11-Raddino (50-54) - Giornale Italiano di Cardiologia

CARDIOPATIA ISCHEMICA
Nuovi approcci farmacologici nella cardiopatia ischemica
Riccardo Raddino, Paolo Della Pina, Elio Gorga, Giulio Brambilla, Valentina Regazzoni,
Mara Gavazzoni, Livio Dei Cas
Cattedra e U.O. Cardiologia, Dipartimento di Medicina Sperimentale ed Applicata, Università degli Studi e Spedali Civili, Brescia
Major steps have been made in the treatment of ischemic heart disease from the discovery of nitrates as antianginal medication to the techniques of percutaneous angioplasty. This incredible therapeutic progress has
resulted in a reduced incidence of ischemic heart disease and related mortality and morbidity. However, statistical and epidemiological data indicate that in ischemic heart disease, despite the achievement of great
success, there is a necessity for a further step toward treatment, considering the fact that the characteristics
of this population are changing (increased prevalence of subendocardial infarction compared with classic
transmural infarction, especially in the elderly population). Furthermore, the need for alternative therapeutic
approaches to traditional ones is recognized.
Ranolazine is a selective inhibitor of Na channels that prevents pathological extension of late Na current developing in the ischemic myocardial cell. This current is responsible for calcium overload, with consequent impairment of diastolic relaxation. Ranolazine reduces Na overload induced by calcium and improves diastolic
relaxation and coronary subendocardial flow, without affecting hemodynamic parameters such as blood pressure, heart rate, or inotropic state of the heart, avoiding undesirable side effects. Efficacy of ranolazine has
been evaluated in several trials, using clinical and instrumental endpoints (MARISA and CARISA) or, more recently, using endpoints such as mortality and reinfarction (ERICA and MERLIN-TIMI 36).
Ivabradine acts through the inhibition of late Na current (also known as If), which controls the spontaneous diastolic depolarization of sinus node cells. The partial inhibition of these channels reduces the frequency of sinus node action potential initiation, resulting in decreased heart rate without effects on contractility, atrioventricular conduction, or repolarization. The BEAUTIFUL trial has tested whether the effect of ivabradine in lowering heart rate is able to reduce mortality and cardiovascular morbidity in patients with coronary artery disease and left ventricular systolic dysfunction. The most significant results were obtained in the subgroup of patients with life-limiting exertional angina. In this group, ivabradine significantly reduced the primary endpoint,
a composite of cardiovascular death, hospitalization for fatal and nonfatal acute myocardial infarction (AMI)
or heart failure, by 24%, and hospitalizations for AMI by 42%. In the subgroup of patients with baseline heart
rate >70 bpm, hospitalizations for AMI and revascularization were reduced by 73% and 59%, respectively.
Key words. Ivabradine; Ranolazine; Stable angina.
G Ital Cardiol 2012;13(10 Suppl 2):50S-54S
INTRODUZIONE
“Quest’uomo di notevolissima frugalità [...], dopo aver assistito per tutto il giorno fino a notte un amico affetto da grave
malattia e dalle condizioni disperate, dopo aver cenato allegramente, colto da un tipo di malattia fulminante, l’angina, riuscì ad arrivare vivo all’alba, respirando a stento con la gola chiusa. In pochissime ore dunque morì, dopo aver assolto a tutti i
suoi compiti di uomo sano [...]”.
Ai giorni nostri potremmo sentire una frase simile in qualsiasi unità coronarica. Eppure è stata scritta da Seneca nelle
sue Epistulae Morales ad Lucilium circa 1950 anni fa. La coronaropatia è dunque una malattia antica, e anche la terapia è
© 2012 Il Pensiero Scientifico Editore
Gli autori dichiarano nessun conflitto di interessi.
