Le radici filosofiche dell`arte astratta. Sul nuovo libro di Stefano Poggi

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Le radici filosofiche dell’arte astratta.
Sul nuovo libro di Stefano Poggi
di Giacomo Fronzi
I momenti di svolta che hanno segnato lo sviluppo delle arti figurative e della
letteratura non possono essere spiegati solo sulla base della loro dinamica storica,
come tappe di un’evoluzione più o meno lineare degli eventi. Con il suo ultimo libro,
L’anima e il cristallo. Alle origini dell’arte astratta (il Mulino), Stefano Poggi
ricostruisce in modo inedito quelle tendenze culturali e filosofiche, in particolare nei
contesti di lingua tedesca, che tra Otto e Novecento hanno segnato in modo decisivo la
rivoluzione culturale europea dell’inizio del XX secolo, collocando al centro del
discorso il rapporto tra creazione artistica ed esperienza mistica, nella varietà delle sue
manifestazioni.
Nell’ambito degli studi sull’arte d’inizio Novecento, tanto sul versante strettamente
storico quanto su quello estetologico o filosofico, la produzione è notoriamente vasta.
Ciononostante, il libro di Stefano Poggi, che sempre ha percorso itinerari di ricerca
inediti e accattivanti, stupisce per l’originalità e la profondità con cui affronta il tema
delle radici mistiche e filosofiche dell’arte astratta. Nei sei capitoli in cui è organizzato
il saggio, viene proposta una lettura che apre scenari interpretativi innovativi, orizzonti
ermeneutici realmente inattesi, destinati senza dubbio a gettare sulla genesi dell’arte
astratta (o, quanto meno, di alcune delle sue tendenze principali) una luce nuova e
inaspettata.
Muovendo da una consuetudine di molti anni di studi sulla cultura tedesca ottonovecentesca, Poggi ha affrontato in modo inconsueto alcune questioni centrali nel
dibattito culturale e artistico della Germania del primo ventennio del XX secolo, a
partire dalla sottolineatura di come vi fosse in quel periodo una «fervida elaborazione
filosofica» che, dopo aver concentrato l’attenzione sul significato e la direzione della
storia, è andata caratterizzandosi per un atteggiamento sempre più «critico nei confronti
dell’impianto teorico e conoscitivo dell’indagine scientifica» (pp. 7-8). A ciò si
accompagna una nuova sensibilità rispetto alle cosiddette «questioni ultime», sensibilità
che si alimenta in particolare del pensiero di Arthur Schopenhauer e Friedrich
Nietzsche. Il successo di questi due filosofi, spiega Poggi, è legato a due fattori. Il primo
consiste nella forza seduttiva di ogni «forma di estremismo filosofico». Il secondo
concerne, come accennato, la crescente insofferenza nei riguardi delle scienze fisico-
matematiche, alle quali si preferisce il conforto fornito dall’interessarsi al «fenomeno
artistico». Tanto più è decisiva l’influenza di Schopenhauer e Nietzsche nei primi anni
del Novecento quanto più essa sembra avere ricadute importanti al di fuori dei confini
della filosofia.
È per questi motivi, ripresi molto sinteticamente, che nelle pagine di L’anima e il
cristallo, ci si imbatte in filosofi poco frequentati nelle tradizionali storie della filosofia
come Eduard von Hartmann, Max Nordau, Rudolf Steiner o Otto Weininger) o in
scienziati come Hermann Helmholtz, Ernst Mach o Wilhelm Ostwald, nonché in figure
appartenenti al mondo dell’arte come Konrad Fiedler, Alois Riegl, Wilhelm Worringer.
Si tratta di anni, quelli a cavallo tra fine Ottocento e inizi Novecento, nei quali vengono
elaborate teorie e «profezie» attorno alle quali (o a seguito delle quali) si struttureranno
alcune delle esperienze filosofiche e artistiche più rilevanti del XX secolo e che avranno
un impatto assolutamente decisivo per gli sviluppi del pensiero, della letteratura, della
pittura, della scultura, della musica.
Se è vero, come precisa l’Autore, che in nessuno dei capitoli c’è una figura che si
impossessa della scena a scapito di altri personaggi, è anche vero che gli ultimi due
capitoli, il V e il VI, sono dedicati in particolare a Vasilij Kandinskij e a Paul Klee e
«ciò è avvenuto anche in considerazione del fatto che [la loro opera] pittorica è
accompagnata da un’intensa e ben documentata riflessione teorica densa di continui e
trasparenti riferimenti a un dibattito che vede la partecipazione di personalità come
Marianne Werefkin, Franz Marc, August Macke, Robert Delauny e si confronta a
distanza – poco conta se è una distanza temporale o spaziale – con Delacroix, Cézanne,
Böcklin, Monet, Signac, Matisse» (p. 11).
