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Studi
G. Stea
LA NATURA PENALE DELL'ORDINE DI DEMOLIZIONE EDILIZIA NELLA PROSPETTIVA
CONVENZIONALE ED I RIFLESSI SUL SISTEMA PUNITIVO URBANISTICO-PAESAGGISTICO
di Gaetano Stea
(professore a contratto di diritto penale nell’Università del Salento)
SOMMARIO: 1. Prologo. - 2. L'oggetto dell'analisi: l'ordine di demolizione è una «pena». - 3. Breve
quadro normativo. - 4. La nozione di sanzione penale secondo la Corte di Strasburgo. - 5.
Caratteri e finalità dell'ordine di demolizione edilizia nella giurisprudenza domestica. - 6.
Caratteri e finalità della confisca urbanistica nella giurisprudenza nazionale. - 6.1. La confisca
urbanistica e la Corte costituzionale. - 7. L'ordine di demolizione al cospetto della
giurisprudenza euroumanitaria. - 8. Riflessi processuali e sostanziali in itinere: il ne bis in
idem tra sanzioni amministrative e penali in materia edilizia. - 8.1. La crisi del sistema del
doppio binario alla luce della CEDU. - 8.2. La deroga espressa alla specialità tra illecito
amministrativo e penale in materia edilizia e l'inevitabile incompatibilità con il ne bis in idem
sovranazionale. - 8.3. La prescrizione del reato e l'imprescrittibilità del rilievo amministrativo.
- 8.3.1. Il fondamento della prescrizione del reato. Brevi considerazioni. - 8.3.1.1 Postilla
eterodossa sulla sentenza Taricco. - 8.3.2. La prescrizione del reato preclude l'accertamento
dell'illecito amministrativo (e viceversa). - 8.4. Cenni sui contrasti convenzionali del sistema
sanzionatorio punitivo in materia urbanistico-paesaggistica. Prima problematica:
l'imprescrittibilità dell'illecito amministrativo. - 8.4.1. Seconda problematica: le presunzioni
assolute di incompatibilità dell'opera con il bene tutelato e necessaria lesività. - 8.4.1.1. Una
postilla rivoluzionaria: gli illeciti urbanistico-paesaggistici come reati di danno con una
lettura coordinata di precetto e sanzione. - 8.4.2. L'inammissibilità della prevalenza di un
interesse su un altro di pari rango: bilanciamento domestico e margine di apprezzamento
convenzionale. - 9. Dal punto di vista della sanzione. Prescrizione dell'ordine di demolizione.
- 9.1. Le esigenze sottese alla tradizionale lettura di un regime sui generis per le sanzioni
edilizie: poteri autoritativi sine die ed incompatibilità con l'opzione politica sinallagmatica tra
cittadino e Stato. - 9.2. La seconda esigenza: trasmissibilità della sanzione ripristinatoria. 9.3. La ratio delle cause di estinzione della pena. - 9.4. La confisca, l'ordine di demolizione e
quello di rimessione in pristino: natura penale convenzionale e pena domestica. Concezioni a
confronto. Prima impostazione della problematica. - 9.4.1. Seconda impostazione della
problematica. - 10. La morte estingue l'illecito edilizio e l'ordine di demolizione? Il caso della
morte del responsabile dell'abuso prima della condanna. - 10.1. Il caso della morte del
responsabile dell'abuso dopo la condanna. - 10.2. Chiosa su una questione abbandonata: la
prescrizione dell'ordine di demolizione ed i poteri della pubblica amministrazione. - 11.
Epilogo.
1. Se è vero che il diritto rappresenta «la scienza meno esatta» 1, purtuttavia la
riflessione giuridica deve essere sempre supportata da argomentazioni rigorosamente
fondate sul dato positivo: che spesso nascono da obiezioni a un’interpretazione
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Espressione di Giulio De Simone, in una lezione (del 2012) tenuta all'Università del Salento.
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dominante, tese a sostituirla con una lettura nuova2. E ogni riflessione trae con sé una
visione diversa e talora eterodossa dell'ordinamento tutto. Un'argomentazione sciolta
(absoluta) da qualsiasi pre-comprensione, è puramente immaginaria.
La storia del diritto, che, poi, è il riflesso della storia dell'umanità 3, è
un'implacabile cartina di tornasole, passando, per quanto riguarda il diritto europeo,
da una visione prettamente nazionalistica, ad una di necessaria integrazione, per
costruire uno spazio di libertà e sicurezza sociale. L'armonizzazione, che non è
identità, degli ordinamenti nazionali, è il nuovo orizzonte in cui pare doversi muovere
ogni approccio argomentativo, anche in diritto penale, che non può non tener conto
delle direttrici europee in tema di rispetto dei diritti, delle libertà e delle garanzie
fondamentali della persona umana.
È ormai da tempo che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, posta a
presidio dello status della persona umana, penetra profondamente nel sistema penale
nazionale, descrivendo il confine (mobile) del diritto di punire domestico.
Questa è la traccia su cui si intende percorrere la riflessione qui proposta.
2. La questione che si intende affrontare, nell'economia del presente scritto, ha
ad oggetto la qualificazione dell'ordine di demolizione di cui all'art. 31 co. 9 d.P.R.
6.6.2001 n. 380, anziché mera sanzione amministrativa, come vera e propria «sanzione
penale» conseguente all'accertamento del reato edilizio4.
La tesi da dimostrare non ha certamente il conforto della giurisprudenza
domestica, poiché è noto il consolidato orientamento secondo cui «l'ordine di
demolizione delle opere abusive emesso dal giudice penale ha carattere reale e natura
di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio» 5.
Da ciò, la tesi della qualificazione dell'ordine di demolizione come sanzione
penale va affrontata guardando alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell'uomo, da utilizzare per fornire una lettura conforme dell'art. 31 co. 9 d.P.R.
380/2001, nel rispetto degli artt. 25 co. 2, 27 co. 1 e 3 e 117 co. 1 Cost.
I riflessi di tale qualificazione, poi, saranno analizzati nell'ambito del sistema
del cd. doppio binario sanzionatorio in materia di illeciti urbanistico-paesaggistici ed,
in relazione, alle novità sovranazionali che fanno perno sul divieto di bis in idem
2
V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano5, a cura di P. Nuvolone e G.D. Pisapia, III, Torino 1981, 530,
nota 5, dopo aver indicato tutte le interpretazioni elaborate dalla dottrina sul fondamento della prescrizione,
afferma che «fatta eccezione per le teorie manifestamente fantastiche o insufficienti, c’è del vero e del falso in
tutte le altre, come suole accadere di ogni teoria politico-penale».
3
G. Garancini, Storia del diritto e concetto di comunità, La Comunità tra cultura e scienza: Il concetto di
comunità nelle scienze umane, a cura di G. Dalle Fratte, I, Roma 1993, 99, criticando «la cultura accademica
storiografica francese (che) riassume la storia del diritto nella più vasta categoria della histoire des faits sociaux»,
rivendica un'autonomia della storia del diritto, sostenendo che «il diritto è scienza umana e come tale
irrimediabilmente radicato e avviluppato con l'esperienza umana, e con la storia dell'umanità» e concludendo
che, insomma, «il diritto è scienza delle relazioni umane».
4
L'assimilazione riguarda la pena principale e non quella accessoria, poiché solo la prima, alla stregua
della definizione di cui all'art.20 Cp, è comminata con la sentenza di condanna, come, dunque, l'ordine di
demolizione de quo in virtù di quanto previsto dall'art.31 co.9 d.P.R. 380/2001
5
Cass. 25.11.2014 n. 53164, in UApp 2015, 3, 362; Cass. 24.10.2013 n. 51010, in CEDCass, m. 257916; Cass.
4.2.2013 n. 17066, in CEDCass, m. 255112; Cass. 18.12.2012 n. 6279, in UApp 2013, 5, 616
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processuale di cui all'art. 4 Protocollo n. 7 Cedu, a cui corrisponde, nell'ambito
eurounitario, l'art. 50 (cd. Carta di Nizza – d'ora in poi anche solo CDFUE).
3. L'art. 31 co. 9 d.P.R. 380/2001 prevede che, per le opere abusive eseguite in
assenza di permesso di costruire o in totale difformità o con variazioni essenziali, il
giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 44 d.P.R. 380/2001,
ordina la demolizione, se ancora non sia stata altrimenti eseguita.
La demolizione, comunque, è condizionata (in negativo) ad una eventuale
deliberazione del Consiglio comunale nel cui territorio è stata realizzata l'opera
abusiva, in cui, in caso di ingiunzione amministrativa inadempiuta e, dunque, di
acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera e del relativo sedime, «si
dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti
con rilevanti interessi urbanistici o ambientali», come previsto dall'art. 31 co. 5 d.P.R.
380/20016. In tale ipotesi, l'acquisizione gratuita per l'esistenza di prevalenti interessi
pubblici alla demolizione dell'opera abusiva (fatta salva la necessaria compatibilità con
quelli urbanistici o ambientali) costituisce una specie di confisca sui generis, poiché
l'avocazione del bene al patrimonio pubblico è subordinata alla preventiva manifestazione di interesse dell'Amministrazione Comunale, in mancanza della quale
l'opera deve essere demolita, come ordinato dal giudice penale.
Tale necessaria manifestazione la distingue dalla confisca vera e propria, prevista dall'art. 44 co. 2 d.P.R. 380/2001 (in materia di lottizzazione abusiva), in cui
l'acquisizione al patrimonio pubblico consegue direttamente per ordine del giudice e,
comunque, senza alcuna valutazione preventiva di effettiva sussistenza del relativo
interesse a mantenere il bene abusivo che sorge sul terreno oggetto di ablazione7.
4. E' necessario, a questo punto, confrontarsi con la nozione di sanzione penale,
rilevante ai fini dell'applicazione degli artt. 6 (Diritto a un equo processo) e 7 (nulla
poena sine lege) Cedu, così come elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell'uomo.
In effetti, fin dal 1976, la Corte di Strasburgo, con il noto caso Engel e altri c.
8
Olanda , inaugurando una giurisprudenza poi consolidatasi a partire dal caso Öztürk
c. Germania9, ha chiarito quali siano i principali criteri sostanziali — tra loro (si badi)
alternativi — per la qualificazione di una sanzione come penale, a termini
convenzionali: (1) la natura della sanzione, ossia, in particolare, il carattere punitivo e
6
Argomentando da Cass. 25.9.2014 n. 47263, in CEDCass, m. 261213.
Le argomentazioni utilizzate nell'analisi dell'ordine di demolizione vanno riferite, mutatis mutandis,
anche all'ordine di rimessione in pristino previsto dall'art. 181 co. 2 d .lgs. 2.1.2004 n. 42.
8
C. eur., 8.6.1976, Engel e altri c. Olanda; C. eur., 26.3.1982, Adolf c. Austria; C. eur., Lutz c. Germania,
Englert c. Germania e Nölkenbockhoff c. Germania, tutte del 25.8.1987; C. eur., 22.5.1990, Weber c. Svizzera; C.
eur., 10.6.1996, Benham c. Regno Unito; C. eur., 3.5.2001, J.B. v. Svizzera; C. eur., 9.10.2003, Ezeh e Connors c.
Regno Unito.
9
C. eur., 21.2.1984, Öztürk c. Germania.
7
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non risarcitorio e la funzione preventiva-deterrente; (2) la severità o afflittività della
stessa, avuto riguardo, dunque, alla significatività del sacrificio imposto all'individuo.
La qualificazione formale che una data sanzione riceva nell'ordinamento
nazionale non è certamente vincolante per l'ordinamento convenzionale, che conosce
una nozione autonoma di «pena» e «materia penale» utile per affermare l'applicabilità
degli artt. 6 e 7 Cedu.
Ciò detto, va osservato che, proprio con riguardo a sanzioni reali di confisca di
beni, nella giurisprudenza convenzionale, si è affermata, in modo espresso, l'idea che
la nozione di pena rilevante ai fini degli artt. 6 e 7 Cedu ben tolleri al suo interno la
compresenza di finalità afflittive-dissuasive e, rispettivamente, di cura concreta
dell'interesse pubblico, anche nel senso di diretta ripristinazione della lesione subita
dall'interesse pubblico, o di cura preventiva dell'interesse pubblico.
È significativo, che già nel caso Welch c. Regno Unito10, la Corte di Strasburgo
abbia sottolineato che «les objectifs de prévention et de réparation se concilient avec celui de répression et peuvent être considérés comme des éléments constitutifs de la
notion même de peine».
Da ciò, appare evidente che il primo tra i criteri sostanziali stabiliti fin dal caso
Engel e altri c. Olanda (finalità punitiva) non sia in contrasto con prospettive in realtà
ripristinatorie, anzi tale funzione va a completare, se non proprio a caratterizzare la
sanzione stessa.
La non-esclusività della finalità punitiva, ai fini della qualificazione come
penale di una sanzione interna, è sottolineata dalla Corte di Strasburgo anche nel caso
Menarini c. Italia11, in cui i giudici convenzionali hanno osservato che la specifica
preordinazione dei provvedimenti sanzionatori (nella vicenda impartiti dall'Autorità
Garantente per il mercato e la concorrenza) a tutelare un dato interesse pubblico non
è, di certo, incompatibile con un carattere afflittivo, visto che è del tutto fisiologico
(anche nel diritto penale) la coesistenza tra aspetto punitivo e finalità deterrentepreventiva come tutela di determinati beni giuridici di interesse pubblico.
Dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, in sintesi,
emerge, partendo, come visto, dal caso Engel e altri c. Olanda e giungendo sino ai
tempi più recenti, che sanzioni che facciano seguito alla violazione di un precetto
possono ben ritenersi «pene» in senso proprio ai fini convenzionali, pur laddove non
abbiano, in realtà, una finalità esclusivamente punitiva e preventiva, ma mirino,
piuttosto, alla cura in concreto, sotto vari profili, dell'interesse pubblico, anche come
ripristino dei beni lesi.
Riassuntivamente, la natura penale di una misura sanzionatoria interna va
accertata verificando, in capo alla stessa e, comunque, alternativamente, (1) la
10
C. eur., 9.2.1995, Welch c. Regno Unito, § 30.
C. eur., 27.9.2011, Menarin c. Italia. La sentenza è stata oggetto di numerosi commenti: cfr., senza pretesa
di completezza, T. Bombois, L’Arrệt Menarini c. Italie de la Cour Européenne des Droits de l’Homme. Droit
antitrust, champ pénale et contrộle de pleine jurisdiction, in Cahiers de Droit Européen 2011, 541; A.E. Basilico, Il
controllo del giudice amministrativo sulle sanzioni antitrust e l’art. 6 CEDU, in Rivista telematica giuridica
dell’associazione dei costituzionalisti 2011 (4); M. Bonkers – A. Vallery, Business as usual after Menarini?, in Mlex
Magazine 2012 3(1), 44; M. Abenhaïm, Quel droit au juge en matière de cartels?, in Revue trimestrelle de droit
européen 2012, 117.
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pertinenza della misura rispetto al fatto di reato, accertato nell'ambito di un
procedimento penale, all’esito del quale è irrogata la detta sanzione, (2) la gravità
indubbia della stessa, ovvero, infine, (3) l’evidente finalità repressiva che la
accompagna, non incompatibile con ulteriori finalità quali quelle ripristinatorie.
Proprio in materia di reati edilizi, la Corte di Strasburgo ha riconosciuto anche
il carattere punitivo della confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere
costruite, prevista nell’ordinamento nostrano dall'art. 44 co. 2 d.P.R. 380/200112.
Tale orientamento della giurisprudenza convenzionale è stato stigmatizzato,
dapprima dalla Corte costituzionale13 e, poi, ripreso dalla Suprema Corte, che, in una
pronuncia in materia di confisca di prevenzione, ha evidenziato che «la Corte europea
dei diritti dell'uomo ha (...), sottolineato che la necessità di scongiurare un surrettizio
aggiramento delle garanzie individuali che gli artt. 6 e 7 riservano alla materia penale
comporta che la distinzione relativa alla natura penale o meno di un illecito e della
relativa sanzione si fondi non solo sul criterio della qualificazione giuridico-formale
attribuita nel diritto nazionale, ma anche su altri due parametri, costituiti dall'ambito
di applicazione della norma che lo preveda e dallo scopo della sanzione», conseguendo
che «tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla
medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto»14, così avendo la copertura
dell'art. 25 co. 2 Cost. e, dunque, implicitamente (o no) ancorando il particolare
regime garantisco.
Da ciò, le tutele previste dalla Carta convenzionale europea per la materia
penale, in particolare dagli artt. 6 co. 2 e 7 Cedu, devono essere riconosciute a tutte le
sanzioni che, indipendentemente dalla qualifica attribuita dal legislatore nazionale,
rientrano nella nozione ampia di «materia penale», come delineata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, fatte salve le ipotesi di misure finalizzate alla
prevenzione dell'attività criminale.
5. L'ordine di demolizione di cui all'art. 31 co. 9 d.P.R. 380/2001 ha, in primis, il
carattere pertinenziale rispetto al fatto di reato accertato dal giudice penale, in quanto
consegue esclusivamente alla sentenza di condanna e, dunque, all'accertamento del
fatto di reato colpevolmente realizzato dall'imputato.
Il carattere strumentale o pertinenziale (o accessorio) dell'ordine di
demolizione rispetto alla sentenza di condanna, tanto da costituire «espressione di un
potere sanzionatorio autonomo e distinto rispetto all'analogo potere dell'autorità
amministrativa»15, si evince anche dal costante insegnamento giurisprudenziale di
legittimità, secondo cui: «(i)n materia edilizia, l'estinzione del reato di costruzione
abusiva per prescrizione travolge l'ordine di demolizione dell'opera
indipendentemente da una espressa statuizione di revoca, atteso che tale ordine è una
12
13
14
15
C. eur., 20.1.2009, Sud Fondi Srl c. Italia; C. eur., 29.10.2013, Varvara c. Italia.
C. cost., 4.6.2010 n. 196
Cass. 28.2.2012 n. 11768, in CEDCass, m. 252297.
Cass. 25.9.2014 n. 47263, cit.
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sanzione amministrativa di tipo ablatorio che trova la propria giustificazione nella
accessorietà alla sentenza di condanna»16.
E' pacifico, poi, che l'ordine di demolizione de quo ha anche il carattere
ablatorio, nel senso che estingue il diritto reale del condannato sul bene colpito dal
provvedimento che ordina la demolizione del bene stesso, andando, dunque, a
sacrificare un aspetto del diritto alla proprietà privata tutelato dall'art. 42 Cost., ma
anche dall'art. 17 della Carta europea dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (cd.
Carta di Nizza), nonché dall'art.1 del Protocollo addizionale siglato a Parigi il 20.3.1952
alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
Tale carattere dell'ordine di demolizione edilizio è pacificamente riconosciuto
nella giurisprudenza domestica17.
Da ciò, i caratteri dell'ordine di demolizione certamente riconosciuti dalla
giurisprudenza nostrana sono, dunque, da un lato, quello pertinenziale o accessorio
rispetto alla sentenza di condanna penale e, dall'altro, quello ablatorio sul diritto reale
appartenente al condannato.
Per quanto riguarda, invece, le finalità dell'ordine di demolizione in questione
è granitico l'orientamento giurisprudenziale domestico nell'escludere il fine punitivo,
sottolineandone, di contro, lo scopo prettamente tutorio del territorio 18 e, dunque,
«una funzione direttamente ripristinatoria del bene offeso, attraverso l'eliminazione
delle conseguenze del reato, riconnettendosi all'interesse statuale sotteso all'esercizio
della potestà penale»19.
6. Prima di confrontare i caratteri e le finalità dell'ordine di demolizione,
pacificamente riconosciuti dalla giurisprudenza domestica, ma anche quelli ricavabili
dall'esegesi normativa, con la nozione di sanzione penale definita a livello
sovranazionale, è opportuno appuntare l'attenzione sui caratteri e finalità della
confisca urbanistica, prevista dall'art. 44 co. 2 d.P.R. 380/2001, su cui si è
espressamente pronunciata la Corte di Strasburgo, come già ricordato, che ha
riconosciuto anche il carattere punitivo della confisca dei terreni abusivamente
lottizzati e delle opere costruite20.
Ora, la confisca urbanistica, secondo l'orientamento giurisprudenziale
domestico, costituisce una sanzione amministrativa accessoria, non alla sentenza di
condanna (come per l'ordine di demolizione), ma all'accertamento, da parte del
16
Cass. 2.12.2010 n. 756, in CEDCass, m. 249154; Cass. 2.2.2006 n. 10209, in CEDCass, m. 233673; Cass.
27.5.2003 n. 26854, in CEDCass, m. 225115.
17
Cass. 24.10.2013 n. 51010, cit.; Cass. 4.2.2013 n. 17066, cit.; Cass. 2.12.2010 n. 756, cit.; Cass. 11.11.2009 n. 81,
in CEDCass, m. 245892; Cass. 2.2.2006 n. 10209, cit.
18
Cass. 18.1.2012 n. 25212, in CEDCass, m. 253050; Cass. 18.2.2003 n. 16537, in CEDCass, m. 227176.
19
P. Tanda, I reati urbanistico-edilizi, Padova 2007, 442.
20
Per un excursus circa la giurisprudenza in subiecta materia dagli anni ’90 ad oggi, cfr. A. D'Alessio, La
confisca nei reati urbanistici, ambientali e nelle violazioni del Codice della Strada, in La giustizia patrimoniale
penale, a cura di A. Bargi e A. Cisterna, Torino 2011, 1057 ss.
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giudice penale, del fatto di reato, tanto da dover essere disposta anche in caso di
sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione dell'illecito21.
La confisca urbanistica, dunque, ha natura di sanzione amministrativa irrogata
dal giudice penale in funzione di supplenza della pubblica amministrazione e,
pertanto, il relativo effetto acquisitivo al patrimonio comunale è analogo a quello
determinato dai provvedimenti di competenza dell’autorità amministrativa nei casi
previsti dall’art. 30 co. 7 e 8 d.P.R. 380/2001.
Ne consegue che la confisca resta esclusa solo di fronte ad una pronuncia di
proscioglimento per insussistenza del fatto di reato.
Tale granitico orientamento giurisprudenziale, in tema di confisca urbanistica,
sarebbe avvalorato da un dato di carattere sistematico, consistente nella diversa
terminologia utilizzata dal legislatore per disciplinare il caso dell’ordine di
demolizione proveniente dal giudice, nel quale si richiede, testualmente, una
«sentenza di condanna», a cui, diversamente, non fa riferimento l'art. 44 co. 2 d.P.R.