Per la corrispondenza:
Prof. Riccardo Raddino U.O. Cardiologia, Spedali Civili,
Piazzale Spedali Civili 1, 25123 Brescia
e-mail: [email protected]
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databile da almeno un secolo e mezzo. Tra il 1870 e il 1880 Sir
Thomas Lauder Brunton fu il primo ad utilizzare i nitrati a scopo antianginoso. Alla fine degli anni ’50 Sir James Black sintetizzò il propranololo, in linea con la scuola anglosassone che
vedeva nel controllo della stimolazione adrenergica e dell’inotropisno cardiaco il migliore approccio alla coronaropatia. Vennero poi gli studi di Fleckenstein sui bloccanti dei canali del
calcio con la sintesi del verapamil (1962) e della nifedipina
(1967), i primi interventi di bypass aortocoronarico (1969), la
scoperta delle statine (Akira Endo, 1976) e le prime angioplastiche percutanee (1977). Verso la fine degli anni ’70 iniziava
anche l’utilizzo a scopo antiaggregante dell’acido acetilsalicilico (sintetizzato da Charles Frédéric Gerhardt nel lontano
1853 e usato per decenni a scopo analgesico, antinfiammatorio e antipiretico) e del dipiridamolo fino ad arrivare alle prime
tienopiridine (ticlopidina), agli inizi degli anni ’80. Negli anni
successivi si scoprì anche l’utilità nella cardiopatia ischemica
degli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina e
dei sartani.
NUOVI APPROCCI FARMACOLOGICI NELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA
Questo incredibile progresso terapeutico ha comportato
una netta riduzione dell’incidenza della cardiopatia ischemica e
della mortalità e morbilità correlate, almeno nei paesi occidentali. Dal 1980 al 2000 il tasso di mortalità per cardiopatia ischemica negli Stati Uniti è sceso da 542.9/100 000/anno a
266.8/100 000/anno negli uomini e da 263.3/100 000/anno a
134.4/100 000/anno nelle donne, risultando un totale di 341 745
morti in meno nel 2000. Approssimativamente il 47% della riduzione del numero di morti è dovuto alla terapia (terapia in
prevenzione secondaria dopo infarto o rivascolarizzazione, trattamento iniziale dell’infarto e dell’angina instabile, trattamento dello scompenso cardiaco, rivascolarizzazione di angina cronica, ecc.) mentre circa il 40% è attribuibile al controllo dei fattori di rischio (dislipidemia, ipertensione, fumo di sigaretta, obesità e attività fisica)1.
Malgrado questi successi, la cardiopatia ischemica rappresenta ancora un problema sanitario di enorme rilevanza. In base alle statistiche pubblicate dall’American Heart Association, è
stato stimato che nel solo 2008 770 000 americani hanno avuto una sindrome coronarica acuta (SCA) di nuova insorgenza,
430 000 hanno subito una recidiva di SCA e 190 000 hanno
avuto un infarto miocardico acuto (IMA) silente2. Ogni anno in
tutto il mondo si verificano circa 7.2 milioni di decessi per cardiopatia ischemica, mentre le proiezioni più recenti prevedono
11.1 milioni di decessi nel 20203. Attualmente la coronaropatia rappresenta la principale causa di morte sia per gli uomini
che per le donne sia negli Stati Uniti che in Europa4. Inoltre,
malgrado i tassi di incidenza siano in costante discesa nei paesi più evoluti, nei paesi dell’Est europeo la coronaropatia presenta i tassi di mortalità più alti mai visti5,6.
Ai costi in termini di mortalità e di morbilità si aggiungono
quelli sociali e di disabilità, che a loro volta sono di entità molto consistente. Nel 2003 la cardiopatia ischemica è costata ai sistemi sanitari degli stati europei poco meno di 23 miliardi di
euro, gran parte dei quali dovuti al trattamento ospedaliero.
