio ha pregi e difetti, tutti sono abbastanza complessi, complessità che non è
eliminabile.
Per mostrare esempi di applicazione dei concetti illustrati si prova l'implicazione e l'equivalenza logica di certe formule in cui giocano quantificatori e connettivi binari. Si ha
LA
TEOREMA. Siano ϕ(x),ψ(x)∈
(X) si ha
a) (∀x(ϕ(x)) ∧ ∀x(ψ(x)) ⇔ ∀x(ϕ(x)∧ψ(x));
b) (∀x(ϕ(x)) ∨ ∀x(ψ(x)) y ∀x(ϕ(x) ∨ ψ(x));
c) ∃x(ϕ(x) ∨ ψ(x)) ⇔ (∃x(ϕ(x) ∨ ∃x(ϕ(x));
d) ∃x(ϕ(x) ∧ ψ(x)) y (∃x(ϕ(x) ∧ ∃x(ϕ(x));
e) ∀x(ϕ(x) → ψ) ⇔ (∃x(ϕ(x)) → ψ) purché x∉Lib(ψ);
f) ∀x(ψ → ϕ(x)) ⇔ (ψ → ∀x(ϕ(x))) purché x∉Lib(ψ);
g) ∃x(ϕ(x) → ψ) ⇔ (∀x(ϕ(x)) → ψ) purché x∉Lib(ψ);
h) ∃x(ψ → ϕ(x)) ⇔ (ψ → ∃x(ϕ(x))) purché x∉Lib(ψ).
i) ∃x∀y(ϑ(x,y)) y ∀y∃x(ϑ(x,y)).
Dimostrazione. Per semplicità si suppone che Lib(ϕ(x))∪Lib(ψ(x)) ⊆ {x}, evitando così
la considerazione della chiusura universale delle formule coinvolte. Se non è soddisfatta
tale condizione, egualmente valgono le relazioni indicate, ma la dimostrazione è più complessa. Le varie dimostrazioni procedono per assurdo:
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
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a) Se (∀x(ϕ(x)) ∧ ∀x(ψ(x)) y
/ ∀x(ϕ(x)∧ψ(x)), allora esiste una struttura ⟨M, ⟩ tale
che ⟨M, ⟩ y (∀x(ϕ(x)) ∧ ∀x(ψ(x)) e ⟨M, ⟩ y
/ ∀x(ϕ(x)∧ψ(x)). Quest'ultima affermazione equivale all'esistenza di a∈M tale che ⟨M, ⟩ y
/ ϕ(x)∧ψ(x)[x = a ]. Si hanno due
casi: nel primo ⟨M, ⟩ y
/ ϕ(x)[x=a], nel secondo ⟨M, ⟩ y
/ ψ(x)[x=a]. Ma entrambi conducono ad assurdo, in quanto se ⟨M, ⟩ y
/ ϕ(x)[x=a], allora ⟨M, ⟩ y
/ ∀x(ϕ(x)) e pertanto ⟨M, ⟩ y
/ (∀x(ϕ(x)) ∧ ∀x(ψ(x)).
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Viceversa si suppone ∀x(ϕ(x)∧ψ(x)) y
/ (∀x(ϕ(x)) ∧ ∀x(ψ(x)), quindi esiste una in/ (∀ x(ϕ (x)) ∧
terpretazione ⟨ M , ⟩ tale che ⟨ M , ⟩ y ∀x(ϕ(x)∧ψ(x)) e ⟨ M , ⟩ y
∀x(ψ(x)), pertanto ⟨M , ⟩ y
/ ∀x(ϕ(x)) oppure ⟨ M , ⟩ y/ ∀x(ψ(x)). Nel primo caso
esiste a ∈ M tale che ⟨ M , ⟩ y/ ϕ (x)[ x = a ], ma da ciò si conclude che ⟨ M , ⟩ y/
(ϕ(x)∧ψ(x))[x=a], pertanto ⟨M , ⟩ y
/ ∀x(ϕ(x)∧ψ(x)), il che è assurdo. Alla stessa
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conclusione si giunge nel secondo caso.
b) Se esistesse ⟨M, ⟩ tale che ⟨M, ⟩ y (∀x(ϕ(x)) ∨ ∀x(ψ(x)) e ⟨M, ⟩ y
/ ∀x(ϕ(x) ∨
ψ(x)), allora esiste a ∈ M tale che ⟨ M , ⟩ y
/ (ϕ(x) ∨ ψ(x))[ x = a ], quindi ⟨ M , ⟩ y/
ϕ(x)[x=a] e ⟨M, ⟩ y
/ ψ(x)[x=a], pertanto ⟨M , ⟩ y
/ ∀x(ϕ(x)) e ⟨M , ⟩ y/ ∀x(ψ(x)), da
cui ⟨M, ⟩ y
/ (∀x(ϕ(x)) ∨ ∀x(ψ(x)). Si noti che in questo caso le formule indicate non
sono logicamente equivalenti infatti può esistere una struttura ⟨M, ⟩ tale che M = {a,b} e
le formule coinvolte siano tali che ⟨M , ⟩ y
/ ϕ(x)[x = a ] e ⟨M , ⟩ y ϕ(x)[x = b ] mentre
⟨M , ⟩ y ψ(x)[x=a] e ⟨M , ⟩ y
/ ψ(x)[x=b]. Si ha, con tale scelta, ⟨M , ⟩ y ∀x(ϕ(x) ∨
ψ(x)), in quanto per ogni assegnazione ad x, si ha ⟨M, ⟩ y (ϕ(x) ∨ ψ(x))[x=a], dato che
⟨ M , ⟩ y ψ(x)[ x = a ], ma è pure ⟨ M , ⟩ y (ϕ(x) ∨ ψ(x))[ x = b ], in quanto ⟨ M , ⟩ y
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ϕ(x)[x=b].
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c) La dimostrazione è simile a quella di a). Se (∃ x(ϕ (x)) ∨ ∃ x(ψ (x)) y/
∃x(ϕ(x)∨ψ(x)), allora esiste una struttura ⟨M, ⟩ tale che ⟨M, ⟩ y (∃x(ϕ(x)) ∨ ∃x(ψ(x))
e ⟨M , ⟩ y
/ ∃x(ϕ(x)∨ψ(x)). Quest'ultima affermazione equivale al fatto che per ogni
a ∈ M si ha ⟨M , ⟩ y/ ϕ(x)∨ψ(x)[x = a ]. Perciò per ogni a ∈ M , ⟨M , ⟩ y/ ϕ(x)[ x = a ] e
⟨M , ⟩ y
/ ψ(x)[x=a]. Da ciò ⟨M, ⟩ y
/ ∃x(ϕ(x)) e ⟨M , ⟩ y
/ ∃x(ϕ(x)) e pertanto ⟨M, ⟩ y
/
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(∃x(ϕ(x)) ∨ ∃x(ψ(x)).
Viceversa si suppone ∃x(ϕ(x)∨ψ(x)) y
/ (∃x(ϕ(x)) ∨ ∃x(ψ(x)), quindi esiste una inter/ (∃x(ϕ(x)) ∨ ∃x(ψ(x)),
pretazione ⟨M, ⟩ tale che ⟨M, ⟩ y ∃x(ϕ(x)∨ψ(x)) e ⟨M, ⟩ y
pertanto ⟨M, ⟩ y
/ ∃x(ϕ(x)) e ⟨M , ⟩ y
/ ∃x(ψ(x)). Quindi per ogni a∈ M si ha ⟨M , ⟩ y/
ϕ(x)[x=a], e ⟨M, ⟩ y
/ ψ(x)[x=a], quindi ⟨M, ⟩ y
/ (ϕ(x)∨ψ(x))[x=a], pertanto ⟨M , ⟩ y
/
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∃x(ϕ(x)∨ψ(x)), il che è assurdo.
d) E' analoga alla dimostrazione di b). Se esistesse ⟨M, ⟩ tale che ⟨M, ⟩ y ∃x(ϕ(x) ∧
ψ(x)) e ⟨M, ⟩ y
/ (∃x(ϕ(x)) ∧ ∃x(ψ(x)), allora si presentano due casi: ⟨M, ⟩ y/ ∃x(ϕ(x))
oppure ⟨M, ⟩ y
/ ∃x(ψ(x)). Nel primo caso per ogni a ∈ M si ha ⟨M , ⟩ y/ ϕ(x)[ x = a ],
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quindi ⟨M, ⟩ y
/ (ϕ(x) ∧ ψ(x))[x = a ], pertanto ⟨M , ⟩ y/ ∃x(ϕ(x) ∧ ψ(x)) e ⟨ M , ⟩ y/
∃x(ψ(x)), da cui ⟨M, ⟩ y
/ (∃x(ϕ(x)) ∧ ∃x(ψ(x)), assurdo. In modo analogo si procede
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nel secondo caso. Si noti che in questo caso le formule indicate non sono logicamente
equivalenti infatti può esistere una struttura ⟨M, ⟩ tale che M = {a,b} e le formule coinvolte siano tali che ⟨ M , ⟩ y
/ ϕ(x)[ x = a ] e ⟨ M , ⟩ y ϕ(x)[ x = b ] mentre ⟨ M , ⟩ y
ψ(x)[x=a] e ⟨M, ⟩ y
/ ψ(x)[x=b]. Si ha, con tale scelta, ⟨M , ⟩ y ∃x(ϕ(x)) ∧ ∃x(ψ(x)),
in quanto per ogni assegnazione ad x, si ha ⟨M, ⟩ y ∃x(ϕ(x)) e ⟨M, ⟩ y ∃x(ψ(x)), dato
che ⟨M , ⟩ y ψ(x)[x = a] e M , ⟩ y ϕ(x)[x = b ]. Ma è ⟨M , ⟩ y
/ (ϕ(x) ∧ ψ(x))[ x = a ], e
⟨M , ⟩ y
/ (ϕ(x) ∧ ψ(x))[x=b], quindi ⟨M, ⟩ y
/ ∃x(ϕ(x) ∧ ψ(x)).
e) Si procede ancora per assurdo: sia ⟨M , ⟩ una interpretazione tale che ⟨M , ⟩ y
∀x(ϕ(x) → ψ) e ⟨M, ⟩ y
/ (∃x(ϕ(x)) → ψ). La seconda condizione comporta che ⟨M, ⟩
y ∃x(ϕ(x)) e ⟨M, ⟩ y
/ ψ. Esiste allora a∈M tale che ⟨M, ⟩ y ϕ(x)[x=a] ed essendo ψ
un enunciato, si ha che ⟨M, ⟩ y
/ (ϕ(x) → ψ)[x=a], da cui ⟨M, ⟩ y
/ ∀x(ϕ(x)→ψ).
Viceversa se ⟨M , ⟩ è una struttura tale che ⟨M , ⟩ y (∃x(ϕ(x)) → ψ) e ⟨M , ⟩ y
/
∀x(ϕ(x)→ψ), allora esiste a ∈ M tale che ⟨M , ⟩ y
/ (ϕ(x)→ψ)[x = a ], cioè ⟨M , ⟩ y
ϕ(x)[x=a] e ⟨M, ⟩ y
/ ψ[x=a], ma ψ è un enunciato, quindi ⟨M, ⟩ y
/ ψ. Da qui ⟨M , ⟩ y
∃x(ϕ(x)) e ⟨M, ⟩ y
/ (∃x(ϕ(x)) → ψ), contro l'ipotesi.
f) Si suppone che esista una struttura ⟨M, ⟩ tale che ⟨M, ⟩ y ∀x(ψ → ϕ(x)) e ⟨M, ⟩
y
/ (ψ → ∀x(ϕ(x))). Di qui si ottiene che ⟨M , ⟩ y ψ e ⟨M , ⟩ y/ ∀x(ϕ(x)), pertanto
esiste a∈ M tale che ⟨M , ⟩ y
/ ϕ(x)[x = a ]. Dunque ⟨M , ⟩ y/ (ψ→ϕ(x))[x = a ], per cui
⟨M , ⟩ y
/ ∀x(ψ→ϕ(x)), il che è assurdo.
Viceversa sia ⟨M, ⟩ tale che ⟨M, ⟩ y (ψ → ∀x(ϕ(x))) e ⟨M, ⟩ y
/ ∀x(ψ → ϕ(x)).
Esiste pertanto a∈M tale che ⟨M, ⟩ y
/ (ψ → ϕ(x))[ x = a ]. Di qui ⟨ M , ⟩ y ψ[x = a ] e
⟨M , ⟩ y
/ ϕ(x)[x=a], pertanto ⟨M, ⟩ y
/ ∀x(ϕ(x)) ed essendo ψ un enunciato, si ha ⟨M, ⟩
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y
/ (ψ→∀x(ϕ(x))), contro l'ipotesi.
g) Ha una dimostrazione simile a quella di e). Si procede ancora assurdo: sia ⟨M,J⟩
una interpretazione tale che ⟨M,J⟩ y ∃x(ϕ(x) → ψ) e ⟨M,J⟩ y
/ (∀x(ϕ(x)) → ψ). La seconda condizione comporta che ⟨M,J⟩ y ∀x(ϕ(x)) e ⟨M,J⟩ y
/ ψ. Per ogni a ∈ M si ha
⟨M,J⟩ y ϕ(x)[x=a] ed essendo ψ un enunciato, si ha che ⟨M,J⟩ y
/ (ϕ(x) → ψ)[x = a], da
cui ⟨M,J⟩ y
/ ∃x(ϕ(x)→ψ).
Viceversa se ⟨M ,J ⟩ è una struttura tale che ⟨M ,J ⟩ y (∀x(ϕ(x)) → ψ) e ⟨M ,J ⟩ y
/
∃x(ϕ(x)→ψ), allora per ogni a ∈ M si ha ⟨ M ,J ⟩ y
/ (ϕ(x)→ψ)[x = a ], cioè ⟨M ,J ⟩ y
ϕ(x)[x=a] e ⟨M,J⟩ y
/ ψ[x=a], ma ψ è un enunciato, quindi ⟨M,J⟩ y
/ ψ. Da qui ⟨M ,J ⟩ y
∃x(ϕ(x)) e ⟨M,J⟩ y
/ (∃x(ϕ(x)) → ψ), contro l'ipotesi.
h) Ha dimostrazione simile a f). Si suppone che esista una struttura ⟨M ,J⟩ tale che
⟨M,J⟩ y ∃x(ψ → ϕ(x)) e ⟨M,J⟩ y
/ (ψ → ∃x(ϕ(x))). Di qui si ottiene che ⟨M,J⟩ y ψ e
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⟨M , ⟩ y
/ ∃x(ϕ(x)), pertanto per ogni a∈M si ha ⟨M, ⟩ y
/ ϕ(x)[x= a]. Dunque per ogni
a ∈ M , ⟨M , ⟩ y
/ (ψ→ϕ(x))[x=a], per cui ⟨M, ⟩ y
/ ∃x(ψ→ϕ(x)), il che è assurdo.
Viceversa sia ⟨M, ⟩ tale che ⟨M, ⟩ y (ψ → ∃x(ϕ(x))) e ⟨M, ⟩ y
/ ∃x(ψ → ϕ(x)). Per
ogni a ∈ M si ha ⟨ M , ⟩ y
/ (ψ → ϕ(x))[ x = a ]. Di qui ⟨ M , ⟩ y ψ[ x = a ] e ⟨ M , ⟩ y/
ϕ(x)[x=a], pertanto ⟨M , ⟩ y
/ ∃x(ϕ(x)) ed essendo ψ un enunciato, si ha ⟨ M , ⟩ y/
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(ψ→∃x(ϕ(x))), contro l'ipotesi.
i) Si suppone che Lib(ϑ(x,y)) = {x,y} per semplicità. Si noti che un'affermazione ana-
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loga si ha quando si prova che ogni funzione uniformemente continua è continua. Per assurdo si suppone che esista una struttura ⟨M , ⟩ tale che ⟨M , ⟩ y ∃x∀y(ϑ(x,y)) e
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⟨M , ⟩ y
/ ∀y∃x(ϑ(x,y)). La prima affermazione comporta che esiste c ∈ M tale che
⟨ M , ⟩ y ∀y(ϑ(x,y))[ x = c ], quindi esiste c ∈ M tale che per ogni d ∈ M , ⟨ M , ⟩ y
ϑ(x,y)[x=c,y=d]. La seconda affermazione significa che esiste a∈M tale che ⟨M, ⟩ y
/
∃ x(ϑ (x,y))[ y = a ], cioè esiste a ∈ M tale che per ogni b ∈ M , si ha ⟨ M , ⟩ y/
ϑ(x,y)[x=b,y=a]. In particolare per b = c si ha ⟨M , ⟩ y
/ ϑ(x,y)[x = c,y = a]. Ma d'altra
parte essendo per ogni d∈M, ⟨M, ⟩ y ϑ(x,y)[x=c,y=d], si ha in particolare per d = a,
⟨M, ⟩ y ϑ(x,y)[x=c,y=a], in contrasto con quanto prima stabilito.
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Non è possibile stabilire l'equivalenza logica di ∃x∀y(ϑ(x,y)) e ∀y∃x(ϑ(x,y)) come
mostrano gli esempi di funzioni continue e non uniformemente continue.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Capitolo 8: Alcuni problemi didattici della Logica applicata all'Algebra
elementare.
In capitoli precedenti si sono incontrati esempi e richiami alla Algebra elementare, quella
che solitamente viene insegnata nella scuola media e superiore. E' qui l'occasione per
raccogliere queste considerazioni in modo organico, per mostrare come l'approccio
consueto nasconda diverse occasioni di applicazione dei procedimenti logici e come alcune difficoltà di apprendimento / insegnamento possano trovare una loro spiegazione organica.
Un primo problema è il concetto di variabile e/o di indeterminata. Nella prassi didattica
si fa uso di tali concetti, ma non sempre si pone adeguata attenzione didattica ad essi.
Dal punto di vista logico indeterminata ha un connotato più morfologico, variabile ha
un sapore più semantico. Indeterminata è cioè un simbolo che non sta al posto di nessun
altro, variabile abbisogna di un ambito di variazione, dunque della possibilità di assumere
valori in un qualche dominio, ma non una funzione.
E' possibile mostrare la presenza di utilizzazione precoce di tali concetti in vari campi
anche assai diversi dalla Matematica. In Strumenti per individuare le variabili nella
scuola elementare, pubblicato su L'educazione Matematica, n. 2 - Giugno 2002 - 65 - 82,
ho cercato di mettere in luce queste applicazioni ed offrire strumenti per individuare precocemente le capacità / abilità / competenze di allievi dalla prima elementare. Lo strumento, di
cui si fa cenno nel titolo, sono dati dall'operazione morfologica di sostituzione.
Un esempio di applicazione della sostituzione, anche se non esclusivamente in campo
morfologico, almeno per le motivazioni, si ha col Teorema o Regola di Ruffini, dal nome
del medico e matematico P. Ruffini (1765 - 1822). E' dato un polinomio p(x) e si vuole
sapere se è divisibile per x - a. Si può procedere in due modi, uno più lungo ed uno più
veloce: eseguire la divisione, con uno dei procedimenti noti, oppure calcolare p(a), la
scrittura che si ottiene sostituendo a al posto di x o, più correttamente, calcolando il valore
della funzione polinomiale associata a p su a. Si può indicare p(a) con la scrittura più
complessa, ma più esplicita, p(x/a) oppure con (x/a)(p(x)). In essa si specifica che bisogna porre a in luogo di x e non viceversa, anche se a fosse già presente tra i coefficienti
del polinomio. Bisogna conferire all'operazione di sostituzione la natura di un omomorfismo, visto che il risultato della sostituzione (x/a)(x2 - 3x + 1) è a2 - 3a + 1. Un altro
esempio semplice è dato dai sistemi di equazioni. Per risolvere
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
x + 3y - z = 2
 2
2
x - 3y + xz = 5
x - yz = 0
si applica il metodo o procedimento per sostituzione: dalla prima si ricava
x = 2 - 3y + z
che va sostituito nella rimanenti, con una sostituzione che per analogia a quanto scritto
prima può essere indicata con (x/(2 - 3y)). Il risultato è
(2