380/2001.
In altri termini, la confisca urbanistica ha carattere accessorio all'accertamento
dell'illecito penale, anche nell'ipotesi di estinzione dello stesso, «purché sia accertata
la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo,
nell'ambito di un giudizio che assicuri il contraddittorio e la più ampia partecipazione
degli interessati, e che verifichi l'esistenza di profili quantomeno di colpa sotto
l'aspetto dell'imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza dei soggetti nei
confronti dei quali la misura viene ad incidere»22.
La confisca urbanistica ha, poi, certamente carattere ablatorio (al pari
dell'ordine di demolizione), andando, dunque, a sacrificare il diritto alla proprietà
privata di chi la subisce.
A ben guardare, dunque, l'ordine di demolizione edilizio ha in comune con la
confisca urbanistica la natura amministrativa ed ablatoria, secondo (sempre) la
giurisprudenza nostrana, ma si distingue dalla stessa per il più intenso vincolo di
pertinenza o accessorietà all'accertamento della responsabilità penale dell'imputato
(necessità della condanna).
6.1. Nella sentenza 26.3.2015 n. 49, la Corte costituzionale, dando atto
dell'orientamento giurisprudenziale dominante per cui la confisca urbanistica è una
sanzione amministrativa, ha rilevato che «la situazione è mutata in seguito alla
sentenza della Corte di Strasburgo 20 gennaio 2009, Sud Fondi srl e altri contro Italia,
con la quale si è deciso che la confisca urbanistica costituisce sanzione penale ai sensi
dell’art. 7 della CEDU e può pertanto venire disposta solo nei confronti di colui la cui
responsabilità sia stata accertata in ragione di un legame intellettuale (coscienza e
volontà) con i fatti», aggiungendo, però, che «nel nostro ordinamento, l’accertamento
ben può essere contenuto in una sentenza penale di proscioglimento dovuto a
prescrizione del reato, la quale, pur non avendo condannato l’imputato, abbia
21
Cass. 4.2.2013 n. 17066, cit.; Cass. 13.7.2009 n. 39078, in CEDCass, m. 245348; Cass. 30.4.2009 n. 21188, in
CEDCass, m.243630.
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Cass. 4.2.2013 n. 17066, cit.
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comunque adeguatamente motivato in ordine alla responsabilità personale di chi è
soggetto alla misura ablativa, sia esso l’autore del fatto, ovvero il terzo di mala fede
acquirente del bene (sentenze n.239 del 2009 e n.85 del 2008)».
Per la Consulta, dunque, la natura penale della confisca urbanistica non può
essere messa in dubbio e la sua concreta applicazione può conseguire anche ad una
sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato, così andando a dare una diversa lettura
della pronuncia della Corte di Strasburgo nel caso Varvara c. Italia, richiamata
espressamente dalla Suprema Corte23, nelle ragioni sottese all'incidente di
costituzionalità promosso.
La decisione della Consulta ha sollevato molte critiche24, fra cui, ai fini
dell'argomentazione qui analizzata, quella centrale di consentire l'applicazione della
confisca urbanistica nonostante la prescrizione del reato presupposto, purché il giudice penale «abbia comunque adeguatamente motivato in ordine alla responsabilità
personale di chi è soggetto alla misura ablativa, sia esso l’autore del fatto, ovvero il
terzo di mala fede acquirente del bene».
La lettura costituzionale in parola sembrerebbe ancorarsi solo
all'argomentazione, sostenuta dai giudici sovranazionali, relativa all'intensità del nesso
tra fatto e persona sufficiente alla declaratoria di responsabilità penale.
Nel caso Varvara c. Italia, in effetti, i giudici euroumanitari25 appaiono
discostarsi, sotto tale specifico profilo (nesso intellettuale tra fatto e soggetto) dal
principio espresso nel caso Sud Fondi c. Italia, poiché, dapprima, affermano che «il ne
peut y avoir de peine sans l’établissement d’une responsabilité personnelle», poi,
dichiarano che «l’article 7 de la Convention ne requiert pas expressément de “lien
psychologique” ou “intellectuel” ou “moral” entre l’élément matériel de l’infraction et la
personne qui en est considérée l’auteur», andando così a modificare l'importante precedente, concludendo, con un'operazione di “taglia e cuci”, che «la logique de la “peine”
et de la “punition”, et la notion de “guilty” (dans la version anglaise) et la correspondante
notion de “personne coupable” (dans la version française), militent pour une
interprétation de l’article 7 qui exige, pour punir, une déclaration de responsabilité par
les juridictions nationales, qui puisse permettre d’imputer l’infraction et d’infliger la
peine à son auteur. A défaut de quoi, la punition n’aurait pas de sens (Sud Fondi et
23
Cass. 30.4.2014 n. 20636, in CEDCass, m. 259436.
F. Viganò, La Consulta e la tela di Penelope. Osservazioni a primissima lettura su C. cost., sent. 26 marzo
2015, n. 49, in materia di confisca di terreni abusivamente lottizzati e proscioglimento per prescrizione, in
www.penalecontemporaneo.it; M. Bignami, Le gemelle crescono in salute: la confisca urbanistica tra Costituzione,
CEDU e diritto vivente, in www.penalecontemporaneo.it; A. Ruggeri, Fissati nuovi paletti dalla Consulta a riguardo
del rilievo della Cedu in ambito interno, in www.penalecontemporaneo.it; R. Conti, La Corte assediata?
Osservazioni a Corte cost. n. 49/2015, in Rivista Consulta online, Studi 2015 (I); V. Manes, La “confisca senza
condanna” al crocevia tra Roma e Strasburgo: il nodo della presunzione di innocenza, in
www.penalecontemporaneo.it; D. Russo, La “confisca in assenza di condanna” tra principio di legalità e tutela dei
diritti fondamentali: un nuovo capitolo del dialogo tra le Corti, in www.osservatoriosullefonti.it; G. Civello, La
sentenza Varvara c. Italia “non vincola” il giudice italiano: dialogo fra Corti o monologhi di Corti?, in
www.archiviopenale.it; A. Dello Russo, Prescrizione e confisca. La Corte costituzionale stacca un nuovo biglietto
per Strasburgo, in www.archiviopenale.it; G. Martinico, Corti costituzionali (o supreme) e ‘disobbedienza
funzionale, in www.penalecontemporaneo.it; D. Tega, La sentenza della Corte costituzionale n. 49 del 2015 sulla
confisca: il predominio assiologico della Costituzione sulla Cedu, in www.forumcostituzionale.it.
25
Sia consentito il rinvio a G. Stea, I principi di diritto penale nella giurisdizione europea, Pisa 2014, 250 ss.
24
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autres, précité, § 116). Il serait en effet incohérent d’exiger, d’une part, une base légale
accessible et prévisible et de permettre, d’autre part, une punition quand, comme en
l’espèce, la personne concernée n’a pas été condamné».
In altri termini, i giudici sovranazionali ritengono sufficiente per applicare la
sanzione all'autore del fatto la sola dichiarazione di responsabilità, secondo
l'ordinamento interno, che consenta di imputare quel comportamento, anche solo
materialmente (se previsto), al soggetto.
Da ciò, la Corte costituzionale evidenzia che, nel nostro ordinamento,
l'accertamento della responsabilità può essere contenuto anche in una sentenza di
proscioglimento per prescrizione del reato.
Ma tale accertamento, però, e qui appare illogico l'obiter dictum costituzionale,
non può portare all'applicazione di una «pena» come certamente è la confisca
urbanistica, tanto da far apertamente sottolineare alla Corte di Strasburgo, nel caso
Varvara c. Italia: «la Cour voit mal comment la punition d’un accusé dont le procès n’a
pas abouti à une condamnation pourrait se concilier avec l’article 7 de la Convention,
disposition qui explicite le principe de légalité en droit pénal»26.
L'interrogativo della Corte di Strasburgo è il nodo centrale della questione:
come è possibile infliggere una pena come la confisca urbanistica senza una sentenza
di condanna?
È superfluo evidenziare che la sentenza di proscioglimento dell'imputato per
estinzione del reato non è una «sentenza di condanna» e, dunque, non si può
ammettere l'applicazione di una pena, poiché, come noto, con il verificarsi di una
causa di estinzione del reato «resta precluso al giudice penale di emanare una qualsiasi
statuizione condannatoria, potendo egli esercitare un vaglio di merito al solo fine di
emanare un’eventuale sentenza ex art. 129 co. 2 Cpp: ciò vuol dire che, una volta estinto
il reato, ogni potere di accertamento in malam partem deve intendersi perento e
consumato, e il suo eventuale esercizio contra reum da parte del giudice di merito
finisce per travalicare le prerogative e i poteri lui assegnati dall’ordinamento
processuale»27.
Se, dunque, la confisca urbanistica ha natura penale, come ammesso anche
dalla Corte costituzionale, per quale motivo una tale sanzione debba subire sorti
diverse rispetto alle pene dell'arresto e dell'ammenda previste dall'art. 44 co. 1 lett. c)
d.P.R. 38/2001 ?
Non avrebbe alcun senso!
Da ciò, la sentenza definitiva a cui fa riferimento l'art. 44 co. 2 d.P.R. 380/2001,
come presupposto per l'applicazione della confisca urbanistica, non può che essere la
sentenza di condanna dell'imputato, al pari di quanto previsto dall'art. 31 co. 9 d.P.R.
380/2001, nel caso dell'ordine di demolizione edilizia.
A tal proposito, va osservato che l'ordine di demolizione edilizia, anche solo
nella prospettiva giurisprudenziale nostrana, è un quid minus rispetto alla confisca
26
Trad. It. «La Corte ha difficoltà a capire come la punizione di un imputato il cui processo non si è
concluso con una condanna possa conciliarsi con l’articolo 7 della Convenzione, norma che esplicita il principio
di legalità nel diritto penale».
27
G. Civello, op. cit., 11.
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urbanistica, poiché, da un lato, va a colpire solo il bene abusivo, a differenza della
seconda che incide su tutta l'area interessata al manufatto illecito; dall'altro, può
comportare l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale se tale interesse è
espressamente manifestato da una deliberazione consiliare ex art. 31 co. 5 d.P.R.
380/2001, mentre nella seconda l'avocazione pubblica non è soggetta ad alcuna
manifestazione di interesse; ed, infine, l'ordine demolitorio incide solo sull'aspetto del
godimento del bene abusivo di cui è proprietario il condannato, mentre la confisca
estingue il diritto di proprietà dello stesso, espropriandolo in favore della collettività 28.
Il rapporto di continenza tra le due sanzioni ablative urbanistiche è
espressione analoga della medesima relazione di gravità degli illeciti penali di
riferimento29: da un lato, la previsione di cui all'art. 44 co.1 lett. b) d.P.R. 380/2001, a cui
si applica la sanzione dell'ordine di demolizione e, dall'altro, la disposizione di cui
all'art. 44 co.1 lett. c) d.P.R. 380/2001, che prevede la confisca.
Da tale evidente interrelazione di continenza proporzionata tra le due sanzioni
ablatorie urbanistiche deriverebbe, ove fosse confermata la lettura giurisprudenziale
domestica, l'irragionevolezza della previsione di cui all'art. 44 co. 2 d.P.R. 380/2001, rispetto a quella di cui all'art. 31 co. 9 d.P.R. 380/2001, per violazione dell'art. 3 Cost.,
nella parte in cui prevede un vincolo di accessorietà con l'accertamento del fatto di
reato, meno intenso rispetto a quello previsto per la sanzione meno grave (ordine
demolitorio), così invertendo la relazione di proporzione che caratterizza, come detto,
le due ipotesi sanzionatorie ablative. E, comunque, anche per violazione dell'art. 117 co.
1 Cost., in relazione al parametro interposto dell'art. 7 Cedu. Censura, come visto,
respinta dalla Corte costituzionale.
7. L'ordine di demolizione edilizia, previsto dall'art. 31 co. 9 d.P.R. 380/2001,
stando alla giurisprudenza domestica, come visto, ha i caratteri pertinenziale o
28
Un aneddoto curioso (forse). La confisca punitiva o l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale
hanno una ragione di interesse generale, come previsto dall'art. 42 co. 3 Cost.? È l'interrogativo che si pose il
Pretore di Pianella che, con ordinanza 14.3.1969, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt.
79 r.d. 5.6.1939 n. 1016 (T.U. leggi sulla caccia), 236 e 240 Cp, nella parte in cui prevedono la confisca dei mezzi di
caccia e di uccellagione. Il giudice pianellese lamentava che le disposizioni impugnate violassero l'art. 42 co. 2
Cost., essendo la confisca non una pena, ma una misura di sicurezza patrimoniale, cioè una espropriazione per
motivi di interesse generale (sicurezza) e, dunque, avrebbe dovuto dar luogo ad indennizzo, a differenza di
quanto stabiliscono le norme denunciate. La Corte costituzionale, con ordinanza 20.1.1971 n. 8, liquidò la
questione affermando che «la c.d. confisca dei mezzi di caccia e di uccellagione é indubbiamente una misura
strettamente conseguente ad un illecito penale commesso da chi partecipa alla caccia ("la condanna per le
violazioni alla presente legge importa la confisca dei mezzi di caccia e di uccellagione", citato art. 79 T.U.),
dimodoché risulta ictu oculi che un indennizzo ne sviserebbe la funzione e che perciò l'art. 42 della Costituzione
é stato malamente invocato». Che già allora la Consulta avesse evidenziato la funzione sostanzialmente penale
della confisca?
29
Ad onor del vero, la maggiore gravità del reato di lottizzazione abusiva (art. 44 co. 1 lett. c) d.P.R.
380/2001), stando alle pene contravvenzionali, emergerebbe solo rispetto al minimo dell'ammenda, elevato ad €
15.493,00, rispetto a quello previsto per il reato punito dall'art. 44 co. 1 lett. b) d.P.R. 380/2001, per cui il minimo
della pena pecuniaria è di € 5.164,00. Le due ipotesi contravvenzionali, dunque, hanno in comune l'entità della
pena detentiva (arresto fino a due anni) e quella massima dell'ammenda (€ 51.645,00). Il discrimen più
significativo starebbe proprio nella previsione della confisca per il reato “più grave”, rispetto all'ordine di
demolizione previsto dalla previsione “più mite”.
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accessorio rispetto alla sentenza di condanna penale e ablatorio sul diritto reale
appartenente al condannato, ed ha la finalità prettamente tutoria del territorio e,
dunque, «una funzione direttamente ripristinatoria del bene offeso»30.
Sarebbero sufficienti già tali caratteri e finalità comuni alla confisca
urbanistica per qualificare anche l'ordine demolitorio come «pena» ai sensi degli artt.
6 e 7 Cedu31, in una lettura conforme dell'art. 31 co. 9 d.P.R. 380/2001, agli artt. 25 co. 2,
27 co. 1 e 3, e 117 co. 1 Cost.
Ad ogni modo, si ritiene che l'ordine di demolizione edilizio abbia anche il
carattere afflittivo, derivante da quello (pacifico) ablatorio, in chiave normocostituzionale della tutela penale, laddove si guardi al rango degli interessi sacrificati
dall'intervento sanzionatorio edilizio.
È indiscutibile che l'ordine demolitorio, come già più volte indicato, vada ad
incidere su un aspetto (diritto di godere della res) del diritto alla proprietà privata
tutelato dall'art. 42 Cost., ma anche dall'art. 17 CDFUE, nonché dall'art. 1 del
Protocollo addizionale siglato a Parigi il 20.3.1952 alla Convenzione europea dei diritti
dell'uomo32.
Da ciò, l'incidenza dell'ordine demolitorio su un diritto dell'individuo di così
alto rango normativo (diritto di proprietà) evidenzia il carattere particolarmente
afflittivo e repressivo della sanzione irrogata.
Né argomenti contrari si possono ricavare da quanto indicato dalla Corte
convenzionale nel caso Sud Fondi c. Italia (§ 140), nella parte in cui i giudici
euroumanitari, evidenziando la sproporzione «della confisca (85% di terreni non
edificati), in assenza di un qualsiasi indennizzo, (...) rispetto allo scopo annunciato,
ossia mettere i lotti interessati in una situazione di conformità rispetto alle
disposizioni urbanistiche», ritengono «ampiamente sufficiente prevedere la
30
P. Tanda, I reati urbanistico-edilizi, Padova 2007, 442.
L'unica decisione della Corte di Strasburgo che, in maniera espressa, qualifica di natura penale l'ordine
di demolizione edilizia (C. eur., 27.11.2007, Hamer c. Belgio), non offre un'approfondita analisi dei caratteri e
delle finalità dell'ordine ablativo in questione, ma semplicemente, richiamando la giurisprudenza consolidata
sulla nozione di pena convenzionale (§ 59 «La Cour réaffirme l'autonomie de la notion «d'accusation en matière
pénale» telle que la conçoit l'article 6. Dans sa jurisprudence, elle a établi qu'il faut tenir compte de trois critères
pour décider si une personne est «accusée d'une infraction pénale» au sens de l'article 6 : d'abord la qualification
de l'infraction en droit interne, puis la nature de l'infraction et, enfin, la nature et le degré de gravité de la sanction
encourue», conclude che «cette mesure de démolition peut être regardée comme une «peine» au sens de la
Convention».
32
È pacifico, nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo che la ratio della disposizione convenzionale
de qua consiste nella tutela del diritto di proprietà. In questo senso a partire da C eur., 13.3.1978, Marckx c. Belgio.
Va sottolineato, comunque, che, nel silenzio della norma circa l’esatta definizione del contenuto di tale diritto, la
nozione di proprietà ha assunto portata e significato autonomi rispetto agli ordinamenti nazionali, con la
conseguenza che è irrilevante che il richiedente sia o meno titolare di un diritto di proprietà secondo l’ordinamento interno, essendo essenziale che l'individuo sia titolare di un diritto ovvero anche di un mero interesse
purché avente valore patrimoniale. In questo senso, M.L. Padelletti, Protezione della proprietà, in Commentario
alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole, B.
Conforti e G. Raimondi, Padova 2001, 804, secondo cui «il criterio del valore patrimoniale del bene viene
considerato in tutti i casi esaminati dalla Corte, senza che venga tracciata una netta distinzione tra diritto strictu
sensu e semplice interesse patrimoniale. Per poter qualificare un diritto patrimoniale quale “bene” ai sensi della
Convenzione non appare inoltre neppure indispensabile che esso sia trasmissibile a terzi». Nella giurisprudenza
convenzionale, C. eur., 7.7.1989, Tre Traktoer c. Svezia; C. eur., 25.3.1999, Affaire Iatridis c. Grecia, § 54; C. eur.,
26.6.1986, Van Marle e altri c. Olanda, § 41.
31
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demolizione delle opere incompatibili con le disposizioni pertinenti e dichiarare
inefficace il progetto di lottizzazione», con l'effetto, si direbbe, di voler escludere la
natura afflittiva dell'ordine demolitorio.
È vero l'esatto opposto.
In effetti, sul punto, va osservato, in primis, che, in tale passaggio della
decisione nel caso Sud Fondi c. Italia, la Corte di Strasburgo sottolinea solo il carattere
ingiustificatamente afflittivo, poiché sproporzionato rispetto al fatto contestato, della
confisca urbanistica (nel caso concreto), ma non ricava, da tale aspetto, la natura
penale della sanzione ablativa e, dunque, non esclude certamente l'afflittività
dell'ordine demolitorio che, invece, ritiene proporzionato al fatto di reato contestato.
Anzi, proprio la circostanza di considerare proporzionato l'ordine demolitorio
al reato di lottizzazione abusiva, anziché la confisca, significa, nella ratio della
decisione sovranazionale, che lo stesso ha natura penale.
I giudici euroumanitari, invero, quando giungono alla valutazione espressa nel
passaggio sopra richiamato, hanno già superato la questione della natura penale della
confisca urbanistica, enunciata nella decisione di ammissibilità del ricorso
introduttivo33, tenuto conto della sua accessorietà all'illecito penale («la Cour estime
que la confiscation litigieuse se rattachait à une «infraction pénale» fondée sur des
dispositions juridiques générales») ed, inoltre, del suo accertamento da parte del
giudice penale («(l)a Cour note ensuite que le caractère matériellement illégal des
lotissements a été constaté par les juridictions pénales»), nonché della finalità
preventiva della confisca e non riparatoria («(e)n outre, la Cour observe que la sanction
prévue à l’article 19 de la loi no 47 de 1985 ne tend pas à la réparation pécuniaire d’un
préjudice, mais vise pour l’essentiel à punir pour empêcher la réitération de
manquements aux conditions fixées par la loi»).
Queste ragioni, dunque, sarebbero già sufficienti a qualificare la confisca
urbanistica come «pena» secondo le garanzie convenzionali, tant'è vero che la Corte
sovranazionale si limita ad aggiungere («(c)ette conclusion est renforcée»), alle
peculiarità già evidenziate (accessorietà e finalità preventiva), anche il carattere
particolarmente afflittivo della sanzione ablatoria sindacata e, dunque, la funzione
repressiva della stessa.
Ma non basta.
Sul punto, è interessante quanto evidenziato dalla Corte costituzionale, nella
sentenza n. 196/2010 (già citata), in tema di confisca stradale, che, richiamando il
precedente 29.5.1968 n. 53, sottolinea come «la inserzione della pena e della misura di
sicurezza nell'ambito di una categoria unica» (quella generale di sanzione, intesa come
«reazione dell'ordinamento alla inosservanza della norma») non abbia avuto come
effetto di eliminare «quelli che sono i caratteri particolari dei due mezzi di tutela
giuridica». «Nessuno sforzo di accostamento», prosegue la citata sentenza, «potrà
infatti valere ad eliminare la differenza, essenziale e di natura, che nettamente si
manifesta: la differenza cioè fra la reazione contro un fatto avvenuto, propria della
pena, e l'attuazione, propria della misura di sicurezza, di mezzi rivolti ad impedire
33
C. eur., 30.8.2007, Sud Fondi srl c. Italia.
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fatti di cui si teme il verificarsi nel futuro». In questi termini, l'ordine di demolizione è
certamente una reazione al reato edilizio e, dunque, già per questo ha carattere
sanzionatorio assimilabile alla pena in senso stretto.
Ora, l'ordine demolitorio di cui all'art. 31 co. 9 d.P.R. 380/2001 è certamente
accessorio ad un illecito criminale (art. 44 co. 1 lett. b) d.P.R. 380/2001) ed è impartito
con una sentenza di condanna del giudice penale, così soddisfacendo il requisito di
pertinenza richiesto (alternativamente agli ulteriori) dalla giurisprudenza
euroumanitaria per qualificare una sanzione interna come «pena convenzionale».