Considerando la perdita di capacità lavorativa e di ore di lavoro, il costo totale della cardiopatia ischemica sale a circa 45 miliardi di euro7. A questi dati epidemiologici e statistici bisogna
aggiungere le numerose evidenze che emergono dalla comunità scientifica riguardanti le percentuali ancora elevate di recidive di malattia nei pazienti con cardiopatia ischemica. Si stima
che tra il 30% e il 45% dei malati che rimangono asintomatici dopo una SCA subiscano un’ischemia silente nei primi 30
giorni dopo l’infarto, malgrado terapia medica ottimale. I risultati del registro REACH (Reduction of Atherothrombosis for
Continued Health), effettuato in 38 602 pazienti ambulatoriali con cardiopatia ischemica stabile, dimostrano che questi pazienti presentano un elevato tasso di IMA non fatale e di ictus
non fatale, con valori attorno al 15.2% annuo. In pratica 3 pazienti su 20 con cardiopatia ischemica presentano un evento
maggiore o vengono ospedalizzati ogni anno, malgrado la terapia e i controlli8,9. Dal punto di vista clinico, malgrado i nostri
strumenti diagnostici e terapeutici siano costantemente migliorati ed evoluti negli ultimi anni, i risultati di alcuni trial recenti hanno messo in dubbio alcune convinzioni che nella pratica clinica sembravano ormai molto radicate.
Il recente trial COURAGE (Clinical Outcomes Utilizing Revascularization and Aggressive Guideline-Driven Drug Evaluation) ha confrontato l’efficacia della terapia di rivascolarizzazione e ottimizzazione della terapia medica vs la sola ottimizzazione della terapia medica in circa 2300 pazienti con coronaropatia stabile. I risultati del trial non hanno mostrato diffe-
renze significative tra le due strategie terapeutiche in nessuno
degli endpoint considerati (morte, IMA non fatale, ictus, ospedalizzazioni per SCA), anche considerando l’analisi di specifiche sottopopolazioni (diabetici, polivasculopatici, scompensati).
Il trial BARI 2D (Bypass Angioplasty Revascularization Investigation), effettuato in pazienti diabetici, ha sostanzialmente confermato le istanze emerse dallo studio COURAGE10,11. Questi
dati sono di grande rilevanza clinica e sanitaria, perché indicano come la terapia attualmente considerata gold standard nella cardiopatia ischemica, ovvero la rivascolarizzazione coronarica nel paziente con coronaropatia stabile, non produca in realtà dei vantaggi nei confronti della terapia medica tradizionale ottimizzata. Risulta quindi evidente che la prognosi di questi
pazienti dipende non soltanto dal tipo di approccio terapeutico utilizzato, ma anche dall’efficacia e dall’attenzione del clinico nell’utilizzo e nell’adeguata ottimizzazione della terapia a
disposizione per il singolo paziente.
I dati epidemiologici e statistici sopra descritti, e i risultati
dei recenti trial clinici, ci indicano come nella cardiopatia ischemica, malgrado siano stati ottenuti dei grandi successi, ci sia il
bisogno di un ulteriore passo in avanti delle terapie. Questo è
valido soprattutto pensando al fatto che le caratteristiche di
questa popolazione stanno cambiando (aumento degli infarti
subendocardici rispetto ai classici infarti transmurali, aumento
della prevalenza nella popolazione anziana) e quindi molti dei
tradizionali presidi terapeutici risultano meno sfruttabili in queste condizioni per i loro effetti collaterali: per esempio l’anziano può mal tollerare elevati dosaggi di betabloccante sia per
l’insorgenza di ipotensione che di disturbi pneumologici; i bloccanti del sistema renina-angiotensina possono essere scarsamente tollerati nei soggetti con insufficienza renale; i calcioantagonisti possono indurre ipotensione ortostatica in soggetti già
ad elevato rischio di cadute. Emerge quindi il bisogno di trovare degli approcci terapeutici alternativi a quelli tradizionali.
