ORDINE CONSULENTI DEL LAVORO DI ASCOLI PICENO Convegno “JOBS ACT e la riforma dei contratti” San Benedetto del Tronto 22/5/2015 Relazione Avv. Prof. Francesco Stolfa Ufficio Legale ANCLSU- Roma docente nel Master in “Gestione del Lavoro e Relazioni Sindacali” Università degli Studi di Bari “ A. Moro” SOMMARIO: Premessa - Il cd. contratto a tutele crescenti, ovvero la nuova disciplina dei licenziamenti individuali e collettivi (La disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi). - L'esonero contributivo triennale ex art. 1, co. 118 ss. della L. 190/2014 - D. Lgs. 4 marzo 2015, n. 22: la NASPI e i lavoratori licenziati per motivi disciplinari - La bozza di decreto sulle tipologie contrattuali Premessa.- Il legislatore italiano, in questo tormentato scorcio di legislatura, ha proprio deciso di toglierci il sonno in quanto ha cominciato a inondare il diritto del lavoro di riforme talmente complesse e, per molti versi, ambiziose che nessuno avrebbe immaginato, fino a qualche mese fa, potessero essere realizzate nel nostro complicatissimo Paese e sopratutto in così poco tempo. In pratica, è l'intero impianto del nostro diritto del lavoro che viene messo in discussione e forse non abbiamo ancora visto fino a che punto. Certo lo strappo politico, rispetto alle vecchie prassi consociative e, in particolare, rispetto al ruolo decisivo tradizionalmente riconosciuto alle organizzazioni sindacali in questi processi legislativi è stato forte, come testimonia l'asprezza del dibattito parlamentare (se così volessimo definire una serie di continue baruffe ai limiti [e spesso anche oltre i limiti] dello scontro fisico condite di urla e parolacce) ed extraparlamentare (si pensi agli ormai inguardabili cd. talkshow televisivi). Anche i convegni sul tema, anche quelli di più alto livello scientifico risentono del clima da stadio e offrono molte, veementi analisi di tipo politico ma pochissime analisi di tipo tecnico-giuridico, peraltro quasi sempre fortemente orientate da pregiudizi pro o contro la riforma. Il compito che mi sono attribuito in questa mia relazione è, invece, quello di evidenziare ed analizzare giuridicamente gli aspetti della riforma che incidono più direttamente sull'operato del Consulente del Lavoro, evitando ogni valutazione politica o comunque lasciandola sullo sfondo del mio ragionamento. Per tentare una corretta analisi interpretativa è sempre necessario partire dalla individuazione della ratio della normativa da esaminare. Nel caso in esame, questa indagine, per essere davvero corretta non può essere condotta con riferimento ai singoli provvedimenti ma deve necessariamente estendersi al complessivo e articolato intervento riformatore che va sotto il nome di Jobs Act, nell'ambito del quale occorre ricomprendere non solo la legge delega 183 del 2014 e i relativi decreti delegati (alcuni dei quali sono ancora in “gestazione”) ma deve estendersi quanto meno anche al cd. esonero contributivo triennale introdotto dai comma 118 ss. della legge di stabilità 2015, la L. 190/2014. Su questo argomento, nei primi commenti apparsi sulla 1 pubblicistica specializzata ma anche in quelli della migliore dottrina giuslavoristica sono state proposte letture insoddisfacenti o addirittura fuorvianti. La finalità perseguita dal legislatore con questa normativa non pare affatto quella di ottenere significativi incrementi occupazionali o addirittura la riduzione del tasso di disoccupazione. Un obiettivo del genere pare difficilmente perseguibile con meri strumenti di tipo legislativo e comunque non traspare in alcun modo dal testo normativo. Più convincente appare la lettura di chi ritiene che scopo dell'esonero sia quello di realizzare una sorta di “bonifica” del mercato del lavoro italiano da tutta una serie di forme ibride e precarie di occupazione che da tempo lo avevano, come dire, “inquinato” creando notevoli problemi ai lavoratori più giovani ma anche alle stesse aziende. Chi opera professionalmente nel mercato del lavoro italiano sa bene che queste forme ibride, di lavoro cd. parasubordinato, hanno avuto una diffusione davvero abnorme. Le aziende, infatti, e anche un po' i consulenti sono stati indotti ad utilizzarle diffusamente solo perchè la legge le aveva in qualche modo “codificate” fissando adempimenti amministrativi interni (buste paga, libro unico ecc.) ed esterni (comunicazioni al centro per l'impiego) nonchè previdenziali, che li facevano assomigliare sin troppo al lavoro subordinato. Per cui molti operatori hanno trascurato il problema della natura effettiva del rapporto che, ovviamente, poteva essere qualificato come parasubordinato solo se era di lavoro autonomo. In realtà, co.co.co., co.co.pro. o associazioni in partecipazione sono state utilizzate al solo scopo di ridurre o flessibilizzare il costo del lavoro specie nei periodi iniziali di rapporti che avevano spesso palese natura subordinata. A tutto ciò si aggiunga l'uso eccessivo e distorto dei contratti a termine e di quelli apprendistato, quest'ultimo divenuto – nelle intenzioni a suo tempo espresse dallo legislatore del cd. testo unico – addirittura il canale principale di accesso al mondo del lavoro. Queste forme atipiche di occupazione, oltre ad elevare fuori misura il tasso di precariato nel nostro mercato del lavoro, si sono spesso rivelate vere e proprie trappole micidiali per le stesse aziende in quanto l'attività ispettiva del Ministero del Lavoro o degli enti previdenziali non è mai stata tenera quando è stata chiamata a valutarne la legittimità. È questa palude di instabilità, di incertezze e di conflitti che il Jobs Act mira a disboscare: più che creare nuova occupazione lo scopo del legislatore pare essere, quindi, quello di migliorare la qualità e soprattutto la stabilità di quella esistente. Questo obbiettivo appare evidente già dalla esclusione dall'esonero contributivo triennale dell'apprendistato e dei contratti a termine ma si coglie meglio se si considera l'intervento riformatore complessivo e quindi anche gli altri strumenti messi in campo con il cd. Jobs Act: riduzione delle tutele contro i licenziamenti (solo per i nuovi assunti, allo scopo di rendere ulteriormente più conveniente il lavoro a tempo determinato); drastica stretta sulle forme contrattuali atipiche quali partite IVA. associazioni in partecipazione e collaborazione parasubordinate. Questi obiettivi della riforma trovano piena conferma nel testo legislativo sia delle legge delega 183/2014 sia nel comma 118 della legge di stabilità (il cui incipit recita proprio: “Al fine di promuovere forme di occupazione stabile...”) ed è stata 2 espressamente evidenziata anche nella circolare INPS, n. 17/2015. Certo quello appena esaminato non è l'unico obiettivo perseguito dalla riforma. Evidente traspare anche l'intento di semplificare e flessibilizzare i vincoli e le tutele nell'ambito del rapporto di lavoro, aumentando invece, almeno teoricamente, quelle destinate a operare nell'ambito del mercato del lavoro (riforma degli ammortizzatori sociali con la creazione della Naspi); ma, a mio avviso, l'obiettivo principale resta quello di bonificare il mercato del lavoro e ricondurre ad unità le forme contrattuali. Non è compito nostro, in questa sede, valutare né la bontà di tali obiettivi né la congruità degli strumenti messi in campo per perseguirli; ma è certamente compito nostro tenere conto di questa ratio legis al fine di interpretare correttamente le nuove disposizioni. Prima di procedere all'esame dei singoli provvedimenti voglio tuttavia fornirvi un'altra importante avvertenza d'uso. La riforma nel suo complesso è stata accolta con sfavore dalla dottrina giuslavoristica (storicamente molto influenzata dalle posizioni del sindacato confederale) e vista come un notevole “arretramento” rispetto ai livelli di tutela che erano assicurati dalla disciplina previgente. La maggior parte dei commentatori, quindi, si