Cass., sez. III, 09 giugno 2005, n. 12120.

Cass., sez. III, 09 giugno 2005, n. 12120.
MASSIMA:
I criteri legali di ermeneutica contrattuale sono governati da un principio di gerarchia interna in
forza del quale i canoni strettamente interpretativi prevalgono su quelli interpretativi-integrativi quale va considerato anche il principio di buona fede, sebbene questo rappresenti un punto di
collegamento tra le due categorie - e ne escludono la concreta operatività, quando l’applicazione
degli stessi canoni strettamente interpretativi risulti da sola sufficiente a rendere palese la comune
intenzione delle parti stipulanti, tenuto conto, peraltro, che, nell’interpretazione del contratto, il dato
testuale, pur assumendo un rilievo fondamentale, non può essere ritenuto decisivo ai fini della
ricostruzione del contenuto dell’accordo, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può
ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, il quale non può arrestarsi alla
ricognizione del tenore letterale delle parole, ma deve estendersi alla considerazione di tutti gli
ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni
appaiano di per sé «chiare» e non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che
un’espressione prima facie, chiara può non apparire più tale, se collegata ad altre espressioni
contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti
(fattispecie relativa all’interpretazione di contratto di locazione con riguardo all’uso dell’immobile
locato).
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza depositata il 21 dicembre 1999, il Tribunale di Napoli rigettò il ricorso presentato
dall'agente di commercio Mario D. per la restituzione di somme a suo dire indebitamente pagate a
titolo di canoni di locazione (per uso promiscuo) di un appartamento composto di due vani e servizi,
di proprietà di Carlo A., restituzione richiesta dal D. sul presupposto che, al contratto, fossero
inderogabilmente applicabili le norme per la locazione abitativa, mentre egli aveva corrisposto un
canone (in eccedenza) di 516.000 lire mensile calcolato, appunto, sul presupposto dell'uso
promiscuo dell'immobile.
Il rigetto della domanda fu motivato dal giudice di prime cure sul presupposto che la destinazione
dell'immobile ad uso professionale fosse, nella specie,
da considerarsi prevalente: venne, conseguentemente, accolta la riconvenzionale spiegata dall'A. per
il pagamento di ulteriori somme (circa 5 milioni di lire) a titolo di canoni non corrisposti e di
mancata restituzione dei mobili.
L'appello interposto dal D. avverso la pronuncia del tribunale fu accolto dalla Corte partenopea, che
opinò, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di prime cure, per la prevalenza dell'uso
abitativo, condannando per l'effetto l'appellato proprietario al pagamento della differenza
dell'importo tra i canoni versati e quelli dovuti.
Ricorre per la cassazione della sentenza l'A..
Resiste con controricorso il D..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso, articolato in 4 motivi di doglianza, è fondato In parte qua e va, pertanto, accolto.
Con ±1 primo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 80, comma 2^
della legge 392/1978, in relazione agli artt. 79 stessa legge, 1344, 1418, 1419 c.c.; omessa
motivazione su un punto decisivo della controversia, sostenendo l'inapplicabilità, al caso di specie,
della citata norma di cui all'art. 80, il cui tenore letterale ne limiterebbe la portata precettiva alla sola
ipotesi di mutamento, ancorchè parziale, di destinazione.
Il motivo è infondato.
Costituisce, difatti, ius receptum di questa Corte, dal quale il Collegio non rileva motivi (che non
sono, peraltro, neppure addotti dal ricorrente) per discostarsi, il principio secondo il quale
l'applicabilità in via analogica della disposizione di cui alla norma di cui all'art. 80 della legge cd.
sull'equo canone va estesa alle ipotesi di uso promiscuo contrattualmente convenuto dalle parti (ex
multis, Cass. 11266/1997; 6223/1993), di talchè nel caso in cui l'uso promiscuo dell'immobile
locato sia previsto dal contratto, il rapporto, per applicazione analogica del criterio indicato dall'art.
80 ultimo comma della legge 21 luglio 1978 n. 392, deve considerarsi regolato dall'uso prevalente
voluto dalle parti a meno che, avendo 11 conduttore adibito l'immobile per un uso diverso, non
debba assumere rilievo l'uso effettivo, secondo là previsione del richiamato articolo 80. Pertanto,
quando l'uso promiscuo è stato previsto dalle parti, il giudice, per stabilire quale regime giuridico
debba essere applicato al contratto, deve anzitutto accertare la volontà' delle parti in ordine all'uso e
solo nel caso in cui sia dedotta una utilizzazione effettiva secondo un rapporto di prevalenza
diverso, può procedere all'Accertamento di quest'uso per determinare, secondo le disposizioni
dell'art. 80 della legge sull'equo canone, 11 diverso regime giuridico eventualmente applicabile.