(2
- 3y + z)2 - 3y2 + (2 - 3y + z)z = 5 .
- 3y + z) - yz = 0
Questo esempio però è interessante perché a differenza del precedente, non si opera solo
su un polinomio (termine), bensì sulla congiunzione di due eguaglianze (formula), dato
che nei sistemi la parentesi graffa aperta che "raduna" le varie equazioni ha la stessa funzione del connettivo di congiunzione ∧, seppure lasciando inalterati i simboli in cui non
interviene x. Quindi ancora una volta alla sostituzione è conferita la natura di omomorfismo, non solo riguardo alle operazioni costitutive dei termini, bensì anche connettivi (e
pure dei quantificatori, con qualche cautela). Un altro esempio più complicato è quello
delle formule risolutive. Data la generica equazione di secondo grado
ax2 + bx + c = 0,
si determinano le soluzioni con la formula ben nota,
x1 =
b2 - 4ac
–b-√

2a
x2 =
–b+
b2 - 4ac
√

.
2a
Spesso poi si considerano esempi di equazioni di secondo grado in cui i coefficienti a,
b e c assumono i valori più svariati. Ad esempio per risolvere l'equazione
(a - b)x2 - (a + b)x + a = 0
basta applicare la formula risolutiva ed ottenere
x1 =
(a + b)2 - 4a(a - b)
(a + b) - √

2(a - b)
x2 =
(a + b)2 - 4a(a - b)
(a + b) + √

2(a - b)
Qui non interessa procedere con i calcoli e con eventuali problemi sulla realtà delle soluzioni, ma mettere in luce aspetti logici importanti. Molte volte lo scopo di ripetuti esercizi
sull'argomento è quello di far acquisire le formule risolutive e di far apprendere come eseguire le trasformazioni. Bisogna però prestare attenzione: la sostituzione usata è rap-
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
presentabile come (a/(a+b), b/(a-b),c/a), ed è una sostituzione simultanea che non può
esser effettuata facendo prima la sostituzione di a e poi quella di b e poi quella di c o in
qualunque altro ordine si voglia, perché darebbe luogo a risultati ben diversi. Un tale tipo
di sostituzione attiva un procedimento algoritmico parallelo.
Come detto più volte, dato il carattere rigoroso della Logica, anche queste operazioni
morfologiche vanno adeguatamente definite, seppure a scapito della semplicità didattica.
Esperienze con studenti e docenti, mettono in luce che molto spesso la comprensione
viene ostacolata dall'incapacità seguire i passaggi se questi richiedono la modifica delle
scritture con vari tipi di sostituzioni contemporaneamente e / o in successione. E d'altra
parte le sostituzioni sono presenti ed utilizzate come strumento conoscitivo, sia in Matematica, sia nelle altre Scienze e pure nella educazione linguistica. Per questi ed altri aspetti
si rimanda ai lavori indicati in nota 1.
Dell'esempio del sistema risolto per sostituzione, si trae poi un'altra applicazione degli
aspetti morfologici: ogni volta che si introduce una notazione nella forma
……… sta per ………
si sta usando la morfologia del linguaggio prescelto. Questa osservazione avrà maggiore
risalto in rapporto alle definizioni.
Tornando alla differenza tra variabile ed indeterminata, essa si può cogliere meglio
quando si considerano i polinomi, ad esempio a coefficienti reali. La presentazione che si
trova sui testi universitari generalmente definisce i polinomi come successioni di reali definitivamente nulle, non come viene detto sui testi di scuola media: la somma di monomi!
In questo modo l'indeterminata x con le sue potenze è semplicemente un indicatore di
posto, messo in luogo delle virgole con cui solitamente si rappresentano le successioni.
Non ha perciò alcun valore numerico. I polinomi in questa accezione sono oggetti matematici, la cui natura è strettamente morfologica. Sono ancora aspetti morfologici i gradi, i
coefficienti, i "termini noti". Si noti che, a parte le difficoltà di definizione della stessa
4x3
nozione di monomio (in alcuni libri di testo una scrittura del tipo 4 è catalogata tra i
y
monomi), l'idea del polinomio come somma di monomi è puramente morfologica, dato che
1 Marchini C.: 1990a, 'L e s o s t i t uz i o n i e l a di da t t i c a de l l a M a t e m a t i c a ' , Bollettino U.M.I. (7) 4 A , 145 - 153 e Marchini C.: 1990b, 'L e s o s t i t uz i o n i e l e r e l a z i o n i ' , IMSI, 13 - n. 7 , 732 - 744.
Margiotta P.: 1990, 'Sostituzioni e cubiche in una prima media: una proposta didattica', IMSI. 13 - n. 4, 427 438; Margiotta P.: 1991a, 'Un'esperienza con le sostituzioni nella Scuola Media', MD, anno 5, n. 2, 32 - 36;
Margiotta P.: 1991b, 'Le sostituzioni in un'ottica interdisciplinare', EM 12 (3) Vol. 2 , 23 - 44.
Margiotta P.: 1992, 'Il ruolo delle sostituzioni nell'insegnamento/apprendimento', su Marchini C. ed. Q.1
(1992): Seminari di Didattica A.A. 1990/91 e 1991/92, Dipartimento di Matematica dell'Università di Lecce,
111 - 124.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
la "somma" di fatto non si esegue e resta indicata. Quindi a parte questo scivolamento tra
addizione e somma, la somma è un "risultato", si può considerare il simbolo + usato tra
monomi come una giustapposizione, un indicatore di posto. Il "brutto" è che si richiede
che tale operazione abbia proprietà commutative ed associative, dato che solitamente non ci
si limita alla considerazione dei binomi. In questo caso si entra nel campo della sintassi e
questa carenza di chiarezza ne rende difficile l'apprendimento.
Quando invece si parla della variabile x si considera non più il polinomio, elemento di
[x], ma una funzione (polinomiale) da a che una volta fissato il valore di x, ad esso
fa corrispondere un numero reale, quindi lo si interpreta come un processo.
Se si vuole privilegiare l'aspetto morfologico, è preferibile la dicitura indeterminata, tenendo presente che l'esempio dei polinomi è l'esempio principale del concetto di termine.
Intanto si "restringe" l'insieme X ponendo X = {x}. Un polinomio (in x) si presenta come
la scrittura in cui compaiono addizioni e moltiplicazioni tra numeri ed indeterminata. I
numeri vengono assunti come costanti del linguaggio, in cui si hanno simboli per le operazioni di addizione, moltiplicazione, sottrazione. Dal punto di vista della struttura si ha
quindi che ogni costante è un polinomio (di grado 0) x è un polinomio (di grado 1) e se
p(x) e q(x) sono polinomi, anche –(p(x)) è un polinomio (con lo stesso grado di p(x));
(p(x)) + (q(x)) è un polinomio (il cui grado è minore o eguale al massimo dei gradi di
p(x) e q(x)) e (p(x))⋅(q(x)) è polinomio (di grado pari alla somma dei gradi di p(x) e
R
R R
q(x)) 1.In queste scritture si è sovrabbondato di parentesi, che poi vengono omesse,
p(x)
quando non c'è pericolo di ambiguità. Invece q(x) non è un polinomio, è un "animale"
diverso: chiamato, con dicitura discutibile come frazione algebrica, o anche peggio, con
una forte valenza semantica, funzione razionale fratta. Quello che importa è che avendo a
disposizione certe enti, per il momento non meglio precisati, detti polinomi, eseguendo su
essi alcune operazioni consentite, si ottengono ancora polinomi. Il tipo di definizione è
analogo a quello di proposizione dato in precedenza, è una definizione per ricursione. Di
definizioni analoghe si fa grande uso in Logica.
Si richiede poi che i simboli utilizzati per costruire i termini (i polinomi) siano operazioni sottoposte alle "consuete" proprietà delle (commutative ed associative di addizione e
moltiplicazione, distributiva della moltiplicazione, proprietà dell'opposto, degli elementi
neutri). Si impone così che partendo dal campo , l'insieme [x] dei polinomi a coefficienti reali si possa dotare di operazioni che estendono quelle di , in modo che [x] divenga un l'anello commutativo con unità. Di fatto anche in questo caso c'è un problema di
costruzione di una "algebra" libera (non assolutamente libera): esiste un omomorfismo di
R
R
R
R
1 Questa potrebbe utilmente essere presa come definizione di polinomio a coefficienti in un campo anche nella
scuola secondaria.
- 117 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
R
R
anelli unitari ϕ: → [x] tale che per ogni anello commutativo unitario A e per ogni
omomorfismo di anelli unitari ψ: → A e per ogni elemento a∈A esiste un unico
omomorfismo di anelli unitari ϑ: [x] → A tale che ϑ(x) = a. A tale proprietà è legato
R
R
il concetto di funzione polinomiale e quindi anche la cosiddetta regola di Ruffini. L'anello
[x] ha numerose altre proprietà, ad esempio la possibilità di definire in esso una divisione "euclidea" con resto, basandosi sul grado e quindi, grazie all'algoritmo (attorno al 300
a.C.) di Euclide, di parlare di M.C.D e m.c.m. di polinomi.
Il passaggio da polinomi in una sola indeterminata a polinomi a più indeterminate non è
"indolore". Alcune proprietà che si mantengono nel passaggio da a [x] si perdono nel
passaggio da [x] a [x,y], in quanto pur essendo ripetibile l'operazione morfologica
delineata sopra (stavolta i "coefficienti" e quindi le costanti sono gli elementi di [x]) non
si parte più da un campo ma da un anello. La costruzione è comunque quella di una diversa algebra libera, dato che il fatto che la "partenza" fosse un campo non è utilizzato, serve
solo che sia un anello commutativo unitario. Un teorema di Algebra garantisce che [x,y]
= ( [x])[y] = ( [y])[x]. Anzi questa è la strada per definire [X], ove X è un arbitrario
insieme di indeterminate, senza però richiedere che si possa determinare poi la divisione
con resto di stile euclideo. Di fatto gli elementi di [X] sono i termini che si possono
scrivere considerando l'insieme X come quello delle indeterminate, con i simboli consueti
per le operazioni di anello unitario e con gli elementi di come costanti.
Gli aspetti sintattici sono massicciamente presenti in tutta la trattazione del cosiddetto
calcolo letterale. Il problema del calcolo letterale e del suo insegnamento è ben noto e importante. Tra le varie proposte presenti nella letteratura didattica c'è quella di considerare
contemporaneamente aspetti sintattici e semantici per evitare una perdita di significato che
porta ad una perdita di controllo. Così un errore di segno, tipico errore sintattico (errore di
calcolo) o morfologico (errore di ricopiatura) potrebbe essere controllato "localmente"
dall'interpretazione semantica e immediatamente corretto. E' da riflettere se il confronto
semantico sia più semplice dato che deve necessariamente utilizzare processi di sostituzione e di fatto le proprietà algebriche dell'anello dei polinomi.
Credo che ci sia una più complessa interpretazione degli insuccessi scolastici legata alla
motivazione personale ed alla comprensione delle origini del calcolo letterale.
Intanto si tratta di "misurare" la difficoltà: se la consegna richiede di calcolare (a + b)(a
- b) per ottenere (a2 - b2) si è di fronte ad un problema diretto ed anche uno studente con
R
R
R
R R
R
R
R
R
R
R
R
sscarse competenza, ma che abbia capito che le proprietà formali delle operazioni
(sintassi) sono da sapere utilizzare, può giungere al risultato. Se la consegna è quella di
scomporre (a2 - b2) per ricavare da questa espressione (a + b)(a - b), il problema è inverso e, dal punto di vista logico assai più complesso. Non posso affermarlo con certezza,
- 118 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
ma temo che il problema della scomposizione sia indecidibile (un problema analogo per il
cosiddetto word problem nei gruppi è stato dimostrato indecidibile). E' ben noto che allo
studente (a meno che il testo non contenga errori) si forniscono solo esercizi risolvibili,
ma ancora una volta le competenze richieste sono di "riconoscere" che certi termini
possono essere sostituiti con altri per ricondurre il termine dato ad uno "canonico". Ad
esempio, dato x4 - 9, lo studente deve "riconoscere" che x4 è (x2)2 e che 9 = 32, e poi
passare a 9 = (√
 3)4. Ma basta cambiare il segno e di fronte a x4 + 9 credo ampiamente
improbabile che lo studente giunga a x4 + 9 = (x2 + √ 6 x + 3)(x2 - √ 6 x + 3).
Raramente viene messo in luce il risparmio concettuale che uno schema quale (a2 - b2)
= (a + b)(a - b) permette e che per questo ne motiva l'insegnamento/apprendimento. Ancora più raramente si illustra il problema che motiva l'introduzione del calcolo letterale
come una sorta di Aritmetica generalizzata.
L'introduzione del simbolismo letterale per denotare "cose", incognite o variabili è storicamente poco successiva (F. Viète (1540 - 1603)) alla rivoluzione astronomica proposta
da N. Copernico (1473 - 1543) e contemporanea all'analisi dei dati sperimentali raccolti da
T. Brahe (1546 - 1601). La rielaborazione di questi dati compiuta da G. Keplero (1571 1630) è complessa. Gli astronomi successivi si avvalgono del calcolo dei logaritmi,
introdotti da G. Nepero (1550 - 1617) e da H. Briggs (1556 - 1631).
I calcoli astronomici, ma anche quelli economici, richiedono la valutazione di complesse
espressioni numeriche. Ad esempio la III legge di Keplero propone una proporzionalità
tra i quadrati dei periodi ed i cubi dei semiassi delle orbite. Il calcolo del montante di un
capitale C al tasso i, impiegato per n anni in regime di capitalizzazione annua composta è
dato da M = (C + i)n, bisogna quindi conoscere le formule della potenza del binomio, ma
esse sono insufficienti quando si debba stipulare un contratto in cui si conosce il capitale,
il montante e il numero di anni e si voglia conoscere il tasso. Se n = 1, 2, 3 o 4, si può
pensare all'eguaglianza precedente come ad un'equazione algerbica in i di grado n, ma per
valori di n maggiori di 4, lo strumento algebrico non basta più. Se poi è noto il tasso e si
deve decidere per quanto tempo bisogna impiegare il capitale per ottenere il montante
voluto, allora bisogna passare per il logaritmi: log\d\fo2()M = n·log\d\fo2()(C + i),
log M
quindi n = log (C + i).
I logaritmi utilizzati per il calcolo hanno grandi pregi e alcuni difetti. Ad esempio invece
di calcolare una potenza (anche frazionaria) di un numero, mediante il logaritmo l'operazione viene "tradotta" in una moltiplicazione, una moltiplicazione (divisione) in una addizione (sottrazione), eccetera. Così invece di calcolare la costante k che risulta dalla III
legge di Keplero, conoscendo il periodo T e il semiasse maggiore dell'orbita, d, si ha k =
T2
, usando i logaritmi si ha log k = 2log T - 3log d. E' più facile calcolare il logaritmo di
d3
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
k e di qui ottenere k. A partire dal XVI secolo cominciano a comparire le tavole dei logaritmi; con un paragone un poco azzardato, tali tavole sono per il tempo, l'analogo dei
mezzi odierni di calcolo elettronico.
I difetti dei logaritmi sono sostanzialmente due. Il primo è quello dell'approssimazione:
se si considera un numero, si applica ad esso il logaritmo e poi mediante le tavole si cerca
di determinare il numero di cui è noto il logaritmo, il risultato non è il numero di partenza,
ma uno diverso con poco scarto. Infatti il logaritmo di un numero è un numero reale; sulle
tavole sono indicati solo dei numeri razionali (decimali con un numero finito di cifre). Il
secondo "difetto" è che il logaritmo mal si adatta alle operazioni di addizione e sottrazione
(non è una funzione lineare). Allora per poter applicare i logaritmi bisogna "far sparire"
addizioni e sottrazioni. Questo è il compito principale del calcolo letterale. Analizzando infatti l'esempio "tipico", (a2 - b2) = (a + b)(a - b), a primo membro c'è una differenza di
quadrati. Per esempio si pensi ad a come un numero con 8 cifre significative, b con 10. Il
quadrato di ciascuno diventa un numero di difficile calcolo e così di conseguenza anche la
differenza. Pensando all'esecuzione del prodotto "in colonna" come si è appreso alla
scuola elementare, per il primo quadrato occorrono almeno 64 cifre e per il secondo almeno 100 cifre, oltre a quelle dei numeri di partenza. Più semplice l'addizione (o la sottrazione) in cui servono, per ciascuna, circa 10 cifre. Ma resta da sviluppare poi il prodotto
ed invece di calcolarlo direttamente si passa ai logaritmi: si ha log(a2 - b2) = log(a + b)
+ log(a - b).
Il computo della complessità dei due calcoli è sicuramente a favore di quello che usa il
logaritmo. Si giustificano così tutti quegli esercizi, spesso cervellotici, in cui si chiede di
scomporre in fattori una espressione più complessa in cui compaiono addizioni, oppure in
cui si tratta di eseguire l'addizione di frazioni algebriche. Si pensi alla complessità delle
scritture (a7 + b7) e (a + b)(a6 - a5b + a4b 2 - a3b 3 + a2b 4 - ab5 + b6), oppure a
(a4 + b4) e (a2 + √ 2 ab + b2)(a2 - √ 2 ab + b2). Presentando però il calcolo letterale
prima dei logaritmi non è possibile fare cogliere il motivo di queste tecniche.
E' ovvio che il risultato ottenuto con questi mezzi è comunque approssimato. Le formule
di prostaferesi
α-β
α+β
sen α + sen β = 2 sen 2 cos 2 ;
α-β
α+β
sen α - sen β = 2 cos 2 sen 2 ;
α-β
α+β
cos α + cos β = 2 cos 2 cos 2 ;
α-β
α+β
cos α - cos β = 2 sen 2 sen 2 ;
e le connesse formule di Werner,
- 120 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
1
sen α cos β = 2(sen (α+β) + sen (α-β));
1
cos α sen β = 2(sen (α+β) - sen (α-β));
1
cos α cos β = 2(cos (α+β) + cos (α-β));
1
sen α sen β = 2(cos (α+β) - cos (α-β));
hanno la stessa motivazione: trasformando somme di seni e coseni nel prodotto di analoghe funzioni goniometriche, permettendo così l'uso dei logaritmi.
Quindi il calcolo letterale si giustifica per un'esigenza di approssimazione efficace.
Un ulteriore aspetto sintattico è legato all'uso dell'eguaglianza nel calcolo letterale. Ne
vediamo alcuni esempi. Per maggiore semplicità mi riferisco ad espressioni numeriche: si
calcoli l'espressione [3 + 5·(2 + 7)]·(4 -2). Si ha
[3 + 5·(2 + 7)]·(4 -2) = [3 + 5·9]·2 = [3 + 45]·2 = 48·2 = 96.
L'insegnante mostra questo esempio, o altro simile, per spiegare che le operazioni si
eseguono in un certo ordine e nel contempo per chiarire l'uso delle parentesi, regole di
"aderenza" che poi si "esportano" anche nei polinomi. Questo tipo di precisazioni si
muove in ambito puramente sintattico, qui all'interno della Aritmetica, vista come teoria dei
numeri naturali. Ma meglio analizzando quanto fatto ci si deve chiedere come giustificare i
singoli passaggi, sulla base delle proprietà fondamentali delle operazioni e dell'eguaglianza. Bisognerebbe chiedersi se lo studente vede solo un singolo passaggio alla
volta oppure, favorito anche dalla tradizione che pone le "risposte" al termine dell'esercizio,
comprende che si sta provando che [3 + 5·(2 + 7)]·(4 -2) = 96. Questa serie di passaggi
è un vera e propria dimostrazione, se si specifica come utilizzare l'eguaglianza. La
proprietà fondamentale qui utilizzata è la proprietà transitiva, cioè l'affermazione che può
essere espressa dalla relazione
se a = b e b = c, allora a = c.
Questa affermazione, regola o principio, in realtà un assioma, è della forma di una implicazione (messa in luce dalla locuzione se …, allora …). L'antecedente, cioè l'affermazione
posta immediatamente dopo se, è della forma di una congiunzione, come vedremo nel
prossimo capitolo. Come si vede questa analisi è formale, cioè riguarda la forma. Non
entra nel "dettaglio" di cosa siano i termini a, b e c. Ma come applicare questa condizione
all'espressione precedentemente calcolata? In effetti si sta provando che [3 + 5·(2 +
7)]·(4 -2) = [3 + 5·9]·2, che [3 + 5·9]·2 = [3 + 45]·2, basandosi su proprietà delle operazioni. Si possono vedere queste due eguaglianze come esempi delle eguaglianze a = b e
b = c, in cui a è sostituito con [3 + 5·(2 + 7)]·(4 -2), b con [3 + 5·9]·2 ed infine sostituendo c con [3 + 45]·2. Di qui si ottiene [3 + 5·(2 + 7)]·(4 -2) = [3 + 5·9]·2 e [3 +
5·9]·2 = [3 + 45]·2. Ma come si può convincere che avendo due proprietà da queste se
- 121 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
ne possa costruire una terza ottenuta congiungendo le due proprietà? Non ci sono motivi,
se non quello della formulazione di una regola sullo stile delle regole di inferenza, che può
ϕ ψ
essere rappresentata sinteticamente con la regola di introduzione della congiunzione ϕ∧ψ.
Ciò giustifica i passaggi precedenti, ma è usata anche nella risoluzione dei sistemi
algebrici. Si è così provato [3 + 5·(2 + 7)]·(4 -2) = [3 + 5·9]·2 e [3 + 5·9]·2 = [3 +
45]·2; di qui si vorrebbe concludere che [3 + 5·(2 + 7)]·(4 -2) = [3 + 45]·2. Partendo
dalla proprietà transitiva dell'eguaglianza, le sostituzioni dette prima si ottiene se [3 + 5·(2
+ 7)]·(4 -2) = [3 + 5·9]·2 e [3 + 5·9]·2 = [3 + 45]·2, allora [3 + 5·(2 + 7)]·(4 -2) = [3
+ 45]·2. Resta però il problema di comprendere come giungere a [3 + 5·(2 + 7)]·(4 -2)
= [3 + 45]·2. Anche in questo caso non ci sono motivi aritmetici, ma motivi logici che si
possono formulare sinteticamente con la scrittura, la fromula di eliminazione delϕ ϕ→ψ
. Infatti avendo provato a = b e b = c, che svolge il ruolo di ϕ, ed
l'implicazione
ψ
avendosi se (a = b e b = c), allora (a = c), che svolge il ruolo di ϕ → ψ si può ritenere
provato a = c, cioè, ψ e con le sostituzioni dette [3 + 5·(2 + 7)]·(4 -2) = [3 + 45]·2.
Questa procedura dovrebbe essere ripetuta, applicata a [3 + 5·(2 + 7)]·(4 -2) = [3 +
45]·2, [3 + 45]·2 = 48·2, per giungere a [3 + 5·(2 + 7)]·(4 -2) = 48·2 ed infine applicando le considerazioni precedenti a [3 + 5·(2 + 7)]·(4 -2) = 48·2, 48·2 = 96 per giungere a [3 + 5·(2 + 7)]·(4 -2) = 96.
Tutte queste osservazioni si danno per scontate, ma scontate non sono. Come dice Fischbein 1, l'evidenza (eventualmente acquisita con l'esperienza matematica) spinge ad accettare senza una dimostrazione certe affermazioni sulla base dell'intuizione. Ma vi sono
forti ragioni per non trascurare la parte dimostrativa anche in quelle situazioni intuitivamente evidenti: il fatto che in Matematica ogni proprietà, ogni affermazione deve essere
assunta o come assioma o come proprietà dimostrata dato che la Matematica è un sistema
formale e che l'evidenza non è utilizzabile come giustificazione matematica.
Un'altra importante considerazione che si basa su aspetti morfologici è la distinzione tra
indeterminata o variabile e parametro. Anche questo è un tema ampiamente frequentato
dalla letteratura didattica, e la mia proposta potrebbe essere troppo semplicistica.
Si consideri l'equazione
(a - 1)x = 24.
cioè si individuino i valori della variabile associata all'indeterminata x che soddisfano la
richiesta eguaglianza. Per farlo ci si sposta all'ambito semantico. Si fissa ad esempio,
1 Fischbein E.: 1998, ‘Conoscenza intuitiva e conoscenza logica nell'attività matematica’, La Matematica e la
sua didattica, 365 - 401.
- 122 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
come dominio di variazione delle variabili l'insieme
R. In questo caso di "incognite" ce ne
24
riservando
a-1
poi attenzione alle condizioni per cui la soluzione ha senso, cioè invitando a discutere.
Fino alla soluzione a ha il ruolo di un numero e lo si chiama parametro, poi diventa a sua
volta "incognita", dato che si tratta poi di risolvere l'equazione a - 1 = 0, da cui passare
alla diseguaglianza a ≠ 1. Ma questo è solo un modo di guardare all'eguaglianza data. Se
si cambia punto di vista, considerando a come "incognita" e x come parametro, la
24 + x
soluzione viene è a =
, e stavolta si deve imporre la condizione x ≠ 0. Quindi ciasono due, x ed a. Eppure ogni insegnante ritiene corretta la soluzione x =
x
scuno degli insiemi sotto indicati ha diritto di essere considerato l'insieme delle soluzioni
dell'equazione proposta:
 24  se a ≠ 1