RANOLAZINA
La ranolazina rappresenta un inibitore selettivo dei canali del
Na che previene l’insorgenza di un patologico prolungamento
della corrente tardiva del Na che si sviluppa nel miocardiocita
ischemico. Durante ischemia, una parte dei canali del Na che si
aprono normalmente durante il picco del potenziale d’azione (e
che provocano l’apertura dei canali del Ca con conseguente
contrazione) rimane patologicamente aperta anche in fase tardiva, provocando un allungamento del potenziale d’azione e
un sovraccarico di Na. La cellula ischemica reagisce a questa situazione invertendo la direzione dello scambiatore Na/Ca con
conseguente sovraccarico di Ca Na-indotto. Il sovraccarico di
Ca, accentuato anche dal malfunzionamento (legato all’ischemia) delle pompe sarcoplasmatiche del Ca, comporta la permanenza del Ca a livello delle miofibrille e quindi una compromissione del normale rilasciamento diastolico. Questa condizione si traduce in un peggioramento del flusso coronarico diastolico a livello del microcircolo subendocardico per aumento
della tensione di parete diastolica, e, paradossalmente, in un
aumento del consumo di ossigeno legato allo stato di contrazione prolungato, peggiorando ulteriormente l’ischemia. La ranolazina agisce da bloccante selettivo dei canali tardivi del Na,
riducendo quindi il sovraccarico di Ca Na-indotto e migliorando quindi il rilasciamento diastolico e il flusso coronarico a livello subendocardico. È importante sottolineare che l’azione
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antischemica della ranolazina, a differenza di quella degli agenti antischemici tradizionali, non va ad influire sui parametri
emodinamici come la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca oppure sullo stato inotropo del cuore, evitando gli effetti collaterali ed indesiderati ad esso conseguenti12.
L’efficacia della ranolazina è stata valutata in numerosi trial,
i primi con endpoint clinici e strumentali, e gli ultimi con endpoint “hard” quali la mortalità e le recidive di IMA.
Il trial MARISA (Monotherapy Assessment of Ranolazine in
Stable Angina) ha valutato l’efficacia della ranolazina in pazienti
con angina da sforzo in trattamento con nitrati, calcioantagonisti e betabloccanti e sottoposti ad ergometria. Nei pazienti
trattati si è evidenziato un significativo incremento della durata dello sforzo e un aumento del tempo di insorgenza dell’angina e del sottoslivellamento del tratto ST13.
Il trial CARISA (Combination Assessment of Ranolazine in
Stable Angina) ha valutato se la ranolazina fosse in grado di
migliorare il tempo di esercizio totale dei pazienti con sintomi
di angina cronica, e manifestazione di angina e di ischemia dopo ridotti carichi di lavoro, nonostante l’assunzione di dosaggi standard di atenololo (50 mg), amlodipina (5 mg) o diltiazem (180 mg). Lo studio ha coinvolto 823 adulti con angina
cronica sintomatica, che sono stati assegnati in modo random
a ricevere placebo o due diversi dosaggi di ranolazina (750 mg
oppure 1000 mg x 2/die). Lo studio ha avuto la durata di 12
settimane. Nei pazienti trattati con i due dosaggi di ranolazina la durata di esercizio è aumentata di 115.6 s dal basale contro i 91.7 s dei pazienti del gruppo placebo (p=0.01). La ranolazina ha inoltre ridotto gli episodi di angina e l’impiego della
nitroglicerina. Nel primo anno la percentuale di sopravvivenza
tra i 750 pazienti cha hanno assunto ranolazina è stata del
98.4%, e del 95.9% nel secondo anno. I risultati di questo
studio indicano che la ranolazina aumenta la capacità di esercizio e fornisce un effetto antianginoso aggiuntivo nei pazienti sintomatici con forma grave di angina cronica, che già assumevano atenololo, amlodipina o diltiazem. In un’analisi posthoc, il gruppo trattato con ranolazina 750 e 1000 mg ha mostrato una riduzione dell’emoglobina glicosilata dello 0.48%
(p=0.008) e dello 0.70% (p=0.0002), rispettivamente, verso
placebo14,15.
Il trial ERICA (Efficacy of Ranolazine in Chronic Angina) ha
invece valutato l’efficacia della ranolazina nel trattamento cronico di pazienti con coronaropatia stabile e almeno tre attacchi
di angina/settimana. Nel gruppo trattato si è evidenziata una riduzione della frequenza degli attacchi anginosi e una riduzione dell’utilizzo di nitrati sublinguali16.
