Collana On the Road Tratta di persone e altri fenomeni di marginalità sociale: ricerche, metodologie e strumenti per le politiche e gli interventi di settore Collana diretta da: Vincenzo Castelli e Marco Bufo Comitato editoriale: Ugo Ascoli, Università Politecnica delle Marche Francesco Carchedi, Parsec Consortium Claudio Donadel, Comune di Venezia Maria Grazia Giammarinaro, Commissione europea Leopoldo Grosso, Gruppo Abele Porpora E. Marcasciano, Movimento Identità Transessuale Giovanni Mottura, Università degli Studi di Modena Daniela Oliva, Irs – Istituto per la Ricerca Sociale Isabella Orfano, Associazione On the Road Luigi Perrone, Università degli Studi di Lecce Franco Prina, Università degli Studi di Torino Elena Rozzi, esperta sui diritti dei minori Si è voluto assegnare a questa collana il nome dell’Associazione che la promuove, per dare il segno di un approccio che parte dallo stare nei luoghi della marginalità, a fianco alle persone che vi sono coinvolte; un approccio che nel contempo eleva lo sguardo al complesso delle problematiche che originano le odierne forme di esclusione e violazione dei diritti delle persone più vulnerabili e al complesso delle politiche e degli interventi agiti nel settore sul piano locale, nazionale e transnazionale, individuandone gli spazi di miglioramento attraverso l’analisi, la formulazione di proposte, la prospettazione di metodologie e strumenti rivolti ai diversi soggetti-chiave che hanno responsabilità in materia. Si intende dedicare uno specifico spazio alle tematiche della tratta di persone tenendo conto della complessità che caratterizza il fenomeno e delle sue continue evoluzioni che, in una dimensione internazionale, vedono moltiplicarsi gli ambiti di sfruttamento (nell’“industria del sesso”, in vari settori del mercato del lavoro, nell’accattonaggio e nelle attività illegali forzate, fino all’espianto di organi e alle adozioni internazionali illegali) e le soggettività che ne sono vittime (donne, minori, uomini, transgender) provenienti da un variegato numero di paesi del mondo. Tali caratteristiche della problematica impongono un approccio multidisciplinare ed integrato, ed è per questo che i libri proposti portano la voce dei diversi attori in campo e si rivolgono ad un pubblico altrettanto ampio: policy makers, responsabili degli interventi, operatori del sociale e delle forze di polizia. magistrati. Allo stesso modo, la collana offre analisi e proposte su ampie aree di marginalità sociale a partire dalla consapevolezza che sono sempre più trasversali tra loro: prostituzione, tratta di persone, immigrazione, uso e abuso di sostanze psicotrope, forme di povertà estrema e vite “di strada”... In conclusione, una collana che vuole rispecchiare l’approccio sempre adottato dall’Associazione On the Road, in un percorso di continuo confronto con altri enti pubblici e privati ed esperti/e impegnati/e nell’intervento e nella ricerca sociale. Una specifica sezione della collana ospita le pubblicazioni del progetto “Osservatorio Tratta”, realizzato da una ampia compagine di partner. PAGINA BIANCA 2 FRONTESPIZIO 3 COPYRIGHT 4 Indice Prefazione, di Piero Grasso pag. 9 Introduzione, di Marco Bufo » 15 » » » » » 21 21 23 26 29 » » » » 32 35 40 43 » 47 » 60 » » 60 66 » 69 » 72 » 75 PARTE I Migrazioni e degenerazioni 1. Fenomeni migratori e moderne schiavitù 1.1 Le migrazioni: corsi e ricorsi della storia 1.1.1 Globalizzazione e migrazioni 1.1.2 Il legislatore italiano nella logica dell’emergenza 1.2 La schiavitù moderna 1.3 I fenomeni migratori: occasione di profitto della criminalità organizzata 1.4 Peculiarità aggressive della tratta di persone 1.5 La struttura organizzativa criminale 1.6 Cause del traffico, soggetti coinvolti, forme di sfruttamento 1.6.1 L’emergenza del lavoro forzato e del grave sfruttamento lavorativo 2. Il contrasto integrato alla tratta e al traffico tra rispetto dei diritti umani ed esigenze investigative 2.1 Le linee guida delle fonti sopranazionali e la Convenzione Onu di Palermo 2.1.1 L’ambito europeo 2.1.2 Ultime conclusioni del Consiglio dell’Unione europea 2.1.3 Un esempio avanzato di cooperazione giudiziaria: il mandato d’arresto europeo 2.2 Il modello italiano dell’art. 18 del T.U. sull’immigrazione 5 2.2.1 L’art. 18 svincolato dallo status di cittadinanza: un nuovo statuto per la protezione delle vittime? 2.2.2 Identificazione e protezione della vittima: l’esigenza di formazione multidisciplinare 2.2.3 Gli indicatori di tratta e di altre forme di grave sfruttamento 2.3 La centralità dei diritti umani: le prospettive del Rapporto del Gruppo di esperti nominato dalla Commissione europea 2.4 L’integrazione dei protocolli investigativi con le buone prassi di tutela delle vittime: analisi di un’esperienza pag. 82 » 86 » 88 » 93 » 98 3. Il traffico di migranti 3.1 La versione italiana dello smuggling of migrants prima della legge 189/2002 3.2 Il traffico di migranti secondo l’attuale legislazione italiana; l’ipotesi residuale dell’art. 12, comma 1, d.lgs. 286/98 3.3 Le ipotesi più gravi di cui all’art. 12, comma 3 e seguenti, d.lgs. 286/98 3.4 Il ruolo della Suprema Corte, abile analista del fenomeno » 109 » 109 » 114 » 118 » 124 4. La tratta di persone 4.1 La disciplina italiana del trafficking in persons: dalla riduzione in schiavitù alla nuova legge sulla tratta di persone 4.2 L’assimilazione della tratta alla disciplina tipica di contrasto alla criminalità organizzata 4.2.1 Il contrasto ai patrimoni illeciti 4.3 La crescente previsione di speciali tecniche d’indagine 4.4 La legge di ratifica della Convenzione Onu di Palermo » 129 » 129 » » 139 141 » » 144 146 PARTE II Traffico di migranti e tratta di persone nell’esperienza del diritto interno 6 PARTE III Contrasto al crimine transnazionale e repressione dell’immigrazione illegale in Italia 5. L’immigrazione illegale dei migranti 5.1 I reati del migrante irregolare artt. 13 e 14 d.lgs. 286/1998 e le evoluzioni del legislatore 5.2 Le perduranti difficoltà applicative e i tentativi chiarificatori della Corte di Cassazione Conclusioni Appendici 1. Normativa internazionale, europea e italiana 2. Manuali e pubblicazioni utili sulla lotta alla tratta e la tutela delle vittime 7 pag. 157 » 157 » 163 » 167 » 173 » 176 8 Prefazione di Piero Grasso1 La tratta di persone e il traffico dei migranti rappresentano un lato oscuro della globalizzazione. Sono fenomeni crescenti anche a causa delle fragili economie di alcuni paesi, della condizione sociale dei soggetti deboli, degli enormi profitti per i trafficanti e dei pochi rischi di condanne a gravi pene. Nell’affrontare questi fenomeni, dobbiamo capovolgere l’esperienza del passato e fare in modo che lo sfruttamento di una persona, sia a fini sessuali che di lavoro, si trasformi da una attività a basso rischio con elevati profitti ad una ad alto rischio con bassi profitti. Le industrie del traffico e della tratta sono un circolo vizioso nel quale operano tutti i livelli del crimine: dai piccoli gruppi alle grandi reti internazionali, dove tutti si arricchiscono operando su diversi versanti. Per aggredire le organizzazioni criminali la Direzione Nazionale Antimafia ritiene che vadano seguiti contemporaneamente due