Tale requisito è ulteriormente avvalorato dalla pacifica giurisprudenza
nazionale che ammette, facendo leva sulla previsione di cui all'art. 655 Cpp, la
competenza del pubblico ministero a dare esecuzione all'ordine demolitorio contenuto
nella sentenza di condanna34.
Rebus sic stantibus, l'ordine demolitorio è «pena» anche per il diritto interno,
in virtù di una lettura conforme ai dettati convenzionali ai sensi degli artt. 25 co. 2, 27
co. 1 e 3, 101 co. 2 e 117 co. 1 Cost.
L'ordine demolitorio, comunque, ha anche carattere preventivo e repressivo, in
quanto, secondo le parole della Corte sovranazionale, come la confisca, «ne tend pas à
la réparation pécuniaire d’un préjudice, mais vise pour l’essentiel à punir pour empêcher
la réitération de manquements aux conditions fixées par la loi», tanto che, in caso di
inadempimento, l'ordine demolitorio viene eseguito dal pubblico ministero (al pari di
qualsiasi pena, come detto), secondo le modalità prescritte dagli artt. 61 ss. d.P.R.
30.5.2002 n.115, con addebito dei relativi costi al condannato/inadempiente, così
convertendosi, se si vuole, il facere imposto, in una vera e propria sanzione pecuniaria.
Non va trascurato, inoltre, che, come già detto, la Corte di Strasburgo ha
indicato proprio nell'ordine demolitorio la pena proporzionata per il reato di lottizzazione abusiva35, che costituisce, nel nostro ordinamento, il reato urbanistico più
grave, con l'effetto che la previsione, anche per la contravvenzione edilizia meno grave
(art. 44 co. 1 lett. b) d.P.R. 380/2001), della stessa sanzione ablativa, non può che
sottolinearne la medesima finalità (punitiva e repressiva).
È indubbia, infine, la natura strettamente personale dell'ordine ablatorio,
come si ricava dall'insegnamento giurisprudenziale domestico, secondo cui «spetta al
condannato per reato edilizio, in quanto destinatario dell'ordine di demolizione del
manufatto abusivo, l'onere di darvi esecuzione, nelle forme di rito, a propria cura e
spese», a prescindere anche dall'acquisizione del bene al patrimonio comunale 36.
Per tali ragioni, l'ordine di demolizione edilizia, avendo anche i caratteri di
indubbia gravità e finalità repressiva37, oltre quelli pacifici di accessorietà, afflittività e
34
Cass. 7.1.2015 n. 5188, in UApp 2015, 4, 489; Cass. 17.9.2014 n. 47682, in CEDCass, m. 261166.
C. eur., 20.1.2009, Sud Fondi Srl c. Italia, § 140.
36
Cass. 26.10.2011 n. 45703, in CEDCass, m. 251319; Cass. 28.11.2007 n. 4962, in CEDCass, m. 238802.
37
T. Asti, 3.11.2014, in AP 2015, 1, con nota di G. Bucchi Siena, Strasburgo chiama, Asti risponde: l'ordine di
demolizione è una pena e si prescrive: «(l)'ordine di demolizione, ex art. 31, co. 9, D.lgs. 20 ottobre 2001, n. 380,
alla luce dell’approccio sostanzialistico della Corte europea dei diritti dell’uomo, andrebbe qualificato come
“pena” ad ogni effetto, ragion per cui come tale va qualificato dal giudice nazionale. Dalla asserita natura penale
di detta sanzione discende che la stessa non può dirsi estromessa dall’ambito applicativo dell’art. 173 c.p., ma al
contrario, si estingue, ai sensi della detta disposizione, ove non portata ad esecuzione nel termine quinquennale,
salva ogni valutazione amministrativa della vicenda».
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finalità ripristinatoria, va considerato sostanzialmente una «pena», secondo una
lettura costituzionalmente conforme38.
8. Il sistema di controllo degli abusi edilizi e paesaggistici delineato dal
legislatore è affidato essenzialmente alla pubblica amministrazione ed, in particolare,
all'Amministrazione Comunale, in quanto spetta proprio al dirigente preposto, dopo
l’accertamento dell’abuso edilizio o paesaggistico, emanare l’ordinanza di sospensione
dei lavori e il successivo ordine di abbattimento o acquisizione alternativa al
patrimonio pubblico, ed ovviamente curarne l’osservanza, o in caso contrario,
l'applicazione coattiva fino agli estremi finali. L'intervento del giudice penale in
materia demolitoria, seppur autonomo e non suppletivo rispetto a quello
amministrativo, è condizionato all'eventualità della mancata esecuzione dell'ordine
ablatorio amministrativo, come si desume dall'ultima parte dell'art. 31 co. 9 d.P.R.
380/2001.
Ma è ben noto che l'analisi prasseologica del fenomeno dell'abusivismo edilizio
ha fornito risultati ben lontani dalla fattispecie idealtipica descritta, come detto, dal
legislatore: sono tutt'altro che isolati, infatti, i casi in cui l'accertamento penale e,
dunque, l'ordine ablatorio impartito con la sentenza di condanna anticipa l'iniziativa
sanzionatoria amministrativa, così invertendo l'ipotesi legislativa di accertamento e
repressione degli abusi edilizi.
Da ciò, è un dato certamente acquisito che il procedimento amministrativo
segue (e non precede) la sentenza irrevocabile di condanna penale.
Tale evidenza fenomenica porta inevitabilmente la riflessione oggetto del
contributo all'interrogativo teorico di tipo processuale (ma non solo): l'irrevocabilità
della sentenza di condanna penale preclude l'accertamento amministrativo? E poi, la
sentenza di proscioglimento per intervenuta estinzione dell'illecito penale quali
riflessi ha sul procedimento amministrativo ancora da avviare o non ancora concluso?
8.1. L'analisi non può che partire dall'importante pronuncia nel caso Grande
Stevens c. Italia, adottata dalla Corte di Strasburgo39.
I giudici euroumanitari ritengono che il sistema legislativo italiano in materia di
abusi di mercato, così come attualmente delineato dagli artt. 185 e 187-ter d. lgs.
24.2.1998 n. 58, parrebbe incoerente rispetto al diritto ad un equo processo (art. 6 § 1
Cedu) ed a quello a non essere giudicati o puniti due volte per lo stesso fatto (art. 4
Protocollo n. 7 Cedu).
Ed invero, la Corte europea dei diritti dell'uomo, nell'occasione, ha affermato
che, dopo le sanzioni comminate dalla CONSOB, l’avvio di un processo penale sugli
stessi fatti viola il fondamentale principio del ne bis in idem, secondo cui non si può
essere giudicati due volte per lo stesso fatto: i ricorrenti, dopo essere stati sanzionati
con illecito amministrativo nel 2007 dalla CONSOB, erano stati rinviati a giudizio e
successivamente assolti in primo grado e condannati in appello.
38
39
In questo senso, come detto (infra, nota 31), C. eur., 27.11.2007, Sud Fondi Srl c. Italia.
C. eur., 4.3.2014, Grande Stevens c. Italia.
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La Corte di Strasburgo accerta le violazioni convenzionali, affermando,
dapprima, la natura delle sanzioni solo nominalmente amministrative per prime
inflitte ai ricorrenti ed argomentando in merito che, nonostante la dichiarata
qualificazione amministrativa del procedimento innanzi alla CONSOB, esse sono da
considerarsi, a tutti gli effetti, come sanzioni penali. Successivamente, i giudici
convenzionali accertano se i due procedimenti e relative sanzioni domestici hanno ad
oggetto lo stesso fatto, onde valutarne la compatibilità con il principio di cui all’art. 4
Protocollo n. 7 Cedu.
La Corte euroumanitaria, all'esito, conclude per la violazione sia dell'art. 6 Cedu,
sia dell'art. 4 Protocollo n. 7 Cedu.
E' necessario appuntare l'attenzione sui criteri di accertamento del medesimo
fatto.
L'orientamento della giurisprudenza convenzionale, confermato nel caso
Grande Stevens c. Italia, è granitico nello specificare che l’art. Protocollo n. 7 Cedu deve
essere inteso nel senso che esso vieta di perseguire o giudicare una persona per un
secondo «illecito» nella misura in cui alla base di quest’ultimo vi sono fatti che sono
sostanzialmente gli stessi e che la garanzia sancita all’articolo suddetto diviene
operativa quando viene avviato un nuovo procedimento e la precedente decisione di
assoluzione o di condanna è già passata in giudicato. Tale lettura ermeneutica fa leva
sulla ratio della norma convenzionale de qua, da ravvisarsi nella garanzia contro nuove
azioni penali o contro il rischio di tali azioni, e non il divieto di una seconda condanna
o di una seconda assoluzione. In altri termini, non rileva, ai fini del divieto del bis in
idem convenzionale, se gli elementi costitutivi degli illeciti descritti dal legislatore
siano identici, attraverso una comparazione strutturale delle fattispecie astratte, ma se
il fatto ascritto all'individuo dinanzi all'autorità amministrativa e al giudice penale sia
riconducibile alla stessa condotta o, meglio, al medesimo comportamento contestato.
È un'esegesi che si sovrappone a quella dell'art. 649 Cpp offerta dalla Corte di
legittimità nazionale in merito alla definizione di «stesso fatto giudicato» come idem
factum e non come idem legale40.
La Corte di Strasburgo, sul punto, richiama il precedente della Grande Camera,
nel caso Sergueï Zolotoukhine c. Russia41, che ha affermato, in maniera categorica, che
«l’article 4 du Protocole no 7 doit être compris comme interdisant de poursuivre ou de
40
Cass. 21.3.2013 n. 18376, in CEDCass, m. 255837, afferma che per «medesimo fatto», ai fini
dell’applicazione del principio del ne bis in idem di cui all’art. 649 Cpp, deve intendersi «identità degli elementi
costitutivi del reato, con riferimento alla condotta, all’evento e al nesso causale, nonché alle circostanze di tempo
e di luogo, considerati non solo nella loro dimensione storico – naturalistica ma anche in quella giuridica,
potendo una medesima condotta violare contemporaneamente più disposizioni di legge». In tale pronuncia, il
Collegio richiama espressamente il precedente di Cass. S.U. 28.6.2005 n. 34655, in CM 2006, (2), 239 ss., con nota
di G. Leo, secondo cui «l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella
configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con
riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona». In senso conforme, da ultimo, Cass. 30.10.2014 n.
52215, in CEDCass, m. 261364; Cass. 7.3.2014 n. 32352, in CEDCass, m. 261937; Cass. 6.12.2012 n. 4103, in
CEDCass, m.255078. E' un orientamento che presuppone una lettura estensiva del divieto sancito dall'art. 649
Cpp, finalizzata ad evitare un'indebita duplicazione del processo. Sul punto, vi è il conforto della giurisprudenza
costituzionale, cfr. C. cost., 6.3.2002 n. 39; C. cost., 27.7.2001 n. 318.
41
C. eur. GC., 10.2.2009, Sergueï Zolotoukhine c. Russia.
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juger une personne pour une seconde “infraction” pour autant que celle-ci a pour
origine des faits qui sont en substance les mêmes» e, dunque, precludendo la
possibilità di un secondo giudizio per un illecito avente ad oggetto fatti
sostanzialmente identici a quelli relativi al precedente processo. Si tratta, a ben vedere,
di una giurisprudenza convenzionale che, lasciando i confini della materia
processuale, si spinge oltre, appuntandosi sui limiti definitori dello stesso criterio di
specialità, come strumento di distinzione degli illeciti in conflitto apparente, e
preferendo una visione in concreto, rispetto a quella in astratto 42. E qui ponendosi un
punto di frizione con la consolidata giurisprudenza domestica sull'esegesi dell'art. 9 l.
24.11.1981 n. 689.
8.2. In materia edilizia, la frizione tra ne bis in idem sovranazionale e doppio
binario sanzionatorio penale-amministrativo è accentuata dall'espressa deroga ex art.
44 d.P.R. 380/2001 al principio di specialità previsto dall'art. 9 l. 689/1981 43.
L'esclusione della specialità tra illecito amministrativo e penale e, dunque, la
predisposizione di un cd. doppio binario rafforzato, che sottolinea anche l’identità in
concreto del fatto punito, è stata giustificata sulla base dell'importanza e preminenza
degli interessi collettivi da tutelare, onde ridurre i pericoli legati alla trasformazione ed
alla modifica incontrollate del territorio e, dunque, salvaguardare la salubrità
dell'ambiente, senza compromettere l’ecosistema.
Gli abusi edilizi penalmente rilevanti sono, infatti, quelli in cui gli interventi
modificativi del territorio sono realizzati in contrasto con le prescrizioni di legge,
oppure in assenza del titolo abilitativo. Le fattispecie incriminatici in tema di
urbanistica ed edilizia sono costellate da elementi normativi della fattispecie e, perciò,
da riferimenti e richiami alle normative di settore o agli atti di governo del territorio.
Da ciò, il diritto penale è utile a sanzionare violazioni che già costituiscono veri e
propri illeciti amministrativi, legati ad uno scorretto uso del territorio e l’abuso
edilizio è, ad un tempo, reato ed illecito amministrativo, in modo da offrire una tutela
rafforzata alla corretta gestione del territorio, come si evince dal sistema sanzionatorio
42
Di recente, C.G.U.E. GC, 27.5.2014, C-129/14 PPU, Spasic, ha riconosciuto la compatibilità dell'art. 54
CAAS (Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen) all'art. 50 CFDUE, osservando, in particolare (§
55), che «la condizione supplementare contenuta all’articolo 54 della CAAS costituisce una limitazione del
principio del ne bis in idem che è compatibile con l’articolo 50 della Carta, in quanto tale limitazione rientra
nell’ambito delle spiegazioni relative alla Carta con riferimento a quest’ultimo articolo alle quali rinviano
direttamente le summenzionate disposizioni degli articoli 6, paragrafo 1, terzo comma, TUE e 52, paragrafo 7,
della Carta». L'art. 54 CAAS stabilisce: «(u)na persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una parte
contraente non può essere sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in un’altra parte
contraente a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di
esecuzione attualmente o, secondo la legge della parte contraente di condanna, non possa più essere eseguita».
La giurisprudenza comunitaria si allinea alla lettura euroumanitaria del concetto di «medesimo fatto», cfr. ex
multis, C.G.U.E. 18.7.2007, C-288/05, Kretzinger; in dottrina, con ampia analisi della giurisprudenza
convenzionale e comunitaria, J.A.E. Vervaele, Multilevel and multiple punishment in Europe. The ne bis in idem
principle and the protection of human rights in Europe’s area of freedom, security and justice, in Multilevel
Governance in Enforcement and Adjudiciation, a cura di A. van Hoek, Antwerpen 2006, 1-24; C.M. Paolucci,
Cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale, Torino 2011, 744 ss.
43
Così anche C. cost., 20.7.1995 n. 341. In materia di reati paesaggistici, con la medesima tecnica
legislativa, come detto, l'art. 181 d. lgs. 42/2004.
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delineato dagli artt. 30 ss. e 44 d.P.R. 380/2001 (in materia urbanistica) e 167 e 181 d. lgs.
22.1.2004 n. 42 (in materia paesaggistica).
Ora, tale doppio sistema sanzionatorio in materia edilizia (ma anche
paesaggistica) costituisce un'evidente situazione di contrasto con l'art. 4 del Protocollo
n. 7 Cedu, ma anche con l'art. 50 CDFUE 44 e, dunque, con l'art. 117 co. 1 Cost.: secondo
la lettura sovranazionale del divieto del bis in idem è certamente inammissibile un
secondo procedimento sanzionatorio, una volta intervenuto un giudicato (o un
provvedimento amministrativo definitivo) per lo «stesso fatto» che, come visto,
costituisce illecito penale, ma anche amministrativo. Ma se la lettura sovranazionale
del ne bis in idem si porta alle estreme conseguenze, passando dal piano processuale, a
quello sostanziale, la stessa deroga ex art. 44 d.P.R. 380/2001 alla specialità (anche
solo) astrattamente prevista tra illecito amministrativo e penale dall'art. 9 l. 689/1981,
in materia edilizia, ammettendo così il concorso tra i due illeciti, sarebbe
manifestamente incostituzionale per violazione degli artt. 11 e 117 co. 1 Cost., in
relazione agli artt. 6 TUE e 50 CDFUE, oltre che all'art. 4 del Protocollo n. 7 Cedu,
poiché il fatto concreto a base dei due illeciti è certamente il «medesimo». In altri
termini, la previsione di cui all'art. 44 d.P.R. 380/2001 esclude ab origine un potenziale
conflitto tra illecito penale e amministrativo, così, sempre astrattamente, non
consentendo il richiamo del criterio di specialità per la selezione della disposizione
sanzionatoria (penale o amministrativa) da applicare. Ponendosi così di traverso
rispetto al ne bis in idem sostanziale ricavabile dalla lettura giurisprudenziale
euroumanitaria45.
Si è già detto, però, che tra illecito penale e illecito amministrativo urbanistico vi
è una perfetta coincidenza ove si confrontino le disposizioni sanzionatorie (di diversa
natura), anche solo in astratto, alla stregua del costante orientamento domestico
sull'art. 9 l. 689/198146. Non potendosi applicare il criterio dirimente previsto dalla
44
Una delle ragioni difensive proposte alla Corte di Strasburgo, proprio nel caso Grande Stevens c. Italia,
dal Governo italiano riguardava il rilievo che sarebbe stato proprio il diritto dell’Unione europea ad aver
autorizzato il ricorso a una doppia sanzione (amministrativa e penale) nell’ambito della lotta contro le condotte
abusive sui mercati finanziari, attraverso la disposizione di cui all’articolo 14 della direttiva 2003/6, secondo
quanto indicato da C.G.U.E. GC, 23.12.2009, C-45/08, Spector Photo Group NV e altri. Altro argomento difensivo
del Governo italiano è stato l'importante indicazione fornita da C.G.U.E. GC, 26.2.2013, C-617/10, Åklagaren c.
Hans Åkerberg Fransson, in materia di imposta sul valore aggiunto, secondo cui: «(l)e principe ne bis in idem
énoncé à l’article 50 de la charte des droits fondamentaux de l’Union européenne ne s’oppose pas à ce qu’un État
membre impose, pour les mêmes faits de non-respect d’obligations déclaratives dans le domaine de la taxe sur la
valeur ajoutée, successivement une sanction fiscale et une sanction pénale dans la mesure où la première sanction
ne revêt pas un caractère pénal, ce qu’il appartient à la juridiction nationale de vérifier». A tal proposito, la Corte
convenzionale, pur precisando che non spetta alla stessa interpretare la giurisprudenza eurounionista, ha
rilevato come la Corte di Lussemburgo, nell'occasione, ha solo precisato che, in virtù del principio del ne bis in
idem, uno Stato può imporre una doppia sanzione (fiscale e penale) per gli stessi fatti solo a condizione che la
prima sanzione non sia di natura penale.
45
Negli stessi termini per il reato paesaggistico.
46
Si è già segnalato che la specialità tra norma penale e quella amministrativa in apparente conflitto va
risolta con una comparazione strutturale tra fattispecie astratte, così come indicato dalle Sezioni Unite (cfr. Cass.
S.U. 28.10.2010 n. 1963, in FI 2011, 12, 2, 682; Cass. S.U. 20.12.2005 n. 47164, con nota di G. Stea, Ricettazione e
commercio di opere d'autore illecitamente riprodotte - La consunzione nel conflitto apparente di norme in
relazione strumentale, in RP, 5, 2007, 532-546). Per dare maggiore conforto a tale comparazione strutturale e,
dunque, evidenziare la differenza del fatto oggetto dell'incriminazione penale e dell'illecito amministrativo, la
giurisprudenza di legittimità fa sempre più spesso riferimento all’oggettività giuridica per risolvere il concorso
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disposizione appena richiamata (non sussistendo alcuna ipotesi di specialità tra le
norme, ma di identità in concreto tra le stesse) e dubitando della soluzione della
prevalenza della norma penale su quella amministrativa (non rientrando nel
capoverso della stessa disposizione e non potendosi applicare un criterio diverso per
risolvere il conflitto47), dovrebbe porsi il problema della doppia incriminazione
«sistematica» dell'illecito edilizio. Così la frizione della deroga di cui all'art. 44 d.P.R.
380/2001 all'art. 9 l. 689/1981 con il divieto del bis in idem sostanziale, si sposta sulla
stessa previsione dell'art. 9 l. 689/1981, nella parte in cui non prevede la prevalenza
dell'illecito penale su quello amministrativo, sempre in una prospettiva esegetica
convenzionale. Si replica così in campo edilizio, lo scenario previsto nel market abuse
già sanzionato dalla Corte di Strasburgo48.
8.3. Tradizionalmente, i reati edilizi, come quelli paesaggistici, sono reati di
pericolo astratto (o presunto) e permanenti, con l'effetto che sono perfetti già con
l'inizio dell'attività abusiva e si consumano quando tale attività cessa per volontà del
reo o per imposizione della pubblica autorità. «La permanenza del reato di
edificazione abusiva termina, con conseguente consumazione della fattispecie, o nel
momento in cui, per qualsiasi causa volontaria o imposta, cessano o vengono sospesi i
lavori abusivi, ovvero, se i lavori sono proseguiti anche dopo l'accertamento e fino alla
data del giudizio, in quello della emissione della sentenza di primo grado» 49. Il termine
di prescrizione, dunque, inizia a decorrere dalla cessazione della permanenza e,
trattandosi di ipotesi contravvenzionale, è fissato in quattro anni.
La cronica inerzia della pubblica amministrazione nella vigilanza sull'attività
urbanistico-paesaggistica determina che la segnalazione all'autorità giudiziaria
pervenga ad opera già ultimata50 e, dunque, ad illecito già prescritto o in prossimità
dello spirare del termine, con l'ovvia conseguenza che spesso il giudice penale
proscioglie l'imputato per intervenuta prescrizione e, come già evidenziato, essendogli
preclusa la possibilità di imporre la demolizione dell'abuso, in virtù di quanto previsto
dall'art. 31 co. 9 d.P.R. 380/2001 (che richiede una sentenza di condanna) 51.
L'illecito amministrativo in materia urbanistico-edilizia è notoriamente
eterogeneo di norme penali ed amministrative (ex multis, Cass. Civ. 16.2.2009 n. 3745, in CEDCass, m. 606555).
L'orientamento che riferisce al principio di specialità un criterio in concreto di risoluzione del problema della
convergenza di norme penali ed amministrative (per tutte Cass. 20.2.1995 n. 3467, in CP 1996, 1956) è certamente
minoritario, ma andrà rivalutato nella prospettiva sovranazionale.