;
{x∈ |(a - 1)x = 24} = a – 1
∅ se a ≠ 1
24 + xse x ≠ 0
{a∈ |(a - 1)x = 24} =  x 
;
∅ se x ≠ 0
R
R
R
{⟨a,x⟩∈ 2 |(a - 1)x = 24}.
R
Qui si tratta di enti di "ambienti" diversi: i primi due sono sottinsiemi di , il terzo di
2, una conica nel piano cartesiano, meglio un'iperbole equilatera avente per asintoti le
24
rette x = 0 e a = 1. Però se si assume come soluzione
, l'insieme delle soluzioni
a-1
varia, al variare del parametro, quindi si possono ragionevolmente considerare come insiemi soluzioni anche le collezioni di tali insiemi di soluzioni, vale a dire
R
{{x∈
{{a∈



R |(a - 1)x = 24}|a∈R} = a24
  a ∈ R ∧ a ≠ 1 ∪ {∅};
–1 
R

24 +
|(a - 1)x = 24}|x∈ } = 
 x
che sono sottinsiemi di
R

x 
  x ∈


R ∧ x ≠ 0 ∪ {∅}.

P(R). La presenza di insiemi di insiemi denota che si è passati
dal livello elementi al livello superiore, dal primo al secondo ordine.
Evitare questo tipo di analisi vuol dire spesso non comprendere le difficoltà di apprendimento degli studenti. Purtroppo in Matematica convivono più ordini. Lo sforzo di alcuni
logici è stato di analizzare in quali casi, per teorie significative, se è possibile ricondursi al
primo ordine. Un problema analogo c'è per le coppie ordinate e quindi per concetti quali
prodotti cartesiani, corrispondenze, relazioni e funzioni.
- 123 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
R |(a - 1)x = 24}. In essa sono presenti simboli specifici
Riprendiamo la scrittura {x∈
del linguaggio della Teoria degli insiemi e quindi si potrebbe ritenere che il problema sia
relativo a tale teoria, ma sono importanti gli aspetti logici, anzi morfologici, che spesso non
vengono analizzati. Nella scrittura è presente due volte x, il ruolo della prima presenza è
quello di indicare che la parentesi graffa opera nello stesso modo di un quantificatore,
vincolando la seconda presenza di x, in modo che il "risultato" finale, non dipenda più da
x, ma dal resto, ed infatti si può ripetere quanto detto sugli indici di sommatoria, modificando la scrittura in {z∈ |(a - 1)z = 24} il risultato non cambia. Cambia invece e molto
R
se cambia a. Quindi a assume il ruolo di parametro.
Un altro esempio forse più "sgradevole". Spesso sui testi si presentano gli assiomi che
specificano i gruppi in una scrittura formale del tipo:
∀x,y,z(x·(y·z) = (x·y)·z);
∃e∀x(x·e = e·x = x);
∀x∃y(x·y = y·x = e).
Ci sarebbero molte cose da dire di natura logica su queste richieste. Una però balza agli
occhi da un'analisi morfologica: nella terza richiesta la quantificazione è su x e y e non su
e, quindi e in questa scrittura ha il ruolo di parametro (e non quello di elemento neutro),
quindi l'affermazione nel suo complesso non è un enunciato, divenendolo se e fosse una
costante. Ma così non è: nella seconda richiesta e è introdotto con una quantificazione
universale, che rende la seconda un enunciato, ma proprio per questo si può modificare la
seconda ponendo
∃z∀x(x·z = z·x = x);
e questo pur non alterando l'assioma, penso alteri profondamente la comprensione per il
conflitto di indeterminate usate e per la "sparizione" dell'elemento neutro. Questo esempio
può essere affrontato precisando che qui si opera con definizioni genetiche e non con definizioni quid nominis, né quid rei.
Il caso trattato è poi uno in cui si procede con ipostatizzazione, fenomeno terribile che
porta a privilegiare la lettera x come ingrediente fondamentale per i polinomi che poi, per
quanto si dice in seguito divengono funzioni da rappresentare come diagramma in un
piano cartesiano, coordinato con il sistema di riferimento RC(O,x,y).
Tornando alla dialettica variabile-indeterminata, si introduce un terzo personaggio: l'incognita. Si passa da variabile ad incognita quando si pone un'eguaglianza tra due polinomi
e si chiede di individuare quali valori (reali) la soddisfano. E quindi il polinomio diventa
- 124 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
una procedura. Un esempio di questa "confusione" si può trovare sui testi al momento
della presentazione del Principio di identità dei polinomi.
Per alcuni autori due polinomi in x sono uguali (identici) quando, hanno lo stesso
grado ed i coefficienti delle potenze di x rispettivamente eguali, quindi sono eguali come
scritture analizzate morfologicamente. In altri testi si trova che due polinomi sono identici
(uguali) se assumono gli stessi valori per gli stessi valori della variabile x, spostandosi
così sul piano semantico. Ad esempio Scaglianti L., Varagnolo L., Zwirner G.:1987,
Lezioni di Matematica: Algebra Informatica 1, CEDAM, Padova, pag. 357:
«Si dice che i due monomi axm e bxn sono eguali, e si scrive: axm = bxn, se a valori
.
eguali della x associano lo stesso numero»
Questi autori (e molti altri) spesso non precisano se si tratta di polinomi a coefficienti in
un campo arbitrario, oppure a coefficienti reali, visto che nel caso arbitrario, il principio è
falso come mostrano l'esempio dei polinomi x e x2 di 2[x] interpretati in 2. E questo
anche quando nello stesso testo sono presentati esempi di strutture algebriche "astratte".
Certi autori di testi universitari "inventano" due nozioni distinte di eguaglianza: parlano di
polinomi eguali (nozione morfologica) ed identicamente eguali (nozione semantica), aggiungendo esempi di polinomi identicamente eguali che non sono eguali.
Altri autori ancora dicono che due polinomi sono eguali se, dopo aver fatto i vari passaggi algebrici, si riducono a forma normale in cui compaiono lo stesso grado e gli stessi
coefficienti, mettendo così assieme aspetto sintattico e morfologia.
Ad esempio Del Giudice V., Morina S.: 1989, Corso di Matematica, Petrini, Torino, p.
409:
«L'equazione (2x+6)x - 12x2 = –x(10x – 6) risulta un'identità perché, applicando al
primo membro le proprietà delle operazioni, si può ottenere la catena di identità: (2x+6)x
- 12x2 = 2x2 + 6x – 12x2 = 2x2 – 12x2 + 6x = (2 – 12)x2 + 6x = – 10x2 + 6x e
applicandole al secondo:–x(10x – 6) = –10x2 – x(–6) = –10x2 + 6x. Poiché i due
membri dell'equazione risultato entrambi identici all'espressione –10x2 + 6x, essi sono
identici tra loro.»
Alcuni altri esempi tratti dalla prassi didattica, in cui predominano gli aspetti semantici:
In contesto analitico si incontra spesso la frase
Z
Z
il valore della funzione in x0,
questa frase trascura la costruzione dell'ente funzione considerata (oggetto), ma è interessata a cosa accade una volta che i simboli presenti nella scrittura si interpretano come
numeri ed operazioni tra numeri (processo). Poiché si tratta di assegnare un valore alle
scritture anch'essa è semantica. In questo esempio ricadono il Teorema di Ruffini e pure la
- 125 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
formulazione del Principio di Identità dei polinomi nella forma che due polinomi sono
identici se assumono gli stessi valori in corrispondenza degli stessi valori della variabile.
Sempre in questa ottica si collocano i Principi di equivalenza delle equazioni, quando viene
detto che due equazioni sono equivalenti quando hanno gli stessi insiemi di soluzioni. Un
altro esempio: la scrittura
x2 - 1
x + 1 = x - 1,
R
è una formula vera nel campo (x) delle cosiddette frazioni algebriche o funzioni razionali fratte a coefficienti reali. Tale eguaglianza smette di essere vera appena si considera
l'aspetto semantico in , guardando i termini che vi compaiono come espressioni analitiche di funzioni perché tali funzioni coincidono solo sull'insieme dei reali diversi da – 1,
quindi per aver l'eguaglianza delle funzioni bisogna richiedere x ≠ –1. Si noti che se si
considera x come polinomio la richiesta x ≠ –1 è banalmente soddisfatta, in quanto x è
un polinomio di grado 1, mentre –1 è un polinomio di grado 0.
R
Nella prassi didattica si utilizzano spesso equazioni, sistemi, e questo argomento merita
una riflessione apposita per la sua valenza. Il tema delle equazioni si presenta già alla
scuola Media in ambito algebrico. Però anche alle elementari in contesto aritmetico compaiono problemi che richiedono equazioni, camuffate da procedimenti verbali più complessi: ne sono esempi tutti quei problemi su cortili popolati di polli e conigli.
Più avanti compaiono equazioni ed identità anche con funzioni trigonometriche o esponenziali o logaritmiche. All'università vengono introdotti tipi di equazioni differenziali, integrali, funzionali, ecc.
Limitando all'ambito algebrico si analizzi una semplice equazione tratta da Gallo E.:
1988, Fare Matematica, Sei, Torino, pag. 519:
«Risolvi in le seguenti equazioni di secondo grado:
129
41 - 8x - (1 + x)2 = (2 - x)2
{-6, 3}
R
130
…» .
Il lettore comprende benissimo cosa chieda il testo e cosa significhino i numeri scritti
tra parentesi graffe al termine della riga. E' apprezzabile la specificazione che l'equazione
debba essere risolta in e non, ad esempio, in 47. Ciò permette di attribuire un signifi-
R
Z
cato preciso ai numeri che vengono scritti nonché ai simboli di operazione indicati che
vengono interpretati in modo naturale nelle corrispondenti operazioni nell'anello dei numeri reali. In altri testi questo dato essenziale viene sottinteso, anche nel caso che il testo si
sia diffuso in precedenza su strutture algebriche generali.
- 126 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Dal punto di vista morfologico un'equazione (algebrica) è caratterizzata da due polinomi
e da un'eguaglianza tra essi. In certi testi di Logica un'equazione è semplicemente l'eguaglianza di due termini. A scuola solitamente data un'equazione si richiede prima di
eseguire vari calcoli, di ridurre i due polinomi in forma normale, utilizzando quindi aspetti
sintattici, nel senso della scrittura ∑k akxk. In questa fase sintattica lo studente può compiere errori di calcolo, tipici, tra gli altri gli errori di segno che si originano dall'applicazione di proprietà invariantive legate alla eguaglianza. C'è poi la richiesta di sostituire l'eguaglianza ottenuta con una in cui uno dei due polinomi è nullo. Per ottenerlo si sfruttano
i principi di equivalenza delle equazioni. Si potrebbe ritenere questa una fase puramente
sintattica, come applicazione delle proprietà dell'eguaglianza, ma anche vedere i principi di
equivalenza come una fase semantica. Infine viene richiesto di applicare le formule risolutive, fase tipicamente morfologica. Gli errori in questa fase sono legati alla comprensione delle sostituzioni. Assai raramente viene richiesta anche la fase semantica di verifica
dei risultati, anche se lo studente compie spesso una fase semantica "abbreviata" di controllo dei risultati con quelli offerti dal testo! La fase semantica diviene indispensabile in
casi di equazioni fratte o irrazionali. La valutazione dell'errore commesso dovrebbe individuare con precisione le carenze dell'allievo, trattandosi di aspetti differenti.
Dal punto di vista morfologico quindi un'equazione è una formula atomica costruita col
predicato di eguaglianza. Anche un'identità, dal punto di vista morfologico è una formula
atomica costruita con il predicato di eguaglianza. Si tratta di vedere cosa distingue equazioni ed identità.
Per asserire che un'eguaglianza (dal punto di vista morfologico) è un'identità morfologica basta un semplice controllo sui simboli utilizzati. Per affermare che un'eguaglianza
morfologica è un'identità (dal punto di vista semantico) si richiede una verifica assai impegnativa. Anche il concetto più limitato, quello spesso più utilizzato, di identità in una
particolare struttura, ad esempio o o altro ancora, è comunque complesso. Nei testi
scolastici viene spesso sottintesa la struttura, trattandosi quasi sempre dei numeri reali con
le loro proprietà. Ad esempio l'eguaglianza x = x2 non è vera in , quindi non è una
identità mentre è un'identità in 2.
R Q
R
Z
Data una struttura A (spesso sottintesa) ed un'eguaglianza di due termini t1 = t2, si
pone il problema di sapere se l'eguaglianza è soddisfacibile in A e nel caso che lo sia, se è
vera in A. La soddisfacibilità chiede se esiste una assegnazione di valore alle variabili che
interpretano le indeterminate che soddisfa la formula in A . La domanda posta da
un'equazione, nel senso "scolastico" è appunto questa. Pertanto un'equazione è la domanda se un'eguaglianza di due termini è soddisfacibile. L'eguaglianza 3 + x = 7 è cosa
- 127 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
diversa dall'equazione 3 + x =7. La prima infatti è una scrittura non interpretata, oggetto
puramente linguistico. La seconda, così formulata, non ha senso in quanto manca la specificazione dell'interpretazione del linguaggio. Quindi più correttamente si deve dire l'equazione 3+x = 7 in A, quindi il quesito se in A l'eguaglianza è soddisfacibile.
Se si procede per via semantica le soluzioni dell'equazione sono le assegnazioni di valore alle variabili che soddisfano l'eguaglianza in A.
Alcuni testi scolastici non colgono questo aspetto, anche qualora abbiano premesso un
capitolo esplicito di logica, ad esempio
Battelli M.: 1995, Corso di Matematica sperimentale e laboratorio, Le Monnier, Firenze,
pag. 684 1
«Si chiama equazione algebrica una uguaglianza tra due espressioni algebriche, in
una o più variabili, che risulti verificata solamente per particolari valori attribuiti alle
variabili che in essa figurano»
Cosa siano espressioni algebriche è lasciato all'immaginazione del lettore.
L'equazione si dice impossibile in A se non è soddisfacibile in A.
L'equazione di dice indeterminata in A se l'eguaglianza è vera in A, cioè è un'identità
(semantica) in A.
Attenzione alcuni testi oltre a dimenticare di specificare la struttura in cui si considerano le
equazioni, affermano che un'equazione è indeterminata se ammette infinite soluzioni, ad
esempio Battelli M.: 1995, Corso di Matematica sperimentale e laboratorio, Le Monnier,
Firenze, pag. 684. Poi però l'equazione cos x = 1 che in ha infinite soluzioni non è
indeterminata. Anche l'equazione 3y + 5z = 1, in ha infinite soluzioni e non è indey = 2 - 5w
terminata, perché le soluzioni si possono determinare come z = 3w - 1 , per ogni w∈ .
L'equazione x = x2 è indeterminata in 2 , in quanto è un'identità, ma ha solo due
soluzioni. In questa interpretazione dell'aggettivo "indeterminato" entra il problema del
Principio di identità dei polinomi (in ).
Si ha un'identità in A se comunque assegnati i valori delle variabili si soddisfa l'eguaglianza, in termini logici, se la formula è vera in A. Quindi la differenza è sull'uso di
una quantificazione sulle interpretazioni delle indeterminate in una struttura: universale per