sta orientando verso un'esegesi dichiaratamente orientata a “limitare i danni”, ossia a ridimensionarne la portata innovativa. Orientamento interpretativo che poi finirà per influenzare inevitabilmente le pronunce della giurisprudenza. Questo contrasto fra l’orientamento del legislatore e quello degli interpreti più qualificati rappresenta un problema gravissimo per gli operatori professionali (imprenditori e loro consulenti) i quali, nell’applicare quelle leggi, sono costretti a fare anche un po' da indovini, dovendo tener conto della possibilità che sorgano e si affermino opzioni interpretative molto restrittive, talvolta in non piena sintonia col testo normativo, e per tentare di prevedere i problemi (e i rischi) che ne potrebbero derivare alle aziende. Nel corso di questa mia relazione - tenendo anche conto del dibattito già emerso nei primi convegni scientifici svoltisi sul tema - tenterò di aiutarvi ad individuare alcune di queste “sorprese” che potrebbero emergere in sede interpretativa e le possibili soluzioni prudenziali adottabili in via prudenziale. Il cd. contratto a tutele crescenti, ovvero la nuova disciplina dei licenziamenti individuali e collettivi. È opportuno partire dal D. Lgs. 23/2015, quello, fra i due decreti delegati già in vigore che pare destinato a introdurre le novità più importanti nel nostro mercato del lavoro. La prima considerazione da fare è che si tratta di una disciplina destinata a produrre effetti più ampi di quelli dichiarati poiché non è stato posto alcun limite temporale alla sua vigenza (come ci si sarebbe aspettati tenendo conto dello scopo di incentivare le assunzioni a tempo indeterminato) ed essa è destinata ad estendersi progressivamente a tutta la platea dei lavoratori operanti sul nostro mercato del lavoro. Il normale turn-orver già determinerebbe col tempo una progressiva 3 estensione delle “tutele crescenti” man mano che i rapporti di lavoro oggi in essere verranno via via sostituiti con nuove assunzioni. Ma c'è da giurare che, nel periodo successivo all'entrata in vigore del nuovo decreto legislativo, il normale turn-over subirà una accelerazione per la naturale tendenza degli imprenditori a far cessare i rapporti in corso per sostituirli con quelli nuovi meno tutelati. Un argine contro questa prevedibile tendenza era stato individuato dalla Commissione Lavoro della Camera che aveva suggerito di escludere dal campo di applicazione del nuovo decreto i rapporti di lavoro che rappresentassero la riproposizione di precedenti rapporti già esistenti fra le medesime parti; ma il governo, titolare della funzione legislativa delegata, non ha inteso raccogliere questo suggerimento. Nel decreto, anzi, sono presenti due norme che sono destinate ad estenderne gli effetti anche su alcuni rapporti di lavoro preesistenti: 1) l'art. 1, co. 2, infatti, estende la disciplina delle tutele crescenti anche ai rapporti di lavoro costituiti a tempo determinato o in forma di apprendistato, prima dell'entrata in vigore della riforma, e successivamente trasformati a tempo indeterminato, dopo il decreto attuativo del Jobs Act; 2) il successivo comma 3, la estende anche ai rapporti di lavoro costituiti precedentemente in aziende che, a seguito delle nuove assunzioni (effettuate in vigenza del decreto), abbiano superato i limiti dimensionali previsti come condizione per l'applicazione dell'art. 18, L. 300/70. Quest'ultimo comma persegue evidentemente lo scopo di incentivare la crescita dimensionale delle imprese, evitando quegli assurdi fenomeni di nanismo aziendale indotto dalla legge, tipici del nostro mercato del lavoro. Sotto questo profilo, alcune fra le prime analisi intervenute in sede scientifica hanno ipotizzato una illegittimità costituzionale del decreto legislativo poichè avrebbe ecceduto la delega di cui alla L. 183/2014; questa, all'art. 1, comma 7, lett. c), autorizzava, infatti, il governo a regolare solo le “nuove assunzioni” e non gli consentirebbe, quindi, di intervenire su contratti già stipulati prima della sua entrata in vigore. Dico subito che una simile interpretazione della legge delega lo ritengo piuttosto discutibile in quanto il riferimento operato dal legislatore alle “nuove assunzioni” pare rigiardare chiaramente i contratti a tempo indeterminato e non certo le varie forme di rapporti precari che in essi potrebbero convertirsi. A ciò si aggiunga che scopo evidente della riforma pare proprio quello di incentivare la sostituzione dei contratti precari con quelli stabili e non si vede perché tale incentivo non dovrebbe operare anche nei confronti dei contratti precari già costituiti. Questa però è una di quelle “trappole” di cui parlavo prima, specie tenendo conto dell'atteggiamento ostile degli interpreti che rende elevato il rischio che la questione venga effettivamente sollevata dinanzi alla Corte Costituzionale; e se questa l'accogliesse, magari a distanza di anni, ne deriverebbe l'applicazione della disciplina generale sui licenziamenti a quei contratti che si era creduto di stipulare “a tutele crescenti”. A questo punto, perciò, indipendentemente dalla fondatezza o meno della questione, poiché le aziende hanno la possibilità di scegliere se operare la conversione dei contratti a termine e di apprendistato ovvero far cessare quei rapporti 4 per poi stipulare un nuovo contratto a tempo indeterminato, non pare proprio il caso di correre il rischio ed è, quindi, consigliabile adottare la seconda soluzione. Restano espressamente esclusi dal campo di applicazione del Jobs Act i rapporti di lavoro dei dirigenti. La disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi. Le novità introdotte riguardano, in particolare, le conseguenze sanzionatorie dei licenziamenti illegittimi; al riguardo essa distingue quattro grandi gruppi: 1) licenziamenti (individuali o collettivi) discriminatori, nulli o orali nonché licenziamenti intimati per inidoneità psico-fisica; [licenziamenti intimati per superamento del periodo di comporto]. 2) licenziamenti per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo per i quali sia stata direttamente provata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore; 3) altri casi di licenziamento individuale illegittimo nel merito, intimato per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo (compresi quelli per i quali il fatto contestato sia stato accertato ma la sanzione espulsiva sia stata ritenuta eccessiva dal Giudice nonché tutti quelli intimati per giustificato motivo oggettivo, quelli collettivi illegittimi per violazione delle procedure o dei criteri di scelta dei licenziandi); 4) licenziamenti ritenuti illegittimi per carenza di motivazione o per altri motivi formali o procedurali. Per ognuno di questi gruppi prevede una distinta reazione sanzionatoria dell'ordinamento. Gruppo 1. Si tratta di licenziamenti giuridicamente nulli o addirittura inesistenti in quanto affetti da gravissimi vizi di carattere sostanziale (intimati per motivi discriminatori, ritorsivi ecc. o tali da incidere su diritto fondamentali del lavoratore come persona, come il diritto alla salute) o formale (carenza di forma scritta). In questi casi la sanzione è quella massima, corrispondente alla cd. tutela reale piena, mirante cioè a ripristinare il rapporto di lavoro tenendo esente il lavoratore da qualsiasi pregiudizio. Quindi: reintegrazione, pagamento integrale delle retribuzioni arretrate (commisurata a quella utile ai fini del TFR, con limite minimo di 5 mensilità e detrazione dell'aliunde perceptum) e dei relativi contributi. Gruppo 2. Sono i licenziamenti di natura disciplinare che incidono sulla dignità personale e sull'immagine pubblica del lavoratore e che, per questo, sono assistiti dalla cd. tutela reale parziale: reintegrazione, pagamento al lavoratore di una indennità risarcitoria da zero a dodici mensilità retributive, versamento integrale agli enti previdenziali dei contributi dovuti per tutto il periodo intercorso fra il licenziamento e la reintegrazione (o la richiesta di indennità sostitutiva). 