Il trial MERLIN-TIMI 36 (Metabolic Efficiency with Ranolazine for Less Ischemia in Non-ST Elevation Acute Coronary Syndromes) ha valutato gli effetti della somministrazione endovenosa di ranolazina durante SCA senza sopraslivellamento del
tratto ST/angina instabile. Sono stati reclutati 6560 pazienti con
SCA senza sopraslivellamento del tratto ST. I pazienti sono stati trattati con ranolazina (inizialmente per via endovenosa e in
seguito con ranolazina orale a lento rilascio 1000 mg x 2/die)
oppure placebo. Il follow-up è stato in media di 348 giorni.
L’endpoint primario composto di efficacia consisteva in morte
cardiovascolare, IMA o recidiva di ischemia. Sono stati valutati
anche endpoint maggiori di sicurezza: morte da ogni causa e
aritmia documentata sintomatica. L’endpoint primario si è verificato nel 21.8% del gruppo ranolazina e nel 23.5% del gruppo placebo (hazard ratio [HR] 0.92; intervallo di confidenza [IC]
95% 0.83-1.02; p=0.11). Non sono risultate differenze tra i
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due gruppi per quanto riguarda morte cardiovascolare e IMA
mentre si è osservata una riduzione dell’ischemia ricorrente nel
gruppo ranolazina (13.9 vs 16.1%; HR 0.87; IC 95% 0.760.99; p=0.03). Non sono emerse differenze per la mortalità totale e le aritmie documentate sintomatiche17. Il successivo studio MERLIN ha selezionato 3565 pazienti precedentemente arruolati nel trial MERLIN-TIMI 36 con angina cronica (storia di
angina media 5.2 anni) e li ha randomizzati a trattamento con
ranolazina vs placebo. Endpoint primario composito era rappresentato da morte cardiovascolare, IMA e ischemia ricorrente. In questo caso si è verificata una riduzione significativa dell’endpoint primario nel gruppo trattato (riduzione del 14%; HR
0.86; IC 95% 0.75-0.97, p=0.017). Tuttavia tale significatività
è verosimilmente legata alla riduzione fortemente significativa
dell’ischemia ricorrente (riduzione del 22%; HR 0.78; IC 95%
0.67-0.91) che ha probabilmente indotto la significatività dell’endpoint primario. La ranolazina ha inoltre ridotto il peggioramento dell’angina (HR 0.77; p=0.048) e l’intensificazione della terapia antianginosa (HR 0.77; p=0.005). La durata dell’esercizio fisico a 8 mesi è risultata maggiore con ranolazina
(514 vs 482 s; p=0.002). Aritmie sintomatiche documentate
(2.9 vs 2.9%; p=0.92) e mortalità totale (6.2 vs 6.4%; p=0.96)
sono risultate simili tra ranolazina e placebo18. Se quindi sono
state ampiamente evidenziate le ottime qualità della ranolazina nel migliorare la sintomatologia e la capacità funzionale dei
pazienti, rimangono ancora da definire la sua azione sulla prognosi a lungo termine del paziente.
La sua sicurezza e affidabilità è stata viceversa evidenziata dallo studio ROLE (Ranolazine Open Label Experience) che
ha incluso 746 pazienti precedentemente arruolati negli studi CARISA e MARISA caratterizzati da grave riduzione della capacità funzionale (Duke treadmill score medio -14.4) e li ha seguiti con follow-up medio di 2.8 anni. La principale finalità dello studio era di evidenziare possibili predittori di intolleranza alla ranolazina. Il 76.2% dei pazienti ha completato il follow-up
di almeno 2 anni, mentre il 9.7% dei pazienti ha sospeso lo
studio per insorgenza di effetti collaterali (i più comuni vertigini e stipsi). È stato riscontrato un modesto allungamento del
QTc (~2.4 ms) che tuttavia non è stata causa maggiore di sospensione della terapia. Unico fattore predittivo significativo di
sospensione della terapia è risultato l’età avanzata.
L’utilità della ranolazina pare tuttavia non esaurirsi al solo
campo antianginoso. Alcuni dati emersi dal trial MERLIN-TIMI
36 e da studi sperimentali effettuati sul modello animale sembrano infatti evidenziare un’efficacia anche come antiaritmico.