percorsi: quello della prevenzione e tutela delle vittime e quello della repressione dei trafficanti. Ognuno da solo non è sufficiente. L’attività repressiva, se inefficace, si ripercuote negativamente anche sulla tutela della vittima. D’altra parte, però, la mancata identificazione, assistenza e protezione della vittima impediscono alla radice la repressione dei reati, che restano sommersi. Il fenomeno, nella sua gravità, è certamente all’attenzione della comunità internazionale: basti pensare alla Convenzione di Palermo, ai Protocolli annessi e ai molteplici documenti europei in materia. Tuttavia, per ottenere i risultati che gli strumenti internazionali si prefiggono, occorre una concreta, efficace collaborazione internazionale, che consenta di intervenire tempestivamente nei paesi di origine, di transito e di destinazione. E questa collaborazione internazionale è ancora lungi dall’essere sufficiente, sia per la mancanza in alcuni Stati di norme interne che consentano lo scambio continuo e spontaneo di atti e informazioni, sia per le risposte negative, o parziali, o con tempi di attesa troppo lunghi da parte di altri paesi. Bisogna comprendere che, trattandosi di reati transnazionali, senza uno sviluppo 1 Procuratore Nazionale Antimafia. 9 delle indagini nei paesi di provenienza, si colpirà sempre la bassa manovalanza del crimine senza arrivare ai capi e agli organizzatori del turpe mercato di essere umani. Molti paesi da cui partono i traffici, anche se hanno ratificato la Convenzione e i Protocolli di Palermo, non hanno ancora adeguato la loro legislazione, sia dal punto di vista sostanziale che processuale, e inoltre spesso, per la loro incapacità di concepire indagini su fenomeni associativi, fermano l’attenzione investigativa sul singolo episodio, perdendo il quadro di insieme, senza cercare nemmeno di individuare la provenienza e la destinazione della vittima. La normativa italiana è una realtà apprezzata a livello internazionale. La legge 11 agosto 2003, n. 228, sulla tratta e l’art. 18 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, sono punti di riferimento internazionale tanto nel campo repressivo quanto in quello umanitario. In particolare, l’articolo 18, anticipando i successivi testi normativi internazionali, pone al centro dell’attenzione i diritti umani delle vittime e contemporaneamente costituisce anche un efficace strumento investigativo, prevedendo speciali benefici ai trafficanti che, staccandosi dalla organizzazione, collaborino con la giustizia, e una particolare attenzione anche alle vittime, che volendo sottrarsi alla violenza, siano disponibili ad iniziare un percorso sociale e di partecipazione ad un programma di assistenza. In Italia abbiamo sviluppato numerosi processi in questa materia, siamo riusciti ad individuare molte organizzazioni criminali che gestiscono la tratta trasportando le vittime anche da paesi lontani, abbiamo stretto rapporti con le autorità giudiziarie di molti paesi e intendiamo allargare e approfondire ancora questi contatti, affinché anche i vertici delle organizzazioni criminali non si sentano mai sicuri. Anche a livello nazionale occorre un alto livello di collaborazione tra le Procure distrettuali antimafia e le Procure ordinarie, competenti le une per i reati di tratta di persone e le altre per i reati di traffico di migranti, realtà diverse dai confini non sempre nitidi. Esiste, pertanto, l’insopprimibile esigenza di un costante, effettivo e concreto collegamento investigativo fra le indagini riguardanti i reati relativi alla tratta di persone e quelli relativi all’immigrazione clandestina (costituendo, questa, un presupposto della tratta, cui, spesso, è finalizzata), da attuarsi mediante lo scambio di atti di indagine e di ogni altra utile informazione. Ciò nell’attesa, come più volte auspicato, di un coerente intervento di riforma legislativa, che, a mio avviso, impone, da un lato, l’estensione anche ai soggetti indagati per immigrazione clandestina, che tengano condotte di collaborazione, delle misure di protezione e di assistenza previste per i collaboratori di giustizia in tema di tratta degli esseri umani e a questi ultimi una consistente riduzione di pena, prevista, di contro, soltanto per i primi. 10 Così come la previsione di un delitto associativo finalizzato alla commissione dei delitti di immigrazione clandestina, previsti dall’art. 12 d.lgs. n. 286/98 e succ. modif., nonché l’inserimento di esso fra i delitti indicati nell’art. 51, comma 3 bis, c.p.p., attribuirebbe alle Direzioni distrettuali antimafia la competenza a svolgere in via esclusiva le indagini sui fenomeni di criminalità organizzata transnazionale e il coordinamento delle stesse al procuratore nazionale antimafia, con ciò dando la possibilità di un quadro investigativo d’insieme e la possibilità di utilizzare anche per l’immigrazione organizzata mezzi e tecniche d’indagine di alta specializzazione. Il lavoro da compiere è ancora lungo, sia sotto il profilo della cooperazione nazionale e internazionale, sia anche per quanto riguarda la comprensione dei fenomeni, che deve essere necessariamente multidisciplinare e integrata, aperta al confronto tra le diverse professionalità coinvolte. A questo proposito è determinante anche il contributo delle Ong con cui, nel rispetto dei ruoli, magistratura e forze dell’ordine devono collaborare soprattutto per quanto attiene alle fasi di identificazione, assistenza, protezione e reintegrazione sociale delle vittime. Occorre, quindi, operare insieme per rompere l’isolamento e creare un rapporto di reciproca fiducia tra vittima e istituzioni che, alla fine, consenta alla vittima di collaborare con la giustizia. I risultati non si ottengono per caso o solo per la sensibilità dei singoli. Per questo motivo le intese e i protocolli multi-agenzia, che rafforzano gli interventi e coordinano gli sforzi, sono realtà strategiche da approfondire, così come la formazione di tutti gli operatori aventi diverse competenze. In sostanza, la tratta di persone coinvolge conoscenze culturali, linguistiche, sociologiche che richiedono un approccio specifico. Occorre anche la consapevolezza che lo sfruttamento delle persone ridotte in schiavitù non è necessariamente sessuale, ma anche lavorativo o diretto all’accattonaggio. Nuove strategie di identificazione e tutela, di prevenzione e repressione possono garantire l’emersione delle vittime, magari prigioniere di un progetto migratorio fallito. Infatti, i migranti clandestini sono a loro volta il mezzo che media tra due bisogni: quello proprio di ognuno di essi di fuggire dal paese di provenienza, sperando di acquisire una situazione economica migliore nel paese d’arrivo e quello di tanti cittadini di questo secondo paese che hanno bisogno di manodopera e vogliono averla a prezzi vantaggiosi. Da questa situazione, che è insieme, almeno inizialmente, di speranza e di temporanea acquiescenza, nasce spesso l’utilizzo oppressivo, violento e lo sfruttamento della persona, anche minorenne, nell’attività lavorativa. Una caratteristica costante del lavoratore sfruttato illecitamente o ridotto in schiavitù è l’isolamento totale dalla realtà del paese in cui si trova imposta dallo