5 Gruppo 3. Questo gruppo, per la verità appare disomogeneo in quanto comprende tutti i tipi di licenziamento adottati nell'interesse dell'impresa (secondo la definizione di pera) sia individuali che collettivi; e questo appare conforme alla lettera e alla ratio della delega che, appunto, si riferiva a tutti i licenziamenti cd. economici, senza alcuna distinzione e comunque è chiaramente orientata ad attenuare le sanzioni del recesso che non incida su diritti del lavoratore in quanto persona (quelli dei due gruppi precedenti, appunto). Comprende però anche i licenziamenti disciplinari esclusi dal campo di applicazione del comma 2 e cioè quelli per i quali non sia stata fornita prova del fatto contestato o – come meglio vedremo più oltre - non rientranti proprio della relativa fattispecie. La tutela, per questo gruppo di licenziamenti è di tipo meramente obbligatorio e implica il pagamento di una indennità risarcitoria, non assoggettata a contribuzione previdenziale, crescente, cioè proporzionata all'anzianità di servizio del lavoratore di importo pari a due mensilità per ogni anno di servizio del prestatore, con tetto massimo di ventiquattro e minimo di quattro. Gruppo 4. una tutela ulteriormente attenuata è prevista, infine, per i licenziamenti viziati sul piano meramente formale per carenza di motivazione (in violazione dell'art. 2, co. 2 della L. 604/1966) o per mancato rispetto della procedura disciplinare prevista dall'art. 7, L. 300/1970 (o, deve ritenersi, anche dalla contrattazione collettiva). In tal caso, l'ammontare dell'indennità risarcitoria è fissato fra un minimo di due e un massimo di dodici mensilità. Piccole imprese. La nuova disciplina non si sottrae comunque completamente all'antico dualismo del mercato del lavoro derivante dalla dimensione delle imprese: quelle che non raggiungono i (due) requisiti dimensionali previsti dall'art. 18, L. 300/70, infatti, restano assoggettate alla tutela reale piena prevista per il gruppo 1 (in caso licenziamento nullo o orale) ma non a quella prevista per il Gruppo 2 (licenziamento disciplinare per fatto infondato). Gli importi della tutela obbligatoria, infine, così come prevista per licenziamenti di cui ai Gruppi 3 e 4, per le piccole imprese sono ridotti alla metà, con tetto massimo pari a sei mensilità. [SI VEDA LA TABELLA RIASSUNTIVA ALLEGATA] Organizzazioni di tendenza. Una importante novità rispetto al passato è rappresentata dalla piena estensione della disciplina sanzionatoria a tutte le cd. organizzazioni di tendenza (partiti, sindacati, enti religiosi ecc.) che in passato erano sempre stati assoggettati a una tutela attenuata in ragione della speciale rilevanza che il cd. intuitus personae assume nell'ambito dei rapporti di lavoro da esse costituiti. In relazione ai licenziamenti disciplinari occorre sottolineare che la nuova normativa recepisce i primi orientamenti affermatisi in giurisprudenza sulla legge Fornero in questi due anni trascorsi dalla sua emanazione. L’art. 3, II comma, del decreto fa rientrare esplicitamente fra le ipotesi di tutela meramente obbligatoria 6 anche i casi di licenziamento ritenuto illegittimo dal Giudice sulla base di una valutazione di “non proporzionalità”. In tal senso si era espressa recentemente la giurisprudenza della Cassazione (Cass. Sez. Lav. 06/11/2014 n. 23669) ritenendo che il richiamo alla “insussistenza del fatto” operato dalla legge Fornero fosse da intendersi, appunto, con riferimento al fatto materiale e non alla fattispecie giuridica. Ciò, in parole povere, significa che se al lavoratore viene contestato un determinato inadempimento e il Giudice accerta che il fatto materiale addebitato è realmente accaduto e, purtuttavia, egli non lo ritiene abbastanza grave da giustificare il licenziamento, a quel lavoratore verrà applicata la tutela meramente obbligatoria e il datore di lavoro rischierà soltanto di pagare l’indennità di cui all’art. 3, I comma (due mensilità per ogni anno di servizio, con un tetto minimo di quattro e uno massimo di 24). La disciplina generale (art. 18, come modificato dalla L. 92/2912), come è noto, prevede invece un tetto minimo di 12 mensilità ed è, appunto, meno chiara sulla disciplina applicabile al licenziamento ritenuto "non proporzionato". La riforma, in buona sostanza, riduce la discrezionalità del giudice sia nella individuazione della fattispecie tutelata sia nella determinazione dell’indennizzo. E ciò dovrebbe comportare, presumibilmente, anche una riduzione dei contenziosi. È il caso di rammentare che l’ANCL-SU, del resto, nel documento che aveva presentato al Governo e ai Parlamentari (da tempo pubblicato anche sul sito istituzionale ANCL) aveva espressamente richiesto una riduzione del tetto minimo di 12 mensilità che la legge Fornero fissava irrazionalmente per tutti i casi di tutela obbligatoria e che risultava palesemente eccessivo per le PMI. Rispetto a questo tipo di licenziamenti si è aperto tuttavia un rilevante contrasto interpretativo derivante dal fatto che il D. Lgs. 23/2015, nel delineare le ipotesi in cui esclude, in caso di licenziamento disciplinare illegittimo, la sanzione della reintegrazione, non menziona più quella in cui il contratto collettivo o il codice disciplinare aziendale puniscano il fatto contestato con una sanzione di tipo conservativo. Da una lettura della norma strettamente legata al dato testuale si potrebbe, quindi, ricavare la convinzione che la reintegrazione resti esclusa anche in presenza di inadempimenti particolarmente lievi, sempre che il fatto materiale contestato sia stato provato in giudizio (e sempre che esso costituisca un inadempimento contrattuale). A titolo di esempio si può pensare a un ritardo di mezz'ora nell'inizio del lavoro che costituisce certamente un inadempimento alle obbligazioni derivanti dal contratto di lavoro ma rispetto al quale la sanzione del licenziamento non potrebbe certo considerarsi adeguata; un lieve inadempimento del genere è sicuramente sanzionabile secondo il CCNL e il codice disciplinare con una sanzione molto meno grave del licenziamento. Ma, come abbiamo visto, il nuovo decreto parrebbe escludere che il licenziamento illegittimo in quanto sproporzionato possa essere sanzionato con la reintegrazione. Si potrebbe quindi pensare, appunto, che la riforma escluda l'applicabilità della tutela reale anche in ipotesi di inadempimento minimale, con conseguente applicazione della sola tutela obbligatoria (che, come visto, nei primi anni di lavoro comporta il versamento di indennizzi irrisori). Si potrebbe persino arrivare a ritene, come alcuni primi commentatori hanno 7 fatto, che l'onere della prova del fatto materiale contestato, ai soli fini del giudizio inerente la sanzione risarcitoria, sia onerato il lavoratore. Ma questa è appunto un'altra delle trappole di cui parlavo in premessa, poiché nelle prime analisi critiche della riforma si sta facendo strada la tesi secondo cui una simile lettura della norma si porrebbe in contrasto con la Costituzione o con i trattati europei; conseguentemente da più parti sono stati preannunciati ricorsi alla Corte Costituzionale e alla Corte di Giustizia Europea. Si stanno, quindi, ipotizzando da più parti altre interpretazioni della norma che mirano ad estendere la reintegrazione ai casi in cui il licenziamento sia stato comminato in fattispecie chiaramente sanzionate dal codice disciplinare (aziendale o del CCNL) con provvedimenti di tipo conservativo. Personalmente ritengo, ad esempio, che l'art. 3, co. 2, del D. Lgs. 23/2015 richieda non solo che sia stato provato in giudizio il fatto contestato ma anche che quel fatto integri comunque una fattispecie di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo; la norma infatti recita testualmente: “Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato”. Prima di accertare, quindi, se il fatto materiale contestato sia stato provato è necessario accertare se esso rientri nelle fattispecie tipizzate come g.c. o g.m.o.. Questo accertamento preliminare non può non essere condotto alla luce delle disposizioni negoziali che individuano tali fattispecie e delle quali il giudice è obbligato a tenere conto in forza del disposto dell'art. 30, comma 3, della L. 183/2010 (cd. collegato lavoro), che dispone: “Nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l'assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni”. Il giudice, quindi, è chiamato a compiere un duplice accertamento: innanzitutto a verificare se il fatto contestato rientra astrattamente fra le fattispecie punite dal codice disciplinare con la sanzione del licenziamento e solo successivamente dovrà accertare la veridicità del medesimo. Una volta accertata la corrispondenza del fatto contestato ai casi di licenziamento e accertato che tale fatto è realmente accaduto, gli resta inibita un terzo accertamento, quello inerente la proporzionalità in concreto della sanzione espulsiva rispetto al fatto/inadempimento contestato e accertato. In altre parole il giudizio di proporzionalità sottratto al giudice è solo quello da realizzare “in concreto”, una volta accertato il fatto materiale e defini i suoi contorni. Non è stata sottratta, invece, al giudice la valutazione della sussumibilità di quel fatto nelle fattispecie punite dalla contrattazione collettiva con il licenziamento. Per fare un esempio concreto. Poniamo che il CCNL disponga che il furto sia punito col licenziamento e che l'azienda abbia contestato appunto un furto che poi venga provato in giudizio. A quel punto il giudice, ove ritenga che rispetto a quel quel furto il licenziamento sia sanzione sproporzionata, potrà annullare il 8 licenziamento ma non potrà applicare la reintegrazione. Se invece il fatto contestato è un piccolo ritardo, il giudice potrà escludere anche la reintegrazione ritenendo che esso esuli dalle fattispecie anche astrattamente punibili alla luce del medesimo codice disciplinare aziendale. Indipendentemente, però, dalla fondatezza di tali rilievi e di tali orientamenti esegetici, tenendo anche conto dell'atteggiamento complessivo di dottrina e giurisprudenza il consiglio prudenziale che si può dare è quello di usare l'arma del licenziamento disciplinare, anche in questi rapporti a tutele crescenti, con buon senso e misura. In particolare, pare consigliabile rimanere comunque nei limiti del potere disciplinare così come delinati dal codici disciplinari evitando fughe in avanti che potrebbero rivelarsi rischiose. Del resto anche alla luce dei principi generali relativi alla esecuzione secondo correttezza e buona fede del contratto di lavoro – e nell'ottica di una moderna gestione delle risorse umane - mi pare opportuno che il lavoratore debba poter contare sulla tutela reale tutte le volte che il licenziamento violi palesemente le regole che lo stesso imprenditore si è autoimposto redigendo – in sede collettiva o aziendale – le norme del codice disciplinare. Ai contratti a tutele crescenti non si applica la speciale procedura di conciliazione preventiva fissata dall'art. 7 della L. 604/1966 per i licenziamenti intimati per giustificato motivo oggettivo ed introdotta dalla Legge Fornero. Questa eliminazione appare il segno dell'ennesimo fallimento delle procedure deflattive del contenzioso affidate agli uffici periferici del Ministero del Lavoro molti dei quali, in questo periodo di prima applicazione, si erano distinti per una eccessiva ingerenza nell'autonomia negoziale delle parti e, in particolare, nella determinazione dei contenuti dei verbali di conciliazione; cosa che aveva rappresentato l'ennesimo esempio di appesantimento burocratico non previsto dalla legge e aggiunto in sede amministrativa. La disciplina della revoca del licenziamento non presenta novità rispetto alla disciplina di carattere generale come modificata dalla cd. legge Fornero. Interessante, seppur farraginosa, è anche l’offerta di conciliazione disciplinata dall’art. 6. Essa, in sostanza, consentirà di conciliare le liti in materia di licenziamento escludendo da imposizione fiscale e previdenziale le somme da versare al lavoratore. Una richiesta simile aveva avanzato anche l'ANCL nel menzionato documento presentato alle forze politiche laddove aveva proposto di esentare da imposizione fiscale e previdenziale i versamenti che trovino origine nei verbali di conciliazione, al fine di incentivare la definizione non contenziosa della controversie. È prevedibile che questa norma, anche perché impone tempi molto celeri al tentativo di conciliazione (l’offerta deve essere formulata entro 60 giorni dal licenziamento), risulti efficace e possa costituire un utile incentivo alle conciliazioni. È prevedibile anche che in questa causale finiscano pure somme derivanti da rivendicazioni di altro tipo (differenze retributive, straordinari, ecc.). Un'altra novità molto importante è il dibattutissimo assoggettamento alla tutela 9 meramente obbligatoria dei licenziamenti collettivi, in caso di violazione delle procedure o dei criteri di scelta. Resta fuori solo l'ipotesi del licenziamento collettivo privo di forma scritta che sarà ovviamente sanzionato con la tutela reale piena, come ogni licenziamento orale. L'ANCL si era più volte espressa, nel corso dell'iter legislativo per questa soluzione, ritenendo che la genericità dei criteri di scelta fissati dalla legge o dalla contrattazione collettiva renda tali procedure eccessivamente rischiose per aziende che già si trovano in difficoltà. Prevedere, del resto, la reintegrazione per la violazione dei criteri di scelta significa innescare una sorta di guerra fra poveri, poiché, non essendo in discussione la giustificatezza di quel dato numero di esuberi, si tratterebbe solo di individuare i licenziandi; con la conseguenza, quindi, che la reintegrazione di alcuni comporterebbe inevitabilmente il licenziamento di altri. La tutela di tipo risarcitorio, in questi casi, appare più adatta in quanto viene incontro agli interessi dei lavoratori che hanno fatto causa senza danneggiare gli altri. Il problema, del resto, sembra già risolto nella delega che esclude dalla reintegrazione tutti i licenziamenti economici, senza operare alcuna distinzione, e quindi con chiaro riferimento anche ai licenziamenti collettivi. Se il decreto delegato avesse mantenuto la reintegrazione per questi ultimi avrebbe, quindi, con tutta probabilità, violato la delega conferita dal Parlamento. Un problema che la riforma lascia del tutto aperto, ed è la terza e ultima delle trappole, è quella della sanzione applicabile al licenziamento per superamento del periodo di comporto. La giurisprudenza ha da tempo stabilito che tale fattispecie non rientra né nella giusta causa né nel giustificato motivo (oggettivo o soggettivo). La legge Fornero lo aveva inserito fra le fattispecie sanzionate con la tutela reale parziale così come quello per inidonietà psico-fisica. Ora il D. Lgs. 23/2015 non ne parla affatto mentre ha assoggettato alla tutela reale piena (la medesima prevista per i licenziamenti nulli) il licenziamento per inidoneità. Un'omissione del tutto inspiegabile. Qualcuno ha parlato di malafede ma compito dell'interprete non è quello di psicanalizzare il legislatore bensì quello di porre rimedio alle sue lacune. Vi sono stati alcuni commentatori - di quelli che scrivono il giorno prima dell'entrata in vigore della legge sui maggiori quotidiani economici o su siti particolarmente frequentati anche dai consulenti del lavoro - i quali hanno sostenuto che il licenziamento per superamento del periodo di comporto potesse essere assimilato al g.m.o. e quindi assoggettato alla tutela meramente obbligatoria. È mio dovere segnalare