Uno spazio rilevantissimo, nell’intero libro, hanno poi tutte quelle figure che, a vario
titolo, tendono energicamente ad attribuire all’animo umano un’esigenza di totalità e di
unità, che si manifesta e si esprime nelle «varie modulazioni dell’esperienza mistica». Si
tratta di un tema centrale, che attraversa per intero il lavoro di Poggi e che, al di là
dell’importanza che esso ricopre nella dimensione filosofica, religiosa o spirituale, ha
un peso decisivo nell’elaborazione del pensiero artistico d’inizio Novecento. L’arte
astratta, in particolare, è indicativa e significativa di questa tendenza, poiché «l’impatto
dell’esigenza di spiritualizzazione del lavoro artistico di cui è espressione l’attenzione
riservata all’esperienza mistica è un impatto che si esercita in misura del tutto
particolare sulle arti figurative» (p. 13). Ma cerchiamo di ripercorrere più nel dettaglio
le argomentazioni proposte dall’Autore.
La premessa al primo capitolo, intitolato Mistici e materialisti (pp. 15-29), è la
constatazione di come, nella letteratura e nelle arti di fine Ottocento, si sia assistito a un
interesse crescente nei confronti del «sovrannaturale» e del corrispondente movimento
di idee a esso ispirato, il «misticismo». In quest’ultimo, «nelle sue molteplici forme,
trovano espressione inquietudini, aspirazioni, interrogativi di più antica, ma non remota
data» (p. 16), a partire da quella Philosophie der Mystik («Filosofia della mistica»,
1885) nella quale il barone Carl du Prel argomenta a favore di una vera realtà posta al di
là dell’esperienza sensoriale e percettiva. Si afferma l’idea che alcuni stati, come ad
esempio quelli onirici, rappresentati dal sonnambulismo, possano essere assunti come
manifestazioni di una realtà più profonda, alla quale può avere accesso l’«esperienza
mistica». Queste tendenze, delle quali è testimonianza il libro di du Prel, prefigurano
«l’amalgama di fine secolo tra l’attenzione per la mistica come paradigma di spiritualità
e un interesse dai tratti spesso torbidi per le varie forme di esoterismo e di occultismo»
(p. 18).
Il misticismo di fine secolo in Germania acquisisce comunque forme e modalità
espressive diverse, talvolta risultato di ibridazioni tra teorie diverse. È il caso, ad
esempio, di Wilhelm Bölsche, che nel 1898 pubblica un grande successo editoriale
(ventimila copie di tiratura in pochi anni) Das Liebesleben in der Natur («Storia
evolutiva dell’amore»), nella quale viene superata la differenza tra «esperienza mistica»
e adesione alla «prospettiva del monismo» (quello, per intenderci, di Ernst Haeckel). La
via scelta è quella che privilegia l’idea di un’enorme unità che presiederebbe ai processi
naturali, un’unità alla quale si può tentare di dare voce soltanto facendone parte,
misticamente, attraverso l’estasi.
Esperienza estatica ed esperienza estetica tendono a coincidere. Bölsche si richiama
esplicitamente a Novalis nel sottolineare la necessità di superare la scissione dell’uomo,
per elevarsi a una superiore unità e «conseguirla nella forma di un naturalismo che nello
stesso tempo è un autentico realismo: esso è infatti garantito dalla “visione interiore”
che l’uomo ha di se stesso, dalla sua “eterna esperienza di se stesso”» (pp. 19-20). Il
livello interiore si rivela decisivo, giacché è lì che si sviluppa la logica che garantisce la
concatenazione delle esperienze del cui senso la nostra coscienza in prima battuta resta
all’oscuro. Alla logica interiore – sottolinea l’Autore – non ci si può sottrarre: in essa,
proprio per come accade nella creazione artistica, siamo collocati in un’armonia posta al
di là del tempo e dello spazio. Il caos delle esperienze raggiunge un ordine che non
perviene a livello di coscienza. È l’ordine dell’«interiore cristallo logico della mistica»,
è un ordine prodotto dalla forza della «rappresentazione mistica».