47
La disposizione di cui all'art. 9 l. 689/1981, a differenza di quanto previsto dall'art. 15 Cp, non consente di
introdurre altri criteri di soluzione del conflitto apparente, come, ad esempio, quello di consunzione, a
prescindere dalla severa abiura di illegittimità sancita dalla Sezioni Unite (cfr. Cass. SU, 20.12.2005, cit.).
48
Invero, la situazione astratta è invertita, ma sul piano empirico l'effetto è certamente identico: nella
disciplina del market abuse è la disposizione che prevede l'illecito amministrativo a fare salve le sanzioni penali.
49
Cass. 6.5.2014 n. 29974, in CEDCass, m. 260498; Cass. 25.9.2001 n. 38136, in CEDCass, m. 220351.
50
Cass. 17.9.2014 n. 48002, in CEDCass, m. 261153: «(i)n tema di reati edilizi, deve ritenersi "ultimato" solo
l'edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, di modo che anche il
suo utilizzo effettivo, ancorché accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo
interno, non è sufficiente per ritenere sussistente l'ultimazione dell'immobile abusivamente realizzato,
coincidente generalmente con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni».
51
Anche l'ultimo comma dell'art. 181 d. lgs. 42/2004 prevede la stretta accessorietà dell'ordine di ripristino
dello stato dei luoghi, alla sentenza di condanna.
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imprescrittibile. «L'ordinamento non assoggetta ad un regime di prescrizione
l'esercizio dei poteri di controllo e di sanzione da parte delle amministrazioni
competenti in materia urbanistico-edilizia e paesistica. L'accertamento dell'illecito
amministrativo urbanistico-edilizio e paesaggistico, nonché applicazione delle relative
sanzioni, come pure la verifica in sede di condono della sussistenza di eventuali profili
preclusivi di incompatibilità, possono intervenire anche dopo il decorso di un
rilevante lasso temporale dalla consumazione dell'abuso, al quale deve riconoscersi
natura permanente, con la conseguenza che esso cessa soltanto dopo la materiale
esecuzione della sanzione»52.
Ora, in un tale contesto prasseologico, è altamente probabile che, dopo una
sentenza penale che dichiari l'estinzione del reato edilizio, la pubblica
amministrazione impartisca l'ordine di demolizione dell'abuso, accertando l'illecito
amministrativo. Si tratta di un'ipotesi di violazione del ne bis in idem sovranazionale?
Per rispondere all'interrogativo teorico, è necessario, dapprima, sciogliere
l'arcano sulla ratio della prescrizione penale.
8.3.1. Le teoretiche sulla funzione del decorso del tempo nel diritto penale
hanno interessato da sempre la dogmatica: si è passati dalla elaborazione di
impostazioni concettuali incentrate sulla esaltazione di una ratio unica dell’istituto
(che le varie teorie hanno variamente identificato in questo o quel fattore) ad un
approccio multifattoriale, sino a giungere ad una prospettiva metodologica incentrata
sullo stretto collegamento del fondamento della prescrizione con le finalità della
pena. Ed in questa sede, non si può che partire dal punto di arrivo.
Non si può individuare una ragione immanente53, che trascenda il vigente
contesto normativo nel quale l’istituto della prescrizione è calato; il fondamento non
può che essere relativo, in quanto necessariamente storicizzato. Da tale premessa, si
può affermare che la ratio della prescrizione del reato va ravvisata nella funzione di
prevenzione generale positiva della pena54, che ne valorizza gli aspetti più legati alle
dinamiche sociali ed, in particolare, nell'esigenza di pacificazione che la sanzione
criminale asseconda in una società democratica, confermando nel tessuto sociale la
vigenza della norma infranta55. La funzione generalpreventiva positiva (o integratrice)
52
C. Stato 8.4.2014 n. 1650, Sa.Ma. c. Comune di Casapulla (inedita); C. Stato 24.11.2014 n. 5792, in QuotG,
2014, 656
53
P. Pisa, Prescrizione – f) Diritto penale, in ED, XXXV, Milano 1986, 81.
54
Per un approfondimento delle tematiche connesse alle finalità della pena, F. Palazzo, Introduzione ai
princìpi del diritto penale, Torino 1999, 1 ss.
55
Nella lettura di Günther Jakobs, il diritto penale del nemico (Feindstrafrecht) – come evidenzia L.
Cornacchia, La moderna hostis iudicatio tra norma e stato di eccezione, in Serta iuridica, a cura di F. Lamberti, N.
De Liso, E. Sticchi Damiani e G. Vallone, Scritti dedicati dalla Facoltà di Giurisprudenza a Francesco Grelle, Napoli
2011, 114, già Id., La moderna hostis iudicatio entre norma y estado de excepción, Centro de Estudios
Constitucionales, 94, Madrid 2008, 71, 110 – rappresenta la conseguenza di una precisa considerazione del ruolo
che assume l'effettività nella validazione delle norme dell'ordinamento: una norma vigente, corretta dal punto di
vista formale e materiale, che tuttavia non sia stabilizzata nella realtà sociale in modo tale da poter essere
confermata controfattualmente in caso di sua violazione – attraverso la definizione del comportamento deviante
del soggetto che viola la norma, e non l'aspettativa normativa, come motivo del conflitto – è diritto astratto, puro
feticcio, fino a quando non vi sia un minimo di effettività. Mentre, dunque, per il diritto penale del nemico, la
pena è pura privazione dello ius civis, dello status di cittadino, per il diritto penale del cittadino
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della pena è utile anche a dare un significato positivo all'area della non-punibilità,
laddove si concentrano istituti del diritto penale che, a vario titolo, escludono
l'applicazione della pena, «pur di fronte all'autore di un fatto tipico, antigiuridico e
colpevole»56. Tale ambiente teorico diviene ancora più congeniale per favorire la
ricomposizione della frattura sociale innescata dal fatto delittuoso, ove si guardi al
solo scopo rieducativo della pena, come voluto dall'ordinamento domestico (art. 27 co.
3 Cost.), in cui anche il non-punire deve acquisire un valore risocializzante. In
maniera significativa, si è detto che «la non-punibilità rappresenta (…) la zona
dell'inutilità funzionale della pena, (…) vuoi per la particolarità della fattispecie
concreta, vuoi per la personalità dell'autore, vuoi ancora (…) per il decorso di un ampio
lasso di tempo proporzionato al disvalore dell'illecito»57.
Dal punto di vista collettivo, la risposta punitiva tardiva non è utile a confermare
la vigenza della norma e, quindi, a reintegrare il senso di sicurezza sociale dei
consociati, poiché la società è mutevole e si adatta ad una frattura non
immediatamente ricomposta in relazione all'intensità dell'offesa patita, così
perdendosi nella memoria dell'ordinamento l'interesse confermativo della validità
della norma violata: «il tempo ha fatto cessare il danno sociale mercè la presunta
oblivione della delinquenza; la quale conduce alla cessazione della impressione morale
nata dalla medesima, sia sui buoni in cui è cessato il timore, sia sui malvagi nei quali
non ha più forza il malo esempio. Cessato il danno politico si rende inutile la
riparazione penale»58.
Dal punto di vista del cittadino (o individuale), la tempestiva punizione del fatto
commesso costituisce certamente il corretto modo di intervenire sullo stesso per
reintegrarlo nel tessuto sociale. Già Beccaria sosteneva che i «delitti atroci» e «i delitti
minori ed oscuri devono togliere colla prescrizione l’incertezza della sorte di un
cittadino, perché l’oscurità in cui sono stati involti per lungo tempo i delitti toglie
l’esempio dell’impunità, rimane intanto il potere al reo di divenir migliore» 59. Ma non
(Bürgerstrafrecht), di contro, la pena è sì afflizione, ma in funzione di garanzia della vigenza della norma. Nella
bibliografia si segnala, naturalmente, G. Jakobs, Derecho penal del ciudadano y derecho penal del enemigo, in
Derecho penal del enemigo, a cura di G. Jakobs e M. Cancio Melià, Madrid 2003, 41 ss.; Id., Bürgerstrafrecht und
Feindstrafrecht, in Höchstrichterliche Rechtsprechung Strafrecht, 2004, 88 ss., Id., Diritto penale del nemico, in
Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, a cura di M. Donini e M. Papa, Milano 2007, 5, fra gli
ultimi; nella letteratura italiana, M. Donini, Il diritto penale di fronte al nemico, in CP 2006, 772; Id., Diritto
penale di lotta v. diritto penale del nemico, in Delitto politico e diritto penale del nemico. Nuovo revisionismo
penale, a cura di A. Gamberini e R. Orlandi, Bologna 2007, 131; F. Resta, Nemici e criminali. Le logiche del
controllo, in IP 2006, 181 ss.; R. Bartoli, Lotta al terrorismo internazionale. Tra diritto penale del nemico, jus in
bello del criminale e annientamento del nemico assoluto, Torino 2008, 10; F. Palazzo, Contrasto al terrorismo,
diritto penale del nemico e diritti fondamentali, in Quot. Giur. 2006, 667 ss.; G. Insolera, Terrorismo
internazionale tra delitto politico e diritto penale del nemico, in DPP 2006, 895 ss.; R. Kostoris, Processo penale,
delitto politico e diritto penale del nemico, in RDP 2007, 293; F. Zumpani, Critica del diritto penale del nemico e
tutela dei diritti umani, in Diritto & Questioni Pubbliche 2010 (10), 526 ss.
56
F. Giunta – D. Micheletti, Tempori cedere – Prescrizione del reato e funzioni della pena nello scenario della
ragionevole durata del processo, Torino 2003, 42.
57
F. Giunta – D. Micheletti, op. cit., 42-43.
58
F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale5, I, Lucca 1887, 43859
C. Beccaria, Dei delitti e delle pene. Consulte criminali5, con introduzione e note a cura di G. Armani,
Milano 1995, 69. Ad una lettura superficiale, invero, dell'opera di Beccaria, i delitti atroci potrebbero sembrare
imprescrittibili. Non pare così dall'attenta analisi del Capitolo XXX Processi e Prescrizione, laddove si legge:
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basta. Se si radicalizza l'osservazione sullo stretto legame tra personalità e finalismo
rieducativo, che ha portato all'elaborazione della colpevolezza, si può arrivare ad
affermare, ancora oggi, che «il decorso del tempo scava una lacuna incolmabile,
eliminando il nesso psicologico tra il fatto e l’agente», con l'effetto che la pena perde la
sua ragione funzionale, ma anche il suo valore intimidatorio 60. E tanto nella
prospettiva, ormai superata, della colpevolezza psicologica, ma anche di quella
normativa per cui un rimprovero a distanza di tempo dal fatto perde, allo stesso modo,
ogni relativa caratterizzazione funzionale.
Nell'ottica strettamente personalistica, infine, lo iato temporale (lungo) tra pena
e fatto colpisce «un soggetto diverso da quell’autore del reato medesimo. Il tempo ne
può avere radicalmente modificato la stessa identità biologica e certamente quella
psico-fisica, risolvendosi la responsabilità in contrasto con il profondo significato»
dell'art. 27 Cost.61.
Ulteriore argomento da considerare per individuare la ratio (relativa) della
prescrizione del reato, è costituito dalla natura sostanziale dell'istituto ed, in
particolare, dall'espressa collocazione tra le cause di estinzione del reato 62. Estinguere,
cancellare, annullare, dimenticare. Il reato, inteso come danno sociale, con il passare
di un certo lasso proporzionato di tempo, svanisce nelle maglie del tessuto
democratico63.
Tuttavia, è evidente che la perdita di memoria dell'offesa sociale costituisce la
componente prevalente della ratio della prescrizione del reato, tenuto conto
dell'imprescrittibilità dei delitti contro l'umanità e, comunque, puniti con l'ergastolo,
per cui, in astratto, varrebbero le ragioni personalistiche di inutilità della pena sopra
«quei delitti atroci, dei quali lunga resta la memoria negli uomini, quando sieno provati, non meritano alcuna
prescrizione in favore del reo che si è sottratto colla fuga». Qui pare che l'Autore faccia riferimento, in primis,
alla prescrizione della pena per i delitti atroci, in quanto fa espresso richiamo all'intervenuto accertamento degli
stessi («...quando sieno provati…») e, poi, alla circostanza che il condannato si sia sottratto all'esecuzione della
pena stessa («...in favore del reo che si è sottratto colla fuga…»). Conferma di tanto si ha nel successivo passo, in
cui l'Autore afferma che «la massima differenza di probabilità di queste due classi esige che si regolino con
diversi principii: nei delitti più atroci, perché più rari, deve sminuirsi il tempo dell'esame per l'accrescimento
della probabilità dell'innocenza del reo, e deve crescere il tempo della prescrizione, perché dalla definitiva
sentenza della innocenza o reità di un uomo dipende il togliere la lusinga dell'impunità, di cui il danno cresce
con l'atrocità del delitto». Conforto a tale lettura si ritrova in A. Paolini, Dei delitti e delle pene del Marchese
Cesare Beccaria con l'aggiunta di un esame critico dell'Avv.to Aldobrando Paolini, IV, Firenze 1821, 186-187, che,
criticando le indicazioni del Beccaria, osserva: «(q)uanto poi all'accrescimento della prescrizione, nego che i
delitti atroci abbiano o meritino veruna prescrizione, toltone quella che potrebbe far godere ai medesimi la
grazia e la clemenza del principe; ed allora non si potrebbe chiamare prescrizione, se non abusivamente».
60
Per un'ampia declinazione delle teoretiche sul fondamento della prescrizione nel XIX° secolo, V.
Manzini, Trattato di diritto penale italiano, cit., 530 ss. Con particolare riferimento alla teoria psicologica di
matrice tedesca, S. Lourié, Die Kriminalverjährung, Breslau 1914, 60 ss. Si sono ampiamente occupati del tema
della prescrizione agli inizi del '900, C. Grassi, Trattato della prescrizione penale, Catania 1910, 1 ss.; G. Penso, La
prescrizione penale, parte I: i principii, Messina 1939, 83, 104 ss., 132 ss.
61
L. Stortoni, Prescrizione e irretroattività fra diritto e procedura penale, in FI 1998 (V), 321-322.
62
Nel Codice Zanardelli, la prescrizione costituiva una causa di estinzione dell'azione penale.
63
Conforto a tale impostazione si legge in una recente pronuncia della Corte costituzionale (25.3.2015 n.
45), secondo cui la prescrizione del reato «è legata, tra l’altro, sia all’affievolimento progressivo dell’interesse
della comunità alla punizione del comportamento penalmente illecito, valutato, quanto ai tempi necessari, dal
legislatore, secondo scelte di politica criminale legate alla gravità dei reati, sia al “diritto all’oblio” dei cittadini,
quando il reato non sia così grave da escludere tale tutela».
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evidenziate, sulle quali, però, prevale la perdurante memoria collettiva dell'atrocità
criminale.
La conseguenza logica delle qui tracciate argomentazioni è quella di considerare
il tempo come incidente sulla stessa tipicità del fatto, facendo estinguere l'offesa
sociale64. La ratio contemporanea della prescrizione del reato è la necessità che la pena
conservi la sua utilità collettiva come confermativa della validità della norma violata,
ma anche per favorire il reingresso sociale del reo, come conquista positiva per la
comunità democratica. Tale concezione della prescrizione del reato non pare venire
meno neanche se si rapporta con le dinamiche dell'accertamento processuale, a cui
appartengono gli istituti della sospensione e dell'interruzione, ma anche la stessa
rinuncia alla prescrizione da parte dell'imputato, che evidentemente afferiscono al
diritto alla ragionevole durata del processo previsto nell'art.111 Cost., mentre il diritto
all'oblio, a cui si crede appartenga il fondamento storico della prescrizione, si colloca
nell'art.2 Cost.
8.3.1.1 E qui sia consentita, nell'economia dello scritto, una necessaria riflessione
sull'importante e recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che,
come noto, ha imposto la disapplicazione della disciplina processuale della
prescrizione nostrana in materia di reati tributari aventi ad oggetto l’IVA65, al fine di
renderli effettivi e dissuasivi. L’importante decisione della Corte di Lussemburgo fa
perno essenzialmente su due questioni fondamentali: l’una, relativa alla novità
dell'incidenza dell’obbligo di penalizzazione imposto dall’art.325 TrFUE, con
particolare riferimento al «principio della sanzione adeguata», ma anche a quello
«dell’assimilazione», nel sindacato eurogiurisdizionale sulla discrezionalità penale del
legislatore interno, non limitato alla sanzione dello Stato inadempiente, ma con
conseguenze dirette sulla responsabilità penale del cittadino-imputato; l’altra,
riguardante la valutazione della «gravità» della frode fiscale in concreto, come
condizione di operatività dell’obbligo di disapplicazione del combinato disposto degli
artt.160 e 161 Cp, rimesso espressamente alla valutazione del giudice interno.
La prima questione porrebbe, almeno dal punto di vista interno, un problema di
frizione con il principio di legalità domestico in materia penale, nella sua dimensione
della riserva di legge statale, per cui solo il legislatore nazionale può porre
nell'ordinamento delle norme di natura penale. Tale eccezione non può essere
64
Argomenti favorevoli paiono venire da C. cost. 22.7.2011 n.236, che tracciando il confine dell'art.7 Cedu,
riferendosi alla prescrizione del reato, evidenzia che il principio di retroattività della lex mitior, riconosciuto nel
caso Scoppola (cfr. C. eur., GC, 17.9.2009, Scoppola c. Italia), riguarda «esclusivamente la fattispecie
incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all’ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi
in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo
penalmente lecito o comunque di minore gravità». La prescrizione, dunque, incide sull'offesa sociale.
65
C.G.U.E. GC, 8.9.2015, C-105/14, Taricco, che «denuncia l’insostenibilità della disciplina vigente della
prescrizione (e in particolare, la previsione di un termine massimo pur in presenza di atti interruttivi) nella
misura in cui tale meccanismo determina in pratica la sistematica impunità delle frodi in materia di IVA,
lasciando così senza tutela adeguata gli interessi finanziari non solo dell’erario italiano, ma anche – ed è quanto
importa ai giudici europei – quelli dell’Unione», così F. Viganò, Disapplicare le norme vigenti sulla prescrizione
nelle frodi in materia di IVA ? Primato del diritto UE e nullum crimen sine lege in una importante sentenza della
Corte di giustizia, in www.penalecontemporaneo, 14.9.2015
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condivisa, in quanto la tradizionale definizione di legge, a cui fa riferimento l'art.25
co.2 Cost., non può non essere letta in combinato disposto con l'art.117 co.1 Cost., con
l'effetto che le norme penali possono essere poste nell'ordinamento interno in virtù di
un obbligo eurounitario o, meglio, la legge penale nazionale deve essere interpretata e
applicata conformemente al diritto europeo. Da ciò, non si crede che l'intervento in
commento della Corte europea abbia significativamente leso le prerogative del
legislatore interno. La soluzione interpretativa offerta dalla Corte sulla disciplina
dell'interruzione della prescrizione del reato, al fine di garantire l'effettività delle
sanzioni penali in tema di frode fiscale, va condivisa e non lede la dimensione del
divieto di retroattività in malam partem per l'imputato, perché gli aspetti processuali
della prescrizione, come detto, non incidono sulla tipicità sostanziale del reato, ma
solo sul suo termine massimo di accertamento in giudizio.
La seconda questione (valutazione della gravità della frode da parte del giudice
interno ai fini della disapplicazione della disciplina processuale della prescrizione) è,
di contro, contraria non al principio di legalità sostanziale, ma a quello processuale ex
art.111 Cost.66, nonché al diritto di difesa: il giudice nazionale, infatti, è chiamato dalla
Corte lussemburghese a valutare, caso per caso, la gravità della frode fiscale, ai fini del
rispetto dell'art.325 TrFUE e, dunque, nell'ipotesi affermativa, a disapplicare gli artt.160
e 161 Cp che, come detto, riguardano aspetti processuali della prescrizione nostrana. La
valutazione di gravità del reato, in questo caso, non incide sulla sua tipicità
sostanziale, ma sulla procedibilità dell'azione penale (argomentando dall'art.531 Cpp),
perché l'allungamento del termine di prescrizione (rectius, del termine per la
dichiarazione della prescrizione del reato) è previsto solo per consentire
l'accertamento della colpevolezza dell'imputato nonostante le dinamiche
processuali67. Ma tale opzione lascia nell'assoluta indeterminatezza la conoscibilità
preventiva di una regola processuale che sarebbe rimessa all'arbitraria decisione, caso
per caso, del giudice e, pertanto, la scelta ermeneutica imposta dalla Corte
lussemburghese manifesta pienamente la sua incompatibilità con il nostrano sistema
vigente68.
Per il resto, è indubbio che l'intervento della Corte di Giustizia appare
superficiale nella stessa valutazione della prescrizione del reato nel corso del processo
come soluzione premiale per l'imputato69, così tralasciando tutte le considerazioni
storico-filosofiche che costituiscono l'humus in cui affondano le radici di un istituto
penale che afferisce a diritti fondamentali dell'essere umano ex art.2 Cost. Si consideri
anche la profonda frattura che tale pronuncia determina nel sistema penale tutto, con
particolare riguardo alla valutazione della proporzione dell'intervento punitivo
66
O. Mazza, I diritti fondamentali dell'individuo come limite della prova nella fase di ricerca ed in sede di
assunzione, in DpenCont 2013, 3, 10
67
Per una disamina delle problematiche relative alla distinzione tra prescrizione del reato e prescrizione
dell'azione, con riferimento anche a soluzioni legislative nell'ordinamento spagnolo e portoghese, F. Giunta, D.
Micheletti, op. cit., 97 ss.
68
In relazione al principio di legalità ex art.25, co.2, Cost., invece, fra le autorevoli voci, L. Eusebi,
Nemmeno la Corte di Giustizia dell'Unione Europea può erigere il giudice a legislatore, in
www.penalecontemporaneo.it, 10.12.2015
69
G. Civiello, La sentenza “Taricco” della Corte di Giustizia UE: contraria al Trattato la disciplina italiana in
tema di interruzione della prescrizione del reato, in www.archiviopenale.it, 18.9.2015
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statale70 (l'imprescrittibilità processuale della frode fiscale sarebbe pari a quella per un
omicidio volontario aggravato od, in genere, a tutti i delitti «atroci» puniti con
l'ergastolo). In attesa di un necessario intervento del legislatore domestico, è possibile
che la Corte costituzionale71, chiarendo la portata storica della prescrizione del reato
nel nostro sistema e l'impatto sull'assetto costituzionale, investa di una nuova (e più
completa) questione pregiudiziale ex art.267 TrFUE la Corte di Lussemburgo,
prendendo spunto magari dalle generiche valutazioni che la stessa Corte europea
rimette al giudice interno.