le identità, esistenziale per le equazioni.
In quanto precede non si fa menzione delle "tecniche" algebriche che servono per risolvere un'equazione perché esse chiamano in gioco aspetti sintattici assai rilevanti.
Z
Z
R
1 I corsivi e i grassetti sono dell'autore.
- 128 -
R
{
Z
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Nella preparazione scolastica preuniversitaria ha molto spazio il trattamento delle equazioni. Si inizia con le equazioni algebriche in una sola "incognita", poi si passa ai sistemi
ed ad altri tipi di equazioni. Strumento indispensabile per questa trattazione sono i cosiddetti principi di equivalenza delle equazioni che qui si cerca di analizzare. Dato che le
equazioni che si considerano sono quelle algebriche, la trattazione si svolge all'interno
delle strutture che interpretano il linguaggio degli anelli. Però già per risolvere equazioni
di primo grado è necessario eseguire divisioni, quindi ci si muove nei campi. Tuttavia per
generalità nel seguito si parla in modo ambiguo di strutture.
T
DEFINIZIONE. Sia A una struttura. Siano t1,t2∈ (X) tali che Lib(t 1 ) ∪
Lib(t2) = {x}. L'insieme solA(t1=t2) = {a∈A | A y (t1 = t2)[x=a]} si dice
l'insieme delle soluzioni della equazione t1 = t2.
Conformemente alla pratica nella definizione precedente si è confusa la struttura con il
suo sostegno. E' chiaro il connotato semantico dell'insieme delle soluzioni, che dipende
dalla struttura in cui si interpretano i simboli del linguaggio. Ad esempio un'equazione di
secondo grado a coefficienti interi può non avere soluzioni in ed avere due soluzioni
distinte in . Ha senso estendere il concetto ad equazioni in più "incognite" ed eventalmente indicare rispetto a quale "incognita" si considera tale insieme, scrivendo, solA,x(t1
= t2) = {⟨a1,…,am⟩∈Am | A y (t1 = t2)[x1=a1, …, xm=am]}.
Q
R
E' inoltre interessante osservare che la nozione potrebbe essere utilmente generalizzata
ponendo per ogni predicato k-ario, r e per ogni t1 ,…,t k , tali che lib(r ( t1 ,…, tk ) ⊆
{x 1 ,…,x m }, solA (r(t1 ,…, tk )) = {⟨a 1 ,…,a m ⟩∈ A m | A y (r(t1 ,…, tk ))[x 1 = a 1 , …,
xm=am]}. Rientrano in questo secondo caso le disequazioni ottenibili quando il predicato
r è binario ed interpretato nella relazione d'ordine.
T
D EFINIZIONE . Sia A una struttura. Siano t1 ,t2 ,t3 ,t4 ∈ (X) tali che
Lib(t1)∪Lib(t2) = {x} = Lib(t3)∪Lib(t4). Si dice che t1 = t2 e t3 = t4 sono
equazioni equivalenti in A se solA(t1=t2) = solA(t3=t4). 1
Anche in questo caso è ovvio che due equazioni possono essere equivalenti in un campo
e non in un'altro, ad esempio x2+1= 0 e x4 = – 4 sono equazioni equivalenti in , non in
.
Con queste precisazioni si ha:
R
C
1 Sui manuali consultati non appare mai esplicitamente che l'indeterminata presente nelle due equazioni debba
essere la stessa, ma non compaiono neppure equazioni in indeterminate diversa da x, facendo supporre una
ipostatizzazione.
- 129 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
T
TEOREMA. (PRINCIPI DI EQUIVALENZA DELLE EQUAZIONI). Sia A una
struttura. Siano t1,t2∈ (X) tali che Lib(t 1 )∪Lib(t 2 ) = {x}. Per ogni
n∈ *, per ogni f∈ n, per ogni r tale che 1 ≤ r ≤ n, per ogni t’1, …, t’r-1,
N
t’r+1, …,t’n∈
F
T( X )
tali che
r-1
n
∪
Lib(t’s)∪ ∪ Lib(t’ s ) ⊆ {x}, si ha
s=1
s=r+1
sol A (t 1 =t 2 ) ⊆ solA (f(t’ 1 ,…,t’ r-1 ,t 1 ,t’ r+1 ,…,t’ n ) = f(t’1 ,…,t’ r-1 ,t 2 ,
t’r+1,…,t’n)).
La dimostrazione (semantica) di questo teorema è abbastanza semplice. In essa la richiesta che i termini "nuovi" abbiano eventualmente libera l'unica indeterminata x è assai
pesante da formulare e del tutto inutile. Eppure i testi scolastici consultati mettono in evidenza esplicitamente questo fatto. Quindi si può riformulare il teorema evitando tutte le
restrizioni sui Lib dei termini e concludendo che rispetto all'indeterminata x si ha
solA,x(t1=t2) ⊆ solA,x(f(t’1,…,t’r-1,t1,t’r+1, …,t’n)=f(t’1,…,t’r-1,t2,t’r+1,…,t’n)).
Il fatto che si consideri un generico simbolo funzionale permette di affermare, in un
solo colpo che se f è il simbolo che in un campo A viene interpretato come l'opposto, oppure come l'addizione o come la moltiplicazione, allora l'asserto vale, anzi è possibile
sostituire l'inclusione con l'eguaglianza, sulla base delle proprietà sintattiche dei campi.
Quindi solA(t1=t2) = solA(–t1=–t2), solA(t1=t2) = solA(t1+t’2=t2+t’2), solA(t1=t2) =
solA(t1⋅t’2=t2⋅t’2).
Alcuni autori "dimostrano" i principi di equivalenza, sfruttando sintatticamente le proprietà dell'eguaglianza e riconducendo poi la prova all'ambito semantico, spesso con il
principio di identità dei polinomi.
Con queste definizioni e teoremi le equazioni 3x + 7 = 0 e 3y + 7 = 0 hanno le stesse
soluzioni ma sono equivalenti. Forse tali equazioni diventano equivalenti con la definizione che fornisce Battelli M.: 1995, Corso di Matematica sperimentale e laboratorio, Le
Monnier, Firenze, pag. 700,
«Due equazioni si dicono equivalenti se e solo se l'insieme S 1 delle soluzioni della
prima equazione è uguale all'insieme S2 delle soluzioni della seconda equazione.»
Però in esso l'uso della lettera x come indeterminata = variabile = incognita fa sospettare
una ipostatizzazione che porta a considerarle non equivalenti, ma i principi di equivalenza
non servono allo scopo. In realtà è possibile riottenere l'equivalenza di queste due equazioni, introducendo però una adeguata trattazione delle sostituzioni, solitamente trascurate
dalla prassi didattica.
Sui manuali si trova un'altra affermazione: il principio si scinde in due. D'Amore B., De
Flora A.:1974, Algebra: elementi e strutture, Zanichelli , Bologna, pag. 215. afferma
- 130 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
«sommando o sottraendo ad ambo i termini di un'equazione algebrica uno stesso polinomio, l'equazione si trasforma in un'altra equivalente alla data».
Un commento: i polinomi formano anello, quindi specificare che si possono sottrarre
polinomi non ha molto senso, trattandosi sempre della somma con l'opposto del polinomio dato. Nel testo i polinomi sono tutti nella stessa indeterminata, anche se qui non è
specificato.
Carboni E., Ventola F.: 1969, Elementi di Algebra, Paccagnella, Bologna, pag. 138, in
questo senso è più esplicito:
«Aggiungendo uno stesso numero od una stessa espressione algebrica (contenente oppure no l'incognita), ad ambo i membri di un'equazione si ottiene un'equazione equivalente
a quella data»
e Battelli M.: 1995, Corso di Matematica sperimentale e laboratorio, Le Monnier, Firenze, pag. 703, afferma
«Se si aggiunge ad ambo i membri di un'equazione uno stesso numero o una stessa
espressione algebrica nell'incognita considerata, allora si ottiene una nuova equazione
equivalente a quella data» 1.
Per il secondo principio citiamo gli stessi testi nello stesso ordine:
D'Amore B., De Flora A.:1974, Algebra: elementi e strutture, Zanichelli , Bologna, pag.
215,
«moltiplicando o dividendo ambo i termini di un'equazione algebrica per uno stesso
polinomio (non nullo), l'equazione si trasforma in un'altra equazione equivalente alla data»
Carboni E., Ventola F.: 1969, Elementi di Algebra, Paccagnella, Bologna, pag. 138,
«Moltiplicando o dividendo per uno stesso numero, diverso da zero, o per una medesima espressione algebrica, non nulla (contenente o no l'incognita) ambo i membri di
un'equazione, si ottiene un'equazione equivalente a quella data»
Battelli M.: 1995, Corso di Matematica sperimentale e laboratorio, Le Monnier, Firenze,
pag. 709,
«Se si moltiplicano o si dividono ambo i membri di un'equazione per uno stesso numero diverso da zero, o per una stessa espressione algebrica che non si annulli né perda
di significato per ogni valore attribuito all'incognita, allora si ottiene una nuova equazione
equivalente a quella data »
Un breve commento su queste definizioni. Agli autori delle prime due c'è da chiedere se
il polinomio x + 5 è il polinomio nullo, perché le equazioni 3x + 7 = 2 e (x + 5)(3x +
7) = 2(x + 5) non sono equivalenti in , eppure il principio sembra applicato corretta-
R
1 In nota l'autore aggiunge «L'espressione algebrica deve risultare determinata, ossia non deve perdere di
significato, per qualsiasi valore che si attribuisca all'incognita in essa presente».
- 131 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
mente. Il terzo sembra più accurato, anche se resta il solito problema di comprendere cosa
intenda per espressione algebrica.
C'è poi una questione di principio abbastanza sottile: i principi di equivalenza delle
equazioni vengono utilizzati per determinare le soluzioni delle equazioni algebriche. Ma se
si moltiplicano i due membri dell'eguaglianza per un polinomio che non si annulla, per
essere sicuri che ciò non accade, bisogna tentare di risolvere l'equazione ottenuta ponendo
eguale a 0 il polinomio moltiplicatore, per concludere che non si annulla mai. Quindi
per risolvere le equazioni bisogna sapere risolvere le equazioni. Il secondo principio è
sicuramente più delicato e di difficile formulazione.
Questi due principi non si riottengono dal Teorema indicato sopra. Il motivo è assai
semplice. Il Teorema è formulato in tutta generalità e potrebbe essere applicato, in questa
forma anche ad anelli. Per dimostrare tali principi si fa uso delle proprietà delle operazioni
valide in , quindi non relative a generici campi, bensì ad una struttura con assiomi ben
specifici. Ad esempio nel primo si sfrutta il fatto che e quindi [x] è un gruppo rispetto
all'addizione o quanto meno vale la legge di cancellazione per l'addizione (come in ).
Nel secondo principio si sfrutta la legge di annullamento del prodotto o il fatto che in
c'è l'inverso degli elementi non nulli e la condizione che un elemento non è nullo si può
esprimere solo con un prdicato. Sarebbe interessante confrontare l'affermazione del secondo principio con quanto accade in un anello con divisori dello zero, ad esempio in
quello delle matrici quadrate di ordine 2 (che vengono introdotte nelle Scuole Superiori, se
non altro per risolvere i sistemi lineari!).
La difficoltà a comprendere in profondità il concetto di equivalenza ed i successivi principi sta nella commistione (o confusione) dei vari livelli. E' data l'eguaglianza di due termini, quindi una scrittura morfologicamente corretta. Ci si chiede se è soddisfacibile, quindi
ci si muove su un piano semantico. Il principio però apparentemente resta su questi due
piani, mentre la sua dimostrazione fa intervenire pesantemente la parte sintattica.
R
R
R
N
R
Accanto alle cosiddette equazioni algebriche, nella tradizione scolastica compaiono altri
tipi di equazioni. Alcuni di questi tipi rientrano nella trattazione generale che si è presentata: le equazioni trigonometriche e le equazioni esponenziali. Infatti esse sono equazioni in
una struttura, avente per sostegno sempre l'insieme dei numeri reali, arricchita con i simboli sen, cos, exp.
Vi sono però altri tipi di equazioni, quelle logaritmiche e quelle cosiddette irrazionali che
non rientrano in questa presentazione. Infatti le "operazioni" di radice (quadrata) e di
logaritmo non possono essere l'interpretazione di simboli funzionali unari in quanto non
sono applicabili a tutti i numeri reali, ma solo a quelli soddisfacenti opportune disegua- 132 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
glianze. Ciò fa introdurre nella struttura oltre alle operazioni anche le relazioni (d'ordine) e
quindi non si tratta più di strutture algebre, bensì sono utilizzati predicati.
Un esempio di semantica ampiamente frequentato nelle scuole superiori è la Geometria
analitica. Essa è l'interpretazione della Geometria euclidea in un contesto algebrico: i punti
vengono interpretati in coppie (terne) ordinate di numeri reali, le rette ed in genere le curve
(le superfici) vengono associate agli insiemi soluzione di equazioni (o sistemi) in due (tre)
indeterminate. Anche la Geometria delle trasformazioni si presta ad essere interpretata
nella Geometria cartesiana, stavolta privilegiando le trasformazioni che assumono l'aspetto
di sistemi per lo più lineari o lineari fratti in un numero doppio di indeterminate: le nuove
e le vecchie coordinate. Questi aspetti sono importanti: far capire che si sta costruendo un
modello, che le tecniche utilizzate sono in genere algebriche, e sono sostanzialmente diverse da quelle sintetiche. Per rimarcare di più la differenza, si consideri che i procedimenti sintetici possono essere applicati anche nelle Geometrie non euclidee, mentre il
piano (lo spazio) cartesiano non può essere modello di tali geometrie, dato che nella definizione stessa dell'interpretazione, vale a dire come si associano le coppie (terne) ordinate
di numeri reali ad un punto si fa uso del postulato delle parallele.
Si ponga attenzione poi alle commistioni scorrette che talora avvengono tra aspetti sintattici e semantici nella presentazione della Geometria. Su alcuni manuali, in cui per altro
sono dedicate parti alla Logica, si legge che
una retta è un insieme di punti,
indicando questo come postulato, dopo avere specificato che "retta" è un termine primitivo. Il linguaggio della Geometria non è un linguaggio insiemistico. Chiedere che una retta
sia un insieme di punti significa muoversi in un ambito semantico in cui si fissa una interpretazione con dominio di interpretazione M e la funzione di interpretazione associa a
punti elementi di M ed a rette sottinsiemi di M. Ma Hilbert affermava che è possibile interpretare i punti come boccali di birra e le rette come tavoli. Prefissare una interpretazione
può essere utile alla comprensione, ma imporre questo negli assiomi non è corretto e confonde livelli linguistici diversi.
- 133 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Capitolo 9: Aspetti sintattici del calcolo dei predicati.
La sintassi si occupa di deduzioni e dimostrazioni, delle regole di inferenza mediante le
quali si costruiscono le deduzioni. È assai affine, come spirito alla morfologia, tanto che
qualche testo parla di sintassi comprendendo in essa anche la morfologia. Ad esempio i
linguaggi di programmazione che hanno programmi di debug forniscono la segnalazione
di errore syntax error mentre più propriamente e più frequentemente si dovrebbe trattare
di morphological error. La sostanziale identità con la morfologia è data dagli strumenti
usati per parlare di dimostrazioni: l'induzione, stavolta sulla lunghezza della dimostrazione,
quindi anche la sintassi si avvale prevalentemente dell'Aritmetica.
