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Se Pechino torna in Asia
di Franco Mazzei - Ordinario di Storia e Civilt à dell'Estremo Oriente all'Universit à L' Orientale di Napoli
(data di pubblicazione su www.attac.it 05 marzo 2003)
La «guerra globale al terrore » scatenata dagli Stati uniti dopo gli attacchi terroristici delle Torri Gemelle,
sebbene non abbia direttamente coinvolto l'Asia orientale, ha profondamente modificato il panorama
geostrategico della regione. Prima dell'11 settembre, nella percezione di Washington la Cina, in forte ascesa
in termini di potere sia economico che militare, rappresentava la minaccia in quanto potenza «revisionista »,
challenger nei confronti degli Stati uniti, che - unica superpotenza rimasta - se non «egemoni » in senso
stretto dispongono quantomeno della supremazia (prim acy ). La tesi della «minaccia cinese »- dominante
nelle cancellerie e nel mondo accademico durante tutto il decennio successivo allo sfaldamento dell'Unione
sovietica - spingeva i falchi di Washington ad una politica di «contenimento preventivo » nei confronti di
Pechino, le cui ambizioni avrebbero destabilizzato l'Asia orientale ledendo gli interessi degli Stati uniti. Oggi,
dopo l'11settembre, per Washingtonl a minaccia non è pi ù la Cina bensì il terrorismo internazionale.
Paradossalmente per ò Pechino si sente ora pi ù vulnerabile e financo accerchiata, a causa in primo luogo del
massiccio ritorno militare degli Usa in Asia centrale, un'area considerata sotto la propria sfera d'influenza. La
maggior parte degli analisti, infatti, ritiene che la Cina sia il paese per il quale l'11 settembre potrebbe avere,
nel medio e lungo periodo, le conseguenze strategiche pi ù sfavorevoli .
Prima degli attacchi terroristici di New York, Pechino era convinta che la principale posta in palio per
Washington fosse ancora la sicurezza dell'Europa, insanguinata dalle guerre dei Balcani; e questo spiega
l'iniziale interpretazione data dai cinesi dell'11 settembre come un ulteriore segno del declino americano.
Dopo un primo tentennamento, la Cina ha dovuto inghiottire l'amara pillola della nuova dottrina di Bush («o
con l'America e con il terrorismo »), collaborando con gli Stati uniti in vari modi. Tuttavia, la sua risposta è
apparsa agli americani non solo un po' tardiva ma anche troppo condizionata.
Dopo un anno e mezzo circa, il bilancio non è rassicurante per Pechino sotto molti aspetti. Inanzitutto, la
crescente presenza militare Usa in Asia Centrale ha in pratica vanificato i meticolosi sforzi diplomatici
intrapresi nell'ultimo decennio per estendere la propria influenza in questa regione (si pensi all'improvvisa
marginalizzazione del cosiddetto «Gruppo di Shanghai », la cui costituzione era considerata il capolavoro della
diplomazia cinese). In secondo luogo, va menzionato il cambiamento verificatosi nelle relazioni Usa- Russia
come immediata conseguenza degli attentati delll'11 settembre. Dopo il 1989, uno degli obiettivi strategici
prioritari della diplomazia di Pechino era stato il miglioramento dei rapporti con Mosca, allo scopo di creare
un nuovo assetto internazionale di tipo multilaterale che contrastasse efficacemente le tendenze egemoniche
statunitensi. Pertanto, è stato un duro colpo per Pechino constatare che l'intervento militare americano in
Afghanistan sia stato fatto non solo con l'appoggio del suo pi ù fido alleato (il Pakistan), ma anche con la
benedizione del suo grande vicino settentrionale (la Russia), che nelle opzioni post- bipolari di Pechino
doveva essere il partner strategico e che, invece, sembra essersi legato ancor pi ù saldamente agli Stati uniti,
segnatamente dopo il terribile attentato terroristico del Teatro di Mosca.
In conclusione, dopo l'11 settembre il margine di manovra di Pechino si è molto ridotto, in un momento in
cui la situazione politica interna potrebbe essere gravemente turbata da fattori di varia natura (una profonda
crisi socio- economica provocata dal fallimento della politica di liberalizzazione in atto, ovvero agitazioni
separatiste in particolare nel Tibet e nel Xinjiang ove il fondamentalismo islamico è motivo di grave
apprensione). Anche se la situazione appare oggi pi ù favorevole a Pechino, in conseguenza delle crescenti
difficolt à che Washington sta incontrando sulla «guerra preventiva » contro l' Irak a causa dell'opposizione
non solo di potenze con diritto di veto nel Consiglio di sicurezza (Russia, Cina e perfino un paese alleato
come la Francia), ma anche dell'opinione pubblica globale, che, spesso dissociata dai rispettivi governi, si
rivela sempre pi ù un attore attivo delle relazioni internazionali (con buona pace degli studiosi realisti), come
hanno dimostrato le imponenti manifetsazioni pacifiste del 15 febbraio.