Ai temi trattati da Bölsche si affianca la questione della temporalità, sempre presente
nelle discussioni sull’esperienza mistica, in particolare in relazione a quella specifica
esperienza che è l’«estasi mistica», nella quale l’individuo arriva a sentirsi parte di un
tutto, di una totalità che lo assorbe e, in qualche modo, all’interno della quale si
dissolve. Si tratta di un’esperienza radicale, non necessariamente dai caratteri religiosi e
che, anzi, si colloca in quella forma di mistica che per la quale si utilizza la formula di
«mistica senza Dio» (il cui paradigma resta Meister Eckhart). Sebbene quest’ultima
implichi una dissoluzione dell’individuo nella totalità, il superamento di ogni scissione
tra Io e mondo, allo stesso tempo «l’adesione alla tesi di una mistica senza Dio pare
condurre – e vi sono casi in cui ciò è conclamato – a investire l’Io della pienezza delle
sue responsabilità» (p. 28). Non si tratta, precisa l’Autore, di una responsabilità che si
colloca solo a livello etico e pratico, ma che trova un proprio spazio privilegiato lì dove
è più forte la «presenza dell’immediatezza del sentire», vale a dire nell’esperienza
estetica, quella della creazione e della fruizione dell’arte.
Il capitolo La natura, la scienza, l’arte (pp. 31-50) prende le mosse da una delle
indiscusse autorità del panorama culturale tedesco ed europeo tardosettecentesco ed
ottocentesco, Johann Wolfgang von Goethe, il quale aveva manifestato meraviglia e
venerazione per qualcosa che gli appariva come un mistero: l’«unitaria conformità a
leggi dell’universo» esprimibile solo poeticamente. Se la scienza si arresta
inevitabilmente a elaborare un sapere parziale e superficiale, è per via artistica che è
possibile avvicinarsi alla verità. Non si tratta, tuttavia, di dimensioni contrapposte,
quanto di livelli complementari. Secondo Goethe, «l’arte era una delle due “rivelazioni
della legge primigenia del mondo”. L’altra rivelazione era rappresentata dalla scienza»
(p. 33). Ciò non significa coincidenza tra opere d’arte e prodotti dell’indagine
scientifica, giacché i compiti affidati all’arte e alla scienza restano diversi. Quello
dell’arte, scrive Poggi, è un altro mondo, un «terzo mondo», che non esiste nella realtà
ma che l’uomo ha la necessità di creare, sulla spinta della propria interiorità. In questo
terzo mondo è possibile la convergenza tra intuizione e giudizio, tra l’attività
dell’intuire e quella del giudicare. Tale convergenza produce un risultato sorprendente,
che consiste nel riuscire a spezzare il guscio della realtà apparente, oltre il quale vi è
l’idea, «la legge che fa sì che ogni singolo evento, ogni individuo sia tale solo se
organicamente in un tutto». Emerge così il valore conoscitivo dell’opera d’arte, sola a
poter non cadere «vittima della scissione tra l’ordine dei sensi e quello della ragione»
(p. 36). In questo quadro rientra anche il tentativo di Rudolf Steiner di superare la
separazione tra visione scientifica del mondo e indagine sul percorso che la «mistica
correttamente intesa» indica per la scoperta dello spirito e della vita dell’anima.
Partendo dall’idea che l’essenza delle cose non necessariamente debba rimanere oscura
agli occhi della conoscenza, le nuove acquisizioni scientifiche potrebbero apportare
elementi di chiarezza, a patto però che a far cadere la sua luce sulle cose sia la nostra
interiorità.
Attraverso il ripercorrimento di alcuni motivi goethiani, anche sulla scorta della
grande ripresa che essi ebbero nel corso di tutto l’Ottocento, Poggi giunge ad affrontare
il tema della forma, con il quale si apre il terzo capitolo (L’interno è anche l’esterno, pp.
51-79). Ma qual è il nesso tra forma e interiorità? L’Autore lo spiega chiaramente.
Nell’ultimo quarto di secolo, lo studio delle forme elaborate dal pittore (che diventa il
paradigma dell’artista) acquista sempre maggiore spazio, unitamente all’attenzione per
la fisiologia delle sensazioni e alla nascita della psicologia scientifica. Per quanto il
ruolo dell’interiorità non venga mai messo in discussione – prosegue Poggi –, il rilievo
dato all’esame delle forme in cui si manifesta e si esprime quell’interiorità resta
centrale. «La “simbolica delle forme” ci mette dinanzi alla forza con cui le forme alla
base delle quali stanno i normali processi di associazione delle idee esprimono i
sentimenti, stati d’animo di evidenza e validità tali da trascendere la nostra
individualità: sono quelli, appunto, che l’artista ha a cuore di evocare con le forme che
crea» (p. 51). Nell’artista, come ha concluso Robert Vischer (che introduce la fortunata
nozione di «empatia»), agiscono forze diverse, che però tendono alla fusione e alla
convergenza. Già a livello inconscio opera la tendenza a plasmare, a dare forma, alla
quale si aggiunge – ed è il passaggio decisivo – il costituirsi di una «totalità interiore»,
grazie alla quale l’artista riesce a dominare la materia in virtù di una perfezione che
coinvolge e permea il suo intero sentire. Ecco che si arriva a decretare la compresenza e
la contemporanea azione, nell’anima dell’artista, di «idea» e «sensibilità». Non vi è
scissione tra «coscienza puramente sensibile» e «coscienza puramente astratta».