Nella prassi spesso si presta attenzione alla dimostrazione in Geometria, meno in Algebra. L'esperienza con studenti universitari è che essi restano talora sorpresi che ci sia bisogno di dimostrare l'eguaglianza
(a + (b + c)) + d = (a + b) + (c + d).
Infatti il calcolo algebrico sembra agli studenti un dato di fatto, non conseguenza della
scelta di certi assiomi. Forse questo è derivato dalla consuetudine, forse dal fatto che i
numeri e la loro aritmetica non sempre vengono, o venivano, introdotte in maniera adeguata, e ciò è vero soprattutto per i numeri reali.
Anche i testi spingono a ciò: raramente si trova scritto
Dimostrare che
x2 - 1
x + 1 = x - 1,
piuttosto si trova
Calcolare
x2 - 1
x+1.
Anche in Geometria analitica le frasi utilizzate sono: trovare, calcolare, determinare, raramente provare o mostrare, quasi mai dimostrare. Se poi sono da ritenere equivalenti queste
richieste, si pensi che nel negozio di scarpe, si mostrano e si provano scarpe, ma non credo
si dimostrino.
Analogamente le proprietà dell'eguaglianza, veri e propri assiomi, vengono quasi sempre
taciuti nelle dimostrazioni, perché troppo ovvi. Prima dei programmi Brocca si trovava
assai raramente sui manuali in uso l'indicazione esplicita di alcune regole di inferenza,
anche se le dimostrazioni ne facevano uso, con l'eccezione di qualche commento per le
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
dimostrazioni per assurdo. Oggi le regole vengono esplicitate, ma spesso con commistioni
semantiche che possono solo confondere.
L'analisi degli aspetti sintattici per il calcolo dei predicati segue sostanzialmente le stesse
linee di quanto trattato nel Capitolo 4. Da questa trattazione dovrebbero emergere due
aspetti: il fatto che si tratta di tecniche utilizzate nella pratica didattica, senza che vengano
messe sufficientemente in risalto, ed anche i motivi per cui così spesso tali aspetti logici
sono … assenti dalle lezioni scolastiche. La comprensione di cosa sia e come si debba
organizzare una dimostrazione matematica (rigorosa) è uno dei risultati maggiori di quella
parte di studi che vengono raccolti nel nome di Logica matematica. Si tratta di ricerche che
partono molto addietro nel tempo, già nelle opere di filosofi greci, continuate
successivamente e portate a maturazione dall'opera di K. Gödel (1906-1978) nel fondamentale lavoro Gödel K.: 1930, 'Die Vollstaendigkeit der Axiome des logischen Funtktionenkalkuls', Monatsh. Math. Phys. 37, 349-360 e negli studi della scuola di Hilbert.
Prima dei vari programmi sperimentali l'apprendimento della sintassi era oggetto di apprendimento indiretto, in particolare attraverso la presentazione di temi geometrici. L'opera
di Euclide, gli Elementi, in realtà pur essendo un gigantesco monumento del pensiero
umano ispirato ad un'esigenza di rigore, dal punto di vista formale si presta a numerose
precisazioni, come mostrato tra la fine del secolo scorso e l'inizio di questo. In particolare
Hilbert ha offerto una versione abbastanza corretta ed adeguata della Geometria euclidea
che, come presentazione, si discosta molto da quella originale degli Elementi. Eppure a
tutt'oggi quando si parla di metodo ipotetico-deduttivo nella scuola, viene in mente quella
parte di Geometria euclidea che trova spazio nel primo biennio delle scuole superiori.
Se tale argomento di studio ha indubbi meriti di evidenza ed efficacia didattica, ha però
limiti dal punto di vista logico, sia per i motivi sopra accennati, sia perchè una qualunque
dimostrazione di proprietà geometriche è talmente complessa da non rendere evidente la
reale struttura del procedere ipotetico deduttivo. Con le parole di G. Polya in Polya G.:
1965, Comment poser et résoudre un problème, Dunod, Paris, pagg. 119-120:
«Il genere di esposizione euclidea non si può consigliare senza riserve se si cerca di
comunicare un ragionamento (…) a chi non ne ha mai sentito parlare. L'esposizione euclidea è perfetta se si tratta di sottolineare ciascun punto particolare; è meno indicata se si
vuole mettere l'accento sulle articolazioni essenziali del ragionamento.»
L'uso dello strumento geometrico per indurre negli alunni conoscenza dei principali
modi di procedere del ragionamento, può ingenerare l'idea che vi siano infinite tecniche
per dimostrare, quando, come conseguenza del teorema di completezza, è ben noto che le
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
regole logiche si possono ridurre ad una sola! Un altro pericolo è poi quello di far ritenere
che il procedimento deduttivo nella Matematica sia confinato alla sola Geometria, mentre
le tecniche da padroneggiare in altre parti della Matematica siano sostanzialmente diverse.
La necessità delle dimostrazioni credo però sia chiara da quanto detto in precedenza: si
deve verificare la validità di una formula, oppure analizzare se una formula è conseguenza
logica di altre. Le verifiche da fare sono infinite e, in genere, neppure controllabili. Si deve
cercare un procedimento di carattere finitistico che garantisca, almeno quando è applicabile, che le formule ottenute siano valide (o in conseguenza logica). Qui ci sono due
strade: presentare direttamente un sistema deduttivo oppure ricavarlo da esempi. Per uniformità con quanto fatto nel Capitolo 4 si preferisce la seconda strada che porta al sistema
proposto da Prawitz (con qualche variante) già incontrato nel Capitolo 4. Qui si tratta di
esporre esempi di applicazioni di regole relative ai quantificatori, da aggiungere alle regole
già viste di introduzione ed eliminazione dei connettivi. Prima però si fornisce la
"estensione" del sistema di Hilbert visto per il calcolo proposizionale nel Capitolo 4, a
quello dei predicati del primo ordine. Tale estensione comporta la considerazione di due
ulteriori assiomi e di una regola di inferenza:
A4.
∀x(ϕ(x) → ϕ(t)) purché t sia un termine libero per x in ϕ(x) 1 ;
A5.
∀x(ϕ → ψ(x)) → (ϕ → ∀x(ψ(x))) purché x∉Lib(ϕ).
ϕ
(Gen) ∀x(ϕ)
1) Un brano assai ricco, già incontrato, è dato da Palatini A., Reverberi Faggioli V.: Complementi di Matematica, Ghisetti e Corvi, Milano, 7^ ed., p. 206 - 207 (senza anno di
pubblicazione):
« TEOREMA. Se una funzione continua ha derivata nulla in tutti i punti di un
intervallo, essa è costante in quell'intervallo. Infatti, se x è un punto qualunque
dell'intervallo (a,b) applichiamo il teorema del valor medio all'intervallo (a,x); si ottiene
f(x) - f(a) = (x - a) ⋅ f’(c)
dove c è un punto interno all'intervallo (a,x). Ma per ipotesi, la derivata di f(x) è nulla in
ogni punto di (a,b), perciò è nulla anche in c, ossia si ha f’(c) = 0; ne segue che
f(x) - f(a) = 0, ossia f(x) = f(a).
Siccome x è un punto qualunque di (a,b), questo significa che f(x) assume in tutti i
punti di (a,b) sempre lo stesso valore, cioè è una costante.»
In quel che segue è importante ricopiare l'enunciato riportato a p. 205: del
1 La nozione di termine libero per un'indeterminata in una formula è una nozione morfologica che si è omessa
per semplicità. In modo approssimativo si vuole intendere che t sostituito nelle presenze di x in ϕ(x) non causa
conflitti di indeterminate.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
«TEOREMA DEL VALOR MEDIO (o teorema di Lagrange o di Cavalieri). Se la funzione f(x), definita nell'intervallo (a,b) è continua e derivabile in tutto l'intervallo, la differenza dei valori della funzione agli estremi a e b è eguale all'ampiezza b - a dell'intervallo moltiplicato per la derivata di f(x) in un punto interno all'intervallo»
L'enunciato si può scrivere come
f(x) continua e derivabile in (a,b) → (∀z∈(a,b)(f’(z) = 0) → f(x) = costante)) 1.
Si procede come prima assumendo l'ipotesi f(x) continua e derivabile in (a,b). A questo
punto si richiama il teorema del valor medio, che può essere schematizzato, mantenendo la
simbologia del testo, come
f(x) continua e derivabile in (a,b) → ∃y∈(a,b)(f(b) - f(a) = (b - a)⋅f’(y)).
Da questo si conclude ∃x∈(a,b)(f(b) - f(a) = (b - a)⋅f’(x)), ma come? Qui ci vuole una
regola di eliminazione dell'implicazione, di cui si è detto nel Capitolo 4. Visto che si ha
l'ipotesi f(x) continua e derivabile in (a,b), ed il teorema del valor medio, f(x) continua e
derivabile in (a,b) → ∃x∈(a,b)(f(b) - f(a) = (b - a)⋅f’(x)), con la regola di eliminazione
dell'implicazione si conclude:
∃x∈(a,b)(f(b) - f(a) = (b - a)⋅f’(x)).
Ma non è questo ciò che appare nella dimostrazione. Qui il testo fa un "imbroglio". Solitamente nei teoremi di questo tipo, si studiano proprietà di funzioni tutte definite nello
stesso intervallo. Le variabili, in tal caso, sono le funzioni o i punti dell'intervallo. Per di
più nell'enunciato vengono esplicitamente indicati i valori a e b come gli estremi dell'intervallo, facendo pensare che siano in qualche modo fissati e senza far osservare che il
valore di x dipende da a e b. Ma qui si fa diversamente. Si legge infatti l'enunciato del
teorema del valor medio come se ad esso fosse premesso un quantificatore universale anche sull'intervallo, cioè se il detto teorema di Lagrange fosse
∀z,w(f(x) continua e derivabile in (z,w) → ∃y∈(z,w)(f(w) - f(z) = (w - z)⋅f’(y))).
Questo perché il teorema del valore medio non viene applicato al famoso intervallo fissato
(a,b), ma ad un altro. In questo senso viene assunto variabile anche l'intervallo o, se si
preferisce il suo secondo estremo. Ma questo vuol dire applicare una regola (di eliminazione) del tipo
1 Per essere nulla in tutti i punti dell'intervallo, la derivata, prima di tutto, deve esistere in tutti i punti. Quindi
anche se l'enunciato non dice esplicitamente che la funzione è derivabile, lo si può desumere facilmente. Come
in altre occasioni la presenza di x in f(x) non è da intendersi come quella di una variabile o di un'indeterminata.
E' il modo consueto di esplicitare che si sta considerando una funzione.
- 137 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
(e.∀)
∀z(ϕ(z))
ϕ(t)
Adesso le cose tornano meglio: si applica (due volte) questa regola eliminando il quantificatore universale ed ottenendo:
f(x) continua e derivabile in (a,x) → ∃y∈(a,x)(f(x) - f(a) = (x - a)⋅f’(y)).
La nostra funzione di partenza era continua e derivabile in tutti i punti di (a,b) quindi
(ma è un quindi sospetto, da chiarire, mettendo anche in luce l'eliminazione della
quantificazione universale) è continua e derivabile anche in tutti i punti di (a,x). Adesso sì
che applicando la regola di eliminazione dell'implicazione si ottiene, come dice il testo
∃y∈(a,x)(f(x) - f(a) = (x - a)⋅f’(y)).
Non bisogna lasciarsi trarre in inganno dal fatto che il testo non usa la quantificazione
esistenziale e la sostituisce con la dizione
«dove c è un punto interno dell'intervallo (a,x)».
L'uso del nome c è però anche un altro, quello di far perdere il connotato di variabile per
individuarlo, in un certo senso: uno almeno c'è, ebbene lo si indichi con un nome che ricordi di più un valore fissato, anche se non si sa dire quale. Si giunge così alla espressione
f(x) - f(a) = (x - a)⋅f’(c).
A questo punto ci si ricorda di un altro "pezzo" del teorema da dimostrare, che viene anch'esso assunto come ipotesi: che la funzione abbia derivata nulla in tutti i punti di (a,b):
∀z∈(a,b)(f’(z) = 0).
Per questo si può, ancora una volta eliminare il quantificatore universale, particolarizzando
con c. Così si giunge a
f’(c) = 0.
Di qui, per le proprietà aritmetiche, si ottiene f(x) - f(a) = 0 quindi f(x) = f(a). Ed ecco che
il quantificatore universale riappare:
«Siccome x è un punto qualunque di (a,b), questo significa che f(x) assume in tutti i
punti di (a,b) lo stesso valore»,
cioè
∀x∈(a,b)(f(x) = f(a)).
C'è bisogno di una regola che permetta l'introduzione della quantificazione universale:
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
(i.∀)
ϕ(x)
∀x(ϕ(x)) .
C'è ancora un "conto in sospeso". Si era ottenuto
∃y∈(a,x)(f(x) - f(a) = (x - a)⋅f’(y)),
poi in qualche modo si è eliminato il quantificatore esistenziale a favore di quel c. Il nome
è servito per fare alcuni passaggi conclusisi con
∀x∈(a,b)(f(x) = f(a)).
Ma per giustificare ora che effettivamente si è ottenuto tale asserto si deve coinvolgere il
punto di partenza provvisorio, cioè la formula con il quantificatore esistenziale:
∃y∈(a,x)(f(x) - f(a) = (x - a)⋅f’(y)).
La regola risultante ha dunque l'aspetto di una eliminazione del quantificatore esistenziale,
nella forma
[ϕ(c)]
∃y(ϕ(y))
ψ
,
(e.∃)
ψ
in cui ψ è la conclusione. In esso il risultato, ∀x∈(a,b)(f(x) = f(a)) che fa qui le veci di ψ,
non dipende più dall'ipotesi che sia c proprio un valore per cui si ha ϕ(c). Quest'ultima
regola può essere pensata come una generalizzazione della regola di eliminazione della
disgiunzione, connessa a sua volta con la dimostrazione per casi. Il quantificatore
esistenziale si può pensare come una disgiunzione, però infinita, per questo si assume il
caso "generico" ϕ(c), dato che c è un nome per il generico oggetto tale che ϕ(y), la cui
esistenza è data da ∃y(ϕ(y)).
A parte l'analisi del brano dal punto di vista delle regole logice ivi utilizzate, credo importante osservarne la complessità, che può anche giustificare eventuali difficoltà di comprensione da parte degli studenti. Un'analisi di questo tipo va fatta a priori, per graduare
meglio una valutazione sull'argomento.
2) Un ragionamento usato abbastanza frequentemente, viene qui presentato da un brano
tratto da Speranza F., Rossi Dell'Acqua A.: 1981, T - Il linguaggio della Matematica,
Zanichelli, Bologna, p. 210:
«Una successione di numeri reali diverge a +∞, allorché per ogni K∈ +0 esiste un n0
R
tale che per ogni n > n0 sia an > K. … La successione an = 2n diverge a +∞. Infatti fisK
K
sato K, per avere an > K, cioè 2n > K, ovvero n > 2 , basta prendere n0 > 2 . …».
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Qui quando si dice «fissato K», si sta facendo un'eliminazione della quantificazione
universale su K. A questo punto K è diventato una costante. Ma il significato di «basta
K
prendere n0 > » qual è? Per che cosa basta questa scelta. Si deve provare che «esiste
2
un n0 tale che per ogni n > n0 sia an > K.»
Allora se K è un numero arbitrario, ma fissato, anche n0 fissato in modo da maggiorare
K
K
2 , ad esempio n0 = Int( 2 ) + 7, è un numero arbitrario, ma fissato. La scelta è ampia,
invece di 7 avrei potuto prendere 1 o altro ancora. Una volta fatta, si ha un caso particolare
e ciò, viene detto, basta appunto per avere l'esistenza di tale n0. Lo schema è allora quello
dell'introduzione di un quantificatore esistenziale:
(i.∃)
ϕ(t)
∃x(ϕ(x)),
 K
qui il termine t è dato da Int 2  + 7 e la formula ϕ(t), che non viene esplicitamente
 