sfruttatore: il lavoratore non conosce la lingua, ha un alloggio che gli è 11 fornito dallo sfruttatore, perde il possesso del passaporto, è costantemente impaurito dal rivolgersi alle autorità. Sotto tale profilo vi sono, anche nella legislazione italiana, situazioni di fatto, che spesso sfuggono all’osservazione e al controllo, in quanto non sufficientemente sanzionate sotto l’aspetto penale o addirittura non previste nelle fattispecie penalmente codificate. Oltre che sotto il profilo della repressione dei reati commessi dagli immigrati, anche in questa “zona grigia” del loro sfruttamento lavorativo si auspica un urgente intervento del legislatore. Bisogna che il nostro Paese mantenga una certa coerenza: non si può, da un lato, richiedere a gran voce che gli immigrati vengano respinti con tutti i mezzi possibili, anche ributtandoli a mare, perché fonti di ulteriore delinquenza e, dall’altro, impiegarli, con paghe da fame e in condizioni di vita molto vicine alla riduzione in schiavitù, nell’agricoltura o nelle fabbriche. Si tratta di trovare il giusto equilibrio tra l’espulsione di chi costituisce un pericolo per la comunità e la regolarizzazione di chi vuole rispondere all’offerta di un lavoro onesto. L’Onu indica in circa 200 milioni i minori utilizzati, nel mondo, per lavoro coatto: dai bambini soldato di alcuni paesi dell’Africa, alle bambine prostitute del sud est asiatico, ai bambini bulgari di etnia rom, venduti o dati in affitto per furti e accattonaggio o, per finire, a tutti gli altri usati per turpi pratiche, come il traffico di organi, o per violenze sessuali; questi ultimi stimati, sempre dall’Onu, in ben oltre un milione. Già queste cifre indicano l’estrema gravità del fenomeno, perché rischia di essere compromesso il futuro dell’umanità. Chi ruba ai bambini la gioia di una serena fanciullezza e le prospettive di un avvenire in piena libertà spegne “la luce del mondo”. In questo quadro così complesso questo libro di David Mancini si inserisce, con ottima e tempistica scelta editoriale, come una guida che prende il lettore per mano, conducendolo mirabilmente nella descrizione dei fenomeni migratori come parabola della storia di individui e di popoli alla perenne ricerca di un territorio ove coltivare la speranza di migliorare la propria condizione esistenziale, per, poi, passare in rassegna il sistema criminale integrato composto dalle organizzazioni criminali delle varie etnie (albanesi, cinesi, nigeriani, maghrebini, rumeni, cittadini dell’ex Unione Sovietica, etc.), che si dedicano al traffico di migranti e alla tratta di persone, moderna manifestazione della mai sopita riduzione in schiavitù del popolo dei vinti, dei poveri, degli oppressi, dei diseredati, delle vittime di una sempre maggiore radicalizzazione e globalizzazione dei problemi dell’umanità. L’autore, con chiarezza e competenza, si dedica a descrivere le fasi che caratterizzano le diverse attività criminali e le condotte che integrano le diverse ipotesi di reato, troppo spesso confuse nella percezione dell’opinione pubbli12 ca, tra le figure dei migranti clandestini e quelle delle vittime, che con minacce, coercizioni e inganni vengono sfruttate ben oltre il tempo necessario per il trasferimento nel nuovo paese. La lettura del libro si rivela utile e istruttiva per tutti gli operatori del settore, non esclusi magistrati e forze di polizia impegnati nel contrasto repressivo, i quali, attraverso gli indicatori di tratta potranno essere sensibilizzati agli approfondimenti investigativi per far emergere il fenomeno e per collocare i comportamenti affidati alla loro valutazione nella più corretta configurazione giuridica. David Mancini non manca di illustrare e di commentare, anche attraverso la citazione della giurisprudenza della Corte di Cassazione, le convenzioni internazionali, la produzione legislativa europea e quella nazionale, affrontando tutti i problemi interpretativi e applicativi e mettendo in luce le contraddizioni esistenti nella nostra normativa e tra questa e le prassi attuative sia sotto l’aspetto della repressione che della prevenzione. Infine, commenta ed esprime talune perplessità in merito al disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 12 ottobre 2006 ad iniziativa del Ministro della Giustizia, recante disposizioni in materia di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e modifiche al codice di procedura penale, tuttora fermo all’esame parlamentare e, de iure condendo, traccia le linee guida per un riesame della disciplina dell’immigrazione e delle norme sulla condizione dello straniero, auspicando una sinergia culturale che investa tutti i soggetti chiamati ad operare in tema di formazione e d’informazione, di responsabilità e di coinvolgimento anche degli enti locali nell’assistenza, di cooperazione nelle strategie di contrasto e di armonizzazione della collaborazione e della realtà giuridica internazionale. In conclusione, se sono attendibili le informazioni, secondo le quali circa due milioni di persone, in prevalenza di origine africana, ma anche di altre etnie, si ammassano in prossimità delle coste africane, pronte a spiccare il balzo verso l’Europa e un numero maggiore di migranti, con qualsiasi mezzo e affrontando qualsiasi rischio, si predispone ad attraversare i confini comunitari via terra, il problema ha assunto ormai una dimensione talmente vasta da richiedere interventi non solo dell’Europa, ma di tutta la comunità internazionale, non tanto sotto il profilo repressivo, quanto sotto il profilo di un miglioramento delle condizioni di sopravvivenza presso i paesi di origine di tali popolazioni. 13 14 Introduzione di Marco Bufo1 Complessità, diversificazioni, mutamenti continui, radicamento nelle nostre società sono le caratteristiche della tratta di persone, delle nuove schiavitù, dello sfruttamento dei migranti. Troppo poco si è riflettuto e ci si è interrogati sul rapporto strutturale tra i fenomeni di tratta e sfruttamento e le nostre società, su quanto essi siano funzionali al loro mantenimento e ad un assetto socioeconomico sempre più fondato sulla divaricazione tra abbienti e poveri, società che per la loro sussistenza non possono fare a meno del lavoro sommerso, sfruttato, negato. Tuttavia, progressivamente ci si è resi conto della gravità ed estensione di tali violazioni di fondamentali diritti umani e della molteplicità degli ambiti e delle forme di sfruttamento: il mercato del sesso, il mercato del lavoro, la mendicità, le attività illegali forzate, etc. Si è preso atto di come cadano nelle reti dello sfruttamento donne, minori di ambo i sessi, uomini, transgender, di diversa età ed estrazione sociale, provenienti da un numero crescente di paesi, trafficati attraverso diversi mezzi di reclutamento, trasferimento, controllo e assoggettamento ad opera di organizzazioni criminali che si differenziano per entità, composizione, metodi adottati, dimensione transnazionale del loro operato. Parallelamente è maturata la consapevolezza dell’esigenza di predisporre strumenti di tutela delle vittime e strategie di contrasto alla criminalità e di come questi due aspetti siano strettamente legati. In Italia l’art. 18 del d.lgs. 286/98 (innestato sullo stesso prolifico tessuto che l’ha originato, fatto di enti pionieristicamente impegnati in questo campo) ha inaugurato la strada della collaborazione multi-agenzia, del lavoro congiunto tra enti deputati alla tutela, forze dell’ordine, magistratura, dimostrando che porre al centro la protezione della vittima e il rispetto dei diritti si traduce in strategia vincente anche ai fini del contrasto alla criminalità. A tale strumento è venuta ad affiancarsi la legge n. 228/2003 “Misure contro la tratta di persone”, prevedendo pene molto severe, potenziando l’azione di contrasto, nonché quella di tutela istituendo con l’art. 13 uno speciale programma di as1 Marco Bufo è coordinatore generale dell’Associazione On the Road e membro del Comitato interministeriale di coordinamento delle azioni di Governo contro la tratta degli esseri umani. 