8.3.2 L'inerzia della pubblica amministrazione nell'accertamento dell'illecito
urbanistico-paesaggistico può determinare l'impossibilità di sanzionare l'abuso
edilizio. È un rischio. L’indicazione offerta dalla Corte di Strasburgo è perentoria ed
univoca: una volta chiuso con provvedimento definitivo il primo procedimento di
natura sostanzialmente penale (comunque qualificato dall’ordinamento nazionale), la
pendenza di un secondo processo avente ad oggetto gli stessi fatti è lesivo del diritto
fondamentale al ne bis in idem di cui all’art. 4 del Protocollo n.7 Cedu. Anche in caso di
sentenza penale che dichiara la prescrizione del reato72, perché, come visto, il decorso
del tempo estingue il disvalore sociale del fatto, la sua tipicità (sostanziale).
Tale ipotesi si porrebbe in insanabile contrasto con l'ordinamento? porterebbe
ad una strutturale e grave situazione di impunità diffusa?
Forse sì, se la pubblica amministrazione non ottempera all'obbligo di vigilanza
del proprio territorio. Ed invero, è sufficiente evidenziare che il dirigente comunale,
accertato l'illecito, dispone la sospensione dei lavori ed ordina la demolizione
dell'abuso in un termine massimo di novanta giorni. Salvo ipotesi di illegittimità del
procedimento, rilevate dal giudice amministrativo (anche solo in via cautelare), l'iter
amministrativo, dunque, si può concludere in massimo novanta giorni.
Da ciò, appare evidente che l'inerzia della pubblica amministrazione non può
costituire un contro-limite ostativo per conformare il sistema punitivo urbanisticopaesaggistico alle indicazioni sovranazionali, proprio perché la normativa di
riferimento delinea un apparato idealtipico (potenzialmente) efficiente per la
tempestiva repressione del fenomeno dell'abusivismo edilizio.
Ciò che desta perplessità è la sproporzione (in difetto) tra il termine di
prescrizione del reato edilizio e l'alto rilievo costituzionale degli interessi collettivi che
si intendono tutelare (territorio, ecosistema, salute). È indubbio che l'ipotesi
contravvenzionale consente un più facile accertamento (anche solo dal punto di vista
soggettivo), ma, in un tale contesto prasseologico e, quindi, il serio pericolo di una
impunità diffusa del fenomeno alla stregua della lettura convenzionale, de iure
70
M. Serraino, Non ogni giorno che passa è un giorno che si aggiunge al libro dell'oblio. La Corte di
Giustizia disvela la doppiezza della disciplina interna in materia di prescrizione, in www.lalegislazionepenale.eu,
26.10.2015
71
La questione di legittimità costituzionale della legge di esecuzione del Trattato dell'Unione europea
(art.2 l. 2.8.2008 n.130) è stata sollevata da App. Milano, 18.9.2015 (ord.), in www.penalecontemporaneo.it,
21.9.2015
72
Per l'assimilazione della sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato alla sentenza definitiva
per il divieto di bis in idem, già C.G.U.E. 28.9.2006, C-467/04, Gasparini.
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condendo, si potrebbero trasformare gli illeciti urbanistico-paesaggistici in ipotesi
delittuose, da punire anche a titolo di colpa73. Poi, andrebbe prevista una disposizione
incriminatrice speciale di omissione d'atti d'ufficio per il dirigente comunale inerte
nell'attività di vigilanza in materia urbanistico-paesaggistica.
Tornando al presente, è evidente, d'altro canto, che il tempestivo avvio del
procedimento amministrativo precluderebbe l'azione penale sempre in virtù del
superiore principio del ne bis in idem. E qui, poi, si porrebbe il problema della
compatibilità del procedimento amministrativo di accertamento dell'illecito
urbanistico-paesaggistico con gli artt. 6 e 7 Cedu.
8.4 La prima problematica di incompatibilità tra il sistema sanzionatorio
amministrativo in materia urbanistico-paesaggistica, ormai attratto nel regime
garantistico convenzionale, in virtù della natura sostanzialmente penale delle relative
sanzioni (in primis, l'ordine di demolizione e di ripristino dei luoghi), e gli artt. 6 e 7
Cedu, va identificata nella ritenuta imprescrittibilità del relativo illecito.
Ed invero, il decorso del tempo per la non-punibilità costituisce un diritto del
cittadino riconosciuto a livello sovranazionale (art. 14 co. 3 lett. c) del Patto dei diritti
civili e politici) e, dunque, interno, come già evidenziato e, tenuto conto che il fatto
concreto è identico dal punto di vista amministrativo e penale, il lasso temporale
estingue l'offesa e, dunque, la tipicità74. Sanzionare un fatto socialmente inoffensivo è,
quindi, una contraddizione evidente che non necessita di alcun commento.
Si potrebbe obiettare che gli illeciti urbanistico-paesaggistici hanno una
caratteristica che li distingue da tutti gli altri illeciti: la permanenza degli effetti.
Un'opera abusiva in un quadro paesaggistico qualificato costituisce un vulnus
permanente al valore tutelato dell'equilibrato e corretto uso del territorio ed, in
particolare, delle bellezze naturali. Se tanto è vero, è anche vero che l'interrogativo
riguarda l'ipotesi di prescrizione del fatto illecito e, dunque, se, nel bilanciamento
degli interessi in gioco (territorio, da un lato, e oblio, dall'altro), l'inerzia della
pubblica amministrazione possa essere ignorata.
Tale ignavia della pubblica amministrazione, in un sistema democratico che si
fonda su un sinallagma sociale (Sozialvertrag) tra Stato e cittadino, come detto, non
può certamente giustificare una normativa (anche di fattura giurisprudenziale) che
sacrifichi diritti fondamentali come quello di «essere giudicato senza ingiustificato
73
L'art. 181 co.1-bis d. lgs. 42/2004 descrive un'ipotesi delittuosa a dolo generico in materia paesaggistica.
Così anche Cass. 24.11.2011 n. 48478, in CEDCass, m. 251635.
74
La natura sostanziale della prescrizione non costituisce un corollario dell'art. 7 Cedu, potendo integrare,
dal punto di vista convenzionale, un aspetto procedurale tutelato dall'art. 6 § 2 Cedu. Ed invero, C. eur.,
22.6.2000, Coëme c. Belgio, § 149, sottolinea che «la prescription peut se définir comme le droit accordé par la loi
à l'auteur d'une infraction de ne plus être poursuivi ni jugé après l'écoulement d'un certain délai depuis la
réalisation des faits. Les délais de prescription, qui sont un trait commun aux systèmes juridiques des Etats
contractants, ont plusieurs finalités, parmi lesquelles garantir la sécurité juridique en fixant un terme aux actions
et empêcher une atteinte aux droits de la défense qui pourraient être compromis si les tribunaux étaient appelés à
se prononcer sur le fondement d'éléments de preuve qui seraient incomplets en raison du temps écoulé». Ad ogni
modo, in virtù di quanto previsto dall'art. 53 Cedu, la qualificazione sostanziale della prescrizione del reato
domestica non pone dubbi sull'attrazione delle garanzie della materia penale riconosciute a livello
costituzionale.
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ritardo» (art. 14 co. 3 lett. c) PIDCP sopra richiamato), perché un'interpretazione
lassista in favore della pubblica amministrazione favorirebbe o, meglio, ha favorito il
cronico fenomeno dell'abusivismo, tanto da far intervenire il legislatore con
disposizioni eccezionali condonistiche. Da ciò, l'opera abusiva e non tempestivamente
sanzionata andrebbe regolarizzata o sanata. E il pubblico amministratore responsabile
dell'inerzia penalmente punito.
Appare una soluzione paradossale nella fenomenologia attuale, ma se si guarda
alla situazione idealtipica le ipotesi di impunità dovrebbero essere veramente rare e
solo una piena responsabilizzazione di chi deve controllare può portare ad un serio
governo del fenomeno dell'abusivismo edilizio e, dunque, ad una reale tutela del
territorio e dell'ecosistema. Qui si metta un nodo, che si scioglierà più avanti.
8.4.1. La seconda problematica di inconciliabilità tra il sistema repressivo
dell'abusivismo edilizio e le garanzie derivanti dall'art.6 CEDU va indicata nelle
presunzioni assolute di incompatibilità dell'opera con il bene tutelato. Si tratta, invero,
di una questione che investe il fatto illecito tout court, sia esso amministrativo, che
penale.
È essenziale una premessa. La necessaria lesività costituisce una garanzia
convenzionale come corollario del principio di proporzione, che affonda le sue radici
nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo ed, in particolare, nell'ambito della
fondamentale valutazione della necessità in una società democratica, che costituisce
uno dei tre requisiti (accanto alla previsione legale e allo scopo legittimo) stabiliti da
diverse disposizioni della Convenzione ai fini di verificare la legittimità dell'ingerenza
pubblica nell'esercizio di un diritto75. Il giudizio di proporzione, dunque, costituisce
uno dei momenti di maggiore penetrazione della Corte euroumanitaria nelle scelte di
politica criminale del legislatore nazionale, andando a sindacare le ragioni che
possano giustificare la limitazione della libertà personale da parte della sanzione
(sostanzialmente) penale. Invero, la libertà personale non va intesa nell'accezione
minimale come libertà fisica e, dunque, il giudizio di proporzione, nella
giurisprudenza della Corte di Strasburgo, non si limita a valutare se la detenzione per
la tutela di un determinato interesse collettivo è la reazione proporzionata per il
richiesto sacrificio della libertà personale, ma se la tutela punitiva in genere di un
determinato bene giuridico è proporzionata al sacrificio dei diritti e delle libertà
fondamentali del reo76.
Tanto premesso, la questione relativa alle presunzioni di lesione del bene
tutelato si pone, in particolare, nella materia paesaggistica, laddove il legislatore ha
escluso la verifica postuma di compatibilità dell'opera con il vincolo paesaggistico, con
l'effetto che la sanzione (ordine di demolizione o di ripristino dei luoghi) è posta a
presidio della funzione amministrativa e non del bene paesaggistico. Ed invero, l'art.
146 co. 10 lett. c) d. lgs. 42/2004 (cd. Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) ha
introdotto il divieto di rilasciare l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria
75
F. Mazzacuva, La Convezione europea dei diritti dell'uomo e i suoi riflessi sul sistema penale, in Trattato
di diritto penale, Parte generale, I, a cura di A. Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna e M. Papa, Torino 2012, 459.
76
G. Stea, L'offensività europea come criterio di proporzione dell'opzione penale, in AP 2013, 915.
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successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi di trasformazione
degli immobili o delle aree sottoposti a vincolo paesaggistico, con l'effetto che, in caso
di abuso anche edilizio, andrà disposto il ripristino dello stato dei luoghi ex art. 167 d.
lgs. 42/2004 (ordine di ripristino), ad eccezione delle ipotesi di cd. abusi minori
previsti dall'art. 167 co. 4 d. lgs. 42/2004. In altri termini, va demolita anche l'opera
conforme alla normativa urbanistica e sostanzialmente a quella paesaggistica, in
quanto il divieto di cui all'art. 146 d. lgs. 42/2004 non ammette la verifica della
compatibilità dell'opera con il vincolo tutorio paesaggistico. La norma amministrativa
è, dunque, indifferente alla tutela del bene-paesaggio, ma sanziona solo l'omesso
rispetto dell'iter autorizzatorio e, dunque, la funzione di governo e di controllo
preventivo riconosciuto in capo alla pubblica amministrazione, così punendo mere
disobbedienze al precetto amministrativo77. Sciogliendo il nodo che si è fatto poco
prima e legando le due argomentazioni, si evidenzia che la sanzione della funzione
amministrativa violata dal cittadino renderebbe evanescente la finalità incriminatrice
della tutela del bene giuridico fondamentale: territorio, paesaggio e salute.
E qui si colloca la querelle tra beni giuridici strumentali e beni finali, secondo
una tecnica di incriminazione pacificamente ammessa anche dalla giurisprudenza
costituzionale78, non risultando in contrasto con il principio di offensività: in subiecta
materia, in particolare, l'incriminazione di comportamenti contrari all'iter
amministrativo predisposto per il governo del territorio è finalizzata alla tutela di un
bene giuridico strumentale per la salvaguardia di un bene giuridico finale, che risulta
protetto indirettamente. In considerazione del bene giuridico finale che si effettua il
giudizio di proporzione e sussidiarietà che legittima l’intervento (sostanzialmente)
penale79.
Ora, la tecnica di incriminazione adottata dal legislatore è di regola quella del
pericolo astratto (o presunto), come detto, che già anticipa notevolmente la tutela
penale del bene giuridico80, e che assume un effetto sinergicamente importante ove si
77
J. Goldschmidt, Das Verwaltungsstrafrecht, Berlin 1902, 556, già sosteneva che «il diritto penale
amministrativo (...) ha in comune con [il vero e proprio diritto penale] solo la forma, ma rimane per sua natura
un istituto di governo».
78
C. cost., 8.7.2010 n. 250, § 6.3, ove, inoltre, i giudici costituzionali evidenziano che «l’ordinata gestione
dei flussi migratori si presenta, in specie, come un bene giuridico “strumentale”, attraverso la cui salvaguardia il
legislatore attua una protezione in forma avanzata del complesso di beni pubblici “finali”, di sicuro rilievo
costituzionale, suscettivi di essere compromessi da fenomeni di immigrazione incontrollata. Ciò, secondo una
strategia di intervento analoga a quella che contrassegna vasti settori del diritto penale complementare, nei quali
la sanzione penale – specie contravvenzionale – accede alla violazione di discipline amministrative afferenti a
funzioni di regolazione e controllo su determinate attività, finalizzate a salvaguardare in via preventiva i beni,
specie sovraindividuali, esposti a pericolo dallo svolgimento indiscriminato delle attività stesse (basti pensare, ad
esempio, al diritto penale urbanistico, dell’ambiente, dei mercati finanziari, della sicurezza del lavoro)». Per la
critica della seriazione di beni strumentali, cfr. S. Canestrari, L. Cornacchia, G. De Simone, Manuale di diritto
penale, Parte Generale, Bologna 2007, 219. Sulla distinzione tra beni strumentali e beni finali, ex multis, A.
Manna, Introduzione al diritto penale dell'impresa, in Corso di diritto penale dell'impresa, a cura del medesimo,
Padova 2010, 10 ss.
79
F. Giunta, Il diritto penale dell’ambiente in Italia: tutela di beni o tutela di funzioni?, in RIDPP 1997, 1112.
80
Ex multis, Cass. 16.7.2013 n. 37383, in CEDCass, m. 256519, secondo cui «in linea generale, la
consumazione del reato urbanistico ha inizio con l'avvio dei lavori di costruzione e che tale attività, per assumere
rilevanza, deve avere, indipendentemente dal tipo ed entità delle opere, un'oggettiva destinazione alla
realizzazione di un manufatto, sempreché le opere intraprese, di qualsiasi tipo esse siano e quale che sia lo loro
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combini con le presunzioni assolute di incompatibilità del comportamento (ergo,
l'attività di costruzione di un manufatto abusivo) con il territorio o il paesaggio, che
costituiscono il bene giuridico (finale) indirettamente tutelato dall'incriminazione
della funzione amministrativa di governo violata dal trasgressore. In altri termini, in
materia urbanistico-paesaggistica, la previsione punitiva (amministrativa e penale)
della demolizione dell'opera abusiva senza alcuna possibilità di verifica dell'effettiva
incompatibilità con il vincolo paesaggistico (in virtù del divieto di autorizzazione
paesaggistica postuma), sottolinea, da un lato, la mera punizione della disobbedienza
amministrativa e, dall'altro, l'evidente distacco della ratio punitiva dall'effettiva tutela
del bene giuridico finale, in spregio del canone convenzionale della proporzione.
Viziando, quindi, le relative disposizioni di illegittimità costituzionale per contrasto
con il principio di offensività come criterio di proporzione (appunto) dell'opzione
penale81 in materia urbanistico-paesaggistica82.
La riflessione merita ulteriori argomenti chiarificatori.
L'accertamento della tipicità (formale e sostanziale) del fatto realizzato, nonché
della sua imputabilità oggettiva al reo, implica che la relativa punibilità sia
condizionata a che il soggetto abbia posto in essere la condotta vietata, e questa abbia
effettivamente leso o messo in pericolo un interesse. Se è vero che il legislatore ha
ampia discrezionalità nel prevedere ipotesi punitive di pericolo astratto, è altrettanto
vero il rifiuto dell'ordinamento positivo a che una condotta inoffensiva (e, dunque,
atipica) possa essere punita83. Tale ragionamento porta inevitabilmente alla
considerazione che una presunzione legale assoluta che abbia ad oggetto un aspetto
entità, manifestino oggettivamente un'effettiva volontà di realizzare un manufatto. Sempre in linea generale, con
riferimento specifico alla lottizzazione abusiva, va osservato che le diverse modalità con le quali essa può essere
attuata inquadrano la contravvenzione in esame come reato a forma libera, permanente e progressivo
nell'evento, del quale è inoltre pacifica la natura di reato di pericolo, cosicché la sua lesività non può ritenersi
confinata nella sola trasformazione effettiva del territorio ma deve, al contrario, essere riferita alla potenzialità di
tale trasformazione intesa come il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da quella
programmata». Rispetto al reato paesaggistico, ex multis, Cass. 15.1.2013 n. 6299, in CEDCass, m. 2544493; cfr.
Cass. 21.6.2011 n. 34764, in CEDCass, m. 251244. La giurisprudenza di legittimità è giunta anche ad affermare in
Cass. 18.2.2015 n. 11048, in CEDCass, m. 263289 che «il reato di pericolo previsto dall'art.181 del D.lgs. 22 gennaio
2004 n.42, non richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo
sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad
arrecare nocumento al bene giuridico tutelato, le cui conseguenze sull'assetto del territorio perdurano anche se
l'amministrazione competente attesta la compatibilità paesaggistica delle opere eseguite». Sui reati di pericolo in
genere, in dottrina, G. Fiandaca, La tipizzazione del pericolo, in Dei delitti e delle pene 1984, 441-472.
Specificamente, sulla legittimazione dei reati di pericolo nella giurisprudenza costituzionale, A. Calamanti,
Tutela penale anticipata e sacrificio di libertà: la legittimazione dei reati di pericolo nella giurisprudenza
costituzionale, in GP 1985, 743-764.
81
Per la ricostruzione dell'offensività alla luce del principio di proporzione, sia consentito il rinvio a G.
Stea, L'offensività europea come criterio di proporzione dell'opzione penale, cit., 903 ss.
82
In materia urbanistica, appare convenzionalmente inconciliabile l'accertamento in sanatoria di cui
all'art. 36 d.P.R. 380/2001, nella parte in cui impone la conformità dell'opera, non solo, alla normativa di
riferimento vigente, ma anche a quella vigente all'epoca della realizzazione dell'abuso.
83
Del principio di offensività come criterio ermeneutico di definizione della tipicità, cfr. C. cost., 13.6.2014
n. 174, in cui i giudici costituzionali ricordano «come spetti al giudice ricostruire e circoscrivere l’area di tipicità
della condotta penalmente rilevante sulla base dei consueti criteri ermeneutici, in particolare alla luce del
principio di offensività, che per giurisprudenza costante di questa Corte costituisce canone interpretativo
unanimemente accettato (ex plurimis, sentenze n. 139 del 2014 e n. 62 del 1986)».
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della tipicità del fatto (nel caso in ipotesi, l'offesa – anche potenziale – al territorio e al
paesaggio) non sarebbe ammissibile nel nostro ordinamento: se, infatti, a discapito
della presunzione, emergesse nel corso del procedimento che tale elemento
legalmente fissato non sussista, ciò significherebbe che in natura il tipo (ed, in
particolare, l’offesa) non si è realizzato, ossia che il bene tutelato non è stato leso, né
messo in pericolo84. Del resto, la formulazione dell'art. 49 co. 2 Cp (che, come noto,
costituisce lo strumento utile al sindacato in concreto della tipicità sostanziale) non
rende insuperabile la presunzione di pericolo, posto che tale disposizione si riferisce
espressamente all'impossibilità della realizzazione dell'«evento dannoso o pericoloso»
e, quindi, come dimostrato da attenta dottrina85, è applicabile a ogni tipo di fattispecie
che non risulti con essa strutturalmente incompatibile. Così potrà certamente
applicarsi agli illeciti di pericolo astratto (o presunto). La distinzione tra reati di
pericolo concreto e quelli di pericolo astratto (o presunto) ruoterà, dunque, intorno
alla parte del processo che avrà l'onere di dimostrare, rispettivamente, l'offensività (per
l'accusa) o l'inoffensività (per la difesa) del fatto86.
Tornando all'analisi proposta, l'inammissibilità della verifica dell'effettiva
lesione o messa in pericolo del bene tutelato, determina, quindi, una violazione delle
garanzie del giusto processo, introducendo nel giudizio penale della responsabilità del
cittadino alcune presunzioni assolute o precauzionali che interferiscono con
l'accertamento della stessa tipicità del fatto.
In breve: impedire ope legis di ottenere l'autorizzazione paesaggistica postuma,
colloca, all'interno della struttura del reato paesaggistico, una presunzione assoluta di
offesa o messa in pericolo del territorio e del paesaggio, così impedendo l'applicazione
dell'art. 49 co. 2, Cp, ma anche precludendo il diritto del cittadino di dimostrare, nel
processo, l'insussistenza del fatto contestatogli 87.
84
Più favorevole – o comunque, rassegnato (sia consentito) – ad una soluzione applicativa dell'offensività
in senso «debole», A. Manna A., Corso di diritto penale2, Parte Generale, Padova 2012, 65.
85
M. Gallo, I reati di pericolo, in FP 1969, 7; M. Trapani, La divergenza tra il voluto ed il realizzato, Torino
2006, 82. Contra, altra parte della dottrina, tra cui, F. Antolisei, L’azione e l’evento nel reato, Milano 1928, 142, che
parla di «presunzione juris et de jure» di pericolosità.
86
Sull'interferenza tra l’aspetto probatorio della presunzione e quello dell’effettività dell’offesa, G. Azzali,
Idoneità ed univocità degli atti. Offesa di pericolo, in RIDPP 2001, 1178.