che, invece, nei primi commenti di carattere scientifico la dottrina pare in maggioranza orientata a riesumare la figura della nullità per contrasto con norma imperativa di legge (l'art. 2110 cod. civ., che vieta di licenziare prima che sia decorso il comporto). Negli anni scorsi, a dire il vero, la giurisprudenza aveva escluso che questo tipo di licenziamento potesse essere ritenuto invalido, ma nulla impedisce che, alla luce della nuova legge, questo orientamento possa essere modificato. La pericolosità del licenziamento per comporto, dunque, non va minimamente sottovalutata poiché se dovesse affermarsi al tesi della nullità ex art. 1428 cod. civ. ciò comporterebbe il diritto del lavoratore licenziato al pagamento di tutte le retribuzioni maturate fino al ripristino del rapporto, con i relativi contributi, maggiorati di sanzioni (per evasione). Il licenziamento per 10 superamento del periodo di comporto va utilizzato quindi con estrema e, anzi, maggiorata prudenza. Nè si pensi che si tratta di un licenziamento molto semplice e privo di rischi derivando da meri calcoli matematici: le aule giudiziarie sono piene di cause in cui si discute di cosa si intenda per anno solare o anno civile, della computabilità dei giorni non lavorativi intercorrenti fra i vari periodi di malattia, del tempo massimo entro cui il licenziamento deve essere adottato (cd. spatium deliberandi ecc.). Del tutto inspiegabile, infine, risulta la decisione del legislatore di non applicare ai “nuovi” licenziamenti il rito processuale introdotto dagli art. 48-68 della L. 92/2012 (legge Fornero) che assicura una corsia preferenziale e un rito abbreviato alle cause che abbiano ad oggetto un'impugnativa di licenziamento. Si tratta di un istituto processuale che sta ormai andando "a regime" e ha provocato una nettissima riduzione dei tempi processuali occorrenti per arrivare a un provvedimento esecutivo nelle controversie, con reciproco evidente vantaggio sia per i lavoratori che per le aziende. Su questo punto le raccomandazioni dell’ANCL, purtroppo, non sono state ascoltate e ora il danno sarà soprattutto per i lavoratori che dovranno attendere anni (come avveniva in passato) per essere reintegrati o risarciti. Le aziende sono, invece, ormai parzialmente al riparo dal rischio di un eccessivo dilatarsi degli importi risarcitori (derivante dal protrarsi delle cause) in virtù dei tetti massimi ora fissati dalla legge ai risarcimenti. Nei rapporti di lavoro sorti prima della riforma continuerà, invece, ad applicarsi sia il vecchio art. 18 sia il processo accelerato, creandosi così un dualismo davvero inspiegabile. L'esonero contributivo triennale ex art. 1, co. 118 ss. della L. 190/2014 Consentitemi di esprimere qualche breve considerazione anche sull'esonero contributivo. Il primo rilevante problema esegetico concerne la riutilizzabilità del beneficio con il medesimo lavoratore in caso di sua assunzione da parte di altro datore di lavoro. Il caso è quello del lavoratore assunto con l'esonero ma licenziato prima dello scadere dell'anno di riferimento il quale venga assunto, sempre nel corso del 2015, da un datore di lavoro diverso dal precedente. Durante il travagliato iter legislativo della legge di stabilità, da più parti, era stato segnalato il rischio che la norma in esame potesse essere interpretata nel senso di non consentire tale possibilità. La norma recita infatti: “L'esonero ... non spetta con riferimento a lavoratori per i quali il beneficio di cui al presente comma sia già stato usufruito in relazione a precedente assunzione a tempo indeterminato”. Erano stati quindi presentati anche diversi emendamenti volti ad aggiungere a questo periodo la frase “con lo stesso datore di lavoro”, in modo da chiarire, in modo inequivoco, la possibilità di riutilizzazione del medesimo esonero in caso di successiva assunzione presso altro datore di lavoro. Diversi di questi emendamenti erano stati “suggeriti” dall'ANCL, tramite il suo ufficio legale ed erano stati fatti propri da diversi deputati che poi li avevano formalizzati. Purtroppo tali emendamenti, insieme a tutti gli altri di 11 origine parlamentare, sono sistematicamente decaduti a causa della reiterata presentazione della questione di fiducia da parte del Governo; per cui il problema ora è rimesso all'interprete. Si tratta di un tema particolarmente delicato in quanto ne potrebbero derivare conseguenze rilevanti in termini di segmentazione del mercato del lavoro o addirittura di discriminazione fra lavoratori. Occorre chiedersi, in definitiva, se un lavoratore assunto con l'esonero e successivamente licenziato, possa essere riassunto, con l’esonero contributivo, una volta riaccumulati i sei mesi di disoccupazione, presso altro datore di lavoro. Il testo legislativo pare fornire a questa tesi elementi di conforto poiché l’esclusione di cui alla seconda parte del secondo periodo del comma 118, può ben essere riferita ad assunzioni effettuate presso il medesimo datore di lavoro visto che solo nella prima parte di quel periodo si fa riferimento alle assunzioni effettuate presso “qualsiasi datore di lavoro”, specificazione questa che non ricorre, invece, nella seconda parte del medesimo periodo con riferimento alla fruizione ripetuta del beneficio. Ma è soprattutto, appunto, la ratio legis a confortare l’esegesi proposta poiché, se l'esonero è riconosciuto non al lavoratore bensì all'azienda per incentivarla alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro, quest'ultima non può minimamente essere penalizzata da precedenti rapporti di lavoro di quel medesimo prestatore ma di cui essa potrebbe anche non essere a conoscenza. Del resto, accumulando gli altri sei mesi di disoccupazione, quel lavoratore si troverebbe nuovamente in quella condizione di difficile collocabilità che costituisce il presupposto fondamentale per la fruizione integrale dell’incentivo in questione. Nell'ambito della finalità principale che, come si è detto, è quella di incentivare la stabilizzazione dei rapporti di lavoro, infatti, l'esonero di cui all'art. 1, comma 118 ss., della L. 190/2015, persegue anche chiaramente una finalità secondaria (non in ordine di importanza) che è quella di aiutare l'occupazione di quei lavoratori che trovino difficoltà nella collocazione o ricollocazione lavorativa (e che per questo siano rimasti senza stabile occupazione da oltre sei mesi). Ebbene, non si vede per quale ragione quel medesimo lavoratore non possa essere aiutato più di una volta se dopo una primo periodo incentivato venga nuovamente a trovarsi in difficoltà e perchè mai debba, al contrario, trovarsi “penalizzato” rispetto agli altri lavoratori. Può quindi ritenersi che, quel lavoratore possa essere assunto da qualsiasi altro datore di lavoro purchè nell'intervallo fra il primo e il secondo rapporto abbia riacquisito l’anzianità di disoccupazione di sei mesi con diritto – del secondo datore di lavoro - ad usufruire del periodo completo (36 mesi) di esonero contributivo. Questa tesi ha trovato pieno conferma persino nella circolare n. 17/2015 dell'INPS. Il ragionamento può essere spinto, però, a mio avviso, anche oltre arrivando a domandarsi se l'esonero possa essere concesso, almeno in parte, anche al datore di lavoro che assuma il lavoratore già occupato in precedenza con l'esonero, presso altro datore di lavoro, senza aver maturato fra il primo e il secondo rapporto i sei mesi di disoccupazione, ma per un periodo inferiore ai trentasei mesi, ciò al fine di completare il periodo di esonero contributivo previsto dalla legge. 