15 sistenza a complemento del programma di assistenza e integrazione sociale dell’art. 18. Nonostante questo percorso evolutivo, persistono resistenze e difficoltà a riconoscere pienamente il fenomeno della tratta nella sua dimensione di violazione dei diritti delle persone. Ciò è dovuto non solo alla sua diversificazione e al carattere spesso sommerso dello sfruttamento, ma altresì alla circostanza che le vittime sono frequentemente in una condizione di irregolarità e agiscono comportamenti ai limiti o oltre i limiti della legalità e vengono pertanto spesso stigmatizzate e criminalizzate. Ulteriori difficoltà nascono dall’adozione da parte dei soggetti e delle organizzazioni criminali di metodi di reclutamento e controllo basati sempre meno sulla violenza fisica e più sul condizionamento e sulla concessione di margini di libertà di movimento e di partecipazione ai guadagni, che portano le persone trafficate a non percepirsi come vittime. Da sottolineare, infine, la perdurante difficoltà a cogliere le distinzioni e le dinamiche di correlazione tra traffico di migranti e tratta di persone: da una parte, il secondo fenomeno viene confuso con il primo, dall’altra si tende a trascurare il fatto che un percorso iniziato come migrazione irregolare può trasformarsi in sfruttamento e riduzione in schiavitù una volta che la persona è giunta nel paese di destinazione e la condizione di vulnerabilità la porta a cadere in circuiti di assoggettamento. Tutto ciò può limitare e in taluni casi impedire il pieno e corretto utilizzo degli strumenti che pure la legislazione ormai offre agli attori chiamati ad identificare i casi di tratta, tutelare le vittime e perseguire i criminali. Occorre allora una piena attivazione dei soggetti tradizionalmente impegnati in tali azioni e di quelli che, alla luce dell’ampliarsi del fenomeno in nuovi ambiti di sfruttamento, dovrebbero entrare in campo (es. sindacati e associazioni di categoria, ispettorati del lavoro, Guardia di Finanza). Occorre che la tratta (il fenomeno, gli indicatori di tratta, le modalità e gli strumenti di tutela delle vittime) entrino nei curricula formativi di Magistratura, Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza, degli assistenti sociali, di sindacalisti ed ispettori del lavoro, degli operatori sanitari. Ma è altresì necessario che questi soggetti sviluppino percorsi formativi congiunti, tali da definire procedure di lavoro condivise, nel rispetto dei ruoli di ciascuno e tra i diversi livelli di responsabilità ed operatività. Un significativo risultato in tale direzione può essere rappresentato da veri e propri protocolli, come quello sull’identificazione delle vittime di tratta descritto nel libro, tra la Procura di Teramo, le forze dell’ordine e l’Associazione On the Road. Una tale formalizzazione rappresenta un vantaggio, poiché fornisce indicazioni chiare, verificabili (e quindi modificabili), trasferibili, e inoltre evita (o riduce) il rischio che una buona prassi venga meno col trasferirsi delle persone che l’hanno promossa. È tempo però anche che le esperienze maturate sui territori vengano valo16 rizzate e che dal livello centrale vengano fornite informazioni e indirizzi alle singole agenzie anche sulla necessità e sui modi della collaborazione multiagenzia, in maniera che vi siano indicazioni omogenee diffuse capillarmente sul territorio del paese, pur lasciando il necessario spazio alle peculiarità dei contesti locali: l’obiettivo non dovrebbe essere l’omologazione ma una comune linea di condotta che definisca un Sistema di Referral Nazionale per le vittime di tratta, promosso dalla Commissione e dal Comitato interministeriali. L’Associazione On the Road è lieta di ospitare nella propria collana questo libro di David Mancini, con cui da tempo è attiva una proficua collaborazione sul piano operativo e sul piano della riflessione e dell’analisi, dell’elaborazione di procedure di lavoro e di raccordo, della formazione. Un libro che siamo convinti possa contribuire a raccogliere le nuove sfide che si pongono, in termini di conoscenza, di pieno utilizzo e applicazione degli strumenti normativi e sociali a disposizione, di definizione dei margini di miglioramento della legislazione, di sviluppo dell’approccio multi-agenzia, della creazione di linguaggi e procedure condivise, di coinvolgimento di nuovi attori, di cambiamento culturale. 17 18 PARTE I Migrazioni e degenerazioni 20 1. Fenomeni migratori e moderne schiavitù 1.1 Le migrazioni: corsi e ricorsi della storia Se si vuole correttamente considerare il contesto globale all’interno del quale si sviluppano e si riproducono il traffico di migranti e la tratta di persone, è necessario partire dall’oggettiva interpretazione del reale, al di fuori, dunque, da fobie di razza, di religioni, di nazionalismi, lontano dal pregiudizio per le diversità. Solo in questa ottica neutrale è possibile l’approfondimento teso ad un’analisi lucida dei fenomeni migratori sotto molteplici punti di vista. E allora è indispensabile riflettere sul fatto che la storia dell’umanità è principalmente storia di migrazioni, di individui e di popoli in perenne ricerca di un territorio dove stabilirsi e dove insediare la propria speranza di vita per il futuro. In particolare, la storia dell’Europa è stata caratterizzata in ogni sua fase da enormi ondate migratorie. Anche dopo la fine del periodo delle grandi migrazioni che seguì al crollo dell’impero romano, la mappa etnica dell’Europa continuò a ricevere profonde trasformazioni in seguito alle molteplici conquiste periodiche da parte dei popoli più disparati e in seguito ai conseguenti spostamenti migratori delle popolazioni1. Questo ricorrente aumento dei flussi migratori che si verifica in taluni periodi storici e che può essere inteso come una temibile invasione oppure come una opportunità storica positiva, a seconda dell’angolo visuale che si adotta, è la conseguenza di un continuo esodo di popolazioni che, in determinate epoche, si manifesta con maggiore intensità. Nei tempi moderni, e in particolare nel secolo scorso, fino ad un certo momento i flussi migratori sono stati repressi da regimi autoritari oppure da oggettive difficoltà di movimento. Ad oggi, invece, sia per la caduta di quei regimi totalitari (come nel caso dei popoli dell’Europa dell’Est), sia per le più agevoli possibilità di spostamento, anche dovute ai repentini progressi tecnologici, i flussi migratori hanno conosciuto una notevole crescita esponenziale. All’inizio del scorso secolo, le migrazioni seguivano la direzione dall’Europa alle Americhe; poi, verso la metà dello stesso secolo, la migrazione dall’Europa si spinse anche in Africa e in Australia. Da circa venti anni, l’Europa è destinataria di notevoli ondate migratorie provenienti dall’Est europeo, dall’Asia e dall’Africa, ma anche 1 S. Collinson, Le migrazioni internazionali e l’Europa, Il Mulino, Bologna, 1994; K.J. Bade, L'Europa in movimento. Le migrazioni dal Settecento a oggi, Laterza, Bari, 2000. 