Con il secondo motivo, si censura la sentenza del giudice d'appello sotto il profilo della violazione e
falsa applicazione dell'art. 80 comma 2^ L. 392/1978 In relazione agli artt. 1325, 1362; 1363 c.c.;
insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia.
Lamenta il ricorrente, con riferimento all'indagine compiuta dalla Corte d'appello sul tema della
"prevalenza" dell'uso locativo, che essa andava espletata alla stregua delle norme di cui agli artt.
1362 ss. c.c., rispetto alle quali non è lecito il ricorso ad alcun criterio alternativo o sussidiario "se
non per l'ipotesi di conclamata impossibilità di pervenire In tal modo a risultati chiarificatori". La
corte territoriale, del tutto illegittimamente - osserva il ricorrente -, dopo aver premesso che il
tribunale aveva condotto l'indagine essenzialmente analizzando le clausole del contratto, sostiene,
poi, la incondivisibilità delle conclusioni dedotte del primo giudice ritenendo di poter fare
riferimento "all'espletata CTU", che, in primo grado, era stata invero disposto al solo fine di
accertare l'effettiva entità del canone.
Con 11 torco motivo, il ricorrente si duole di una ulteriore violazione e falsa applicazione dell'art.
80 legge equo canone con riferimento agli artt. 2697 e. e, 61, 62, 115, 116, 194 c.p.c; insufficiente e
contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, lamentando, da un canto, la
totale assenza di supporto motivazionale delle affermazioni contenute nella gravata sentenza circa le
condotte di vita, personale e lavorativa, del ricorrente; dall'altro, ancora una volta, l'illegittimità
dell'utilizzazione della consulenza tecnica d'ufficio, disposta in primo grado al solo fine di
quantificare il canone di locazione per l'ipotesi di accoglimento dell'istanza del resistente, ed
adoperata, viceversa, dalla corte di merito per rinvenirvi elementi giuridici e fattuali esorbitanti il
campo di indagine delimitato dal quesito formulato in origine dall'istruttore.
I due motivi, che possono esaminarsi congiuntamente attesane l'intrinseca connessione, sono
complessivamente fondati.
L'attività di ermeneutica contrattuale demandata al giudice di merito, difatti, secondo il costante
insegnamento di questa Corte regolatrice, segue, logicamente e cronologicamente, regole ben
precise, dettate dagli artt. 1362 ss. del codice civile (nel disattendere le quali il giudice si rende
autore di violazione di norme di diritto, censurabile in sede di giudizio di legittimità, secondo un
costante principio affermato già da Cass. 268/1969, e di recente ribadito, in motivazione, da Cass.
15814/2004), di guisa che primo ed assorbente criterio di interpretazione di qualsivoglia vicenda
negoziale a struttura bilaterale deve ritenersi quello della ricostruzione delle volontà delle parti sì
come emergente dal tenore letterale della scrittura. Correttamente, dunque, il ricorrente richiama il
principio secondo il quale criteri alternativi o sussidiari rispetto a quelli indicati dai ricordati artt.
1362 ss. c.c. possono essere invocata dal giudicante alla sola condizione che risulti conclamata
l'impossibilità di pervenire ad un convincente risultato interpretativo percorrendo l'iter logicofunzionale da quelle norme postulato. Chiarisce, difatti, ancora di recente, Cass. 15371/2003 che i
canoni legali di ermeneutica contrattuale sono governati da un principio di gerarchia interna, in
forza del quale 1 canoni strettamente interpretativi prevalgono su quelli interpretativo-integrativi, e
ne escludono la concreta operatività', quando l'applicazione degli stessi canoni strettamente
interpretativi risulti da sola sufficiente a rendere palese la comune Intenzione delle parti stipulanti.