12 Sul punto, il testo legislativo non pare porre ostacoli insuperabili in quanto dispone che l’esonero “non spetta con riferimento a lavoratori per i quali il beneficio di cui al presente comma sia già stato usufruito”, laddove appare però ragionevole e conforme a giustizia intendere tale participio passato (usufruito) come riferito al beneficio integrale consentendo quindi di ritenere che l’impedimento alla seconda fruizione sorga solo quando il beneficio sia stato in precedenza goduto in modo completo. E’ allora possibile riconoscere, al datore di lavoro che assuma quel lavoratore, il diritto di usufruire dell’esonero anche se solo per la parte residua non goduta dal precedente datore di lavoro. Su questo punto la circolare INPS non offre alcuna conferma per cui è opportuno procedere con prudenza. In ordine alla individuazione del soggetto beneficiario non sorgono invero particolari problemi poiché la norma si riferisce indifferentemente a tutti i datori di lavoro, non assumendo rilevanza la natura imprenditoriale o meno dell'attività svolta, come invece accadeva, secondo l'interpretazione corrente, con la vecchia e ora abrogata, L. 407/1990. Ne sono escluse le pubbliche amministrazioni ma la circolare INPS opera a questo riguardo una condivisibile apertura esegetica in favore degli enti pubblici economici che, del resto erano pacificamente destinatari anche del beneficio pieno di cui alla L. 407/90. Qualche discussione è sorta in ordine alle condizioni da rispettare per ottenere il beneficio. In particolare si è dubitato se all'esonero si applichino solo le condizioni espressamente sancite dal comma 118 (oltre alle già menzionate anzianità di “disoccupazione” e non fruizione in precedenza del beneficio la norma sancisce espressamente la incumulabilità con altri benefici, e richiede l’inesistenza di precedente assunzione a tempo indeterminato nei tre mesi precedenti l'entrata in vigore della legge anche presso aziende del medesimo gruppo societario) o si applichino anche le ulteriori condizioni di carattere generale sancite dalla legge Fornero per tutti gli incentivi (inesistenza di un preesistente obbligo legale o contrattuale di effettuare l'assunzione incentivata; non violazione del diritto di precedenza, stabilito dalla legge o dal contratto collettivo, alla riassunzione di un altro lavoratore; inesistenza di sospensioni dal lavoro connesse ad una crisi o riorganizzazione aziendale; inesistenza di un precedente rapporto di lavoro da parte di altra azienda appartenente al medesimo gruppo societario) nonchè quelle sancite dal comma 1175 dell'art. 1, L. 296/2006 per ogni beneficio (diritto al DURC e rispetto del contratto collettivo di categoria). A questo proposito, in alcuni interventi nella pubblicistica si era dubitato dell'applicabilità di tali ulteriori condizioni, fissate da altre fonti normative, in ragione della particolare natura dell'istituto previsto dalla legge 190/2014 che dalla medesima legge viene qualificato come esonero e non come beneficio contributivo. Ora, a parte la difficoltà oggettiva di fondare una netta linea di demarcazione fra beneficio ed esonero contributivo nella nostra farraginosa legislazione previdenziale, ciò che pare tagliare la testa al proverbiale toro è che la l'art. 4, co. 12 della L. 92/2012 non parla né di benefici né di esoneri bensì di “incentivi all'assunzione” definizione che si sposa pienamente con l'incipit del comma 118 che, come già rilevato, recita 13 testualmente: “Al fine di promuovere forme di occupazione stabile”. Ne deriva l’inevitabile applicazione al nuovo esonero anche delle condizioni fissate dalla Fornero. Qualche problema in più si pone in relazione al comma 1175 che invece si riferisce ai benefici; ma, francamente, dubitare che un'agevolazione così rilevante come quella sancita dal comma 118 in esame debba essere condizionata alla correntezza contributiva dell'azienda e al rispetto del trattamento previsto dalla contrattazione collettiva mi pare avventato non solo sul piano sistematico ma anche su quello strettamente testuale poiché tali obblighi sono sanciti da numerose altre norme dell'ordinamento vigente (solo per fare qualche esempio, penso all'art. 6, comma 9, del DL 338/1989 e all'art. 36 della L. 300/1970). Al riguardo la circolare n. 17 dell'INPS si esprime con nettezza precisando opportunamente che ai criteri fissati direttamente dalla L. 190 deve riconoscersi il carattere della specialità con conseguente loro prevalenza rispetto a quelli di carattere generale fissati dalle altre leggi. Abbastanza pacifica appare, inoltre, la tesi secondo cui un precedente rapporto di lavoro a tempo determinato o in somministrazione o altre forme di lavoro non subordinato intercorsi nei sei mesi precedenti, non impediscano la fruizione dell'esonero; tanto in ragione del chiaro dettato testuale che esclude solo i “lavoratori che nei sei mesi precedenti siano risultati occupati a tempo indeterminato”. Per quanto riguarda il lavoro intermittente, la circolare INPS esclude che quel tipo di assunzione possa dare diritto all'esonero, attesa la sua sostanziale precarietà. Per la medesima ragione, a contrariis, la stessa circolare esclude che tale rapporto di lavoro, ove sia intercorso nei tre mesi precedenti l'entrata in vigore della legge di stabilità 2015, possa impedire l'insorgenza del diritto all'esonero. Aggiungerei, con relativa tranquillità, che, per le stesse ragioni, ove tale rapporto di lavoro intermittente intercorra nel periodo di sei mesi precedente l’assunzione, non interrompa l'anzianità di “disoccupazione” e non possa quindi essere di ostacolo all'esonero. D. Lgs. 4 marzo 2015, n. 22: la NASPI e i lavoratori licenziati per motivi disciplinari Poche osservazioni sull'altro decreto legislativo già entrato in vigore in materia di ammortizzatori sociali che ha introdotto la Naspi, il nuovo istituto di sostegno del reddito dei lavoratori disoccupati che dal 1° maggio 2015 ha sostituito l'Aspi. La nuova normativa sembra aver disegnato in modo significativamente diverso il campo di applicazione dell'istituto assistenziale. Essa ribadisce innanzitutto (all'art. 3, comma 1) una disposizione già contenuta nella legge Fornero (art. 2, co. 4, L. 92/2012) secondo cui la Naspi è destinata ai soli lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione, con ciò ribadendo un principio storicamente presente da sempre nella disciplina legislativa dell'indennità di disoccupazione. Non viene però riproposta nella nuova norma la disposizione contenuta nell'art. 2, co. 5, della legge Fornero laddove si escludevano espressamente dal campo di intervento dell'Aspi solo i casi di dimissioni e risoluzione consensuale intervenuta 14 nell'ambito della procedura conciliativa “preventiva” prevista dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Sulla base di tale formulazione il Ministero del Lavoro e l'INPS avevano riconosciuto l'Aspi anche ai lavoratori licenziati per motivi disciplinari i quali, pur non potendo ritenersi - a mio avviso - disoccupati involontari, non erano espressamente menzionati dalla norma fra i casi di esclusione. I datori di lavoro, quindi, si erano trovati a dover versare il contributo Aspi anche in favore di lavoratori resisi responsabili di comportamenti inadempienti talmente gravi da giustificare il loro licenziamento in tronco. E l'INPS si trovava a versare l'Aspi anche in favore di lavoratori che non avevano certo dimostrato ... attaccamento al proprio posto di lavoro. Contro questa situazione normativa si erano levate alcune voci (poche per la verità) e tra queste la nostra Associazione che aveva fortemente sollecitato il Governo a rimediare a questa assurdità con il Jobs Act (si veda il corposo documento presentato al Parlamento e al Governo nel corso dell'iter legislativo). Ebbene, il testo del decreto legislativo n. 22/2015 sembra venire incontro a tali doglianze, poichè omette proprio la disposizione “incriminata” sulle esclusioni, il cui testo è ora volto in positivo, non prevede più esclusioni e si limita a stabilire che “la NASpI è riconosciuta anche ai lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604”. Coniugando questa nuova norma con il principio, rimasto immutato, secondo