La forma, ad ogni modo, è simbolo di qualcosa, è indicazione e segnale, ed è sempre
più legata al tema dell’origine della pratica artistica, all’interno del quale –
inevitabilmente – finisce con il rientrare la questione del rapporto arte-natura e artescienza. Qui, l’Autore introduce una figura liminare, che non è né un filosofo né un
artista, ma un intenditore d’arte, un intellettuale, un collezionista: Konrad Fiedler. Il
nome di Fiedler è, peraltro, legato alla nascita della Kunstwissenschaft («scienza
dell’arte»), che assegna per la prima volta basi scientifiche alla critica d’arte, che quindi
viene sottratta alla sua confusione con l’estetica o con il kantiano giudizio di gusto.
Fiedler respinge energicamente la possibilità di una rappresentazione oggettiva delle
cose del mondo, in definitiva l’idea del carattere imitativo dell’arte. L’artista non imita
né riproduce, è, invece, «in grado di porsi in rapporto con la natura non nei termini
passivi dell’intuizione, ma in quelli attivi dell’espressione» (p. 56). Sulla stessa
posizione si attesta anche lo scultore Adolf von Hildebrand (autore di Das Problem der
Form in der bildenden Kunst [«Il problema della forma nell’arte figurativa»], raccolta
pubblicata nel 1893). In virtù della propria esperienza diretta, «le considerazioni di
Hildebrand […] rifiutavano con chiarezza ogni riduzione dell’arte a imitazione,
sottolineando nello stesso tempo la centralità del momento formale» (p. 61).
Ma quelle di Fiedler e Hildebrand sono soltanto alcune delle tante voci che si
interrogano sull’origine dell’opera d’arte, sul farsi della creazione artistica, sulla
commistione eventuale tra processi psichici, processi emotivi e processi fisiologicopercettivi. Probabilmente, un dato comune è quello dell’interesse (in forma positiva o in
forma negativa) nei confronti dell’interiorità, che torna incessantemente, con la sua
pregnante e complessa funzione, nonché sulle sue modalità di espressione. Su tutto
questo si interroga anche Rainer Maria Rilke, il quale riflette lungamente sul rapporto
tra l’artista, la sua vita interiore e il mondo esterno ad essa. Secondo il poeta, l’artista si
trova dinanzi a una molteplicità di cose, rispetto alle quali i propri sentimenti entrano in
rapporto. Da questa relazione scaturisce una risposta che, talvolta, stupisce lo stesso
artista, poiché aggiunge un quid alla cosa. Questo quid è la bellezza: «le mani dell’uomo
che plasma una cosa possono evocare quel quid, trasformano una cosa fatta della stessa
materia di infinite altre cose in una sorta di Eros, di daimon platonico, che bello non è,
ma fa nascere il puro amore per la bellezza» (p. 65). Il modello che Rilke ha in mente, a
parte la propria esperienza di poeta, è lo scultore Auguste Rodin, in quegli anni oggetto
d’interesse anche da parte di Georg Simmel il quale, nel suo lavoro Philosophische
Kultur («Cultura filosofica», 1911), individua nell’artista francese un nuovo modo di
intendere il lavoro dello scultore. Le opere di Rodin collocano lo spettatore sulla stessa
linea di continuità e di sviluppo del processo di realizzazione delle sculture, a partire
dallo studio dei movimenti che si presentano come espressione di una pulsione che si fa
figura, che si fa individualità. Tali movimenti, sostiene Poggi, interagiscono con
l’infinità di un cosmo in costante e perenne agitazione, alle prese con una dinamismo
che ha inevitabili ricadute sulla vita e sul destino di quell’individualità. Come in
Maurice Maeterlinck e in Rilke, anche in Simmel è presente l’idea «di un’implicita ma
solidissima alleanza tra riflessione filosofica e arte nella ricerca della verità». Tale
alleanza si fonda sulla centralità dell’interiorità e della sua dimensione, richiamo che
spesso assume una «connotazione mistica, sanzionata da richiami più o meno generici al
neoplatonismo di Plotino» (p. 67). Si tratta, però, del riconoscimento di una centralità
sempre plurivoca, se è vero che alla sottolineatura della dimensione dell’interiorità
segue una certa attenzione ad alcune posizioni di Goethe, tanto che a un certo punto non
è più l’interiorità a dominare la scena: Denn was innen, das ist außen («Quel che è
interno è anche esterno»). Ed ecco il ritorno alle forme (sulle quali l’occhio si ferma,
tanto per contemplarle quanto per studiarle), alle quali viene assegnato sì un carattere di
astrazione, ma che al contempo rilanciano la necessità – precisa l’Autore – di prestare la
dovuta attenzione alle modalità con cui, sia a livello produttivo che a livello fruitivo,
intervengono processi di elaborazione del dato sensorial-percettivo.