87
Argomenti a sostegno dell'inconciliabilità di presunzioni di incompatibilità urbanistica o ambientale
dell'opera abusiva, senza alcuna possibilità di effettiva verifica del contrario, si ricavano da C. eur., 27.11.2007, Sud
Fondi Srl c. Italia, in cui i giudici convenzionali, esaminando la doglianza relativa alla violazione dell'art.1 del
Protocollo n.1, la respingono, ma dopo aver verificato la proporzione tra l'ordine di demolizione impartito e la
situazione abusiva, osservando, in particolare, che il diritto belga considera imprescrittibile l'illecito e, dunque,
ammette la possibilità della pubblica amministrazione di intervenire in ogni tempo; la legislazione urbanistica
belga consente la costruzione nelle zone boschive solo di rifugi di caccia e pesca e, quindi, non di opere
residenziali (si tratta di zona ad inedificabilità assoluta); ed, infine, la Corte esclude un rimedio diverso che possa
garantire l'interesse generale. Tale ultimo parametro utilizzato dalla Corte di Strasburgo per stimare la
proporzione dell'ordine di demolizione ha particolare rilievo per la riflessione sopra proposta. «La Cour ne voit
pas quelle autre mesure que la remise en état l'inspecteur urbaniste aurait pu demander en l'espèce, d'autant plus
qu'aucune des mesures énumérées à l'article 149 § 1 du décret du 18 mai 1999 (ordre de cesser toute utilisation
contraire, injonction d'exécuter des travaux de construction, paiement de la plus-value acquise par le bien suite à
l'infraction – paragraphe 38 ci-dessus) ne semblait appropriée dans les circonstances particulières de la cause, à
savoir l'atteinte incontestable à l'intégrité d'une zone forestière non constructible». Nell'ipotesi di inedificabilità
relativa, dunque, l'ordine di demolizione sarebbe sproporzionato, poiché l'interesse tutelato potrebbe essere
salvaguardato con l'imposizione di misure parziali volte a conformare l'opera alle esigenze tutorie. In altri
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La legislazione vigente, secondo la lettura giurisprudenziale domestica, tende a
reprimere già il «pericolo del rischio» di un danno al paesaggio. Ipotesi assolutamente
inammissibile in un'ottica convenzionale e non solo. Da ciò, è necessario eliminare
dall'ordinamento tutte quelle disposizioni che non consentono al trasgressore di
dimostrare l'inoffensività dell'attività abusiva.
8.4.1.1. Si è già osservato88 che l'ordine di demolizione edilizia, previsto dall'art.
31 co. 9 d.P.R. 380/2001 (analogamente all'ordine di rimessione in pristino
paesaggistico), stando alla giurisprudenza domestica, ha i caratteri pertinenziale o
accessorio rispetto alla sentenza di condanna penale e ablatorio sul diritto reale
appartenente al condannato, ed ha la finalità prettamente tutoria del territorio e,
dunque, «una funzione direttamente ripristinatoria del bene offeso»89. E' costante
insegnamento della giurisprudenza domestica, infatti, che l'ordine di demolizione
«assolve ad una autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso»90. Si tratta,
comunque, di una finalità non esclusa dal carattere penale nella lettura convenzionale
qui proposta.
Il sistema, pertanto, prevede espressamente come sanzione (sostanzialmente
penale) specifica per i reati urbanistico-paesaggistici, l'obbligo di ripristino del bene
offeso (territorio e paesaggio), attraverso l'eliminazione dell'opera abusiva. Da ciò, è
agevole desumere che il comportamento vietato assume rilevanza penale, secondo una
lettura coordinata di precetto e sanzione, quando sia stato leso il bene giuridico
tutelato, che andrà riparato attraverso la rimozione del danno. Così, gli illeciti edilizi
sono reati di danno: non avrebbe senso sanzionare con la rimessione in pristino un
bene che sia stato solo messo in pericolo.
La sanzione anche ripristinatoria, quindi, individua la natura dell'illecito.
Tale esegesi strutturale del reato edilizio in genere non consentirebbe di ritenere
consumato l'illecito «con l'avvio dei lavori di costruzione» oggettivamente destinati
«alla realizzazione di un manufatto, sempreché le opere intraprese, di qualsiasi tipo
esse siano e quale che sia lo loro entità, manifestino oggettivamente un'effettiva
volontà di realizzare un manufatto»91. Trattandosi di una contravvenzione non
soccorrerebbe neanche l'art. 56 Cp, facendo degradare tale ipotesi costante di lettura
giurisprudenziale nell'assoluta irrilevanza penale (anche sostanziale) 92.
8.4.2. Pur volendo affermare che il sistema punitivo delineato dal legislatore in
materia urbanistico-paesaggistica sia conforme alla necessaria lesività,
l'argomentazione che viene spesso richiamata dalla giurisprudenza domestica per
termini, il divieto di autorizzazione paesaggistica postuma, come la doppia conformità di cui all'art. 36 d.P.R.
380/2001, escludendo la possibilità a priori di valutare la compatibilità dell'opera abusiva con gli interessi
generali, si pongono in evidente contrasto con l'art.1 del Protocollo n.1, non ammettendo la valutazione della
proporzione dell'ordine di demolizione.
88
Cfr. § 7
89
P. Tanda , op. cit., 442.
90
Cass. 27.9.2006 n. 40188, in AmbSvil 2007, 2, 144
91
Cass. 16.7.2013, n. 37383, cit.
92
Un'eccezione è rappresentata dal delitto paesaggistico di cui all'art. 181 co.1-bis d. lgs. 42/2004.
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giustificare una certa agilità interpretativa in malam partem, in materia sanzionatoria
ambientale (in genere), è quella per cui «il paesaggio, l’ambiente, la vita e la salute
[sono] tutelati quali valori costituzionali oggettivamente fondamentali, cui
riconoscere la prevalenza nel bilanciamento con il diritto di proprietà» 93.
Può il giudizio di bilanciamento degli interessi in gioco (di pari rango)
sacrificare a tal punto uno dei due, fino a rendere assolutamente prevalente il primo
rispetto al secondo, o viceversa?
La Convenzione europea dei diritti dell'uomo ammette un bilanciamento degli
interessi o, meglio, un'ingerenza statuale sui diritti del cittadino. Non su tutti, non
senza limiti. Ed invero, i giudici euroumanitari, proprio in subiecta materia, hanno
«spesso ribadito che le politiche di gestione del territorio e della tutela dell’ambiente,
dove l’interesse generale della comunità occupa un posto preminente, lasciano allo
Stato un margine di apprezzamento più grande qualora siano in gioco diritti
esclusivamente civili» e sempre che il cittadino non sia costretto a subire «un onere
speciale ed esorbitante»94. Se, dunque, è ammessa un'ingerenza statuale in materia di
governo del territorio, la stessa può avere ad oggetto il sacrificio dei soli diritti civili del
cittadino e, dunque, il diritto di proprietà privata 95, o il diritto al domicilio, ma non,
certamente, quelli a cui la Carta convenzionale garantisce l'inviolabilità attraverso gli
artt. 6 e 7 Cedu.
La Corte costituzionale96, del resto, ha sottolineato che «tutti i diritti
fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione
reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza
assoluta sugli altri», poiché «la tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in
una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (sentenza
28.11.2012 n. 264)», onde evitare «l’illimitata espansione di uno dei diritti, che
diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente
riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità
della persona».
Da ciò, il corretto contemperamento degli interessi in gioco potrebbe essere
agevolmente assicurato attraverso l'eliminazione di ogni presunzione di lesione del
bene giuridico finale, onde garantire la proporzione dell'intervento punitivo in materia
urbanistico-paesaggistica nel rispetto delle previsioni convenzionali.
8.5 Le garanzie convenzionali per la matière pénale potrebbero scuotere alla
base il cd. doppio binario punitivo (rafforzato) degli illeciti urbanistico-paesaggistici:
in primis, non ammettendo nell'iter di accertamento degli stessi, alcune presunzioni
assolute di offesa all'interesse finale, che si pongono in contrasto con la proporzione
materiale come limite all'ingerenza statuale nelle garanzie del giusto processo previste
dagli artt. 6 Cedu e 111 Cost.
In secundis, in virtù del rispetto del divieto del bis in idem di cui all'art. 4
93
94
95
96
Cass. 30.4.2014 n. 20636, in CEDCass, m. 259436.
C. eur. GC, 29.3.2010, Depalle c. Italia.
C. eur., 27.11.2007, Sud Fondi Srl c. Italia.
C. cost., 9.5.2013 n. 85.
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Protocollo n .7 Cedu, è inammissibile un secondo procedimento di accertamento del
medesimo fatto in concreto, una volta che è intervenuta la definitività di un primo
procedimento, che abbiano, comunque, in comune una sanzione sostanzialmente
penale. Si è appuntata, in particolare, l'attenzione sull'ipotesi di sentenza di
proscioglimento del reo per intervenuta prescrizione del reato, osservando che tale
accertamento precluderebbe l'avvio di un secondo procedimento amministrativo per il
divieto del bis in idem, ma, soprattutto, perché il tempo condiziona la stessa tipicità
(sostanziale) del fatto, facendo estinguere l'offesa sociale. Sanzionare un fatto
socialmente inoffensivo è una contraddizione evidente che non necessita di alcun
commento.
È incomprensibile, infine, una tutela sanzionatoria pubblica sine die, in un
quadro sinallagmatico di doveri e diritti tra Stato e cittadino come parti del
Sozialvertrag97.
9. Non resta ora che esaminare un'ultima questione, invero, suggerita dall'unica
pronuncia di merito che ha riconosciuto la natura penale dell'ordine di demolizione
edilizia98. In tale occasione, il giudice penale ha dichiarato l'estinzione dell'ordine di
demolizione edilizia per decorso del tempo, così applicando l'art. 173 Cp, trattandosi di
norma sostanziale non incriminatrice, né eccezionale e, dunque, estranea all'alveo
applicativo del divieto di analogia di cui all'art. 14 disp.prel.cc. Ad ogni modo,
l'accertata natura penale dell'ordine demolitorio supera la questione relativa
all'assenza dell'eadem ratio che ha fatto escludere, alla giurisprudenza di legittimità,
nella considerazione della sanzione ablatoria de qua come di natura amministrativa,
l'applicabilità analogica della disposizione codicistica suddetta.
La questione assume maggiore spessore, in un sistema di cronico ritardo
97
C. eur., 27.11.2007, Sud Fondi Srl c. Italia, sul punto, osserva che «un très grand laps de temps s'était
écoulé depuis la survenance du fait infractionnel. La requérante et, avant elle, son père ont ainsi eu la jouissance
paisible et ininterrompue de la maison de vacances pendant une durée totale de trente-sept ans. L'acte de partage
établi le 6 janvier 1986 entre la requérante et son père fut enregistré au ministère des Finances auprès du receveur
des hypothèques, qui perçut un droit d'enregistrement (paragraphe 8 ci-dessus). Au décès du père de la requérante
en 1993, l'acte notarié de partage de succession mentionnait expressément la maison comme maison de vacances
et la requérante s'acquitta des droits de succession. La requérante payait depuis lors annuellement un précompte
immobilier ainsi qu'un impôt pour seconde résidence afférent à cette maison (paragraphe 9 ci-dessus). La société
d'alimentation en eau effectua des travaux de raccordement de la maison aux réseaux d'égouttage et de
distribution d'eau, sans que les autorités publiques réagissent (paragraphe 11 ci-dessus). De plus, lorsque
l'infraction a été constatée, après vingt-sept ans, les autorités ont encore laissé s'écouler une période de cinq ans
avant d'exercer l'action publique, n'y accordant donc aucune importance urgente. Il est dès lors évident que les
autorités connaissaient ou auraient dû connaître de longue date l'existence de la maison de la requérante.
Toutefois, nonobstant les dispositions de la législation pertinente, elles ont omis de prendre les mesures qui
s'imposaient pour s'y conformer. Elles ont ainsi contribué à pérenniser une situation qui ne pouvait être que
préjudiciable à la protection de la zone forestière que cette législation visait à protéger». Ad ogni modo, la Corte
esclude che «l'absence de réaction dont ont fait preuve les autorités pendant une longue période ne [peut] pas
créer chez la requérante l'impression d'être à l'abri des poursuites», ma solo perché «l'infraction relevée étant
imprescriptible selon le droit belge et le procureur pouvant à tout moment décider d'appliquer la loi». Nel diritto
domestico, invece, il reato edilizio è permanente e la prescrizione comunque inizia a decorrere dalla cessazione
della permanenza.
98
T. Asti, 3.11.2014, cit.
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nell'esecuzione delle pene non detentive, ove si consideri l'importante revirement
giurisprudenziale in tema di individuazione del dies a quo di decorrenza del termine
prescrizionale della pena condizionata. Ed invero, il termine di prescrizione della
pena, in ipotesi di concessione della sospensione condizionale e successiva revoca,
decorre dal momento in cui si sono verificati i presupposti per la revoca del beneficio
precedentemente concesso99. Le Sezioni Unite, infatti, hanno risolto il conflitto
giurisprudenziale sorto sull'individuazione del dies a quo del termine prescrizionale,
dando conto dell'inequivoca lettera dell’art. 172 co. 5 Cp, che fa decorrere l’estinzione
della pena, ove subordinata a condizione, dalla verificazione della stessa.
«L’anticipazione del tempo di esecuzione della pena al momento di
avveramento della condizione risolutiva, d’altro canto, appare perfettamente coerente
– oltre che con i parametri costituzionali di cui agli artt. 27, comma 2, e 111 Cost. – con i
principi convenzionali di ragionevole durata, sollecita definizione e minor sacrificio
esigibile, evincibili dalle norme degli artt. 5 e 6 CEDU»100.
Alla regola di individuazione del dies a quo, nell'ipotesi di esecuzione della pena
subordinata al verificarsi di una condizione (art. 172 co. 5 Cp), fa espresso rinvio l'art.
173 co. 3 Cp, in tema di prescrizione delle pene dell'arresto e dell'ammenda, da
applicare, dunque, anche all'ordine di demolizione di cui all'art. 31 co. 9 d.P.R.
380/2001.
In altri termini, il giudice penale ha accertato il reato urbanistico-paesaggistico,
ma l'ordine di demolizione non è stato eseguito nel termine di prescrizione di cui
all'art. 173 Cp. Da ciò, si pongono due interrogativi: può legittimamente considerarsi
estinto l'ordine di demolizione?
Il giudice astigiano, dichiarando l'estinzione dell'ordine demolitorio, ha rimesso
l'esecuzione (eventuale) dello stesso alla pubblica amministrazione: può la pubblica
amministrazione eseguire l'ordine demolitorio giudiziale dichiarato estinto?
9.1 É opportuno riprendere alcune argomentazioni già sostenute nelle pagine
che precedono, al fine di comprendere le esigenze che hanno giustificato
l'atteggiamento della giurisprudenza per colmare il lassismo della pubblica
amministrazione o, meglio, contrastarlo, supplendo a quelle funzioni.
È tradizionale insegnamento, come già visto, che il potere di vigilanza in
materia edilizia non è soggetto a limiti temporali e di prescrizione perché l’illecito
edilizio ha natura permanente e viene rimosso solo con il ripristino dello stato dei
luoghi o con l’autorizzazione in sanatoria. Ma non basta. Mentre le sanzioni
ripristinatorie (quali proprio l'ordine di demolizione) possono colpire l'abuso ed il
soggetto responsabile anche a grande distanza di tempo dalla commissione del fatto e
dalla realizzazione dell’intervento101, quelle afflittive pecuniarie autonome102 sono
99
Cass. 5.3.2009 n. 18552, in CEDCass, m. 243644; Cass. 21.5.2009 n. 26748, in CEDCass, m. 244714; Cass.
13.1.2012 n. 10924; da ultimo, Cass. S.U. 30.10.2014 n. 2, in CEDCass, m. 261399.
100
Relazione dell'Ufficio del Massimario n. 13 del 23.2.2015.
101
Perché riferite non al fatto compiuto ed esaurito, ma allo stato di danno al pubblico interesse, cfr. F.
Salvia, F. Teresi, Diritto urbanistico, Padova 1998, 265.
102
Sulla distinzione tra sanzioni amministrative ripristinatorie e pecuniarie, S. Licciardello, Le sanzioni
ripristinatorie, in La sanzione amministrativa, a cura di A. Cagnazzo e S. Toschei, Torino 2011, 333 ss.; con
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ritenute soggette al termine di prescrizione quinquennale di cui all’art. 28 l.
689/1981103.
Tale particolare regime discende dalla ritenuta qualificazione delle sanzioni
edilizie tout court come sui generis rispetto alle altre sanzioni amministrative, poiché
il relativo sistema è predisposto al dichiarato fine di eliminare «una situazione di
oggettivo squilibrio determinatasi nell’assetto del territorio per effetto dell’abuso
edilizio, al fine di ripristinarne lo status quo ante o, più in generale, la congruità della
realtà di fatto rispetto al modello delineato dalla legge»104. Con questo ragionamento,
si è giustificata la contemporanea applicazione della sanzione penale e di quella
amministrativa alla medesima condotta.
A ben guardare, la collocazione delle sanzioni edilizie a metà strada, tra quelle
penali e quelle amministrative, è fondata su un'argomentazione circolare, se si vuole:
tali sanzioni sono qualificate da un regime sui generis (né penale, né amministrativo,
appunto), ma perchè a tali contesti sottratte per il preciso scopo di escludere
l'applicazione dei regimi tipici, attraverso la valorizzazione della funzione ad esse
attribuita: «l’assoluta prevalenza della funzione ripristinatoria su quella afflittiva
induce ad affermare che le sanzioni urbanistico-edilizie non sono sanzioni in senso
tecnico»105. È una problematica che, in realtà, è stata già affrontata nelle pagine che
precedono, facendo leva su topoi ricavati dalla giurisprudenza convenzionale relativi
all'individuazione della pena in ogni ordinamento nazionale. Ma non solo.
La natura afflittiva delle sanzioni edilizie in genere, comunque, era già stata
evidenziata dalla dottrina minoritaria106 e la giurisprudenza amministrativa107 aveva
sottolineato la concorrenza della funzione afflittiva, con quella ripristinatoria. La
questione, prima di oggi, si è posta rispetto alla possibilità di collocare le sanzioni
edilizie nell'alveo delle legge generale sull'illecito amministrativo. Si era evidenziato
che l'art. 12 l. 689/1981, che delimita il campo di applicazione delle disposizioni sulle
sanzioni amministrative, ammette la deroga solo ove sussista un’incompatibilità
sostanziale della materia o un’espressa previsione normativa.
Tuttavia, la lettura giurisprudenziale maggioritaria, come detto, ha superato tali
ostacoli normativi con esemplare vivacità.
Tale agilità esegetica non può che essere mossa da una necessità: uno degli
indici rivelatori della volontà delittuosa è il movente e così, allo stesso modo, è
possibile identificare la ratio di un'ostinata interpretazione nello scopo da
salvaguardare.
In tale ottica, è facile rilevare che la definizione interpretativa di un regime sui
generis per le sanzioni edilizie, tale da sottrarle a quello tipico delle sanzioni
riferimento alle sanzioni urbanistico-edilizie, in particolare, C. Mastrocola, Le sanzioni amministrative, in Il
nuovo testo unico sull’edilizia, a cura di F. Mastragostino, Bologna 2005, 191 ss.
103
Per l'applicazione del termine di prescrizione decennale, Tar Puglia, 18.1.2000. n. 175.
104
R. Lombardi, Effettività delle sanzioni edilizie, riparto di competenze ed esercizio dei poteri sostitutivi:
un'ipotesi ricostruttiva, in Riv. Giur. Edil. 2010 (3), 232.
105
E. Buoso, I poteri di vigilanza e sanzionatori (artt.27 ss. TUED), in Riv. Giur. Urb. 2014, 807.
106
L. Mazzarolli, Sul regime delle sanzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia: dalla l. n.1150/1942
alla l. n.47/1985, in Riv. Giur. Urb. 1985, 429; N. Centofanti, L'abusivismo edilizio, Milano 2010, 95.
107
Ex multis, Tar Liguria, 18.2.1999. n. 80.
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amministrative in genere, non può che muovere, in primis, dall'esigenza di supplire
giudizialmente alla cronica inerzia della pubblica amministrazione nel vigilare ed
intervenire tempestivamente sull'abuso edilizio. Questa necessità, però, si pone in
aperto contrasto con la visione contrattualistica della società contemporanea, fondata,
per quanto riguarda il nostro ordinamento, sull'art. 2 Cost. che, superando la
concezione statocentrica dell'individuo come cittadino in senso unilaterale, ovvero nel
solo «rapporto con lo Stato»108, viene riconosciuto il primato della persona sempre
come cittadino, ma in prospettiva di un rapporto sinallagmatico con lo Stato, come
parti del medesimo «contratto sociale» (contraenti), stigmatizzato dalla Corte
costituzionale nella nota sentenza 31.3.1988 n. 364109. In questa storica sentenza, la
Consulta, fra l'altro, nel ricostruire in termini contrattualistici il rapporto tra autorità
statale e individuo, ha sottolineato il passaggio di quest'ultimo da «suddito» a
«cittadino responsabile»110 su cui incombono «strumentali specifici doveri
d'informazione e conoscenza» che «costituiscono diretta esplicazione dei doveri di
solidarietà sociale, di cui all'art. 2 Cost.», tesi al «rispetto degli interessi dell'"altrui"
persona umana».
È nella stessa Carta convenzionale, del resto, che si trova conferma di tanto:
alcuni diritti individuali sono assoluti, nel senso che non ammettono alcuna ingerenza
statale, non perché riconosciuti per garantire scelte egoistiche, ma perché
costituiscono il nòcciolo intimo della cittadinanza, come mattone della società
democratica. Altri diritti individuali, invece, sono relativi, perché, dunque,
ammettono un'ingerenza statale, ma a determinate e stringenti condizioni. Di regola,
l'ingerenza statale è ammessa se (1) è prevista dalla legge, (2) ispirata alla salvaguardia
della sicurezza nazionale, del benessere economico del paese, della difesa dell'ordine e
della prevenzione dei reati, della protezione della salute o della morale, o della
protezione dei diritti e delle libertà altrui ed, infine, (3) «nécessaire, dans une société
démocratique». Secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la definizione di
«nécessité» implica che l'ingerenza statale corrisponda ad un bisogno sociale
proporzionato all'obiettivo da perseguire111.