 K

scritta, ed è data da ∀n n > Int 2  + 7 → a n > K . Di qui si conclude ∃n0∀n(n >

 

n 0 → a n > K) . La dimostrazione procede poi, con l'introduzione del quantificatore
universale, sfruttando la genericità di K.
3) Non si mostrano esempi espliciti di regole in cui entra l'eguaglianza, essendo queste
le regole fondamentali del calcolo algebrico ed in generale di tutta la matematica. Qui ci si
limita ad enunciarle
(rifl.) x = x
(trans.)
x=y y=z
x=z
x=y
(simm.) y = x
(sost.)
x = y
ϕ(y)
ϕ(x)
.
La prima ha il "numeratore" vuoto perché è un assioma logico, anzi in questa presentazione è l'unico assioma logico, che non dipende da premesse. La seconda e la terza sono
modi di scrivere vecchie "conoscenze", le proprietà simmetrica e transitiva dell'eguaglianza
e, in un certo senso sono superflue. L'ultima, che è quella che si è utilizzata nella dimostrazione precedente afferma che posso sostituire a cose eguali, cose eguali, senza alterare la proprietà e riecheggia il Principio di indiscernibilità degli identici di Aristotele.
Non si verifica, in ciascuno dei casi qui illustrati ed anche nelle regole per i connettivi
del Capitolo 4, che se le premesse (le formule a numeratore) sono valide, anche le conclusioni, cioè le formule a denominatore, sono valide. Ciò si esprime dicendo che le regole
sono corrette. Di per sé le regole non affermano nulla a riguardo della verità delle con-
- 140 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
clusioni. Infatti nella dimostrazione per assurdo si assumono ipotesi da refutare, quindi
non vere, se la dimostrazione per assurdo è fatta bene. Dunque le regole non si applicano
solo quando le premesse sono valide.
Riassumendo quanto fin qui ottenuto. Anche per i quantificatori le regole di inferenza
sono di due tipi: regole di introduzione e regole di eliminazione.
ϕ(a)
∀x(ϕ(x))
(i.∀)
(i.∃)
ϕ(t)
∃x(ϕ(x))
1
(e.∀)
∀x(ϕ(x))
ϕ(t)
∃x(ϕ(x))
(e.∃)
ψ
[ϕ(a)]
ψ
Si considerano inoltre le regole per l'eguaglianza
(rifl.) x = x
(trans.)
x=y y=z
x=z
x=y
(simm.) y = x
(sost.)
x = y
ϕ(y)
ϕ(x)
.
Queste regole aggiunte al sistema minimale (intuizionista, classico) per il calcolo delle
proposizioni forniscono il sistema minimale (intuizionista, classico) per il calcolo dei
predicati.
Col sistema di Prawitz per fare le derivazioni proposizionali, si utilizzano solo le regole
proposizionali, oppure le derivazioni minimali o intuizioniste, considerando le regole, rispettivamente minimali e intuizionista. Questi aspetti non sono così chiaramente evidenti
in altri sistemi formali.
Come le regole (e.→), (e.∨) e ⊥C, anche la regola (e.∃) permette di scaricare un numero
qualsiasi, anche nullo di assunzioni della forma indicata tra parentesi quadre. Se
un'occorrenza della formula ϕ, appartenente alla derivazione, è la conclusione di una regola
d'inferenza ottenuta applicando (i.→), (e.∨), (e.∃) o ⊥ C , allora si scaricano tutte le
assunzioni della forma indicata tra le parentesi quadre a cui ϕ dipende.
Valgono poi le stesse regole date nel Capitolo 4 per indicare chiaramente quali sono le
formule scaricate ed in occasione di quali regole si scaricano. Si ripete anche in questo
contesto quanto detto in una definizione del Capitolo 4:
1 Qui, in verità, si sta modificando quanto detto in fase di introduzione della regola, qualche pagina prima. La
regola di introduzione della quantificazione è assai delicata. Negli esempi di applicazione che si possono
trovare sui manuali è difficile vedere la regola applicata scorrettamente, ma resta di difficile formulazione. Una
proposta che evita l'uso di questa lettera a di cui non si coglie se si tratta di una costante o di un'indeterminata,
Prawitz parla di parametro proprio della derivazione, fa intervenire pesantemente le sostituzioni.
- 141 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
L
DEFINIZIONE. Sia Γ un insieme di formule di . La presenza di una derivazione della proposizione ϕ le cui assunzioni non scaricate siano elementi
di Γ si indica con la scrittura Γ u ϕ; in tal caso ϕ si dice anche proposizione
deducibile da Γ.
Il caso che la proposizione ϕ non sia deducibile da Γ, si indica col simbolo
Γ u/ ϕ.
Se Γ = ∅, si scrive u ϕ e si dice che ϕ è un teorema logico. Se ϕ non è
un teorema logico si scriveu/ ϕ.
Spesso invece di parlare di insiemi di formule (più spesso di enunciati) si usa parlare di
teorie. In Matematica certi insiemi di formule giocano un ruolo assai importante: si pensi
agli assiomi dei gruppi o dell'ordine o altro ancora. In Logica non c'è modo di distinguere
quali sono gli insiemi di formule interessanti e quali no. Per questo il termine teoria è un
sinonimo di insieme di formule.
Purtroppo la semplicità del sistema per il calcolo proposizionale si perde nel caso predicativo. Questo è il motivo sostanziale per cui non si tratta esplicitamente il Calcolo dei
predicati. Ma si rifletta che tale complessità è indispensabile se il sistema sintattico deve
essere adeguato a quello semantico, come avviene nel Calcolo delle proposizioni.
Sono necessarie precisazioni pesanti, ma indispensabili, per le regole di inferenza (i.∀),
(e.∃) e (sost). Nelle regole (i.∀), (e.∃) compare la lettera a detta parametro proprio
C
dell'inferenza, con ruolo di costante individuale, pur non essendo compresa tra le costanti
di , quindi è necessario aggiungere all'insieme delle costanti individuali un nuovo
insieme di costanti, da mantenere distinte, con le quali tuttavia costruire i termini e le
formule. Quindi queste regole sono anche il modo per "eliminare" i parametri propri, la
cui introduzione è possibile solo quando si applica la regola (e.∃) ed (e.∀). Una derivazione deve sempre terminare con una formula che non contenga queste nuove costanti e le
formule da cui la derivazione dipende non devono contener tali costanti nuove, cioè
eventuali costanti nuove devono apparire solo in assunzioni scaricate.
Si chiede che per (i.∀) il parametro proprio non compaia nelle assunzioni da cui la
formula ϕ(a) dipende. In (e.∃) il parametro proprio non deve comparire in ψ né nelle assunzioni da cui ψ dipende. Più complessa è la formulazione corretta di (sost).
C'è ora un problema assai semplice da enunciare e difficile da dimostrare: ci sono altre
regole? A questa domanda si risponde banalmente di sì: si può aggiungere, ad esempio, la
regola
- 142 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
ϕ
ψ→ϕ
che fornisce anch'essa le garanzie di correttezza come le regole di cui sopra. Ma allora il
problema è se una tale regola possa essere ricavata da quelle precedenti. Anche in questo
caso la risposta è sì, come si dimostra, in parte, poco sotto. Il vero quesito è se esistono
altre regole corrette indipendenti da quelle già presentate. In questo caso la risposta è no,
ma la prova di ciò è assai complessa ed è il punto centrale del
TEOREMA DI COMPLETEZZA DEL CALCOLO DEI PREDICATI. Un enunciato
ϕ è valido sse è dimostrabile.
Il Teorema di completezza ha altre formulazioni più espressive ed applicabili, ma si usa
qui in questa enunciazione per mettere in luce che c'è una risposta positiva alla questione
posta in precedenza. In realtà più che al Calcolo dei Predicati "puro", in Matematica si è
interessati ai casi particolari di sistemi di assiomi, o teorie (= insiemi di enunciati). Ebbene
anche in tal caso si ottiene
T
TEOREMA DI COMPLETEZZA GENERALIZZATO. Sia
una teoria espressa
in un linguaggio . Sia ϕ un enunciato di ; si ha che
u ϕ sse per ogni
interpretazione A del linguaggio , se A y allora A y ϕ.
L
L
L
T
T
La dimostrazione di questo risultato e di altri profondi risultati di Logica matematica
utilizza strumenti e strategie assai complessi. Il lettore interessato alla dimostrazione dovrà
consultare testi universitari.
Per fare pratica con dimostrazioni predicative, si giustificano ora alcune forme di sillogismo di cui si è parlato in precedenza. La forma tipica con cui si presentano è quella di una
deduzione dalle premesse alla conclusione.
Teorema.
a) u µ ∀x(U(x) → M(x)), ∀x(G(x) → U(x)) u ∀x(G(x) → M(x))
(Barbara);
b) uµ ∃x(S(x) ∧ P(x)), ∀x(S(x) → I(x)) u ∃x(I(x) ∧ P(x)) (Disamis);
c) uµ ∀x(L(x) → T(x)), ∃x(P(x) ∧ ¬T(x)) u ∃x(P(x) ∧ ¬L(x)) (Baroco);
d) u µ ∀x(C(x) → A(x)) u ∀y(∃x(D(x,y) ∧ C(x)) → ∃z(D(z,y) ∧
A(z))) (De Morgan).
Dimostrazione. a) Proviamo un esempio di Barbara, sillogismo della prima figura.
- 143 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
(e.∀)
(e.→)
(e.→)
∀x(G(x) → U(x))
1
[G(a)]
∀ x(U(x) → M(x))
G(a) → U(a)
(e.∀
)
U(a)
U(a) → M(a)
M(a)
(i.→)(1)
G(a) → M(a)
(i.∀)
∀ x(G(x) → M(x))
La costante a (parametro proprio) che compare nella introduzione della quantificazione
universale non è presente nelle premesse ∀x(U(x) → M(x)), ∀x(G(x) → U(x)) da cui
dipende la formula G(a) → M(a); era presente nella assunzione G(a), scaricata con l'introduzione dell'implicazione al passo precedente. Lo scaricamento fa sì che la formula
G(a) → M(a) non dipenda più da G(a). Quindi la regola di introduzione (i.∀) è usata
correttamente. La derivazione è minimale.
b) Di si presenta la derivazione di Disamis, sillogismo della terza figura
(e.→ )
1
∀x(S(x)→ I (x))
[S(a)∧P(a)]
(e.∀)
(e.∧)
S(a)
S(a)→I(a)
I(a)
I(a)∧P(a)
(i.∧)
∃x(S(x)∧P(x)) (i.∃)
1
[S(a)∧P(a)]
(e.∧ )
P(a)
∃x(I(x)∧P(x))
∃x(I(x)∧P(x))
(e.∃)(1)
La formula finale dipende dalle assunzioni ∃x(S(x) ∧ P(x)), ∀x(S(x) → I(x)). Nella
eliminazione della quantificazione esistenziale deve essere verificata l'ipotesi che il parametro proprio qui indicato con a non deve essere presente nella conclusione ∃x(I(x) ∧
P(x)), come appunto avviene. La derivazione è minimale.
c) Questa la la derivazione del sillogismo Baroco, della seconda figura.
(e.∀)
∀x(L(x)→T(x))
(e.→)
(e.¬)
(i.¬)(1)
(e.∃)(2)
1
[L(a)]
2
[P(a)∧¬T(a)]
(e.∧ )
¬T(a)
⊥
¬L(a)
P(a)∧¬L(a)
(i.∧)
∃x(P(x)∧¬T(x)) (i.∃)
L(a)→T(a)
T(a)
2
[P(a)∧¬T(a)]
(e.∧ )
P(a)
∃x(P(x)∧¬L(x))
∃x(P(x)∧¬L(x))
Anche in questo caso si ha una derivazione minimale. Si può osservare che la regola che
impone più condizioni, la regola di eliminazione della quantificazione esistenziale, è
applicata correttamente.
d) Veniamo infine alla dimostrazione dell'argomento di De Morgan.
- 144 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
(e,→)
2
(i.∃)
[∃x(D(x,y)∧C(x))]
(e.∃)(1)
1
[D(a,y)∧C(a)]
∀x(C(x)→A(x))
(e.∧)
(e.∀)
C(a)
C(a)→A(a)
A(a)
D(a,y)∧A(a)
(i.∧)
1
[D(a,y)∧C(a)]
(e.∧ )
D(a,y)
∃z(D(z,y)∧A(z))
(i.→)(2)
(i.∀)
∃z(D(z,y)∧A(z))
∃x(D(x,y)∧C(x))→∃z(D(z,y)∧A(z))
∀y(∃x(D(x,y)∧C(x))→∃z(D(z,y)∧A(z)))
Anche in questo caso le regole "delicate", quella di introduzione della quantificazione
universale e dell'eliminazione dell'esistenziale, sono applicate correttamente, in quanto le
variabili coinvolte non sono presenti nelle ipotesi da cui dipendono. Anche questa derivazione è minimale.
Un altro risultato è dimostrare che l'equivalenza o implicazione logica di alcune formule
dimostrate in un teorema del Capitolo 7 si possono sostituire con le corrispondenti
relazioni sintattiche:
LA