21 l’America settentrionale è obiettivo dei migranti africani e asiatici, oltre che di quelli latinoamericani. Nel continente europeo, questo enorme flusso migratorio ha indotto gli Stati ad elaborare specifiche politiche e strategie di approccio ad un fenomeno che li ha colti di sorpresa, quanto meno per le sue enormi dimensioni. La gestione dei flussi migratori, che sono conseguenza della profonda trasformazione globale e culturale che investe le società occidentali, non è solo finalizzata a governare le dinamiche del fenomeno, ma principalmente è diretta ad individuare e comprendere le cause stesse del problema, senza di cui anche la gestione rischia di rivelarsi disorganica. È ragionevole ritenere che l’esodo talvolta drammatico degli immigrati poggi le sue radici più profonde nello squilibrio tra due sistemi contrapposti: la ricchezza dei paesi occidentali e l’estrema povertà dei paesi in via di sviluppo. L’immigrazione è stata interpretata anche come il paradosso di un capitalismo postmoderno che genera nuovi poveri ma che, al contempo, ne ha bisogno per garantire il funzionamento del sistema economico dei paesi ricchi. Infatti, i flussi migratori sono determinati da alcune cause di natura economica, spesso interdipendenti: lo stato di povertà o di insicurezza, dovuto a perduranti guerre, in cui vivono gli immigrati nel loro paese d’origine; il calo demografico che si registra nei paesi ricchi; il bisogno di manodopera straniera a basso costo per svolgere alcuni lavori – e a salari nettamente più bassi – che i lavoratori e le lavoratrici locali non sono più disponibili a fare. Il governo dei fenomeni sociali richiede analisi realistiche e opzioni politiche lungimiranti. Non sfugge alla regola l’immigrazione che va affrontata in termini oggettivi e che deve essere gestita considerando le profonde trasformazioni globali che caratterizzano il mondo contemporaneo. Le migrazioni conoscono ovunque un incremento quantitativo e rilevanti novità qualitative. Le tradizionali classificazioni (migrazioni economiche e politiche, volontarie e involontarie, etc.) rivelano una crescente inadeguatezza. Allo stesso modo, diventa ogni giorno più esile la distinzione tra immigrazione tout court, rifugio umanitario e asilo politico, emergenze tutte rappresentate nei flussi eterogenei di disperati che sfidano il mare su gommoni o “carrette” per raggiungere le coste siciliane (oggi) piuttosto che quelle calabresi o pugliesi (negli anni passati) oppure che arrivano in Italia oltrepassando i confini terrestri orientali. Il tema si complica ulteriormente se si considerano i tanti migranti che arrivano nei paesi di destinazione utilizzando i normali mezzi di trasporto internazionale varcando i confini muniti di visti più o meno regolari per poi eclissarsi nella clandestinità. Proprio la vicenda relativa all’asilo politico è emblematica, poiché si tratta di un istituto che, nel corso della storia, si è trasforma22 to da privilegio di tipo ecclesiastico a prerogativa del sovrano assoluto e, poi, a diritto del perseguitato politico, per divenire, infine, un fatto generalizzato2. A seguito delle trasformazioni avvenute tra le due guerre mondiali, è emersa sulla scena internazionale anche la figura del rifugiato, da intendersi, in base alle convenzioni internazionali, come la persona che fugge dal suo paese con il fondato motivo di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, fede politica o appartenenza ad un gruppo sociale. La ratio dell’asilo politico e del rifugio umanitario mantiene tutta la sua validità anche oggi. Tuttavia, al contempo, le esigenze di contrasto del terrorismo internazionale e delle forme di criminalità transnazionale hanno accelerato la crisi dell’istituto dell’asilo individuale, mentre le fughe di massa dalle guerre, le persecuzioni etniche e religiose, le carestie o le condizioni di sottosviluppo estreme hanno reso l’emigrazione per libera scelta dell’individuo minoritaria. Ai fenomeni strutturali si affiancano poi quelli indotti dai sistemi legislativi. È un dato di fatto che le politiche di freno all’immigrazione spesso hanno avuto come effetto automatico l’aumento a dismisura delle richieste di rifugio o comunque, a fronte delle dimensioni globali dei fenomeni migratori, singole politiche restrittive di Stati nazionali non raccordate in un orientamento univoco della comunità internazionale non soltanto non hanno raggiunto e non raggiungono gli scopi prefissati, ma determinano (o rischiano di determinare) un aumento del livello di clandestinità e di sfruttamento dei migranti. 1.1.1 Globalizzazione e migrazioni Se le migrazioni rappresentano un ricorso storico3, quelle dei nostri anni sono caratterizzate dall’età in cui avvengono, vale a dire l’età della globalizzazione. In questo senso può apparire una banalità, ma in effetti è una fotografia impeccabile della realtà l’osservazione secondo cui “se le opportunità globali non si muovono verso la gente, allora sarà inevitabilmente la gente a muoversi verso le opportunità globali.4” Oltre alle altre motivazioni sinteticamente accennate in precedenza, le migrazioni dell’età della globalizzazione trovano fondamento nella sperequazione delle risorse e delle aspettative di vita tra due blocchi mondiali. I mezzi di comunicazione di massa, oltre alla faci2 L. Pepino, “Immigrazione, politica, diritto (note a margine della l. 40/1998)”, in Questione Giustizia, 1999, n. 1. Gli sforzi di pervenire ad una disciplina attuale della materia non hanno ancora avuto esito visto che, ad oggi, molti progetti giacciono in Parlamento, come nel caso del d.d.l. n. 1238, presentato l’11 maggio 2004, ad iniziativa dell’on. Pisapia ed altri, all’esame della Camera dei Deputati. 3 G. Gozzini, Le migrazioni di ieri e di oggi. Una storia comparata, Mondadori, Milano, 2005. 4 United Nations Development Program, Lo sviluppo umano. Vol. III: Come ridurre le disuguaglianze mondiali, Rosenberg & Sellier, Torino, 1993, p. 65. 