Tenere in conto l’esistenza e le modalità di tali processi di elaborazione rimarcano un
altro tema, quello dei modi in cui gli individui reagiscono all’arte, dei modi in cui essa
viene «sentita». A questo punto, Poggi introduce due concetti, quello di «empatia» e
quello di «astrazione». Se Worringer parla di empatia nel senso di una condizione per la
quale «il godimento estetico è il godimento oggettivato di noi stessi», vi è un altro polo
su cui si concentra il «sentire l’arte» ed è quello che spinge verso l’«astrazione», la
«trascendenza»: «l’empatia è in azione nel farci apprezzare la “bellezza dell’organico”,
di ciò che vive e pulsa in noi all’unisono con la vita della natura. Ma è indispensabile
prendere atto dell’esistenza anche di una bellezza “nell’inorganico che nega la vita”: la
bellezza appunto dell’astrazione impersonale – “cristallina” – delle leggi di natura nella
loro astratta necessità» (pp. 73-4). Rispetto a questa dualità, che lo stesso Worringer non
considera definitiva, si ripresenta nuovamente il tema dell’esperienza mistica o, come
precisa Poggi, della «forma mentale del misticismo», che si manifesta come il «modello
di complementarità […] di empatia e astrazione che è a fondamento della creazione
artistica».
Ma torniamo, con il quarto capitolo (Estasi e destino, pp. 81-91), all’anima e alla sua
funzione unificante e unificatrice. Tale azione si esprime nell’estasi, condizione nella
quale è possibile vivere «in modo diretto un’unità che è a un tempo unicità e solitudine
assoluta, la stessa per cui può prendere improvvisamente forma lo sgomento dinanzi
allo spalancarsi di un abisso insondabile» (p. 82). Nell’anima di chi è in preda all’estasi
si presenta, non ricomponibile, la scissione quasi tragica tra ciò che c’è di più intimo e
profondo e l’impossibilità della sua traduzione in linguaggio, della sua verbalizzazione.
Ne Die Seele un die Formen («L’anima e le forme»), György Lukács ci presenta le
grandi forme estetiche come dei sentieri che ci conducono all’abisso, un abisso che
circonda il linguaggio. Ciò significa che il silenzio è alla base dell’opera d’arte, esso è
ciò che non può esser detto, è l’indicibile e l’indecidibile da cui l’opera sgorga, è
l’oscurità che si cela dietro ogni sua rivelazione. Le parole ci sembrano ovvie e scontate,
noi viviamo in un mondo già rivestito linguisticamente e nel quale le parole, a loro
volta, sono costituite; è una realtà preformata. La parola, dunque, non è più un evento
che rompe il silenzio. La parola cessa e subentra l’arte, originata da quel silenzio e che a
quel silenzio ritorna.
Secondo
Thomas
Harrison
l’anello
tragico
costituito
da:
silenzio
del
linguaggio/silenzio dell’arte/tragedia dalla quale si origina l’arte/tragedia a cui essa
perviene, diviene consapevole di sé attorno al 1910, anno di pubblicazione di Die
Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge («I quaderni di Malte Laurids Brigge») di
Rilke, dello stesso L’anima e le forme di Lukács, delle riflessioni di Kandinskij sullo
“spirituale” nell’arte, nonché delle ricerche di Arnold Schönberg e dei pittori
espressionisti. Questa consapevolezza sarebbe legata al loro tentativo di innalzare l’arte
al rango di proposta filosofica, andando alla ricerca della forma fisica dell’anima pura.
Per gli artisti e intellettuali di quegli anni, come ha scritto Harrison, nessuna forma o
tecnica estetica è giustificata se non in quanto espressione esterna di contenuti interni
(Th. Harrison, Filosofia dell’arte, filosofia della morte). L’esigenza prioritaria e
indiscussa è quella di dar spazio e voce all’essenza, in aperto contrasto con la falsità,
l’inautenticità e la reificazione tipiche della società contemporanea.