Nel trial MERLIN-TIMI 36 è infatti emersa una significativa riduzione di fibrillazione atriale e tachicardia ventricolare non sostenuta nel gruppo trattato con ranolazina rispetto al placebo.
Sono attualmente in corso numerose sperimentazioni per valutare tale fenomeno19.
IVABRADINA
L’ivabradina rappresenta il primo di una nuova classe di agenti
bradicardizzanti, caratterizzata da un’azione specifica sul nodo
del seno. In particolare l’ivabradina agisce tramite l’inibizione
della corrente tardiva del Na (nota anche come If), che controlla la depolarizzazione diastolica spontanea delle cellule del nodo del seno. La parziale inibizione di questi canali comporta un
rallentamento della fase di ascesa del potenziale d’azione delle cellule del nodo del seno, risultando quindi in una riduzione
NUOVI APPROCCI FARMACOLOGICI NELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA
della frequenza cardiaca senza effetti sulla contrattilità, sulla
conduzione atrioventricolare o sulla ripolarizzazione. L’ivabradina è stata ampiamente valutata in vari trial che hanno studiato la sua efficacia come agente antischemico.
Il trial BEAUTIFUL ha valutato se l’abbassamento della frequenza cardiaca con ivabradina fosse in grado di ridurre la mortalità e la morbilità cardiovascolare nei pazienti con malattia coronarica e disfunzione sistolica ventricolare sinistra. Nel periodo intercorso tra il 2004 e il 2006 sono stati arruolati 10 917
pazienti con malattia coronarica e frazione di eiezione ventricolare sinistra <40%. I pazienti sono stati assegnati a ricevere
ivabradina 5 mg iniziali e dosaggio target a 7.5 mg, 2 volte/die
(n = 5479), oppure placebo (n = 5438). Tutti i pazienti hanno
ricevuto un trattamento cardiovascolare appropriato. L’endpoint primario composito era rappresentato da morte cardiovascolare, ricovero in ospedale per peggioramento dell’insufficienza cardiaca o scompenso cardiaco di nuova insorgenza. La
frequenza cardiaca media al basale era di 71.6 b/min. Il periodo osservazionale mediano è stato di 19 mesi. L’ivabradina ha
ridotto la frequenza cardiaca di 6 b/min ad 1 anno (corretto per
i valori del placebo). La maggior parte (87%) dei pazienti era in
trattamento con betabloccanti in aggiunta al farmaco dello studio; non è stato riscontrato nessun problema di sicurezza. L’ivabradina non ha esercitato alcun effetto sull’endpoint primario
composito (HR 1; p=0.94). Il 22.5% dei pazienti nel gruppo ivabradina ha presentato gravi eventi avversi, contro il 22.8% dei
controlli (p=0.70). Nel sottogruppo di pazienti con frequenza
cardiaca a riposo >70 b/min l’ivabradina non ha raggiunto un
risultato significativo (HR 0.9; IC 95% 0.81-1.04; p=0.17) nell’endpoint primario di morte cardiovascolare o ricovero in ospedale per scompenso cardiaco, ma ha ridotto significativamente l’incidenza degli endpoint secondari di ricovero per IMA fatale e non fatale (HR 0.64; IC 95% 0.49-0.84; p=0.001) e di rivascolarizzazione coronarica (HR 0.7; IC 95% 0.52-0.93;
p=0.016). I risultati più importanti sono stati ottenuti nel sottogruppo di pazienti che presentavano angina da sforzo limitante (che rappresentava soltanto il 13.8% del totale dei pazienti arruolati nello studio BEAUTIFUL). In questo gruppo l’ivabradina ha significativamente ridotto del 24% l’endpoint primario di morte cardiovascolare, ospedalizzazioni per IMA fatale e non fatale o per scompenso cardiaco (HR 0.76; IC 95%
0.58-1.00; p=0.05) e del 42% le ospedalizzazioni per IMA (HR
0.58; IC 95% 0.37-0.92; p=0.05). Nel sottogruppo di pazienti
con frequenza cardiaca basale >70 b/min le ospedalizzazioni
per IMA erano ridotte del 73% (HR 0.27; IC 95% 0.11-0.66;
p=0.06) e le rivascolarizzazioni erano a loro vota ridotte del
59% (HR 0.41; IC 95% 0.17-0.99).