23 litazione delle comunicazioni interpersonali, hanno diffuso tra miliardi di persone una quantità immensa di informazioni sulle condizioni di vita e di lavoro esistenti nel mondo. Alla fine del secondo millennio i popoli del Sud (e dell’Est) della terra hanno appreso che al Nord (e all’Ovest) di essa le condizioni e le aspettative di vita sono notevolmente migliori. Di conseguenza, “il mondo-mercato è divenuto un enorme insieme di gruppi di riferimento”5, da cui scaturisce il desiderio dei popoli svantaggiati, conosciute le condizioni di miglior trattamento dei popoli ricchi, di ricevere un pari trattamento o di godere di analoghe condizioni di vita. Dunque, la globalizzazione dei “gruppi di riferimento” ha attivato enormi flussi migratori, dapprima in direzione sud-nord e subito dopo in direzione est-ovest, fino a confondere ormai le direttrici di spostamento (si pensi all’ingente provenienza in Italia, soprattutto via Spagna, di immigrati irregolari dall’America Latina). Tuttavia, se da un lato si registra la disponibilità degli immigrati a svolgere lavori non più ambiti dai lavoratori locali, a vantaggio dell’economia dei paesi di destinazione, dall’altro tale disponibilità può innescare seri conflitti tra lavoratori stranieri e lavoratori autoctoni dovuti alla concorrenza determinata dall’alto livello di disoccupazione esistente nei paesi ricchi risultante da una serie di (con)cause (tra cui, ad esempio, l’automazione delle produzioni). Ciò è fonte di tensioni, che aumentano esponenzialmente soprattutto quando gli stessi paesi di destinazione si trovano ad affrontare periodi di recessione o, comunque, di scarsa crescita produttiva, allorché i lavoratori immigrati vengono preferiti ai locali, in ragione della loro economicità che, molto spesso, fa pendant con la loro debolezza contrattuale. Ed è proprio in queste tensioni (ma non solo) che germogliano le convinzioni, diffuse tanto quanto errate, che accostano al fenomeno migratorio un sicuro aumento della criminalità o che associano alla figura dell’immigrato quella del soggetto disponibile o incline al reato6. Evidentemente una migliore riflessione giuridica e pratica sui fenomeni migratori, presupposto dell’esame delle forme criminali di sfruttamento dei migranti, richiederebbe anche una premessa sintetica che attinga ad approfondimenti di natura sociologica. Una conoscenza più ampia delle problematiche concernenti i diritti degli stranieri e il loro rapporto con gli Stati nazionali richiederebbe, altresì, uno studio di tipo filosofico e teorico-politico certamente impossibile in questo contesto. Infatti, la qualità di migrante (e di straniero) è collegata alla sua non appartenenza politica ad una determinata comunità di 5 L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Bari, 2000, p. 45. S. Palidda, “Polizia e immigrati: un’analisi etnografica”, in Rassegna Italiana di Sociologia, 1, 1999, pp. 77-114. 6 24 transito o di destinazione. Questa appartenenza scaturisce soltanto da specifiche procedure dei meccanismi di entrata, accesso, inclusione all’interno degli Stati di destinazione. La principale forma di appartenenza è storicamente quella della cittadinanza. Tuttavia, nell’epoca globale in cui viviamo, tanto vorticosa da mettere in discussione anche il concetto stesso di sovranità nazionale, se non altro nella sua accezione più tradizionale, sono emerse nuove modalità di appartenenza, con il risultato che i confini della comunità politica, per come erano originariamente definiti negli Stati nazione, possono non essere più in grado di dare forma univoca all’appartenenza. In quest’ottica, le imponenti migrazioni transnazionali costituiscono un elemento di forte tensione e di contraddizione tra le dichiarazioni dei diritti umani e la pretesa degli Stati di controllare i propri confini e monitorare i flussi di persone che accedono al loro territorio. Pertanto, l’approccio corretto allo studio dei fenomeni migratori non può prescindere dalla constatazione della crisi del principio di territorialità, quale unico criterio di individuazione dell’appartenenza politica di una persona ad una comunità e dalla consapevolezza della necessità di costruire una nuova giustizia globale, secondo un’impostazione di origine kantiana, una giustizia cosmopolitica7, in cui le giuste rivendicazioni degli Stati non possano mai incidere negativamente sul “diritto ad avere diritti” da parte di ciascun essere umano e, quindi, non possano mai pregiudicare o disconoscere i diritti fondamentali del migrante e dello straniero in genere. Orbene, se queste conoscenze sovrastrutturali possono anche sfuggire a coloro che contrastano le manifestazioni criminali di sfruttamento dei fenomeni migratori o, comunque, di approfittamento della condizione di debolezza di persone non appartenenti a comunità riconosciute, incluse e tutelate dallo Stato, esse non possono essere ignorate da quel legislatore che quelle manifestazioni criminali voglia dominare e contrastare. Nel contesto globale l’analisi è resa ancora più complessa dal fatto che non è realistico suddividere con semplicità il mondo in paesi ricchi e paesi poveri, in paesi di destinazione e paesi di origine. Si consideri, infatti, che molti paesi di destinazione sono al contempo paesi di transito verso ulteriori destinazioni, così come molti paesi di origine possono essere anche paesi di transito e/o destinazione (come accade ad esempio per alcuni paesi asiatici o per certi paesi europei solo di recente entrati a far parte dell’Unione europea). 7 Per una disamina accurata si veda S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, Raffaello Cortina, Milano, 2006. L’autrice muove dalle premesse kantiane dell’universalismo morale e del federalismo cosmopolitico per tentare di tracciare una linea di armonizzazione tra le prerogative degli Stati nazionali e i diritti umani di migranti, rifugiati, richiedenti asilo. 25 1.1.2 Il legislatore italiano nella logica dell’emergenza Le complesse problematiche afferenti alle migrazioni sono sempre state affrontate dal legislatore nazionale, almeno fino agli ultimissimi anni, in una logica prettamente di ordine pubblico, connessa alle disfunzioni socioeconomiche derivanti dall’immigrazione massiccia e incontrollata. Poca attenzione è stata posta al turpe mercato internazionale di esseri umani, come se fosse possibile tracciare una demarcazione impermeabile tra il governo degli imponenti flussi migratori e il fenomeno criminale transnazionale, che proprio da tali flussi trae linfa vitale. Gli interventi che si sono succeduti nel corso degli anni si sono caratterizzati per l’inesistenza di una visione complessiva, integrata del fenomeno migratorio. Com’è costume di tanta della nostra tradizione normativa recente, anche nei fenomeni migratori (così come per altri temi di particolare preoccupazione per la sicurezza pubblica, come il terrorismo o la criminalità organizzata) è stata protagonista la logica dell’emergenza. Bisogna attendere la legge 30 dicembre 1986, n. 943, per una prima, insufficiente, regolamentazione normativa del fenomeno. Questa legge, a prescindere dalla sua incapacità nell’affrontare il problema dell’immigrazione nel suo complesso, si limita – come si rileva dalla stessa intestazione “norme in materia di collocamento e trattamento dei lavoratori extracomunitari e contro le immigrazioni clandestine” – a dettare disposizioni sul trattamento dei lavoratori subordinati extracomunitari, attraverso lo strumento della sanatoria (divenuto prassi fino ad oggi). Infatti, in questo primo intervento normativo, il legislatore regolarizza i lavoratori clandestini già presenti sul territorio italiano, con una previsione che si traduce in un totale fallimento, poiché la normativa in oggetto è una legge positiva per i pochi che hanno trovato un datore