Si tratta di un’arte che tende verso l’assoluto, che parte dalla tragedia dell’esistenza
umana e del mondo imbarbarito e che termina nella tragedia dell’impossibilità di
riconciliare ciò che è irrimediabilmente scisso, compreso il suo anelito verso l’Assoluto
come identità, completezza, superamento definitivo tanto dell’universale quanto del
particolare. Questo tratto profondamente tragico coincide con l’impossibilità, con il
limite. Ritorna, così, l’idea dell’arte contemporanea come arte non più “bella”, ma
“sublime”, un’arte, cioè, la cui esperienza non è che la presa di coscienza del limite e la
consapevolezza di poterlo pensare. L’artista è chiamato a misurarsi con l’estremo, il
quale trova spazio ed espressione nell’opera d’arte: per l’anima ridestatasi, scrive
Lukács, il limite è il riconoscimento di ciò che le appartiene veramente (L’anima e le
forme).
Proprio uno dei saggi che compongono L’anima e le forme è dedicato a Rudolf
Kassner, che all’inizio del Novecento, in particolare con Die Mystik: die Künstler und
das Leben («La mistica. Gli artisti e la vita», 1900), aveva dedicato grande attenzione
all’esperienza mistica, assegnandole un carattere di radicalità e di paradigmaticità tale
da farne un’esperienza complessa capace di far emergere «i tratti costitutivi della
visione tragica del mondo». Il rapporto tra arte e mistica, che comporta un’implicazione
reciproca, diventa decisivo: «se per un verso quel che la prima crea ed esprime nei suoi
prodotti è il movimento, è il ritmo della vita – vita che è sempre espressione e, in quanto
tale, si dà in forme –, per un altro è la seconda a essere in grado di pensare quel
movimento, quel ritmo, senza per questo avanzare la pretesa di esserne creatrice: “gli
artisti sono i dialettici della vita mistica e i mistici gli artisti del pensiero”» (p. 87).
Quindi, nella Germania d’inizio Novecento – e siamo al quinto capitolo (Lo
spirituale nell’arte, pp. 93-116) – il primato della creazione artistica e il suo
accostamento all’esperienza mistica sono dati acquisiti. Nella misura in cui l’arte è
«sentire», l’unica visione che ci assicura non può che essere una «visione interiore», ben
al di là della realtà, che è considerata sostanzialmente «posticcia». L’arte ci mette
dinanzi a una rivelazione, scrive Poggi, «non segnando un progresso in una storia che in
definitiva non si dà, vista l’eternità di quanto l’arte ci rivela» (p. 98). Ma le rivelazione
dell’arte, come già ripetutamente detto, sono strettamente e profondamente connesse
allo statuto dell’opera d’arte, nonché alla sua forma e al valore simbolico di
quest’ultima. Ed è alla forma che occorre ritornare ancora una volta.
Come sottolinea l’Autore, la forma dell’opera d’arte richiama in sé due elementi
fondamentali. Per un verso, entra in gioco «la concreta espressione dei sentimenti nel
simbolo»; per altro verso, si realizza «la vera e propria messa in opera del simbolo
“secondo le leggi eterne della creazione artistica”» (p. 100). La forma, allora, non è
semplicemente il contorno di una figura né, tantomeno, è una realtà statica. Essa,
invece, è una realtà mutevole, dinamica, in tensione con un altro elemento chiave
dell’opera d’arte, il colore. Una di quelle che Poggi definisce le «leggi costanti,
immutabili che valgono per l’arte di tutti i secoli» prevede che «il colore decide della
forma e la sottomette» (p. 101). A questo punto si apre un’altra questione, che riguarda
esattamente il rapporto tra colore e forma e l’eventuale primato dell’uno rispetto
all’altra (o dell’altra rispetto all’uno).
Il dibattito sul colore, al di là dell’originario contributo di Goethe, trova ampio spazio
nella Monaco d’inizio Novecento. Tra gli artisti più interessati a prender parte e
posizione in questo dibattito c’è Kandinskij, il quale assegna al colore una «forza
inaudita», non soltanto per il ruolo che esso ha nell’arte e nella pittura, ma anche per la
funzione che espleta nella nostra relazione percettiva con il mondo. Il colore, peraltro,
manifesta una tale complessità da agire energicamente sull’anima, la quale trova nel
colore il migliore degli strumenti possibili per esprimere e comunicare i sentimenti.
Ancora più efficace sarà l’individuazione di colori innaturali da associare agli oggetti
raffigurati, così da assegnare a essi – scrive Poggi – un chiaro valore espressivosimbolico. La posizione di Kandinskij, rispetto al primato conteso tra colore e forma, è
netta: «le forme, le forme viventi, ogni raffigurazione o riproduzione non hanno alcuna
rilevanza, se non quella di ottundere la forza primigenia del colore» (p. 104).