TEOREMA. Siano ϕ(x),ψ(x)∈
(X) si ha
a) u (∀x(ϕ(x)) ∧ ∀x(ψ(x)) ↔∀x(ϕ(x)∧ψ(x));
b) (∀x(ϕ(x)) ∨ ∀x(ψ(x)) u ∀x(ϕ(x) ∨ ψ(x));
c) u ∃x(ϕ(x) ∨ ψ(x)) ↔ (∃x(ϕ(x) ∨ ∃x(ϕ(x));
d) ∃x(ϕ(x) ∧ ψ(x)) u (∃x(ϕ(x) ∧ ∃x(ϕ(x));
e) u ∀x(ϕ(x) → ψ) ↔ (∃x(ϕ(x)) → ψ), purché x∉Lib(ψ);
f) u ∀x(ψ → ϕ(x)) ↔ (ψ → ∀x(ϕ(x))), purché x∉Lib(ψ);
g) u ∃x(ϕ(x) → ψ) ↔ (∀x(ϕ(x)) → ψ), purché x∉Lib(ψ);
h) u ∃x(ψ → ϕ(x)) ↔ (ψ → ∃x(ϕ(x))), purché x∉Lib(ψ).
i) ∃x∀y(ϑ(x,y)) u ∀y∃x(ϑ(x,y)).
Dimostrazione.
a) ***
Dopo aver "preso la mano" con semplici derivazioni logiche, è abbastanza semplice cimentarsi nella derivazione di qualche risultato matematico. Due esempi in ambiti diversi: il
prodotto di due numeri naturali dispari è dispari e la proprietà transitiva dell'inclusione
propria, evidenziando, oltre alle regole logiche utilizzate, anche le assunzioni aritmetiche ed
insiemistiche coinvolte nelle derivazioni.
Si vuole provare u ∀x,y(∃u,v(x = (2u+1) ∧ y = (2v+1)) → ∃w(x·y = (2w+1))
- 145 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
u ∀x,y((2x+1)⋅(2y+1) = 2[x(2y+1)+y]+1). Per motivi di spazio, si usano caratteri
tipografici più piccoli, sperando di non perdere in leggibilità. Tuttavia, sempre per motivi
tipografici, la derivazione viene presentata a pezzi.
(e.∀)
[1]
(sost)
[2]
(e.∀)
∀ x,y,z((x+y)⋅z=x⋅z+y⋅z )
(2x+1)⋅(2y+1)=2x⋅(2y+1)+1⋅(2y+1)
(e.∀ )
∀x(1⋅x=x)
1⋅(2y+1)=(2y+1)
(2x+1)⋅(2y+1)=2x⋅(2y+1)+(2y+1)
∀x,y,z(x+(y+z)=(x+y)+z)
2x⋅(2y+1)+(2y+1)=[2x⋅(2y+1)+2y]+1
combinando [1] e [2] si ha
[3]
(sost)
(2x+1)⋅(2y+1)=2x⋅(2y+1)+(2y+1) 2x⋅(2y+1)+(2y+1)=[2x⋅(2y+1)+2y]+1
(2x+1)⋅(2y+1)=[2x⋅(2y+1)+2y]+1
inoltre
[4]
(e.∀)
∀ x,y,z(x⋅y+x⋅z=x⋅(y+z))
2x⋅(2y+1)+2y=2⋅[x⋅(2y+1)+y]
combinando [3] e [4] si ha
(sost)
(2x+1)⋅(2y+1)=[2x⋅(2y+1)+2y]+1 2x⋅(2y+1)+2y=2⋅[x⋅(2y+1)+y]
(i.∀ )
(2x+1)⋅(2y+1)=2⋅[x⋅(2y+1)+y]+1
∀x,y((2x+1)⋅(2y+1)=2⋅[x⋅(2y+1)+y]+1)
In questa dimostrazione si è utilizzato, nell'ordine, la distributiva del prodotto rispetto
all'addizione, il fatto che 1 è elemento neutro a sinistra per la moltiplicazione, l'associativa
dell'addizione, un'altra distributiva. Le regole logiche sono date dall'eliminazione del
quantificatore universale, la sostituzione, applicate più volte e alla fine l'introduzione del
quantificatore universale, tutte regole mediante le quali non si scaricano ipotesi. Si vede
così che l'ultima formula è derivabile assumendo gli assiomi dell'aritmetica, è cioè un teorema aritmetico. Forse ci si può stupire che un fatto così semplice richieda una prova abbastanza complessa. Ma forse è l'abitudine ad accontentarsi di qualche esempio, un'argomentazione quindi: 3⋅5 = 15, 7⋅9 = 63, ecc. che convince della correttezza della
formula, ma non della sua dimostrazione!
La dimostrazioni della stessa proprietà con sistemi di Hilbert è assai più "lunga".
Si prova ora la proprietà transitiva dell'inclusione propria tra classi: u ∀X,Y,Z(X ⊂ Y ∧ Y
⊂ Z → X ⊂ Z). Questo risultato discende dalla definizione di inclusione stretta: X ⊂ Y sse
X ⊆ Y ∧ X ≠ Y e dal teorema che stabilisce la proprietà transitiva dell'inclusione: u ∀X,Y,Z(X
⊆ Y ∧ Y ⊆ Z → X ⊆ Z). Sempre per motivi di spazio si spezza la derivazione: si prova
- 146 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
[1]
A
⊂B∧B⊂C
. Infatti si ha
A⊆ C
A⊂B∧B⊂C
A⊂B∧B⊂C
(E.∧)
A⊂B
B⊂C
(def)
(def)
A⊆B∧A≠B
B⊆C∧B≠C
(E.∧)
(E.∧)
A⊆B
B⊆C
∀ X ,Y ,Z ( X ⊆ Y ∧ Y ⊆ Z → X ⊆ Z )
(i.∧)
(e.∀)
A⊆B∧B⊆C
A⊆B∧B⊆C→A⊆C
(e.→)
.
A⊆C
A⊂B∧B⊂C A= C
Si prova poi [2] A ⊆ B ∧ B ⊆ A
. Infatti
(e.∧)
⊂ B∧ B⊂ C
A⊂ B∧ B⊂ C
(e.∧)
A ⊂ B
B⊂ C
(def)
(def)
A⊆ B∧ A≠ B
B⊆ C∧ B≠ C
(e.∧)
(e.∧)
A ⊆ B
B⊆ C
(i.∧)
A= C
A ⊆ B ∧ B ⊆ C
.
(sost)
A ⊆ B ∧ B ⊆ A
A
(e.∧)
Utilizzando [2] si prova [3]
A
⊂B∧B⊂C
.
A ≠ C
A⊂B∧B⊂C
1
A⊂B ∧ B⊂C
A⊂B
∀X,Y(X⊆Y∧Y⊆X→X=Y)
[A=C]
[2]
(e.∀)
A⊆B∧B⊆A→A=B
A⊆B∧A≠B
A⊆B ∧ B⊆A
(e.→ )
A=B
A≠B
(e.→)
(def)
(e.∧)
⊥
(e.¬)
(i.¬)(1)
A≠C
Combinando quanto provato sopra si ha l'asserto:
2
[1]
(i.∧)
(i;→)(2)
[A
2
⊂ B ∧ B ⊂ C]
[A ⊂ B ∧ B ⊂ C ]
[3]
A⊆ C
A ≠ C
A⊆ C∧ A≠ C
(def.)
A⊂ C
A ⊂ B ∧ B ⊂ C → A ⊂ C
(i.∀) ∀ X ,Y ,Z (X ⊂ Y ∧ Y ⊂ Z → X ⊂ Z )
Queste dimostrazioni forniscono esempio di come sia possibile, con un numero finito
di passi, garantire che una formula sia conseguenza logica di un certo insieme di formule,
in questo caso degli assiomi dell'Aritmetica o della Teoria degli Insiemi, senza per questo
andare a verificare che in ogni interpretazione del linguaggio dell'Aritmetica, in cui siano
veri gli assiomi di tale teoria, anche la formula data è vera. In questo senso si è cercato di
dare un carattere più effettivo ad una verifica che può non esserlo.
- 147 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Spesso nella prassi didattica c'è bisogno di negare formule con quantificatori. In tal
caso si "sposta" la negazione all'interno della quantificazione, scambiando però il quantificatore universale con il quantificatore esistenziale e viceversa. Questa equivalenza è ben
nota, forse meno nota è la dimostrazione di queste proprietà.
LA
TEOREMA. Sia ϕ∈
(X), si ha:
(1.a) u ¬∀x(ϕ(x)) → ∃x(¬ϕ(x)); (1.b) uµ ∃x(¬ϕ(x)) → ¬∀x(ϕ(x));
(1)
u ¬∀x(ϕ(x)) ↔ ∃x(¬ϕ(x)) (legge di De Morgan);
(2.a) uµ ¬∃x(ϕ(x)) → ∀x(¬ϕ(x)); (2.b) uµ ∀x(¬ϕ(x)) → ¬∃x(ϕ(x));
(2)
uµ ¬∃x(ϕ(x)) ↔ ∀x(¬ϕ(x)) (legge di De Morgan);
Dimostrazione.
¬∀x(ϕ(x))
(1) La prima parte (1.a) [1] ∃x(¬ϕ(x)) , da cui si ricava (1.a) ha una derivazione clas-
∃x(¬ϕ(x))
sica. la seconda parte (1.b) [2] ¬∀x(ϕ(x)), da cui si ottiene (1.b) ha una derivazione minimale. Si ha
1
[(¬ϕ(a))]
[¬∃x(¬ϕ(x))] (i.∃)∃x(¬ϕ(x))
(e.¬)
⊥
(⊥c)(1)
(ϕ(a))
(i.∀)
∀x(ϕ(x))
¬∀x(ϕ(x))
(e.¬)
⊥
(⊥c)(2) ∃x(¬ϕ(x))
2
Si osservi che la regola (i.∃) è applicata correttamente.
4
[∀x(ϕ(x))]
[(¬ϕ(a))] (e.∀) (ϕ(a))
∃x(¬ϕ(x)) (e.¬)
⊥
(e.∃)(3)
⊥
(i.¬)(4)
,
¬∀x(ϕ(x))
3
in cui si applica correttamente la regola (e.∃).Combinando le due derivazioni si ha
5
5
[¬∀x(ϕ(x))]
[∃x(¬ϕ(x))]
[1]
[2]
∃x(¬ϕ(x))
¬∀x(ϕ(x))
(i.↔)(5)
.
¬∀x(ϕ(x))↔∃x(¬ϕ(x))
- 148 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
(2) Ha una derivazione minimale. Dal ramo sinistro si ricava la derivazione di (2.a), da
quello destro la derivazione di (2.b):
1
4
[(ϕ(a))]
(i.∃)
2
[∀x(¬ϕ(x))]
[¬∃x(ϕ(x))]
∃x(ϕ(x))
[(ϕ(a))] (e.∀) ¬ϕ(a)
(e.¬)
3
⊥
(e.¬)
[∃x(ϕ(x))]
(i.¬)(1)
⊥
¬ϕ(a)
(e.∃)( 2 )
(i.∀)
⊥
∀x(¬ϕ(x))
(i.¬)(3)
¬∃x(ϕ(x))
(i.↔)(4)
∀x(¬ϕ(x)) ↔ ¬∃x(ϕ(x))
4
Può dunque stupire il fatto che la negazione di un quantificatore esistenziale dia luogo
ad un quantificatore universale solo utilizzando il sistema minimale, mentre scambiando i
ruoli dei quantificatori è necessario il sistema classico.
La negazione della quantificazione relativizzata segue le stesse regole: la negazione di
un universale relativizzato è ottenuta da un quantificatore esistenziale relativizzato seguito
dalla negazione della formula. Invece di ragionare in astratto si consideri, ad esempio, la
definizione di continuità di una funzione f in x0 espressa dalla formula
∀ε>0 ∃δ>0 ∀x(|x - x0| ≤ δ → |f(x) - f(x0)| ≤ ε).
Esplicitando le relativizzazioni si ha
∀ε(ε>0 → ∃δ(δ>0 ∧ ∀x(|x - x0| ≤ δ → |f(x) - f(x0)| ≤ ε))).
Questa è la formula da negare. Qui si tiene conto di come opera la negazione sui quantificatori, ma anche delle proprietà della negazione rispetto al connettivo di implicazione e
di congiunzione, viste in un Teorema del Capitolo 4, facendo i vari passaggi che utilizzano
dimostrazioni precedenti
∃ε(ε>0 ∧ ¬∃δ(δ>0 ∧ ∀x(|x - x0| ≤ δ → |f(x) - f(x0)| ≤ ε)));
∃ε(ε>0 ∧ ∀δ(¬(δ>0) ∨ ¬∀x(|x - x0| ≤ δ → |f(x) - f(x0)| ≤ ε)));
∃ε(ε>0 ∧ ∀δ(δ>0 → ∃x(|x - x0| ≤ δ ∧ ¬(|f(x) - f(x0)| ≤ ε)));
Reintroducendo le quantificazioni relativizzate si ha
∃ε>0 ∀δ>0 ∃x(|x - x0| ≤ δ ∧ ¬(|f(x) - f(x0)| ≤ ε)).
Nel caso della quantificazione esistenziale unica la negazione è abbastanza complessa.
Infatti ci sono due forme equivalenti della quantificazione esistenziale. Si ha infatti:
- 149 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
∃!x(ϕ(x)) sta per ∃x(ϕ(x) ∧ ∀z(ϕ(z) → x = z));
∃!x(ϕ(x)) sta per ∃x(ϕ(x)) ∧ ∀y∀z(ϕ(y) ∧ ϕ(z) → y = z).
È lecito assumere indifferentemente l'una o l'altra di queste formule in quanto si ha
uµ ∃x(ϕ(x) ∧ ∀z(ϕ(z) → x = z)) ↔ (∃x(ϕ(x)) ∧ ∀y∀z(ϕ(y) ∧ ϕ(z) → y = z)).
La dimostrazione, data la sua complessità, si spezza in varie parti: si prova che
ϕ(a)∧∀z(ϕ(z)→a=z)
[1] ∀y∀z(ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z):
1
1
ϕ(a)∧∀z(ϕ(z)→a=z)
[ϕ(y)∧ϕ(z)]
ϕ(a)∧∀z(ϕ(z)→a=z)
[ϕ(y)∧ϕ(z)]
(e,∧)
(e,∧ )
(e,∧)
(e,∧ )
∀z(ϕ(z)→a=z)
ϕ(y)
∀z(ϕ(z)→a=z)
ϕ(z)
(e.∀)
(e.∀)
ϕ(y)→a=y
ϕ(z)→a=z
(e,→)
(e,→)
a=y
a=z
(simm)
y=a
(trans)
y=z
(i,→)(1)
ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z
(i,∀)
∀y∀z(ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z)
Poi si prova in modo semplice [2]
ϕ(a)∧∀z(ϕ(z)→a=z)
:
∃x(ϕ(x))
ϕ(a)∧∀z(ϕ(z)→a=z)
(e,∧)
.
ϕ(a)
(i,∃)∃x(ϕ(x))
∃x(ϕ(x)∧∀z(ϕ(z)→x=z))
Di qui si ottiene [3] ∃x(ϕ(x)) ∧ ∀y∀z(ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z). Infatti
2
2
[ϕ(a)∧∀z(ϕ(z)→a=z)]
[ϕ(a)∧∀z(ϕ(z)→a=z)]
[2]
[1 ]
∃x(ϕ(x))
∀y∀z(ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z)
∃x(ϕ(x)∧∀z(ϕ(z)→x=z)) (i,∧)
∃x(ϕ(x))∧∀y∀z(ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z)
(e,∃)(2)
∃x(ϕ(x))∧∀y∀z(ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z)
ϕ∧ψ → ϑ
Per continuare c'è bisogno della legge di esportazione: ϕ→(ψ→ϑ) per la cui
dimostrazione si rimanda a pag. 59.
Con
questa
proprietà
proposizionale
si
prova
[4]
∃x(ϕ(x))∧∀y∀z(ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z)
∀z(ϕ(z)→a=z)
- 150 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
∃x(ϕ(x))∧∀y∀z(ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z)
∀y∀z(ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z)
(e,∀)
ϕ(a)∧ϕ(z)→a=z
(esport)
∃x(ϕ(x))∧∀y∀z(ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z)
ϕ(a)→(ϕ(z)→a=z)
(e,∧)
(e,→)
∃x(ϕ(x))
ϕ(z)→a=z
(e,∃)(3)
ϕ(z)→a=z
(i,∀)
∀z(ϕ(z)→a=z)
(e,∧)
ed anche [5]
3
[ϕ(a)]
∃x(ϕ(x))∧∀y∀z(ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z)
:
ϕ(a)
∃x(ϕ(x))∧∀y∀z(ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z)
4
[ϕ(a)]
∃x(ϕ(x))
.
ϕ(a)
∃x(ϕ(x))∧∀y∀z(ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z)
Assemblando i vari pezzi si ottiene [6]
:
∃x(ϕ(x)∧∀z(ϕ(z)→x=z))
(e,∧)
(e,∃)(4)
[5]
(i,∧)
∃x(ϕ(x))∧∀y∀z(ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z)
∃x(ϕ(x))∧∀y∀z(ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z)
[4]
ϕ(a)
∀z(ϕ(z)→a=z)
ϕ(a)∧∀z(ϕ(z)→a=z)
(i,∃)∃x(ϕ(x)∧∀z(ϕ(z)→x=z))
Si ottiene alla fine la derivazione (minimale)
5
5
[∃x(ϕ(x)∧∀z(ϕ(z)→x=z))]
[∃x(ϕ(x))∧∀y∀z(ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z)]
[3]
[6]
∃x(ϕ(x)) ∧ ∀y∀z(ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z)
∃x(ϕ(x)∧∀z(ϕ(z)→x=z))
(i,↔ )(5)
∃x(ϕ(x)∧∀z(ϕ(z)→x=z)) ↔ (∃x(ϕ(x))∧∀y∀z(ϕ(y)∧ϕ(z)→y=z))
Avendo provato l'equivalenza delle due forme di quantificazione esistenziale unica, la
negazione di entrambe fornisce due forme logicamente e sintatticamente equivalenti. La
negazione di ∃x(ϕ(x) ∧ ∀z(ϕ(z) → x = z)) è data da ∀x(¬ϕ(x) ∨ ∃z(ϕ(z) ∧ x ≠ z)), che
a sua volta può essere scritta come ∀x(ϕ(x) → ∃z(ϕ(z) ∧ x ≠ z)). La negazione della seconda forma ∃x(ϕ(x)) ∧ ∀y∀z(ϕ(y) ∧ ϕ(z) → y = z) diviene ∀x(¬ϕ(x)) ∨ ∃y∃z(ϕ(y)