cui l'evento tutelato è solo la disoccupazione involontaria, ne consegue a mio avviso che i lavoratori licenziati per motivi disciplinari (cioè per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo) non rientrano tra i beneficiari della Naspi e che, conseguentemente, in occasione di tali licenziamenti non si dovrebbe neanche versare il relativo contributo straordinario. In questo modo, la normativa in materia di indennità di disoccupazione, tornerebbe a riacquisire quella coerenza interna che la legge Fornero aveva alterato. Ebbene, pochi giorni dopo le Osservazioni diffuse dall'Ufficio Legale ANCL la CISL ha presentato sull'argomento un esplicito interpello al Ministero del lavoro che ha risposto con l'atto n. 15 del 2015. Una risposta nettamente negativa che non ci convince affatto. Il Ministero, infatti, pur prendendo atto della significativa variazione intervenuta nel testo normativo, finisce evidentemente per ritenerla … priva di significato, in quanto conclude ugualmente per l'inclusione dei lavoratori licenziati per motivi disciplinari fra i beneficiari della Naspi. Non convincono in particolare le argomentazione utilizzate che, riprendono sostanzialmente quelle già articolate nel precedente interpello n. 29 del 2013. Il Ministero, infatti, ritiene che la natura disciplinare del licenziamento non possa far ritenere di carattere volontario lo stato di disoccupazione del licenziato e attribuisce rilevanza al fatto che la cessazione del rapporto derivi da un esercizio discrezionale del potere disciplinare del datore di lavoro il quale potrebbe anche decidere di non sanzionare l'inadempimento del prestatore. Sottolinea inoltre l'eventualità che il 15 licenziamento possa anche essere annullato in sede giudiziale. Tali argomentazioni appaiono non solo insoddisfacenti ma anche dettate da una concezione dei rapporti di lavoro che pare risentire di una pregiudiziale pro-labour che, soprattutto in un caso del genere, è del tutto ingiustificata. Per quanto riguarda il primo aspetto, infatti, non si comprende come la discrezionalità del potere disciplinare del datore di lavoro possa influire sulla natura volontaria o involontaria dello stato di disoccupazione del prestatore che si sia resto responsabile di una grave inadempienza. L'esercizio del potere disciplinare, infatti, non interrompe il rapporto causale fra il comportamento inadempiente del lavoratore e il suo stato di disoccupazione che da esso deriva, invece, con nesso diretto. In altre parole, un lavoratore che ruba, aggredisce o compie atti simili, non può certo dire che si ritrova senza lavoro per colpa o per decisione del suo datore di lavoro! Anche l'eventualità che il licenziamento sia successivamente annullato iussu iudicis, appare irrilevante poiché, finchè non intervenga un provvedimento esecutivo di annullamento, il licenziamento intimato è atto valido e produce i suoi effetti interruttivi sul rapporto di lavoro. Del resto, se il licenziamento dovesse essere annullato si determinerebbe una situazione del tutto nuova rispetto alla quale rivedere il diritto alla Naspi: se interviene la reintegrazione il lavoratore non sarà più disoccupato; se egli ottiene, invece, una tutela meramente obbligatoria, avrà diritto indubbiamente alla Naspi. In ogni caso, anche a voler seguire per un momento il ragionamento del Ministero, si dovrebbe escludere dalla tutela quanto meno il lavoratore licenziato per motivi disciplinari che abbia rinunziato a impugnare il licenziamento (o esplicitamente o, tacitamente, facendo decorrere il termine di decadenza). Ciò che soprattutto il Ministero non pare considerare è che il trattamento assistenziale in esame è in misura rilevante finanziato con un contributo straordinario posto a carico del datore di lavoro e che appare estremamente iniquo pretendere tale contributo in riferimento a un lavoratore che si sia reso responsabile di condotte altamente riprovevoli contro il datore di lavoro. In attesa che la situazione interpretativa si chiarisca, come Ufficio Legale riteniamo opportuno che il versamento contributivo Naspi, in caso di lavoratore licenziato per motivi disciplinari, sia prudenzialmente effettuato ma accompagnandolo con una formale riserva di ripetizione che si potrà successivamente far valere dinanzi al Giudice del lavoro. La bozza di decreto sulle tipologie contrattuali Gli altri decreti licenziati in bozza dal consiglio dei ministri non sono ancora stati approvati definitivamente e non è il caso che ci impegniamo in analisi interpretative di testi che potrebbero subire modifiche anche significative. Le commissioni Lavoro di Camera e Senato hanno formulato infatti pareri favorevoli per entrambi i decreti (quello sulle tipologie contrattuali e quello sulla conciliazione delle esigenze di cura, vita e lavoro) ma corredandolo di numerose osservazioni e suggerimenti. Non è dato, quindi, prevedere quante di queste saranno 16 accolte anche perchè il clima che accompagna questi nuovi due decreti è molto meno teso di quello che ha generato i primi due e ciò potrebbe favorire l'accoglimento di alcune proposte parlamentari. Mi preme tuttavia dire qualcosa su un aspetto di quello sulle tipologie contrattuali che difficilmente potrà cambiare. Esso contiene infatti una ardita operazione di trasformazione di co.co.pro., partite IVA e associazioni in partecipazione che credo porrà delicati problemi giuridicointerpretativi. Partiamo dalle collaborazioni coordinate e continuative che fino ad oggi si distinguevano in co.co.co. e co.co.pro.. Ebbene, proprio questa distinzione è destinata, a quanto pare, a scomparire poiché la riforma elimina la normativa posta dalla legge Biagi (D. lgs. 276/2003) che imponeva la presenza dei famosi progetti. Con l'entrata in vigore del nuovo decreto legislativo, infatti, secondo il combinato diposto degli artt. 47 e 49, non sarà più possibile stipulare contratti a progetto ma solo contratti di collaborazione coordinata e continuativa ai sensi dell'art. 409 n. 3 cod. proc. civ.. Le norme sui contratti a progetto, ai sensi del menzionato art. 49, continueranno ad essere applicate ai soli contratti di collaborazione già stipulati prima dell'entrata in vigore della riforma. Per le nuove stipule non sarà necessario alcun progetto e il contratto, quindi, potrà essere regolato anche a tempo indeterminato. La riforma, tuttavia, introduce una rilevantissima novità in ordine alla disciplina applicabile in quanto, con una norma che sicuramente farà discutere a lungo i giuristi del lavoro, sancisce, d'un colpo, l'applicabilità a una parte di tali contratti di lavoro “parasubordinato” (così si definivano una volta) l'intero corpus normativo del diritto del lavoro posto a tutela del lavoratore subordinato. In pratica, viene così a perdere importanza la ricostruzione di quella che fin'ora veniva considerata come la “fattispecie tipica” del diritto del lavoro, ossia il contratto di lavoro subordinato, sulla cui definizione la dottrina e la giurisprudenza giuslavoristiche, negli ultimi cento anni, hanno speso le loro migliori energie. Nella aule universitarie fin'ora si è sempre sottolineata l'importanza fondamentale della distinzione fra lavoro subordinato e lavoro autonomo (o associato) poiché quello era il confine su cui erano destinate a combattersi tutte le battaglie giudiziarie ingaggiate per decidere se a un determinato prestatore di lavoro spettasse la tutela “forte” via via introdotta dalla legge e dalla contrattazione collettiva sul piano retributivo, normativo e previdenziale in favore dei lavoratori dipendenti. Fino a un recente passato, l'esito di tali battaglie determinava l'applicazione o l'esclusione totale di quella tutela. Più recentemente, ai rapporti di collaborazione autonoma caratterizzati dai requisiti di cui all'art. 409 n. 3 c.p.c., era stata assicurata una tutela crescente di carattere soprattutto previdenziale e