In Kandinskij, poi, si ripresenta il concetto di “interiorità”, al cui livello agisce lo
«spirito creatore», il quale però opera con strumenti terreni. Lo spirito creatore è
massimamente astratto, nel senso che astrae dai vincoli esterni, materiali e plasma la
forma materiale. L’artista, che è mosso da una pulsione tutta interiore, è una
componente del processo creativo, che si estende ben al di là dell’individuo, della
materia, degli oggetti, degli strumenti. Questo “al di là” comporta il superamento
dell’immediatezza materiale e percettiva e il dischiudersi di un universo immateriale
che ha qualcosa di «segreto, enigmatico, mistico» (p. 109). Poggi, in questa tendenza
antimaterialistica, intravede il riflesso di una certa attenzione per le concezioni
occultistiche che circola nell’Europa di quegli anni e che avevano contagiato anche
figure vicine a Kandinskij, come Franz Marc. Di fondo c’è il rifiuto del materialismo, si
diceva, a favore di un’esaltazione dello spirito e dello spirituale, uniche forze realmente
agenti nel farsi della creazione artistica. I sensi sono strumenti, mezzi attraverso cui
l’artista compie una precisa azione: assolvere a un compito eminentemente conoscitivo,
vale a dire superare ogni scissione ed elevarsi a una superiore unità. È qui che si
saldano, in Kandinskij, tre dimensioni: quella artistico-creativa, quella spirituale e
quella mistica. Nell’artista russo «la convinzione della necessità di avviarsi nella
direzione dell’opera d’arte del futuro guardando all’interiorità con la guida della mistica
è esplicita e decisa» (p. 114).
Arriviamo così all’ultimo capitolo, intitolato «La mia anima chiara come il
cristallo», nelle cui pagine, un po’ come accade per un romanzo giallo, ci si imbatte
nella chiarificazione del titolo (e, in qualche modo, anche del senso o di uno dei sensi)
del libro. Si è detto come nella Germania degli anni Venti fosse particolarmente diffuso
e forte il richiamo all’esperienza mistica come sfondo sul quale prende poi forma ogni
produzione artistica. Sotto questo profilo, chiarisce l’Autore, l’opera d’arte arriva a
essere intesa al pari di un «gesto estatico» (oltre che «estetico»), una chiamata alla quale
l’artista risponde poiché il suo sguardo, come accade per il mistico, è rivolto non alla
realtà esterna ma a ciò che gli si rivela nell’interiorità.
Si afferma la convinzione che la pratica artistica ha un fondo metafisico, non
riducibile o riconducibile al piano sociologico o fisiologico, ed ha a che fare con la
dimensione dell’interiorità, della realtà più profonda, al di là del principio di piacere.
Quest’ultimo aspetto, però, lascia aperto il problema di come possa un’arte caricata di
un tale spessore conoscitivo e teoretico assicurare «uno stato di felicità». Non viene in
soccorso la teoria dell’empatia, considerata troppo riduttiva, se non fuorviante. Ciò che
provoca l’opera d’arte è qualcosa di imperscrutabile e insondabile, è qualcosa di
inesplicabile che, pur tuttavia, ha un profilo emotivo. L’opera d’arte – come ha scritto
Daniel Kahnweiler – ha «un potere gravido di mistero», formula che Poggi mette in
relazione con il richiamo kandinskijano al «misticamente necessario» a cui l’artista si
attiene per esprimere «lo spirituale» perché, al di là della scelta tra una mistica senza
Dio e una mistica di stampo religioso, l’esperienza mistica si infrange sugli spigolosi
scogli del linguaggio formalizzato e della logica. La mistica e l’arte, dunque, finiscono
con il convergere nuovamente, questa volta nella dimensione dell’inesprimibile che
prova a trovare forma espressiva nell’esprimibile, nel tentativo di dare forma
all’informe, suoni e colori al silenzio dell’interiorità, ricorrendo a immagini, simboli,
metafore, allegorie, muovendosi nel territorio misterioso della non-immediatezza.
Sul tema del rapporto conflittuale tra mistica e logica, tuttavia, le posizioni non sono
omogenee. Alle tesi di Joseph Bernhart, che sostiene come la mistica non possa reggere
alla «luce» della logica, Poggi oppone il Ludwig Wittgenstein del quale un preoccupato
Bertrand Russell parla all’amica Lady Ottoline Morrell nei termini di un convertito alla
mistica («è diventato mistico», scrive Russell), ma anche il Bölsche dell’introduzione al
Cherubinischer Wandersmann («Il pellegrino cherubico») di Angelus Silesius, nella
quale si legge che nella mistica risplende l’interiore cristallo della logica (p. 140).