di lavoro disposto a formalizzare la loro posizione e una legge sostanzialmente peggiorativa per molti, ovvero per coloro che hanno fatto ingresso nel paese dopo la sua entrata in vigore o, comunque, in tempo non più utile per procedere alla regolarizzazione. Soltanto con la successiva legge n. 39/1990, meglio nota come “legge Martelli”, l’immigrazione, prima considerata una mera questione economica, assume una chiara valenza politica. Sebbene contenga misure di indubbio favor per gli immigrati8, essa è, al pari della precedente, una legge di chiusura. Non a caso introduce il famigerato sistema delle “quote” di ingresso, con le quali si tenta di contingentare l’afflusso incontrollato di manodopera straniera in Ita8 Le misure favorevoli agli immigrati previste da tale normativa sono: abolizione della riserva geografica (fino a questo momento l’asilo era concesso soltanto ai profughi provenienti dai paesi dell’Est europeo), abrogazione del T.U. delle leggi di pubblica sicurezza nella parte relativa alla condizione dello straniero; avviamento incondizionato al lavoro tramite il collocamento; possibilità di stipulare qualsiasi tipo di contratto di lavoro; esplicito riferimento ai lavoratori autonomi. 26 lia. La legge Martelli è ispirata nuovamente ad una logica dell’emergenza che prevede nuovamente lo strumento della sanatoria, caratterizzata da insuperabili difficoltà sul piano applicativo a causa dell’estrema genericità delle sue disposizioni e dell’impreparazione del personale deputato a darvi attuazione. Il terzo intervento normativo si è avuto con la legge n. 40/1998, la cd. “legge Turco-Napolitano”, la quale rafforza il sistema delle quote introdotto dalla legge Martelli, riduce notevolmente l’ambito applicativo della condizione di reciprocità di cui all’art. 16 delle disposizioni sulla legge in generale, preliminari al codice civile e, soprattutto, ammette ufficialmente l’utilità dei lavoratori immigrati per rispondere alla domanda di forza lavoro delle imprese italiane. Anche questa legge si caratterizza per una visione emergenziale dei problemi dell’immigrazione, correlata alla tendenza a considerare lo straniero come un problema di ordine pubblico, con la previsione di un impegno delle istituzioni a perseguire una politica dell’immigrazione, indirizzata verso l’individuazione delle condizioni per l’ammissione e il soggiorno degli stranieri extracomunitari, piuttosto che una politica per gli immigrati, volta all’erogazione effettiva di servizi sociali e alla concreta integrazione nella società civile. Inoltre, anche questa legge si fonda velatamente sul presupposto del convincimento che l’immigrazione sia imputabile, in via prevalente, alla domanda di lavoro proveniente dai paesi più ricchi, rimasta inevasa dai lavoratori nazionali o comunitari. In tal modo, aderisce alle ricostruzioni inclini a spiegare il fenomeno migratorio mediante il ricorso a fattori macro-sociali, quali le deteriori condizioni economiche, il boom demografico nei paesi in via di sviluppo, la reiterata violazione dei diritti umani, le guerre, i legami tra aree diverse del pianeta generati dal processo di globalizzazione. Vi è chi sostiene, con spirito critico verso questo approccio, che le migrazioni possono spiegarsi anche con riguardo ai micro-fattori9 sociali, quali le scelte individuali e familiari. Tuttavia, a parere di chi scrive, questi micro-fattori, pur esistenti, hanno un peso limitato nell’economia complessiva dei fenomeni migratori, poiché comunque consistono in scelte di vita dei singoli condizionate da parametri più generali che, alla fine, risultano determinanti. Il quarto consistente intervento normativo si ha con la legge 189/2002, cd. “legge Bossi-Fini”. Questa legge non si caratterizza per particolare efficienza. Ad esempio, uno dei tratti di asserita maggiore originalità è costituito dall’introduzione del cd. “contratto di soggiorno per lavoro subordinato”, la cui stipula tra datore e prestatore di lavoro costituisce il presupposto indefettibile per il rilascio (o per il rinnovo) del permesso di soggiorno 9 M. Ambrosini, La fatica ad integrarsi, Il Mulino, Bologna, 2001. L’autore contesta le spiegazioni dei fenomeni migratori svolte sul piano strettamente macro-sociale, affidando, invece, ampio risalto alle scelte di vita dei singoli. 27 Ebbene tale istituto presenta scarsi profili di originalità. Nel ribadire lo stretto legame tra condizioni di ammissione e di soggiorno dello straniero e svolgimento della prestazione lavorativa, esso prosegue idealmente nel solco già tracciato dai precedenti interventi normativi: se la stipula del contratto di soggiorno è presupposto per il rilascio/rinnovo del permesso e se l’ingresso annuo di extracomunitari in Italia per motivi di lavoro è subordinato alla disponibilità delle quote, periodicamente determinate dai decreti sui flussi, allora il nuovo legislatore continua a rapportare – alla stregua dei suoi predecessori – la presenza di immigrati solo al fabbisogno delle imprese e delle famiglie italiane, addebitando cioè il fenomeno in via esclusiva alla domanda di lavoro interna, dimostrando, anch’egli, scarsa capacità di comprendere il fenomeno dell’immigrazione nella sua complessità. Peraltro, siccome il lavoratore deve risiedere all’estero al momento della chiamata da parte del datore di lavoro, la legge 189/2002 finisce con il favorire, piuttosto che contrastare, la clandestinità, giacché è improbabile che un lavoratore che abbia trovato un datore disposto a regolarizzarlo faccia ritorno nel suo paese e si sobbarchi l’intera trafila prevista dalla legge ai fini del rilascio del nulla-osta, con il rischio di uscire “fuori quota”, poiché questo rischio è insito nella complessa procedura prevista dall’art. 22 di tale legge. Oltre alla riproduzione di una visione emergenziale, ancora meno attenta ai bisogni di integrazione sociale, nonché alla previsione di istituti inefficaci, la legge 189/2002 si caratterizza per una forte spinta volta a sottoporre a sanzione penale gli immigrati irregolari che, in caso di espulsione, permangano sul territorio nazionale (in caso di ordine a lasciarlo entro un dato termine) o vi facciano rientro senza autorizzazione. Questa impostazione, al di là della valutazione circa la scelta di valore effettuata dal legislatore, potrebbe essere in contrasto con la necessità di comprendere e contrastare i fenomeni migratori, soprattutto se illegali. La scelta sanzionatoria, infatti, potrebbe indebolire ulteriormente i migranti, aumentandone la propensione alla clandestinità al fine di non incappare nelle sanzioni. Se questo è un legittimo dubbio con riferimento ai migranti in generale, diviene una certezza con riferimento alle vittime di traffico di migranti o di tratta di persone, poiché in tal caso la vittima di reati gravissimi potrebbe trovarsi (come spesso capita) anche nella duplice veste di colpevole dei reati connessi all’immigrazione illegale, essendo indotta a non emergere dagli scenari sommersi, evitando di collaborare con le istituzioni, proprio per il timore di conseguenze negative. Questa scelta sanzionatoria contrasta nettamente con l’art. 5 del Protocollo Addizionale per combattere il traffico di