Diversamente da quella di Pechino, immediata e per molti versi sorprendente è stata la reazione di Tokyo
all'attacco terroristico di Manhattan. Il primo ministro Koizumi non ha esitato ad annunciare che il suo paese
avrebbe fornito supporto militare agli Stati uniti nella guerra in Afghanistan; e sulla stessa linea d'onda la
Dieta nipponica, aggirando la clausola pacifista della Costituzione (imposta dagli occupanti americani ma ben
presto interiorizzata dal popolo giapponese), ha approvato una legge che consente, per la prima volta in
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questo dopoguerra, la partecipazione attiva delle forze di auto- difesa (Fad) nipponiche all'estero in
operazioni belliche condotte senza l'egida dell' Onu, seppure con compiti essenzialmente logistici e non di
combattimento.
Il dibattito sull'opportunit à per il Giappone di diventare un paese «normale » (in termini di capacit à militari)
era gi à in atto ben prima dell'11 settembre. Ma è evidente che la nuova legge ha provocato uno strappo
verso questa direzione, perché non solo attenua i vincoli posti dalla clausola pacifista della Costituzione ma
priva anche paesi come la Cina della possibilit à di denunciare (spesso strumentalmente) la «rinascita del
militarismo nipponico»", in quanto questo sarebbe semmai a servizio di una «nobile causa » (la lotta al
terrorismo).
L'accresciuto ruolo militare del Giappone va valutato nell'ambito della speciale relazione che da mezzo secolo
lega il Sol Levante agli Stati uniti. Si tratta di una relazione complessa, assai asimmetrica ma cruciale per la
stabilit à della regione Asia- Pacifico e forse del sistema internazionale nel suo insieme, e che dopo gli
attentati terroristici contro le Torri Gemelle forse si trova ad una svolta decisiva. Comunque sia,
contrariamente alle aspettative di molti americani, difficilmente il Giappone diventer à un alleato militare degli
Stati uniti a tutti gli effetti, una sorta di «Inghilterra del Pacifico»: semmai sar à su posizioni pi ù vicine a
quella della Germania di Schroeder. Ne consegue che gli americani dovranno imparare a convivere con
questo tipo di Giappone, che dopo mezzo secolo di fedele alleanza gradualmente esce dall' Occidente e
«rientra in Asia »; l' Asia da cui era «uscito» dopo l'olocausto atomico allorché dovette - per «comandamento »
del Tennô- «sopportare l'insopportabile» (la resa incondizionata).
Il graduale rientro in Asia del Giappone è un problema che trascende la mera relazione nippo- americana e
pi ù in generale i rapporti transpacifici. Durante la Guerra fredda, il termine «Occidente» (West ) era un
concetto politico che denotava quei paesi che si opponevano al comunismo e (almeno in teoria) volevano
difendere il pluralismo politico ed economico. Per pi ù di mezzo secolo il Giappone si è sentito membro
effettivo dell' Occidente e tale è stato considerato dalle grandi democrazie occidentali. Ma dopo la Guerra
fredda e soprattutto dopo l'11 settembre, «Occidente » è diventato sempre pi ù un concetto civilizational , che
si riferisce ai paesi che condividono la civilt à occidentale. E' indubbio che il Giappone si trova - per così dire fuori posto in un Occidente così concettualizzato; e si comprende quindi che nell'opinione pubblica nipponica
si stia rafforzando l'a siatismo in quanto norma che condiziona il processo decisionale in politica estera, a
danno del vecchio bilateralismo che privilegiava la relazione speciale con gli Usa, cui di fatto era affidata la
gestione della politica estera nipponica.
Del resto, non pochi studiosi, anche occidentali, hanno sollevato il dubbio se «Occidente» sia ancora
realmente un concetto coerente. Secondo molti analisti, nel sistema transatlantico sarebbe emersa una
frattura tra gli Stati uniti e i loro partners europei, segnatamente la Germania e la Francia che costituiscono
l'asse trainante dell'Ue; e questo divide , rafforzatosi nel corso del dibattito in atto sulla guerra preventiva
contro l' Irak, non sarebbe affatto un problema transitorio, effetto dello stile dell'amministrazione Bush, bensì
la conseguenza di un diverso modo di vedere il l ocus della legittimit à democratica. In realt à, ormai su quasi
tutte le pi ù importanti questioni politiche e in particolare su quelle concernenti il potere (la sua efficacia, la
sua desiderabilit à, la sua moralit à) le prospettive dell' America e dell'Europa sono divergenti.
Come ha sottolineato Robert Kagan in un suo saggio molto discusso, la «crepa » transatlantica è profonda e
destinata a durare, nonostante molti intellettuali europei tendano a sottovalutarla. Il problema allora è
individuare le cause di questo dissenso, e al riguardo due sono le principali spiegazioni avanzate. La prima,
di scuola realista, fa derivare il diverso atteggiamento nei confronti dell'uso del potere dalla diversa
distribuzione della forza: insomma dal fatto che gli Stati uniti ora sono una iperpotenza mentre l'Europa è
relativamente debole. Sempre secondo i realisti, «la soglia di tolleranza », come per gli individui così anche
per gli stati, è tanto pi ù bassa quanto maggiore è il potere di cui si dispone; e i deboli cercano, nei limiti del
possibile, di evitare l'uso della forza preferendo ricorrere alle leggi, ai principi morali per difendere i propri
interessi.