Poggi giunge, così, a chiarire il riferimento condensato nel titolo del volume, vale a
dire la metafora del cristallo, una metafora che pare essere particolarmente attraente. Se
Bölsche riconduce il cristallo alla logica, in Klee quest’immagine rinvia «all’interiorità
di una visione dove le leggi della natura risplendono nella loro trasparente e nitida
necessità». Allo stesso tempo, il cristallo assegna a quelle leggi un «carattere algido,
impersonale», che assoggetta nello «sgomento» di chi in esse intravede l’essenza stessa
della natura. Ancora in Klee, poi, cristallina è l’anima, riprendendo – ci spiega Poggi –
la stessa espressione che Édouard Schuré utilizza in riferimento a Rudolf Steiner. Ma
qual è il compito dell’artista? Chiudersi in quell’anima cristallina? La risposta è
negativa. L’artista deve tenere fisso lo sguardo sul mondo in rovina, su quelle macerie
che comunque costituiscono il materiale sul quale esercitare la propria azione di
astrazione. A proposito di macerie e di rovine, non è un caso che a questo tema Walter
Benjamin, nelle pagine della raccolta Angelus Novus, affianchi espressamente l’opera di
Klee che porta come titolo, appunto, Angelus Novus: «C’è un quadro di Klee che
s’intitola Angelus novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da
qualcosa su cui fissa lo sguardo. […] Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una
catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su
rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e
ricomporre l’infinito. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue
ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge
irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale
davanti a lui al cielo» (W. Benjamin, Angelus Novus).
Ma torniamo alla metafora del cristallo. L’Autore, a questo riguardo, precisa che tale
riferimento, in Klee, non va inteso come prova di una qual certa sintonia con le
tendenze misticheggianti d’inizio Novecento né di un cedimento alle suggestioni che
fanno presa su Ernst Bloch, che parla di «cristallina foresta dell’Io». Piuttosto, prosegue
Poggi, gli elementi che possono ravvisarsi nell’immagine di Klee sono alcune
declinazioni antroposofiche della gemmologia, Novalis («poeta della cristallizzazione»),
certi temi vitalistici di ascendenza nietzscheana, nonché la lettura di Abstraktion und
Einfühlung («Astrazione ed empatia») di Worringer. Il punto centrale è che Klee «fa
dell’immagine del cristallo trasposta nell’interiorità dell’artista il vero e proprio simbolo
della ricerca e della delineazione di forme volte a cogliere ed esprimere le leggi che,
nella loro purezza, reggono l’essenza dinamica e creatrice della natura» (p. 144).
Eppure, scrive l’Autore, dall’immagine dell’«anima chiara come il cristallo»
(annotata nel suo diario, nell’anno 1914), Klee si allontana negli scritti successivi ai
primi anni della guerra, non ne fa menzione, se non nella sua produzione pittorica, con
lavori come Kristall-Stufung («Gradazione di cristallo»). Questa transizione sta a
significare l’imporsi in Klee della convinzione che «l’Io non è più quello di un’anima
cristallina, ma di un “insieme organico-drammatico”» (p. 152), che deve avere come
orizzonte di senso la visibilità di ciò che visibile non è. Klee apre la sua Schöpferische
Konfession («Confessione creatrice», 1920) con questa espressione: «L’arte non ripete
le cose visibili, ma rende visibile». È qui sintetizzata la teoria dell’astrazione di Klee,
che supera l’idea di rappresentazione realistica, a favore della ripresa di tutte le forme
elementari della visione, non attraverso l’«occhio retinico», ma attraverso quello ben
più penetrante dell’artista.
Sono molte le suggestioni, i temi e gli interrogativi posti da Poggi nel suo prezioso
saggio. Ma, dovendo concludere questa presentazione, vorrei richiamarmi ancora alle
parole dell’Autore, il quale, nelle righe finali della sua Introduzione, chiarisce e
sintetizza lo spirito con il quale ha affrontato, studiato, approfondito e interpretato i temi
trattati nel libro. Lo spirito è quello di chi, pienamente consapevole del sentirsi “erede”
di una tradizione culturale, intende adoperarsi affinché non vada perduta la memoria di
idee e di eventi dai quali proveniamo: «quella memoria, molto semplicemente, può
aiutare a comprendere alcuni non secondari aspetti del mondo in cui ci troviamo a
vivere facendo vedere – è un criterio esplicativo di antica data – da cosa essi traggano
origine» (p. 14).
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