Il collegio è consapevole che tale principio di diritto risulta, del tutto correttamente, temperato da
quanto affermato nella sentenza n. 15150 del 2003 di questa stessa Corte, secondo cui
nell'interpretazione del contratto, il dato testuale, pur assumendo un rilievo fondamentale, non può
essere ritenuto decisivo al fini della ricostruzione del contenuto dell'accordo, giacchè il significato
delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, il
quale non può arrestarsi alla ricognizione del tenore letterale delle parole, ma deve estendersi alla
considerazione di tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche
quando le espressioni appaiano di per sè "chiare" e non bisognose di approfondimenti interpretativi,
dal momento che un'espressione prima facie chiara può' non apparire più' tale, se collegata ad altre
espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo
delle parti. Ciò che risulta evidente, nel caso di specie, è, peraltro, la circostanza (opportunamente
evidenziata dal ricorrente) per la quale in sede di giudizio di primo grado l'indagine circa la
concreta e comune volontà delle parti seguì (al di là della bontà o meno della soluzione finale
adottata) correttamente le regole ermeneutiche sancite ex lege, essendosi l'analisi del tribunale
appuntata (come analiticamente descritto dal ricorrente, in ossequio al principio dell'autosufficienza
del ricorso), sulla destinazione dell'immobile pattiziamente convenuta tra le parti “studio con facoltà
del conduttore di abitarvi"; sulla durata esennale e non quadriennale della locazione, ritenuta
sintomatica della concorde intenzione delle parti di assimilare il rapporto locativo a quelli
disciplinati ex art. 27 della legge 397/78; sulla espressamente riconosciuta facoltà di sublocazione,
richiesta dal conduttore ed acconsentita dal locatore, ritenuto ulteriore indice dell'effettivo utilizzo
per scopo professionali dell'immobile da parte dell'agente di commercio D., (del quale si predica la
"tipicità comportamentale" di offrire domicilio e recapito ai clienti, mandanti e colleghi); sulla
riconosciuta facoltà di recesso anticipato con termine di preavviso abbreviato, ancora una volta
richiesta dal conduttore e accettata dal locatore, anch'essa rispondente ad una tipica esigenza
dell'agente di commercio in caso di sopravvenuta necessità di trasferimento del proprio centro di
interessi professionali in altro ambito territoriale.
A tali elementi scaturenti dal contratto si aggiunge poi la duplice circostanza (pacifica in causa) che
il D. aveva lo status di separato senza familiari a carico o conviventi, e che l'immobile era stato in
precedenza locato sempre e soltanto ad uso studio.
La corte di merito, anzichè valutare secondo i necessari criteri di "sintesi indiziaria" il coacervo
delle risultanze scaturenti dall'esegesi del contratto (e non solo), si sofferma, da un canto, in una
lunga disamina del contenuto della CTU che, disposta al fine di stabilire l'esatto ammontare del
canone, diviene il fondamento del diverso convincimento raggiunto da giudice di seconde cure
(convincimento che, peraltro, risulta sovrapporsi, senza alcun tentativo di omogeneizzazione e
sintesi, sia pure in un'ottica di contrapposizione e depotenziamento del relativo contenuto
probatorio, con gli elementi addotti dal primo giudice), che si dilunga in una minuziosa analisi
relativa alla composizione ed ubicazione dei locali (servizi igienici compresi) di cui si componeva
l'appartamento, e sostituisce, dall'altro, alla (necessaria) analisi del contenuto letterale del negozio
considerazioni di tipo presuntivo, fondate su di un ipotizzato (ma indimostrato) id quod plerumgue
accidit, secondo cui l'attività dell'agente di commercio dovrebbe ipso facto ritenersi limitata
"all'intreccio di contatti telefonici, con assoluta prevalenza delle iniziative commerciali all'esterno
dell'appartamento". L'assunto, che parrebbe rientrare tra le cd. "massime di comune esperienza", è
intrinsecamente equivoco (oltre che contraddetto attualmente dall'uso dei moderni strumenti
informatici), e sostituisce ad una congerie di elementi desunti dal tessuto negoziale analizzato
Accuratamente dal primo giudice una serie di congetture di tipo soggettivo, che si sostituiscono alla
(pur necessaria) prova - da fornire ad opera del locatore - della discrasia tra realtà del rapporto
contrattuale si come dipanatosi nel tempo e veridicità dei relativi contenuti negoziali "a monte" si
come divisati dalle parti al momento della stipula della locazione.
Il quarto motivo, che rappresenta, infine, un pretesa falsa applicazione dei principi dettati in tema di
indebito soggettivo, resta assorbito dall'accoglimento del secondo e terzo motivo.
Il ricorso è, pertanto, accolto per quanto di ragione, la sentenza impugnata cassata, il procedimento
rinviato ad altra sezione della Corte d'appello di Napoli, che provvedere alla liquidazione anche
delle spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa e rinvia, anche per le spese del giudizio di
Cassazione, ad altra sezione della Corte d'appello di Napoli.