È un argomento più volte sottolineato in queste pagine: in un tale nuovo
contesto, è impensabile giustificare l'inerzia della pubblica amministrazione ed
ammettere l'esercizio di poteri autoritativi senza limiti. Non va dimenticato, per la sua
forza cogente (ai sensi degli artt. 6 TUE, 11 e 117 co. 1 Cost.), l'art. 41 CDFUE che eleva
l'«imparzialità e correttezza della pubblica amministrazione» a vero e proprio diritto
del cittadino. Da ciò, l'inerzia della pubblica amministrazione costituisce una patente
violazione del diritto all'«imparzialità e correttezza della pubblica amministrazione» e,
dunque, non può assumere alcuna funzione interpretativa del diritto punitivo (in
materia edilizia).
108
Espressione di V. Crisafulli, Individuo e società nella Costituzione italiana, in Riv. Dir. Lav. 1954, 75.
Sulla sentenza n. 364/1988, con particolare riferimento al principio di colpevolezza, a livello
manualistico, fra gli altri, si rinvia a S. Canestrari, L. Cornacchia, G. De Simone, op. cit., 173 ss.; B. Romano,
Diritto penale2, Parte generale, Padova 2013, 343 ss.; A. Manna, Corso di diritto penale, cit., 311 ss.
110
Per un approfondimento storico (e non solo), cfr. D. Gallo, Da sudditi a cittadini. Il percorso della
democrazia, Roma 2013, 1 ss.
111
C. eur., 29.4.2002, Pretty c. Regno Unito, § 60.
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9.2. «Le sanzioni per illeciti amministrativi, che puniscono comportamenti
lesivi di precetti giuridici sanzionati da una norma non penale, si estinguono con la
morte del trasgressore e non sono trasmissibili agli eredi» 112. Del pari, le pene si
estinguono con la morte del reo.
Nell'un caso o nell'altro, la natura penale (rectius, sostanzialmente penale)
dell'ordine di demolizione, come delineata nel presente contributo, alla luce
dell'insegnamento sovranazionale, dovrebbe estinguersi con la morte del trasgressore
(o reo). A differenza delle altre cause di estinzione della pena (ma anche della sanzione
amministrativa), la morte non potrebbe essere, in qualche maniera, imputata
all'inattività della pubblica amministrazione o ad una scelta di politica criminale, ma
unicamente alla sorte (infausta per il reo) od ad un fattore naturale113.
Per ovviare a tale problematica, come già accennato, la giurisprudenza ha
collocato le sanzioni edilizie ed, in particolare, quelle ripristinatorie, in un perimetro
extra ordinem. Ed invero, la misura di demolizione edilizia si sottrae al regime proprio
delle sanzioni amministrative (e della pena), avendo carattere reale, «in quanto è volta
a ripristinare l'ordine prima ancora materiale che giuridico, alterato a mezzo della
sopravvenienza oggettiva del manufatto, cioè di una cosa, priva di un giusto titolo: non
già a sanzionare il comportamento che ha dato luogo a quella cosa (al che presiede,
piuttosto, la fattispecie penale dell'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001)».
In tale pronuncia, il Consiglio di Stato, delineando le caratteristiche dell'ordine
di demolizione, in primis, non lo considera una sanzione, perché, con tale
provvedimento, non si intende «punire un comportamento, ma solo (...) adottare una
misura di ricomposizione dell'ordine urbanistico quale si presentava, e che ha di mira
solo l'eliminazione degli effetti materiali dell'avvenuta sua ingiustificata alterazione.
L'ablazione che può conseguire all'inadempimento dell'ordine di demolizione
concerne un effetto anch'esso della stessa natura, perché con l'acquisizione al Comune
l'ente pubblico può facilmente dar luogo alla realizzazione di quel ripristino a spese
dei responsabili: ovvero, compensativamente - e sempre che l'opera non contrasti con
rilevanti interessi urbanistici o ambientali - destinare la cosa stessa a soddisfare
prevalenti interessi pubblici (art. 31, comma 5)»114.
Da tale natura non-sanzionatoria, quindi, discende la possibilità di opporre la
misura demolitoria anche a soggetti estranei al comportamento illecito (ad esempio,
gli eredi o aventi causa dell'autore dell'abuso).
Così, si ottiene la seconda esigenza: la trasmissibilità post mortis della misura
demolitoria, perché non sanzionataria.
112
C. Stato, 15.4.2015. n. 1927.
F. Carrara, Programma del corso di diritto penale, cit., §§ 577, 578, 581, affermava, con riferimento
all'estinzione dell'azione penale, secondo la lettura tradizionale dell'epoca, che «l'azione penale si estingue per
modi naturali, e modi politici. Modi politici sono quelli pei quali la legge estingue l'azione penale, benché questa
non abbia raggiunto il suo fine, e le fosse possibile tuttora raggiungerlo. Tali sono la sentenza assolutoria;
l'indulto sovrano; la remissione nei delitti di azione privata; e la prescrizione (…) Modi naturali sono quelli pei
quali o all'azione è divenuto impossibile raggiungere il suo fine, e tale è la morte del reo; o lo ha raggiunto, e tale
è la sentenza condennatoria definitiva; la quale fa nascere una nuova azione: l'actio judicati contro il
delinquente. Dopo la condanna definitiva non resta che l'esecuzione della medesima».
114
C. Stato, 15.4.2015, cit.
113
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È difficile poter ancora oggi sostenere che l'ordine di demolizione, come quello
di rimessione in pristino, non abbiamo natura punitiva, ove solo si consideri (a
prescindere dalle altre argomentazioni elencate nelle pagine che precedono) che l'art.
31 d.P.R. 380/2001 dispone, al comma 3, che se il responsabile dell'abuso non provvede
alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni
dall'ingiunzione amministrativa, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria,
secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a
quelle abusive, sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio comunale 115. Si
115
C. Stato, 15.4.2015, cit., si trova a dover affrontare una questione particolare, ovvero quella
dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale nei confronti degli eredi del trasgressore inadempiente
all'ordine di demolizione allo stesso notificato. Il Supremo Collegio amministrativo, evitando di definire la
misura ablatoria de qua come sanzionatoria, formula una nuova regola da applicare al caso concreto, secondo
una (buona) intenzione volta a superare alcune esigenze sistematiche che vengono espressamente indicate. È
utile riportare, anche in questa sede, tali passi della recente pronuncia. «Rileva il Collegio che dalla richiamata
disposizione possono trarsi le seguenti considerazioni. Anzitutto, l'acquisizione al patrimonio disponibile del
Comune dell'area sulla quale insiste la costruzione si differenzia dalla stretta e immediata misura ripristinatoria
insita nell'ordine di demolizione, posto che non solo estende l'ablazione al sedime (ed eventualmente all'area
necessaria per opere analoghe), ma anche ne evidenzia il suo carattere di conseguenza dovuta (cfr. art. 31,
comma 2, ultima parte) rispetto alla mancata esecuzione ad opera del destinatario dell'ordine di demolizione in
base a quanto sopra detto (tale significando l'espressione 'responsabile dell'abuso', di cui al comma 2). È evidente
che non si tratta di sanzione di un comportamento (omissivo), perché se così fosse lo schema procedimentale
applicativo dovrebbe essere quello della rammentata L. n.689 del 1981: la quale invece non si applica alle misure
ripristinatorie reali, nel cui alveo questa stessa ablazione va iscritta per le ragioni testé rammentate (v. infra per
ulteriori considerazioni). Nondimeno, poiché si tratta comunque di conseguenza oggettivamente incidente sul
diritto di proprietà (estesa al sedime ed eventualmente all'area per opere analoghe), e postulante un volontario
inadempimento da parte dell'obbligato, occorre - in omaggio a un elementare criterio di conoscenza ed
esigibilità - che la persona dell'obbligato medesimo alla rimozione (o a patire - come si vedrà - l'operazione
demolitoria comunale) sia stata fatta formalmente destinataria del previo ordine di demolizione ed abbia avuto a
sua disposizione il termine per provvedere alla demolizione. Non è stato così nel caso qui in esame, dove - come
ricordato - l'ordine di demolizione era sì stato notificato, ma solo all'allora vivente proprietario, di cui gli attuali
ricorrenti sono i successivi eredi. Né alcun onere di avvenuta informazione può essere presunto in capo a loro,
essendo la loro successione nella proprietà del bene avvenuta non già inter vivos (il che comporta la presunzione
di conoscenza della legittimità dell'immobile, a norma delle disposizioni incidenti sulla validità dei contratti: cfr
art. 30) bensì mortis causa: sicché nulla è loro riferibile. Ne consegue che - in deroga all'automatismo
dell'acquisizione una volta decorso il termine dall'emanazione di un'ordinanza di demolizione come quella del
caso presente: cfr. da ultimo C. Stato, 8.5.2014 n. 2368; V, 11 luglio 2014, n. 3565 - non può farsi derivare una così
seria conseguenza se costoro stessi non sono stati fatti espressi destinatari di un rinnovato ordine di demolizione
e, in seguito, non vi hanno - seppur così rettamente informati – adempiuto. Ne consegue dunque che, in sede di
rinnovazione del procedimento, l'ordine di demolizione dovrà essere comunicato nei confronti dei successori
mortis causa. Del resto, non v'è chi non veda che se l'acquisizione al patrimonio comunale fosse - in rottura della
coerenza del sistema - qualificata come sanzione personale della condotta di inottemperanza, non solo ne
dovrebbe derivare la (già accennata) coerente applicazione secondo lo schema della L. n.689 del 1981 (con
conseguente opposizione in sede giurisdizionale ordinaria; la prescrizione, ecc.); ma anche la considerazione
generale dell'irragionevolezza del sistema normativo, perché le ordinanze di demolizione resterebbero
facilmente inottemperate col solo mezzo di un'artata alienazione dopo la loro notificazione. L'effettività della
legge, in altri termini, rischierebbe di rimanere vanificata rispetto alla misura principe di ripristino dell'ordine
urbanistico violato: il che sarebbe conseguenza irragionevole e rinnegante la funzione generale dell'art. 31. Vero è
poi che secondo Corte cost., 15 luglio 1991, n. 345 "l'acquisizione gratuita ... si riferisce esclusivamente al
responsabile dell'abuso, non potendo di certo operare ... nei confronti del proprietario dell'area quando risulti,
in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli
venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento"; e peraltro che
"l'operatività dell'ingiunzione a demolire non presuppone sempre necessariamente la preventiva acquisizione
dell'immobile al patrimonio comunale, perché l'ingiunzione è un provvedimento amministrativo di natura
autoritativa che, in quanto tale, è assistito, in base ai principî generali che regolano l'azione amministrativa, dal
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tratta, come già evidenziato nell'incipit di questo contributo, di un'ipotesi di confisca
in caso di inadempimento dell'ordine di demolizione. Però la confisca urbanistica ha
senza alcun dubbio natura penale, come evidenziato dalla Corte costituzionale, seppur
con espresso riferimento alla previsione di cui all'art. 44 co. 2 d.P.R. 380/2001, ma,
mutatis mutandis, gli effetti sono i medesimi: espropriare il trasgressore.
Per tali ragioni, l'ordine di demolizione (come quello di rimessione in pristino),
presupposto necessario della confisca comunale (in caso di inadempimento
volontario) non può che essere una sanzione sostanzialmente penale, al pari della
confisca urbanistica di cui all'art. 44 co. 2 d.P.R. 380/2001. Se tanto è vero, è anche vero,
come già visto, che l'ordine di demolizione ha una finalità (anche) ripristinatoria
dell'«ordine urbanistico», per cui è necessario porsi l'interrogativo sull'effettiva
possibilità di estendere allo stesso, sic et simpliciter, le cause di estinzione della pena.
9.3 L'indagine scientifica sulle cause di estinzione della pena ha sempre avuto un
ruolo marginale, essendo stata dedicata particolare attenzione a quelle di estinzione
del reato. Ad ogni modo, la caratteristica comune che le distingue dalle prime va
indicata nella circostanza che tutte intervengono dopo la sentenza irrevocabile di
condanna e, dunque, dopo che il giudice ha accertato un fatto antigiuridico, tipico e
colpevole, comminando la relativa pena. E poi, altra caratteristica comune a tutte le
cause di estinzione della pena (ad eccezione della morte per le ragioni che si diranno)
è la natura decadenziale, ricavato dall'inesistenza di ipotesi di interruzione e
sospensione della stessa. Già tali peculiarità evidenziano le ragioni degli interrogativi
teorici appena sopra posti alla riflessione in ordine all'effettiva possibilità di estendere
a tutte le sanzioni di tipo penale (come l'ordine di demolizione), secondo la
definizione convenzionale, le relative cause di estinzione.
carattere dell'esecutorietà insito nel potere di autotutela che, come è noto, consiste nel potere-dovere degli
organi amministrativi di dare esecuzione ai provvedimenti da essi stessi emanati. Di conseguenza, appare
evidente che, qualora non ricorrano i presupposti per l'acquisizione gratuita del bene, come nel caso in cui l'area
sia di proprietà del terzo, la funzione ripristinatoria dell'interesse pubblico violato dall'abuso, sia pur ristretta
alla sola possibilità della demolizione, rimane affidata al potere-dovere degli organi comunali di darvi
esecuzione d'ufficio. E ciò senza che a tal fine necessiti la preventiva acquisizione dell'area che, se di proprietà
del terzo estraneo all'abuso deve rimanere nella titolarità di questi, anche dopo eseguita d'ufficio la
demolizione". Ed è vero che, analogamente, nella giurisprudenza amministrativa (C. Stato, V, 11 luglio 2014, n.
3565) si trova affermato che l'acquisizione gratuita dell'area dove è stato realizzato un immobile abusivo non
possa essere dichiarata verso il proprietario estraneo al compimento dell'opera abusiva, che non possa ritenersi
responsabile della stessa, facendo eccezione il caso in cui il proprietario, pur non responsabile dell'abuso, ne sia
venuto a conoscenza e non si sia adoperato per impedirlo (cfr. C. Stato, III, 15 ottobre 2009, n. 2371) e l'ipotesi che
l'attuale proprietario abbia acquistato il manufatto dal proprietario che aveva commesso l'abuso, pur se il nuovo
non è responsabile dello stesso, subentrando nella sua posizione giuridica. Nondimeno, quali che qui debbano
essere le conseguenze - ovvero che persistano in concreto i presupposti per l'acquisizione gratuita comunale, o
che il Comune debba, in forza di detto suo comportamento dovuto, demolire il manufatto abusivo intervenendo
sul sedime altrui e quanto vi insiste - va rilevato che è illegittimo, come qui è avvenuto, disporre l'acquisizione
gratuita, o in ipotesi effettuare questo materiale intervento comunale, in danno di chi non è responsabile
dell'abuso e nei cui confronti sia mancata la notifica dell'ordine di demolizione. 11.- Essendo l'acquisizione
gratuita al patrimonio comunale - ovvero la demolizione in danno - una misura prevista per l'ipotesi di
inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa postula comunque un'inottemperanza da parte di chi va a
patirne le pur giuste conseguenze. 12.- Su queste basi il Collegio qui considera che l'acquisizione gratuita
dell'area - come la demolizione pubblica in danno - non possa essere senz'altro disposta nei confronti degli
attuali interessati...».
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In questa sede, va appuntata l'attenzione, ai fini dell'analisi proposta, sulla
morte del reo (art. 171 Cp) e sulla prescrizione (artt. 172 e 173 Cp), che poggiano su
fondamenti distinti.
Mors omnia solvit. È un corollario della personalità della responsabilità penale
che impone l'estinzione di tutti i rapporti di diritto penale di cui il condannato era
titolare. Si estinguono le pene principali e quelle accessorie e, di regola, ogni altro
effetto penale.
La prescrizione della pena ha una finalità spiccatamente specialpreventiva 116,
come si evince dall'esclusione della stessa per i recidivi, i delinquenti professionali o
per tendenza, ovvero nei casi in cui il condannato, durante il tempo necessario per
l'estinzione della pena, riporti una condanna alla reclusione per un delitto della stessa
indole, ove, dunque, il solo tempo trascorso dalla condanna non eseguita non può
avere alcuna utilità sociale. Il legislatore, se si vuole, attribuisce già alla sola sentenza
di condanna una finalità risocializzante e, dunque, il lasso temporale prima
dell'esecuzione ha un effetto reintegrativo per il condannato, tanto da rendere inutile
l'esecuzione della pena inflitta dopo un certo tempo proporzionato alla gravità del
crimine accertato. A differenza dell'omologa causa di estinzione del reato, il tempo,
dopo la condanna, non cancella la memoria sociale dell'offesa subita.
È importante osservare che, come si desume dal combinato disposto degli artt.
210 e 236 Cp, le cause di estinzione della pena non si applicano alla confisca che è una
misura di sicurezza patrimoniale che colpisce le cose e non la persona117.
9.4 Due impostazioni opposte.
La natura penale della confisca urbanistica, ovvero dell'ordine di demolizione o
di rimessione in pristino non consente di applicare tout court il regime proprio della
pena nostrana. Una sanzione sostanzialmente penale, secondo l'ordinamento
convenzionale, non è la pena così qualificata dal diritto interno.
Ed invero, le ragioni per cui la Corte di Strasburgo ha formulato una nozione
autonoma (o convenzionale) di pena è solo quella di individuare la matière pénale utile
ad attrarre il rigido regime garantistico previsto dagli artt. 6 e 7 Cedu. In altri termini,
alla sanzione interna qualificata come penale a termini convenzionali vanno applicate
tutte le regole garantite direttamente o indirettamente dalla Convenzione, non,
dunque, tutte quelle proprie dell'ordinamento interno che si riferiscono alla pena
domestica.
Da ciò, la qualificazione della sanzione interna come penale a termini
convenzionali identifica solo un'accusa penale ai sensi dell'art. 6 Cedu, con l'effetto
che, all'accertamento del relativo illecito (a prescindere dalla natura nazionale dello
stesso), devono trovare applicazione tutti i principi e le regole che hanno un
fondamento diretto o indiretto nelle disposizioni convenzionali in materia penale
116
P. Nuvolone, Il sistema del diritto penale2, Padova 1992, 559.
La confisca (come misura di sicurezza) non si applica in caso di estinzione del reato, ex multis, Cass. SU,
10.7.2008 n. 38834. Si veda, in particolare, Trib. Trapani, 7.1.2013, in CM 2013, 4, 415, che, dando completo atto dei
contrasti giurisprudenziali, aderisce al principio indicato dalle Sezioni Unite. Di recente, proprio con riferimento
al caso Varvara C. Italia ed alle relative statuizioni della Corte di Strasburgo, applicate, mutatis mutandis, ad
un'ipotesi di confisca ex art. 240 Cp, cfr. Cass. 20.1.2015 n. 7860, in CEDCass, m. 262759.
117
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(artt. 6 e 7 Cedu e art. 4 Protocollo n. 7 Cedu, etc.). E, dunque, principi di legalità, di
proporzione (anche nelle dimensioni dell'offensività della materialità), irretroattività
maligna e retroattività in mitius, divieto di bis in idem, con tutte le regole che
implementano tali principi. Sono escluse le cause di estinzione del reato e della pena 118.
Secondo tale impostazione, dunque, la qualificazione penale della sanzione
interna, a termini convenzionali, non modifica la natura non penale della stessa
nell'ordinamento domestico, fatta salva la necessaria applicabilità delle garanzie
convenzionali. E, dunque, alla confisca urbanistica, come alle altre sanzioni edilizie
ablative, non può non applicarsi il divieto di retroattività o la necessaria previsione
legale, trovando tutela negli artt. 6 e 7 Cedu. Tali sanzioni non potranno applicarsi,
inoltre, se non con una sentenza di condanna. Nulla, come detto, però, in relazione
alle ipotesi di estinzione del reato e della pena, che non trovano una diretta (o
indiretta) tutela nelle suddette norme convenzionali.
Pertanto, seguendo tale concezione e rispondendo al quesito posto più sopra, il
giudice astigiano ha errato nell'estendere all'ordine di demolizione la previsione di cui
all'art. 173 Cp, dichiarando la relativa intervenuta prescrizione per decorso del termine
quinquennale, proprio perché la natura penale dell'ordine di demolizione, da tale
curia (correttamente) riconosciuta, non consente l'applicazione di istituti che hanno
una ratio modellata sulla pena domestica.
9.4.1. La qualificazione convenzionale come pena di una sanzione domestica, ne
muta automaticamente anche la natura all'interno dell'ordinamento nazionale, in
virtù di quanto previsto dall'art. 117 co. 1 Cost. e dalla lettura offertane dalla Consulta,
che riconosce al diritto convenzionale il duplice ruolo di parametro interposto di
legittimità costituzionale del diritto interno e di criterio interpretativo cui il giudice
nazionale deve attenersi, salvo che da tale attività ermeneutica derivi un contrasto con
le norme costituzionali gerarchicamente sovraordinate.
La Corte costituzionale, inoltre, scrutinando la confisca stradale ex art. 186 CStr
119
, ha evidenziato che «dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi in
particolare sull'interpretazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, si ricava (...) il principio
secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette
alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto», così collocando ogni
intervento punitivo nazionale nell'alveo dell'art. 25 co. 2 Cost.
Da ciò, si ricava che ciò che è pena a livello sovranazionale, è tale anche a livello
domestico, ed impone l'applicazione della medesima disciplina relativa alla pena
domestica in senso stretto, in virtù del principio di stretta legalità e del favor rei. È
inammissibile, infatti, la previsione di eccezioni tra le sanzioni afflitto-punitivo in
118
In questo senso, C. cost., n. 236/2011, per cui, «dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo emerge che
l’istituto della prescrizione, indipendentemente dalla natura sostanziale o processuale che gli attribuiscono i
diversi ordinamenti nazionali, non forma oggetto della tutela apprestata dall’art. 7 della Convenzione». Va
osservato, comunque, che, per quanto riguarda la prescrizione del reato, andrebbe riconosciuta la tutela
sovranazionale ex art. 117 co. 1 Cost., in virtù di quanto previsto dall'art. 14 co. 3 lett. c) PIDCP. Mentre, per le
cause estintive della pena, utili argomenti possono ricavarsi dall'art. 54 CAAS, nella parte in cui parifica
l'esecuzione della pena alle ipotesi di non-eseguibilità della stessa, secondo l'ordinamento interno.
119
C. cost., 4.6.2010 n. 196.
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genere, che, come detto, devono essere soggette alla stessa disciplina, poiché,
diversamente, tali eccezioni si porrebbero in insanabile contrasto con l'art. 7 Cedu,
nella parte in cui stabilisce il principio della legalità dei delitti e delle pene,
imponendo anche di non applicare la legge penale in maniera estensiva a svantaggio
del reo.