amministrativo, di livello comunque nettamente inferiore a quella assicurata dei lavoratori dipendenti. Ora, sotto questo profilo, cambia tutto o quasi, in quanto quella linea di confine viene spostata molto al di là della fattispecie del lavoro subordinato la cui individuazione, quindi, è destinata perdere molta della sua importanza. Il nuovo confine passa, invece, all'interno dell'art. 47 del nuovo decreto che introduce una distinzione destinata ad acquisire enorme rilevanza: quella fra co. co. co. dotati dei 17 requisiti ivi individuati, ai quali “si applica (tutta) la disciplina del rapporto di lavoro subordinato” (nove parole che cambiano profondamente il nostro diritto del lavoro) e co. co. co. privi, invece, di tali requisiti. Vediamo allora quali sono questi nuovi importantissimi elementi di demarcazione. Preliminarmente occorre sottolineare che l'uso della congiunzione ”e”, nel primo comma dell'art. 47, evidenzia che tali requisiti devono ricorrete tutti per determinare l'effetto dell'integrale applicazione di quello che fin'ora definivamo come lo “statuto del lavoro subordinato”. Orbene, deve trattarsi innanzitutto di una prestazione di lavoro autonomo avente le caratteristiche già disegnate dall'art. 409, n. 3, cp.c.: carattere prevalentemente personale; continuità; coordinamento con l'organizzazione produttiva del committente (requisito quest'ultimo che, come noto, la dottrina e la giurisprudenza individuano nel fatto che con il contratto di lavoro il prestatore si sia obbligato a rendere la sua prestazione non “a regola d'arte” bensì in modo che la stessa possa essere utilmente inserita nell'organizzazione produttiva del committente). Nell'ambito di tale fattispecie generale di lavoro parasubordinato, la riforma individua un ambito più ristretto (che ora rappresenta il confine fondamentale fra tutela forte e tutela debole nel diritto del lavoro) definito dalla ricorrenza di tutte queste ulteriori caratteristiche: carattere esclusivamente personale della prestazione lavorativa (requisito più restrittivo di quello richiesto dall'art. 409, n. 3 che, infatti, si limita a richiederne la mera prevalenza); continuità della prestazione (requisito questo che viene confermato e che va quindi individuato secondo gli orientamenti giurisprudenziali già consolidatisi rispetto all'art. 409, n. 3); contenuto ripetitivo della prestazione; modalità eterodiretta di esecuzione della prestazione (cioè organizzata dal committente) con specifico riferimento alla determinazione dei tempi e del luogo di lavoro. Ogni parola di questa norma sarà nel prossimo futuro oggetto di inusitati approfondimenti esegetici che non è il caso di avviare già in questa sede, peraltro sulla base di un testo non definitivo. Ciò che conta sin d'ora sottolineare è che, con questo decreto, il confine della fattispecie a tutela piena si amplia notevolmente e che la scriminante non è data più dalla “subordinazione” bensì dalla ricorrenza dei requisiti fissati dall'art. 47. All'interno di tale confine, infatti, si applicheranno tutte le norme di legge e di contrattazione collettiva in materia di trattamenti minimi retributivi e normativi, di obblighi contributivi ecc.. Gli obblighi in materia di sicurezza del lavoro erano già stati ampliati oltre i confini del lavoro subordinato dal D. lgs. 81/2008 e in occasione dell'entrata in vigore di tale normativa fummo facili profeti nel prevedere che quello era solo il primo passo di una complessiva ridefinizione del campo di applicazione di tutto il diritto del lavoro. Ciò che a quest'ultimo riguardo occorre sottolineare, però, è 18 che l'ambito di applicazione fissato con il D. lgs. 81/2008 non coincide con quello creato da questa riforma: quella del 2008, infatti, attribuisce esclusiva rilevanza all'elemento dell'inserimento del prestatore nell'organizzazione produttiva altrui (“persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un'attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un'arte o una professione”, così l'art. 2, lett. a, definisce il lavoratore); l'art. 47 del nuovo decreto abbraccia, invece, una definizione, come abbiamo visto, più articolata. Ma l'apparente discrasia può ben derivare dalle particolari e specifiche finalità perseguite dalla normativa sulla sicurezza. Al di fuori del confine tracciato dal decreto in esame, e cioè per i contratti di lavoro autonomo dotati dei requisiti di parasubordinazione ex art. 409, n. 3, c.p.c. ma privi di quelli sanciti dall'art. 47, la libertà delle parti di regolare il rapporto si amplia notevolmente proprio in ragione della già menzionata abrogazione degli artt. da 61 a 69-bis del D. Lgs. 276/2003, norme, queste ultime, che, come già rilevato, continueranno ad applicarsi solo ai vecchi contratti, stipulati prima dell'entrata in vigore del nuovo decreto. Ciò determina una sostanziale liberalizzazione di tali co. co. co. che resteranno assoggettati alla libera regolamentazione voluta dalle parti, senza alcuna limitazione legale. Dovrebbe, invece, essere rimasta senz'altro in vigore, anche per questi co.co.co. liberalizzati la disciplina previdenziale, le cui normative di riferimento non vengono toccate dal decreto in esame. Altri casi di rapporti di collaborazione comunque esclusi dall'applicazione delle norme sul lavoro subordinato sono previsti dal secondo comma dell'art. 47 che richiama alcune delle eccezioni già previste dalla normativa sui contratti a progetto (iscritti agli albi professionali, amministratori di società, società sportive dilettantistiche) ma aggiunge la possibilità di individuarne altre da parte della contrattazione collettiva anche aziendale. La norma non menziona né gli agenti e rappresentati di commercio né gli addetti ai call-center né i percettori di pensione di vecchiaia, con la conseguenza che anche per costoro, salvo diversa disposizione della contrattazione collettiva, in presenza di mansioni ripetitive o di ingerenza del committente nell'organizzazione del loro lavoro, si applicheranno le norme del lavoro dipendente senza necessità di dover provare la sussistenza di una vera e propria subordinazione. Completamente liberalizzate restano le cd. partite IVA con l'importante avvertenza, però, che (doveva e) deve trattarsi di rapporti di tipo occasionale, privi anche dei requisiti della parasubordinazione di cui all'art. 409, n. 3, c.p.c.. Essi, in quanto tali, resteranno assoggettati esclusivamente agli artt. 2222 ss. cod. civ.. Drastica è invece l'espulsione dal nostro ordinamento del contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro che conclude così la sua lunga e travagliata permanenza nel nostro codice civile. Un istituto ambiguo e fonte di molti conflitti di cui pochi avvertiranno la mancanza. Resta da segnalare, infine, quella che appare una svista legislativa e che, si spera, venga sanata in sede di stesura definitiva. L'art. 47, infatti, fa slittare al 1° gennaio 19 2016 l'estensione delle norme sul lavoro subordinato, mentre le norme previgenti in materia di co.co.pro. e partite IVA vengono disapplicate a tutti i contratti stipulati dopo l'entrata in vigore del nuovo decreto. Se però, come è prevedibile ed auspicabile, tale entrata in vigore avverrà prima del 31/12/2015, resterà un periodo di tempo in cui tutti i contratti di collaborazione parasubordinata che venissero stipulati si troverebbero privi di disciplina! A parte questa incongruenza, comunque, il risultato finale di questa ardita risistemazione dei confini del nostro ordinamento giuslavoristico è quello di un profondo risanamento del mercato del lavoro italiano realizzato mediante una distinzione netta fra rapporti di lavoro parasubordinato ma autenticamente autonomo (che restano salvaguardati e, anzi, resi più agevolmente praticabili) e rapporti di collaborazione troppo simili a quello subordinato che vengono, invece, assoggettati alla disciplina di quest'ultimo. 20