Questi risultati confermano che nella cardiopatia ischemica
l’ivabradina potrebbe essere impiegata per ridurre l’incidenza di
outcome di malattia coronarica in un sottogruppo di pazienti
che hanno frequenza cardiaca ≥70 b/min20,21.
RIASSUNTO
Grandi passi in avanti sono stati compiuti nella terapia della cardiopatia ischemica, a partire dalla scoperta dei nitrati come farmaco antianginoso fino ad arrivare alle tecniche di angioplastica percutanea. Questo incredibile progresso terapeutico ha comportato
una netta riduzione dell’incidenza della cardiopatia ischemica e della mortalità e morbilità correlate, almeno nei paesi occidentali. Tuttavia dati epidemiologici e statistici indicano come nella cardiopatia ischemica, malgrado siano stati ottenuti dei grandi successi, ci
sia il bisogno di un ulteriore passo in avanti delle terapie, soprattutto pensando al fatto che le caratteristiche di questa popolazione stanno cambiando (aumento degli infarti subendocardici rispetto ai classici infarti transmurali, aumento della prevalenza nella popolazione anziana). Emerge quindi il bisogno di trovare degli
approcci terapeutici alternativi a quelli tradizionali.
La ranolazina rappresenta un inibitore selettivo dei canali del Na
che previene l’insorgenza di un patologico prolungamento della
corrente tardiva del Na che si sviluppa nel miocardiocita ischemico. Questa corrente è responsabile del sovraccarico di Ca, con conseguente compromissione del normale rilasciamento diastolico. La
ranolazina riduce quindi il sovraccarico di Ca Na-indotto e migliora il rilasciamento diastolico e il flusso coronarico a livello sub endocardico, con la caratteristica di non influenzare i parametri
emodinamici come la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca
oppure sullo stato inotropo del cuore, evitando gli effetti collaterali ed indesiderati ad esso conseguenti. L’efficacia della ranolazina è stata valutata in numerosi trial, i primi (MARISA e CARISA)
con endpoint clinici e strumentali, e gli ultimi (ERICA e MERLINTIMI 36) con endpoint “hard” quali la mortalità e le recidive di infarto miocardico acuto (IMA). L’utilità della ranolazina pare tuttavia non esaurirsi al solo campo antianginoso. Alcuni dati emersi dal
trial MERLIN-TIMI 36 e da studi sperimentali effettuati sul modello animale sembrano infatti evidenziare un’efficacia anche come
antiaritmico.
L’ivabradina agisce tramite l’inibizione della corrente tardiva del Na
(nota anche come If), che controlla la depolarizzazione diastolica
spontanea delle cellule del nodo del seno. La parziale inibizione di
questi canali comporta un rallentamento della fase di ascesa del
potenziale d’azione delle cellule del nodo del seno, risultando quindi in una riduzione della frequenza cardiaca senza effetti sulla contrattilità, sulla conduzione atrioventricolare o sulla ripolarizzazione. Il trial BEAUTIFUL ha valutato se l’abbassamento della frequenza cardiaca con ivabradina fosse in grado di ridurre la mortalità e la morbilità cardiovascolare nei pazienti con malattia coronarica e disfunzione sistolica ventricolare sinistra. I risultati più significativi sono stati ottenuti nel sottogruppo di pazienti che presentavano angina da sforzo limitante. In questo gruppo l’ivabradina ha
significativamente ridotto del 24% l’endpoint primario di morte
cardiovascolare, ospedalizzazioni per IMA fatale e non fatale o per
scompenso cardiaco e del 42% le ospedalizzazioni per IMA. Nel
sottogruppo di pazienti con frequenza cardiaca basale >70 b/min
le ospedalizzazioni per IMA erano ridotte del 73% e le rivascolarizzazioni erano a loro vota ridotte del 59%.
Parole chiave. Angina stabile; Ivabradina; Ranolazina.
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