La seconda ragione (che potremmo con qualche forzatura definire di tipo «costruttivistico») del dissenso
politico- morale può essere individuata nella diversa esperienza che Europa e Stati uniti hanno avuto nel
«secolo breve » in relazione all'uso della forza: orribile l'esperienza dell'Europa, dilaniata da due tremende
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guerre fratricide, colpita da feroci totalitarismi e ferita al cuore dall' Olocausto; esaltante invece quella degli
Stati uniti, trasformatisi da potenza geopoliticamente eccentrica in iperpotenza. In realt à, tutte e due le
spiegazioni (quella realista e quella costruttivistica) sono fondate ed entrambe trovano conferma nell'analoga
esperienza del Giappone, in cui alla fase di uno spietato militarismo espansionista (modellato su quello
europeo) ha fatto seguito - attraverso la catarsi del duplice olocausto atomico - quella del Giappone
«obiettore di coscienza » del dopoguerra.
Il nuovo atteggiamento che il Giappone e l'Europa stanno assumendo nei confronti dell'iperpotenza (il rientro
in Asia dell'arcipelago nipponico e il dissenso politico- morale di alcuni importanti paesi europei) potrebbe
avere rilevanti conseguenze anche a livello sistemico. Se si tiene presente che dopo il bipolarismo sia
l'Europa occidentale sia il Giappone hanno perduto la rendita di posizione geopolitica, è possibile immaginare
una relativa marginalizzazione delle due periferie dell'Eurasia, quelle periferie che attraverso le due maggiori
alleanze militari oggi esistenti (la Nato e il Patto di sicurezza nippo- americano) hanno consentito agli Usa di
non rimanere «un'isola » (condizione a cui la geopolitica li condannerebbe, secondo la celebre espressione di
Kissinger) e di controllare la heartland , il cuore dell'Eurasia. Peraltro l'Europa occidentale, con limitati mezzi e
poche ambizioni politiche, appare ancora politicamente divisa (basti pensare all'affannosa corsa alla
spicciolata a Washington dei singoli governi europei subito dopo l'11 settembre, e oggi alla profonda
divisione sulla guerra preventiva), mentre il Giappone, pur continuando ad essere la seconda potenza
economica del pianeta, resta impaludato in una profondissima crisi che sembra non finire mai.
Per evitare questa marginalizzazione, ma soprattutto per cercare di frenare con efficacia la spinta
all'unilateralismo degli Usa, è necessario «ripristinare la via della seta » (cioè rafforzare i legami tra le due
periferie euroasiatiche) e far sì che l'Europa e soprattutto il Giappone svolgano un ruolo politico pi ù attivo
come attori internazionali, anche per non lasciare Mosca troppo esposta alle lusinghe americane e anzi
coinvolgendola in un assetto multipolare del sistema internazionale. Ma questo implica per il Giappone una
certa «normalizzazione », vale a dire l'abbandono di un pacifismo che a molti pare di comodo e un
rafforzamento del suo potere seppure s oft e finalizzato alla difesa di valori civili, e per l'Europa un'azione
internazionale pi ù incisiva anche in campo militare. In questo contesto, la Cina potrebbe ricevere le
necessarie sollecitazioni per agire come un attore responsabile di issues globali e non solo interessato a
questioni riguardanti esclusivamente la propria sfera d'influenza.
Ci ò che all'interno dell' Occidente si profila è un pericoloso scollamento tra l'Europa e il Giappone da una
parte e gli Usa dall'altra. Qquesto potrebbe favorire la spinta dell' Iperpotenza verso l'unilateralismo,
consentendole una forma di «internazionalizzazione selettiva », cioè negoziata bilateralmente di volta in volta
con una delle grandi potenze (Europa, Russia, Cina, Giappone) sulla base di una concezione della forza
intesa non come «ultima risorsa » bensì come strumento normale di strumentazione dell'azione politica. E ci ò
in polemica con le posizioni assunte da Parigi e Bonn e della stragrande maggioranza dell'opinione pubblica
europea. Se così fosse, allora la guerra in corso contro il terrorismo sarebbe non solo aterritoriale,
asimmetrica, atemporale come è stato giustamente detto, ma anche costituente di un nuovo ordine
mondiale: quella guerra costituente che manc ò nell' '89, il che spinse alcuni studiosi di scuola liberale a
parlare ottimisticamente di annus mirabilis.
Uno degli scenari pi ù inquietanti è proprio la nascita di una Santa Alleanza a geometria variabile , in
sostituzione dello scomparso «concerto» sovietico- americano. Un'alleanza, questa che si profila all'orizzonte,
diretta non pi ù contro i nazionalismi o le rivoluzioni sociali, ma contro il terrorismo considerato elemento
strutturale dell'instabile sistema internazionale post- bipolare, eavente come obiettivi di fondo, oltre al pieno
controllo dell'emisfero meridionale, l'emarginazione del mondo islamico e successivamente il contenimento
della Cina, qualora questa dovesse ripresentarsi come perturbatrice del nuovo ordine voluto dagli Stati Uniti.
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