Rebus sic stantibus, l'ordine di demolizione edilizia costituisce una sanzione
sostanzialmente penale, alla stregua dei parametri convenzionali di cui agli artt. 6 e 7
Cedu e, dunque, deve essere soggetto alla medesima disciplina della pena domestica,
non potendosi ammettere alcuna eccezione, se non violando il principio di legalità
previsto anche dall'art. 25 co. 2 Cost.
Per tali ragioni, il giudice astigiano ha correttamente applicato l'art. 173 Cp
anche all'ordine di demolizione edilizia, assoggettandolo alla stessa disciplina della
pena contravvenzionale. In altri termini, l'accertata natura penale dell'ordine
demolitorio supera la questione relativa all'assenza dell'eadem ratio che ha fatto
escludere, alla giurisprudenza di legittimità, nella considerazione della sanzione
ablatoria de qua come di natura amministrativa, l'applicabilità analogica della
disposizione codicistica suddetta.
Il giudice astigiano ha, comunque, rimesso l'esecuzione (eventuale) dell'ordine
demolitorio alla pubblica amministrazione.
10. La morte è l'unico modo naturale di estinzione di reato e pena. Le altre
ipotesi sono tutte politiche120, ovvero previste dal legislatore per ragioni sopravvenute
dipendenti dalla volontà, se si vuole, dello Stato o del reo. E poi, la morte è l'unica
causa estintiva che modifica il rapporto di conflitto: non si tratterà più di giudicare il
responsabile dell'abuso, ma colui che subentra nella titolarità del manufatto abusivo
(erede). Ed invero, adottando un metodo casistico, se il reo muore nel corso del
processo penale, il giudice dichiara l'estinzione del reato ex art.150 c.p., non perché è
venuta a mancare la tipicità (sostanziale) del fatto, che rimane astrattamente
inalterata, ma perché quel comportamento non può più essere perseguito e punito. Né
di tale comportamento può rispondere chi subentra nella titolarità del patrimonio del
reo, ostando il canone della personalità della responsabilità penale ex art. 27 co. 1 Cost.
Né, poi, questa estinzione naturale del reato consente di ammettere che taluno possa
ricavare giovamenti di sorta da reati precedentemente commessi dal suo dante causa.
Non si tratterà più di una questione penale (il reato è estinto), ma solo
amministrativa e civile.
La pubblica amministrazione, a questo punto, avvierà il procedimento nei
confronti dell'erede come proprietario del bene abusivo, notificando l'ingiunzione di
demolizione ai sensi dell'art. 31 co. 3 d.P.R. 380/2001, che non avrà i connotati afflittivi
o repressivi propri dell'ordine di demolizione nei confronti del responsabile
dell'abuso, ma di invito ad eliminare una situazione obiettivamente antigiuridica.
Nell'ipotesi di volontario adempimento da parte dell'erede, nulla quaestio.
120
La distinzione tra modi naturali e modi politici di estinzione del reato e della pena è di Francesco
Carrara.
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In caso di inottemperanza, invece, si instaura un conflitto ed, infatti, il dirigente
comunale impone all'erede una sanzione amministrativa pecuniaria, ai sensi dell'art.
31 co. 4-bis d.P.R. 380/2001, e l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale ex art. 31
co. 5 d.P.R. 380/2001. Siffatto procedimento deve tenere conto delle garanzie
convenzionali di cui agli artt. 6 e 7 Cedu, in quanto la conseguenza
dell'inottemperanza all'ingiunzione amministrativa a demolire, ovvero l'acquisizione
gratuita al patrimonio comunale del bene abusivo e del relativo sedime, ha natura
sostanzialmente penale, così attraendo il regime proprio dell'accuse penal.
La morte del responsabile dell'abuso edilizio configura, dunque, un nuovo
illecito così strutturato: il comportamento punito (precetto) è l'inottemperanza
all'ingiunzione-invito a demolire l'opera abusiva, che, dunque, costituisce l'oggetto
materiale dell'illecito, e la sanzione è l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale.
L'ipotesi qui tracciata consentirebbe di superare gli aspetti critici della soluzione
pretoria della vicenda: nella giurisprudenza amministrativa è sostenuto, infatti, che il
responsabile dell'abuso non è solo chi lo ha materialmente realizzato, ma anche chi ha
l'effettiva disponibilità dell'immobile abusivo, in quanto «l'abusività di un fabbricato
diventa una caratteristica negativa che acquisisce l'immobile e che lo caratterizza a
prescindere dalla posizione psicologica del proprietario (o dell'avente causa dal
soggetto che ha commesso l'illecito edilizio)»121. In altri termini, nel caso di morte del
responsabile dell'abuso, si punirebbe un soggetto per un comportamento altrui ed a
prescindere dalla posizione psicologica con il fatto. Così ponendosi in frizione con le
garanzie convenzionali ed, in particolare, con la necessità di un nesso psichico tra fatto
e soggetto per poter legittimamente impartire una sanzione di natura penale.
La Corte di Strasburgo, infatti, ha evidenziato che, nonostante l’art. 7 Cedu non
menzioni espressamente il nesso psicologico tra l’elemento materiale del reato ed il
reo, «la logique de la peine et de la punition ainsi que la notion de «guilty» (dans la
version anglaise) et la notion correspondante de « personne coupable» (dans la version
française) vont dans le sens d'une interprétation de l'article 7 qui exige, pour punir, un
lien de nature intellectuelle (conscience et volonté) permettant de déceler un élément de
responsabilité dans la conduite de l'auteur matériel de l'infraction», diversamente,
concludono i giudici convenzionali, «la peine ne serait pas justifiée»122. Il legame
psicologico tra autore e fatto, come indicato dai giudici convenzionali, specificato con
«conscience et volonté», non ha certamente un'indicazione pregnante e chiara, ove si
considerino, in particolare, le differenze definitorie, anche importanti, tra tutti i criteri
di imputazione soggettiva, potendosi, ad ogni modo, individuare almeno nella colpa
(incosciente) che costituisce il minimo e più debole nesso di natura soggettiva che
possa configurarsi tra un fatto ed il suo autore.
E così, l'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione dell'abuso mette in
rilievo in re ipsa il minimo collegamento psichico tra soggetto (erede) e fatto vietato
(omessa demolizione dell'opera abusiva), tale da soddisfare il canone convenzionale
121
Tar Sicilia-Palermo, 23.7.2014 n. 1995.
C. eur., 20.1.2009, Sud Fondi Srl c. Italia, in particolare §§ 116, 117; su tale pronuncia, F. Mazzacuva, Un
“hard case” davanti alla Corte europea: argomenti e principi nella sentenza di Punta Perotti, in DPP 2009, 1540 ss.
Si è già detto che diversa appare l'indicazione fornita nel caso Varvara c. Italia, infra, § 6.1.
122
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suddetto (e non solo)123.
Né varrebbe obiettare che tanto evidenzia la differenza sostanziale degli illeciti
penale e amministrativo e, dunque, l'inapplicabilità del ne bis in idem, come sopra
prospettato, in quanto, solo nell'ipotesi di procedimento nei confronti del
responsabile dell'abuso, il fatto (attività di costruzione abusiva) integra anche la
fattispecie astratta penale ex art. 44 d.P.R. 380/2001, oltre quella amministrativa di cui
all'art. 31 d.P.R. 380/2001. L'ordine di demolizione è impartito, in entrambe le ipotesi,
come conseguenza del comportamento vietato (attività di costruzione abusiva),
mentre, nel caso di morte del responsabile dell'abuso, tale ordine è rivolto all'erede
(divenuto titolare dell'opera abusiva) affinché rimuova l'abuso. La distinzione non
appare evidente, ma consente di conformare il sistema punitivo edilizio alle garanzie
convenzionali.
10.1 La morte del responsabile dell'abuso interviene subito dopo la condanna
definitiva. Il giudice dell'esecuzione dichiara l'estinzione di tutte le pene e, dunque,
anche dell'ordine di demolizione. Almeno secondo la concezione 124 fatta propria dal
giudice astigiano.
Le differenze rispetto all'ipotesi esaminata nel paragrafo che precede appaiono
evidenti: qui, la morte non estingue il fatto di reato (appunto), ma solo le conseguenze
nei confronti del condannato. Non paiono dubbi che la pubblica amministrazione
possa intervenire con gli strumenti già evidenziati (invito alla demolizione notificato
all'erede ed, in caso di inottemperanza, la sanzione pecuniaria e l'acquisizione del
bene e del relativo sedime al patrimonio comunale).
10.2. Prima di concludere, è opportuno riflettere (brevemente) su una questione
abbandonata nelle pagine che precedono: in caso di dichiarazione di prescrizione
dell'ordine di demolizione, la pubblica amministrazione può intervenire ingiungendo
al responsabile dell'abuso di demolire il manufatto illecito?
Non pare possibile, se occorre, come si crede, dare un significato all'inerzia della
pubblica amministrazione (e qui va collocata anche l'inattività del pubblico
ministero).
La dichiarazione di estinzione della pena, come visto, costituisce, fra l'altro,
un'ipotesi di decadenza del potere di farla eseguire. E ciò che non può (più) fare il
giudice penale, non può essere consentito alla pubblica amministrazione.
Non va dimenticato, inoltre che il controllo sull'esecuzione della pena è
devoluto al giudice che l'ha emessa, ai sensi dell'art. 665 Cpp, con l'effetto che, ove
fosse consentito di eseguire alla pubblica amministrazione l'ordine di demolizione
impartito con una sentenza di condanna penale, sarebbe scardinato il sistema
descritto dal legislatore, come letto dalla Sezioni Unite, per cui «l'applicazione,
all'esecuzione dell'ordine di demolizione, dell'ordinario procedimento esecutivo
comporta che qualunque controversia possa insorgere, sia in ordine al titolo o alle
123
Il termine di prescrizione dell'illecito amministrativo (sostanzialmente penale) inizierà a decorrere dalla
morte del responsabile dell'abuso.
124
Cfr. § 9.4.1
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modalità che ai possibili rapporti con i concorrenti provvedimenti amministrativi,
debba, necessariamente essere affrontata su impulso del pubblico ministero,
dell'interessato o del difensore, innanzi al giudice dell'esecuzione»125.
11. L'ordine di demolizione edilizia è una «pena». È partito tutto da qui e gli
effetti sono (possono essere) rivoluzionari, poiché scuotono alla base il consolidato
orientamento giurisprudenziale domestico di applicazione del sistema punitivo
urbanistico-paesaggistico. Un'esegesi, quella consolidata, senza dubbio mossa da una
«buona intenzione»126, il principio della tutela del territorio e dell'ambiente, come
primo criterio di interpretazione del dato positivo.
La natura penale della sanzione nel sistema convenzionale, di regola, attrae
l'illecito nella relativa area di disciplina (matière pénale), con tutte le garanzie che ad
essa appartengono. Spostando, dunque, l'illecito edilizio in genere dall'alveo
amministrativo (rectius, anche amministrativo) a quello (solo) penale, cambiano i
parametri di riferimento della stessa esegesi. Il mutamento di prospettiva mette in crisi
la giurisprudenza nazionale: a tanto si è assistito con la questione della confisca
urbanistica, al punto che la stessa Corte costituzionale ha (addirittura) affermato che
una pena può essere comminata anche con una sentenza di proscioglimento (sic!)
purché si accerti la responsabilità (penale?) del non-condannato (sic!).
Sempre nel campo del diritto penale dell'edilizia, si è già detto, il giudice ha
voluto risolvere l'inerzia della pubblica amministrazione, a cui il legislatore aveva
125
A. Casadonte, Spetta all'autorità giudiziaria l'esecuzione dell'ordine di demolizione, in Urbanistica e
appalti 1997 (1), 111.
126
D. Pulitanò, Due approcci opposti sui rapporti tra Costituzione e CEDU in materia penale. Questioni
lasciate aperte da Corte cost. n.49/2015, in www.penalecontemporaneo.it, il chiaro Maestro invero utilizza
l'espressione autoritarismo ben intenzionato, per descrivere, in maniera che la mia penna non può far meglio, le
conseguenze dell'ingresso della tutela delle finalità nell'applicazione della legge penale, evidenziando, in
particolare, rispetto alle rationes decidendi che hanno portato la questione della confisca urbanistica innanzi alla
Corte costituzionale, «un segno autoritario» della lettura esegetica: «fra i due poli del problema penale (tutela
mediante la coercizione legale versus limiti della coercizione legale) la direzione degli argomenti è verso il polo
degli istituti coercitivi: tecnicamente in malam partem. Ciò cui mira l’eccezione di illegittimità costituzionale è
la stabilizzazione del campo d’applicazione della confisca urbanistica come definito dal diritto giurisprudenziale
vivente». Il parallelismo che il chiaro Maestro fa tra intervento della Corte di Strasburgo e quello del legislatore
nel bilanciamento degli interessi in materia penale e, dunque, i limiti di intervento nelle scelte di politica
criminale da parte anche della Corte costituzionale, va approfondito. La legge di ratifica della Convenzione
europea dei diritti dell'uomo e dei suoi protocolli riguarda anche il sistema giurisdizionale, ovvero quello della
Corte. In base all'art. 32 Cedu: «La competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti
l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione dei suoi Protocolli che siano sottoposte a essa alle
condizioni previste dagli articoli 33, 34, 46 e 47» e, poi, l'art. 19 Cedu stigmatizza che l'istituzione della Corte di
Strasburgo ha il fine di «assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte Parti contraenti dalla (...)
Convenzione e dai suoi Protocolli». I giudici euroumanitari (uno per ciascun Stato contraente) sono eletti
dall'assemblea parlamentare nazionale. Tale elezione garantisce il rispetto del principio democratico (assente –
clamorosamente – per la Corte di Giustizia dell'Unione Europea, per cui ciascun giudice è nominato dai
rappresentanti governativi). Da ciò, con la ratifica dei patti internazionali in questione, il legislatore ha rimesso
ogni valutazione di bilanciamento di interessi con i diritti umani di ogni politica legislativa (soprattutto
criminale) al giudizio della Corte di Strasburgo. Il parallelismo ipotetico posto dal chiaro Maestro è una realtà
che appartiene all'ordinamento: le decisioni della Corte di Strasburgo hanno la stessa efficacia delle scelte del
legislatore nazionale, con una rafforzata copertura costituzionale derivante dall'art. 25 co. 2 Cost., nella materia
penale, e dall'art. 117 co. 1 Cost., trattandosi pur sempre di un vincolo sovranazionale.
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assegnato la soluzione del fenomeno dell'abusivismo incontrollato, supplendo (di
fatto) ad essa, così volendo perseguire in pratica la ratio legislatoris, a mo' di pubblico
amministratore, con un'indebita confusione di funzioni e poteri. In altri termini,
l'esigenza di non invadere le competenze della pubblica amministrazione, semmai
sollecitandone l'attività di vigilanza e controllo del territorio, nel rispetto del superiore
principio della separazione dei poteri, ha avuto l'effetto esattamente opposto, ovvero,
da un lato, quello di attribuire al giudice, in luogo dell'amministratore pubblico, il
controllo del territorio, ma con la forza dello ius dicere e, dall'altro, di rafforzare (in un
certo senso garantendola o giustificandola) la cronica inattività di vigilanza e controllo
da parte della pubblica amministrazione in questo settore. Da ciò, appare evidente che
la finalità o buona intenzione giudiziale da parametro di esegesi del dato positivo, è
utilizzata effettivamente come ragione non dell'interpretazione, ma della stessa
applicazione del diritto, invece di conformare la regola da applicare ai principi
fondamentali dell'ordinamento sinergicamente considerato 127.
Ma vi è di più. Cambia il punto di vista per l'interprete, che si trova a dover
guardare un quadro da un'altra prospettiva: il giudice deve estrapolare la legge
dall'ordinamento domestico, collocarla in quello multilivello (comprensivo di
ordinamento domestico e sovranazionale fra loro connessi sinergicamente) e qui
interpretarla e, dunque, applicarla. Se, di contro, il giudice interpreta la norma
domestica tenendo conto del solo ordinamento nazionale, lo stesso non si può
rappresentare che, da un lato, la sua lettura può apparire viziata da un certo
«provincialismo»128 e, dall'altro, applicherà la norma in un altro contesto, ovvero in
quello multilivello. Sarebbe come servirsi di una norma straniera in un contesto
nazionale distinto: perdendo i legami ordinamentali, l'applicazione della legge
diventerebbe paradossale. È quello che è accaduto alla Corte costituzionale nella
pronuncia del 26.3.2015 n. 49, anche appena sopra richiamata, in cui, come visto,
l'interferenza convenzionale (natura penale della confisca urbanistica) nel sistema
domestico (e non multilivello) è sfociata in un'applicazione (potenziale) irragionevole
anche per l'ordinamento nazionale: il giudice può comminare una pena ad un noncondannato (sic!)129. Se, di contro, la Corte costituzionale non avesse voluto trovare un
127
Sull'importanza del metodo comparativo, M. Papa, Metodologia e scopi della comparazione in materia
penale, cit., 372 ss.
128
A. Ruggeri, Carte internazionali dei diritti, Costituzione europea, Costituzione nazionale: prospettive di
ricomposizione delle fonti in sistema, Relazione all’incontro di studio su La giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo, organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, Roma 28 febbraio - 2 marzo 2007,
richiamato nella Relazione n. 112 del 2012 dell'Ufficio del Massimario della Suprema Corte di Cassazione, 14, nota
45
129
T. Lecce, 7.7.2015, in www.giurisprudenzapenale.com, (anche in RP 2015, 10, 901), con nota di G. Stea,
Prolegomeni del «provincialismo» giudiziale nel sistema multilivello. Le conseguenze empiriche della sentenza n.
49 del 2015 della Consulta, respingendo l'istanza di estinzione dell'ordine di demolizione ex art. 173 Cp, in un caso
analogo a quello scrutinato da Trib. Asti, 3.11.2014, cit., evidenzia che «declinando come pena la misura
demolitoria perché connotata di un carattere afflittivo eccentrico rispetto alla finalità di tutela e ripristino del
territorio perseguita dalla norma, si rischierebbe di sortire l'effetto opposto ossia di privare il sistema
sanzionatorio urbanistico di uno strumento, invero efficace, teso al realizzo» del ripristino dell'ordinato assetto
del territorio violato. Affermando, addirittura, che «la previsione di cui all'art.31, co. IX e art. 44, co. I, DPR
380/01, attraverso un'opera interpretativa manipolativa asseritamente conforme alla CEDU, sarebbe inutiliter
data, con il rischio di garantire un livello minore e non maggiore di tutela del bene interesse presidiato dalle
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compromesso tra lettura convenzionale e sistema prettamente domestico, non avrebbe
avuto alcuna difficoltà a considerare la confisca urbanistica come una pena in senso
stretto, offrendo al sistema coerenza ed armonia.
Altre volte, come detto, il giudice persegue la finalità legislativa, anteponendola
all'esegesi normativa, abbandonando la funzione di garanzia allo stesso attribuita
dall'ordinamento e sostituendosi al pubblico amministratore, come accade nella
materia qui esaminata, nel vigilare e ripristinare tempestivamente l'ordine urbanistico
violato.
La problematica più evidente di inconciliabilità con i parametri convenzionali
non riguarda tanto la giurisdizione penale domestica, una volta che anche l'ordine di
demolizione venga considerato di natura penale e così attraendo il regime proprio
della pena in senso stretto, ma quella amministrativa che, in questo campo, appare
spalleggiare l'inerzia della pubblica amministrazione, affermando che «l'ordine di
demolizione di un manufatto abusivo, come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse
pubblico concreto ed attuale alla demolizione», non ammettendo «alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può
avere legittimato», né che «l'interessato può dolersi del fatto che l'amministrazione
non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi»130. Il richiamo alla
norme interne, conformemente al dettato costituzionale». È evidente che il giudice salentino antepone la finalità
(si badi, non astratta), in concreto (evitare la prescrizione ex art. 173 c.p.) all'esegesi convenzionale dell'ordine di
demolizione, con affermazioni (inconsapevolmente) paradossali. In primis, come può una pena (ove tale dovesse
considerarsi l'ordine di demolizione) – sanzione massima dell'ordinamento – minare la funzionalità del sistema
sanzionatorio edilizio? Ed in inoltre, se l'ordine ripristinatorio viene eseguito tempestivamente e, dunque, nel
termine di prescrizione, la finalità tutoria del territorio non è comunque salvaguardata? L'esigenza di rilievo
costituzionale che, secondo il giudice leccese, viene meno, non dipende, quindi, dalla qualificazione della natura
penale della misura ripristinatoria sindacata, ma solo, nel caso de quo, dall'inerzia della pubblica
amministrazione o del pubblico ministero nell'eseguirla. E poi ravvisare nell'inutilità dell'ordine demolitorio,
ove qualificato come pena a termini convenzionali, un livello minore di tutela del territorio, sottolinea
quell'atteggiamento giudiziale interpretativo in malam partem, descritto da Domenico Pulitanò, che fa prevalere
l'interesse generale al corretto governo del territorio fino al punto di annullare le garanzie di libertà del cittadino.
Ma non solo. Il giudice salentino mal utilizza il criterio della maggior tutela ricavabile dall'art. 53 CEDU (ma
anche dall'art. 53 CFDUE), dettato per i diritti e le libertà fondamentali riconosciuti proprio al cittadino, che
impone di conformare il dato positivo a quello (sovraordinato o interno) che offre una tutela più intensa. Il
giudice leccese appunta l'attenzione sul diritto di proprietà (che «può essere tutelato in quanto non sia in
contrasto con l'interesse generale, così inserendo la funzione sociale nella struttura del diritto soggettivo,
superando l'archetipo individualistico»), ignorando però i principi a cui afferisce l'invocata prescrizione, primo
fra tutti, quello di legalità (art. 25 co. 2 Cost.), per cui «tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto» (così anche, C. cost., 18.4.2014 n.
104).
130
C. Stato, 4.10.2013 n. 4907; cfr. C. Stato, 24.11.2014 n. 5792. Una diversa apertura più garantistica si scorge
in C. Stato, 18.5.2015 n. 2512, secondo cui «l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della
constatata realizzazione dell'opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di
principio sufficientemente motivata con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera; deve intendersi fatta
salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia
dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato. Ipotesi
questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche
all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della
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lettura giusamministrativa è imposto dall'applicazione alla materia edilizia del ne bis
in idem, come indicato nelle pagine che precedono. Certo, la qualificazione dell'ordine
di demolizione, unitamente a tutte le sanzioni edilizie, come «pena», dovrebbe elevare
gli interessi del cittadino a veri e propri diritti soggettivi, ponendo anche il problema
della stessa giurisdizione del giudice amministrativo.
legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato».
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