∧ ϕ(z) ∧ y ≠ z). Non si ridimostra l'equivalenza di queste due formule, negazione di
formule equivalenti.
Piuttosto si consideri che in Geometria euclidea vi sono alcune affermazioni che sotto
forma di postuulati o teoremi presentano una quantificazione esistenziale unica: per due
punti distinti passa una ed una sola retta e, in particolare, l'affermazione che spesso viene
presentata come postulato delle parallele di Euclide, ma di Euclide non è: data una retta ed
un punto fuori di essa esiste una ed una sola retta parallela alla retta data. In simboli
- 151 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
∀r∀x(x∉r → ∃!s(x∈s ∧ r/ s)) 1 .
Come detto sopra si può esplicitare il quantificatore esistenziale unico in due modi,
scrivendo
∀r∀x(x∉r → ∃s(x∈s ∧ r/ s ∧ ∀s’(x∈s’ ∧ r/ s’ → s = s’));
∀r∀x(x∉r → (∃s(x∈s ∧ r/ s) ∧ ∀s’∀s”((x∈s’ ∧ r/ s’) ∧ (x∈s” ∧ r/ s”) → s’ = s”))).
La negazione del postulato diviene allora
∃r∃x(x∉r ∧ ∀s((x∈s ∧ r/ s) → ∃s’(x∈s’ ∧ r/ s’ ∧ s ≠ s’));
∃r∃x(x∉r ∧ (∀s(x∈s ∧ ¬(r/ s)) ∨ ∃s’∃s”((x∈s’ ∧ r/ s’) ∧ (x∈s” ∧ r/ s”) ∧ s’ ≠ s”))).
La negazione del postulato, nella prima forma, sembra affermare che esistano due paralelle distinte alla retta r. Nella seconda forma si ha una disgiunzione: o non esiste alcuna
parallela, oppure ne esistono almeno due distinte (e quindi infinite). È ben noto che sono
possibili due tipi di Geometrie non euclidee, la Geometria ellittica, quella in cui non
esistono rette parallele ad una retta data e la Geometria iperbolica in cui esistono infinite
rette parallele alla retta data.
Queste due possibilità non appaiono così chiaramente se si nega l'assioma delle parallele nella prima forma.
Avendo a disposizione gli strumenti sintattici si possono analizzare le dimostrazioni
presentate dai testi per valutarle didatticamente e nel contempo per avere uno strumento di
valutazione degli allievi. La complessità spesso viene saltata, come con un corto cirtuito,
dal docente o dal testo che ritiene ovvi certi passaggi, soprattutto in connessione con negazione e quantificatori. Si può dubitare che i passaggi siano "ovvi" per gli studenti. Ciò
avviene spesso con la negazione della quantificazione indispensabile, ad esempio nelle
dimostrazioni per assurdo. Un esempio è dato da un brano già utilizzato: Speranza F.,
Rossi Dell'Acqua A.: 1988, Il Linguaggio della Matematica, 2ª ed., Zanichelli, Bologna ,
p. 996:
1 In questa come altre proprietà geometriche che vengono trattate si usa il linguaggio insiemistico. Ciò può
sembrare in contraddizione con quanto affermato a pag. 113. Il significato del simbolo ∈ in contesto
geometrico è quello di incidenza, cioè il fatto che la retta "passi" per il punto. Nel seguito, per brevità, invece di
scrivere x∈r ∧ x∈s, col significato detto sopra, si abbrevia scrivendo x∈(r∩s).
Questa ambiguità forse chiarisce una delle difficoltà dell'insegnamento-apprendimento della Geometria. Si
rifletta poi che nella geometria piana si devono utilizzare almeno due sorte diverse di variabili, "punti" e "rette".
Anzi poi la trattazione si complica con "angoli", "segmenti", "poligoni", eccetera.
La presenza di un modello semplice e suggestivo, quello offerto dal disegno, permette di facilitare le
trattazioni, ma come mostra quanto segue, talora nasconde la difficoltà.
- 152 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
«teorema 1. Due rette distinte hanno al massimo un punto in comune (cioè non ne
hanno alcuno o ne hanno uno solo).
Naturalmente si ammette che valga l'assioma A. Per ricordare questo fatto si potrebbe
dire così: se vale l'assioma A, due rette distinte hanno al più un punto in comune.
Dimostrazione. Immaginiamo che l'affermazione non sia vera, cioè che vi siano due
rette distinte che hanno due (o più) punti comuni, diciamo A, B. Allora A, B (che sono
distinti) apparterrebbero a due rette distinte, contro l'assioma A.
Dunque l'ipotesi che due rette distinte abbiano più di un punto in comune contrasta con
l'assioma A, ed è quindi da respingere.»
Si segue il suggerimento del testo, vale a dire di considerare due sorte diverse: quella dei
punti, denotati con lettere maiuscole e quella delle rette, distinte da essi perché denotate
con lettere minuscole. L'asserto da provare può essere formalizzato nei seguenti modi
equivalenti, tra l'altro suggeriti dal testo, mettendo in evidenza la "traduzione"
dell'implicazione mediante negazione e disgiunzione,
∀r,s(r ≠ s → (∃X(X∈r ∧ X∈s) → ∀Y,Z((Y∈r ∧ Y∈s) ∧ (Z∈r ∧ Z∈s) → Y = Z)));
∀r,s(r ≠ s → (¬∃X(X∈r ∧ X∈s) ∨ ∀Y,Z((Y∈r ∧ Y∈s) ∧ (Z∈r ∧ Z∈s) → Y = Z))).
La negazione di entrambe, assunta come ipotesi assurda, è data da
∃r,s(r ≠ s ∧ (∃X(X∈r ∧ X∈s) ∧ ∃Y,Z((Y∈r ∧ Y∈s) ∧ (Z∈r ∧ Z∈s) ∧ Y ≠ Z))).
L'assioma A richiamato stabilisce che esiste una unica retta che congiunge due punti
distinti. Questa affermazione può essere formalizzata dalla seguente
∀X,Y(X ≠ Y → (∃r(X∈r ∧ Y∈r) ∧ ∀s∀s’((X∈s ∧ y∈s) ∧ (X∈s’ ∧ Y∈s’) → s = s’))).
La negazione di A diviene
∃X,Y(X ≠ Y ∧ (∀r(X∉r ∨ Y∉r) ∨ ∃s∃s’((X∈s ∧ Y∈s) ∧ (X∈s’ ∧ Y∈s’) ∧ s ≠ s’))).
Il testo suggerisce che dalla negazione della tesi, si ha la negazione dell'assioma A. Ciò va
dimostrato e non è evidente. Una dimostrazione di questo tipo richiede dunque passaggi
sintattici non banali che qui si riportano per mostrare al lettore quanto poco evidente sia il
passaggio dato invece per scontato dal testo con un tipico "corto circuito" favorito
dall'intuizione geometrico-visuale a scapito di quella logica.
Un primo risultato che serve è mostrare che la negazione della tesi si può semplificare:
u µ ∃r,s(r≠s ∧ (∃X(X∈r∧X∈s) ∧ ∃Y,Z((Y∈r∧Y∈s) ∧ (Z∈r∧Z∈s) ∧ Y≠Z))) ↔
∃r,s(r≠s ∧ ∃Y,Z((Y∈r∧Y∈s) ∧ (Z∈r∧Z∈s) ∧ Y≠Z))). Per brevità si ponga ϕ(X,r,s)
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
per X∈r∧X∈s e Φ(r,s) per ∃Y,Z(ϕ(Y,r,s) ∧ ϕ(Z,r,s) ∧ Y≠Z)). L'enunciato da provare
diviene
u µ ∃r,s(r≠s ∧ ∃X(ϕ(X,r,s)) ∧ ∃Y,Z(ϕ(Y,r,s) ∧ ϕ(Z,r,s) ∧ Y≠Z)) ↔ ∃r,s(r≠s ∧
∃Y,Z(ϕ(Y,r,s) ∧ ϕ(Z,r,s) ∧ Y≠Z)).
Con un'ulteriore abbreviazione, Φ(r,s) per ∃Y,Z(ϕ(Y,r,s) ∧ ϕ(Z,r,s) ∧ Y≠Z)) si prova
uµ ∃r,s(r≠s ∧ ∃X(ϕ(X,r,s)) ∧ Φ(r,s)) ↔ ∃r,s(r≠s ∧ Φ(r,s))
Con una certa "disinvoltura" dimostrativa si ha, spezzando in varie parti
∃r,s(r≠s ∧ ∃X(ϕ(X,r,s)) ∧ Φ(r,s))
[1]
:
∃r,s(r≠s ∧ Φ(r,s))
1
[a≠b∧∃X(ϕ(X,a,b))∧Φ(a,b)]
∃r,s(r≠s∧∃X(ϕ(X,r,s))∧Φ(r,s)) (e.∧)
a≠b∧Φ(a,b)
(e.∃)(1)
a≠b ∧ Φ(a,b)
(i.∃)∃r,s(r≠s ∧ Φ(r,s))
∃r,s(r≠s ∧ Φ(r,s))
Si prova poi [2] ∃r,s(r≠s ∧ ∃X(ϕ(X,r,s)) ∧ Φ(r,s)) . Questo risultato si ottiene provando
a≠b∧Φ(a,b)
prima [3] ∃X(ϕ(X,a,b)) , utilizzando esplicitamente la definizione di Φ(a,b)
2
[ϕ(c,a,b)∧ϕ(d,a,b)∧c≠d]
a≠b∧∃Y,Z(ϕ(Y,a,b)∧ϕ(Z,a,b)∧Y≠Z) (e.∧)
ϕ(c,a,b)
(e.∧) ∃Y,Z(ϕ(Y,a,b)∧ϕ(Z,a,b)∧Y≠Z)
(i,∃)∃X(ϕ(X,a,b))
(e,∃)(2)
∃X(ϕ(X,a,b))
a≠b∧Φ(a,b)
Si ottiene poi [4] a≠b ∧ ∃X(ϕ(X,a,b)) ∧ Φ(a,b) :
a≠b∧Φ(a,b) a≠b∧Φ(a,b)
a≠b∧Φ(a,b)
(e.∧) a ≠ b
[3]∃X(ϕ(X,a,b)) (e.∧) Φ(a,b)
.
(i.∧)
a≠b∧∃X(ϕ(X,a,b))∧Φ(a,b)
Di qui si ha
3
[a≠b∧Φ(a,b)]
∃r,s(r≠s ∧ Φ(r,s)) [4]
a≠b ∧ ∃X(ϕ(X,a,b)) ∧ Φ(a,b)
[2] (e.∃)(3)
.
a≠b ∧ ∃X(ϕ(X,a,b)) ∧ Φ(a,b)
(i.∃) ∃r,s(r≠s ∧ ∃X(ϕ(X,r,s)) ∧ Φ(r,s))
Si conclude ora l'asserto in quanto si ha
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
4
4
[∃r,s(r≠s ∧ ∃X(ϕ(X,r,s)) ∧ Φ(r,s))]
[∃r,s(r≠s ∧ Φ(r,s))]
[1]
[2]
∃r,s(r≠s ∧ Φ(r,s))
∃r,s(r≠s ∧ ∃X(ϕ(X,r,s)) ∧ Φ(r,s))
(i.↔)(4)
.
∃r,s(r≠s ∧ ∃X(ϕ(X,r,s)) ∧ Φ(r,s)) ↔ ∃r,s(r≠s ∧ Φ(r,s))
Fin qui si è provato solamente che la negazione della tesi può essere scritta in modo più
semplice, passaggio che è adombrato dal testo che parla di due punti A e B distinti per i
quali dovrebbero passare due rette distinte.
Si prova ora ∃r,s(r ≠ s ∧ ∃Y,Z(Y∈r ∧ Y∈s ∧ Z∈r ∧ Z∈s ∧ Y≠Z)) u ∃X,Y(X ≠ Y ∧
(∀r(X∉r ∨ Y∉r) ∨ ∃s∃s’((X∈s ∧ Y∈s) ∧ (X∈s’ ∧ Y∈s’) ∧ s ≠ s’))). Introducendo di
nuovo le abbreviazioni precedenti e ponendo ψ(X,Y,r) per X∈r ∧ Y∈r, si deve provare
∃r,s(r ≠ s ∧ Φ(r,s)) uµ ∃X,Y(X ≠ Y ∧ (∀r(¬ψ(X,Y,r)) ∨ ∃s∃s’(ψ(X,Y,s) ∧ ψ(X,Y,s’) ∧
s ≠ s’))). Anche questa dimostrazione viene presentata, per motivi tipografici, suddivisa in
a≠b ∧ Φ(a,b)
varie parti. Si prova dapprima [1] ψ(C,D,a)∧ψ(C,D,b),
1
a≠b ∧ Φ(a,b)
[C∈a∧C∈b∧D∈a∧D∈b∧C≠D]
(e.∧)
(e.∧ )
∃Y,Z(Y∈a∧Y∈b∧Z∈a∧Z∈b∧Y≠Z)
C∈a∧D∈a∧C∈b∧D∈b
(e.∃)(1)
ψ(C,D,a)∧ψ(C,D,b)
a≠b ∧ Φ(a,b)
Si ha di qui [2] ∀Z(¬ψ(Z,D,a)) ∨ ∃s,s’(ψ(C,D,s)∧ψ(C,D,s’)∧s≠s’) :
a≠b∧Φ(a,b)
a≠b ∧ Φ(a,b)
[1]
a≠b
ψ(C,D,a)∧ψ(C,D,b)
(i.∧)
ψ(C,D,a) ∧ ψ(C,D,b) ∧ a ≠ b
(i.∃)
∃s,s’(ψ(C,D,s) ∧ ψ(C,D,s’) ∧ s≠s’)
(i.∨)
∀Z(¬ψ(Z,D,a)) ∨ ∃s,s’(ψ(C,D,s)∧ψ(C,D,s’)∧s≠s’)
(e.∧)
In modo abbastanza analogo a [1] si prova [3]
a ≠ b ∧ Φ(a,b)
:
C≠D
2
a≠b ∧ Φ(a,b)
[C∈a∧C∈b∧D∈a∧D∈b∧C≠D]
(e.∧)
(e.∧ )
∃Y,Z(Y∈a∧Y∈b∧Z∈a∧Z∈b∧Y≠Z)
C≠D
(e.∃)(2)
C≠D
a≠b ∧ Φ(a,b)
Si ha pertanto [4] ∃X,Y(X≠Y ∧ (∀Z(¬ψ(Z,D,a)) ∨ ∃s,s’(ψ(C,D,s)∧ψ(C,D,s’)∧s≠s’))):
[3]
(i.∧)
a ≠ b ∧ Φ (a,b)
a≠b ∧ Φ(a,b)
[2]
C ≠ D
∀Z(¬ψ(Z,D,a))∨∃s,s’(ψ(C,D,s)∧ψ(C,D,s’)∧s≠s’)
C≠D∧(∀Z(¬ψ(Z,Y,a))∨∃s,s’(ψ(C,D,s)∧ψ(C,D,s’)∧s≠s’))
(i.∃ )
∃X,Y(X≠Y∧(∀Z(¬ψ(Z,Y,a))∨∃s,s’(ψ(X,Y,s)∧ψ(X,Y,s’)∧s≠s’)))
Si ha infine l'asserto
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[a≠b∧Φ(a,b)]
∃r,s(r ≠ s ∧ Φ(r,s)) [ 4 ]
∃X,Y(X≠Y∧(∀Z(¬ψ(Z,Y,a))∨∃s,s’(ψ(X,Y,s)∧ψ(X,Y,s’)∧s≠s’)))
(e.∃) (3)
∃X,Y(X≠Y∧(∀Z(¬ψ(Z,Y,a))∨∃s,s’(ψ(X,Y,s)∧ψ(X,Y,s’)∧s≠s’)))
Come si vede da questa analisi, anche se si tratta di derivazioni nel sistema minimale,
non si può certo affermare che si tratta di semplici passaggi. Come ripetuto prima, il
contesto geometrico permette delle scorciatoie, meglio corto circuiti, ma non è
assolutamente detto che l'allievo, nella dimostrazione del teorema 1 sia in grado di cogliere
da subito tali scorciatoie.
Un ulteriore punto è che il linguaggio usato dal teso in esame vuole provare un teorema,
quindi muovendosi in ambito sintattico, facendo costante il rimando alla semantica: «valga
l'assioma», «Immaginiamo che l'affermazione non sia vera», riferita ad un'interpretazione
della teoria non specificata. Forse è quella del disegno; forse è altro.
Un'analoga situazione si trova in testi in cui si utilizza il principio di induzione come
strumento dimostrativo. Talora invece di assumere (come ipotesi) l'ipotesi induttiva si suppone la verità dell'ipotesi induttiva.
Ma, per chiarire, in generale, data una teoria , spesso nata dalla considerazione di una
situazione specifica, essa non ha un unico modello (Teoremi di Löwenheim-Skolem) e la
verità di un enunciato in un'interpretazione, ad esempio in quella "intesa" non è sufficiente
per concludere della conseguenza logica, vale a dire della validità dell'enunciato in ogni
modello della teoria. Questa è proprio la situazione adombrata dal Teorema di Incompletezza dell'Aritmetica di Gödel e dal Teorema di Tarski sull'Aritmetica. Quindi verità e dimostrabilità sono concetti distinti e non è corretto usarli come sinonimi. Se l'insegnante e
il testo sono accurati nell'uso di un linguaggio appropriato, forse anche gli allievi riescono
ad avere idee chiare su questi aspetti fondamentali.
T
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