migranti, via mare, via terra e via aria, allegato alla Convenzione Onu di Palermo contro la criminalità organizzata transnazionale, firmata nel dicembre 2000 ed è altresì in contrasto con l’intero spirito della Convenzione Onu sulla protezione dei lavoratori migran28 ti, adottata il 18 dicembre 1990 ed entrata in vigore nel 2003, ma ratificata dall’Italia soltanto nel 2006. Dunque, resta tuttora presente nella legislazione italiana un approccio comune a tanti altri paesi che tende a confondere il tema del contrasto all’immigrazione clandestina con le azioni di contrasto alle reti criminali che sfruttano la necessità di migrare di tanti stranieri anche se, come si vedrà in seguito, la nostra esperienza normativa si caratterizza per la presenza di strumenti di protezione sociale e tutela umanitaria di particolare pregio. In data 24 aprile 2007, il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge che delega al governo l’ulteriore riesame della disciplina dell’immigrazione e delle norme sulla condizione dello straniero. L’auspicio è che possa essere affrontata una materia così rilevante e complessa con il giusto approccio scientifico, anche se finora il dibattito parlamentare non risulta ancora avviato. 1.2 La schiavitù moderna Nel contesto globale a cui si è appena accennato, caratterizzato dalla compresenza di fenomeni ed esigenze complesse che vanno dalla tutela dei fondamentali diritti umani dei migranti alla tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico degli Stati di destinazione, si collocano le nuove forme di schiavitù. Esse riproducono, a distanza di millenni, l’equazione aristotelica tra “asservito” e “barbaro”, a sottolineare lo sfruttamento schiavistico degli stranieri da parte delle società antiche, con la differenza di fondo che un tempo la schiavitù, con tutte le possibili differenze strutturali e storiche, costituiva un pilastro per la vita economica e sociale, mentre oggi essa è strumento di profitto di pericolose organizzazioni criminali transnazionali. Dunque, il fenomeno della tratta di persone è a tutti gli effetti una forma di schiavitù moderna10. Rispetto alla schiavitù antica, la nuova schiavitù presenta caratteristiche radicalmente differenti. In primo luogo, la schiavitù oggi è illegale, mentre un tempo era lecita e tollerata; inoltre, è palese l’attuale dissenso della popolazione rispetto al verificarsi del fenomeno, un tempo invece ritenuto una parte costitutiva primaria dello sviluppo di una società. Un dato comune alle diverse forme e concezioni antiche e moderne di schiavitù, tuttavia, è l’essenziale carattere economico. Oggi il commercio della “merce persona” ai fini di sfruttamento costituisce un mercato illegale che rende alle organizza10 E. Ciconte, P. Romani, Le nuove schiavitù, Editori Riuniti, Roma, 2002; P. Arlacchi, Schiavi. Il nuovo traffico di esseri umani, Rizzoli, Milano, 1999; K. Bales, I nuovi schiavi. La merce umana nell’economia globale, Feltrinelli, Milano, 2002. 29 zioni criminali diversi miliardi di dollari l’anno, un profitto inferiore soltanto a quello generato dal traffico di stupefacenti e di armi11. A differenza della schiavitù antica, che si basava quasi esclusivamente sulle esigenze di lavoro servile, su cui si fondava una parte consistente dell’economia, la schiavitù moderna nasce e si sviluppa grazie all’esistenza di una domanda e di un’offerta praticamente inesauribili: da un parte, infatti, la merce persona è una risorsa di cui non mancherà la disponibilità, dall’altra le spinte legate alle migliori aspettative di vita dei migranti, che costituiscono il volano di questo mercato, possiedono una forza e un potere che difficilmente diminuiranno nel tempo, anzi, esistono indicatori che lasciano ritenere il contrario. Se il principale obiettivo, infatti, è quello dell’appagamento economico dei trafficanti, vi sono anche ulteriori fattori che alimentano il commercio di esseri umani, tra cui, ad esempio, si annovera la domanda di prestazioni sessuali, lo sfruttamento del lavoro nero ovvero di manodopera più disponibile ad accettare condizioni di lavoro precarie, impieghi mal retribuiti e scarsamente tutelanti sul piano dei diritti dei lavoratori. Le zone di reclutamento dei nuovi schiavi sono costituite dai paesi poveri, soprattutto quelli che hanno subito un crollo rapido e inatteso delle condizioni di vita, in seguito ad un mutamento di regime o all’incertezza politica ed economica, conseguente a profonde trasformazioni politiche e sociali o al coinvolgimento in una guerra. Questa visione dei fenomeni fa emergere l’altra faccia dell’immigrazione, vale a dire quella che si identifica non già nell’equazione immigrato clandestino=criminale12, ma nella più fondata assimilazione tra immigrato e vittima di gravissimi reati. Da questo punto di vista, sarebbe più opportuno di parlare di traffico o di tratta di merce umana, intendendo proprio la persona come entità svuotata della propria personalità e della propria sfera di diritti13. Per il trafficante, ciò che differenzia la persona oggetto di tratta dalle altre merci oggetto di traffici illeciti (es. armi, droga, sigarette) è che è dotata di volontà e di parola e, quindi, deve essere controllata attraverso la violenza, l’inganno, il ricatto. Il corpo umano viene sfruttato con intensità ancora maggiore rispetto al periodo della schiavitù antica. Oltre che a fini sessuali, talvolta il corpo umano è usato per finalità ancora più aberranti, come nel caso in cui parti del corpo siano prelevate, senza il permesso della 11 Cfr. Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, XIV legislatura, approvata il 30 luglio 2003. Si veda anche XIII legislatura, Relazione sul traffico degli esseri umani, Relatore sen. T. De Zulueta, doc. XXIII, n. 49 del 5 dicembre 2000. 12 S. Palidda, op. cit. 13 Uno strumento fondamentale per comprendere ed affrontare il fenomeno della tratta nell’ottica del rispetto e della tutela dei diritti umani è fornito dall’Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite (Unhcr) nei Recommended principles and guidelines on human rights and human trafficking, New York e Ginevra, 2002. 30 persona interessata, oppure con un consenso estorto, o con il ricorso a metodi violenti, per essere utilizzate e impiegate nel commercio di organi. In realtà, però, le forme di sfruttamento sono molteplici e possono anche assumere espressioni che se da un lato sono meno “violente”, dall’altro possono essere ancora più infide perché meno clamorose e rilevabili (si pensi allo sfruttamento nel lavoro domestico). Dunque, se il commercio di esseri umani è una forma di turpe mercato che richiama vecchie pratiche della storia, per le loro peculiarità il traffico di migranti e la tratta di persone (secondo l’accezione mutuata dalla Convenzione internazionale delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, nonché dai Protocolli Addizionali contro la tratta di persone e contro il traffico di migranti)14 costituiscono fenomeni nuovi, con caratteristiche ancora, in parte, non del tutto riconosciute e riconoscibili, in costante progressione e che hanno raggiunto dimensioni preoccupanti. Non esistono ancora, nonostante la grande attenzione che negli ultimi anni il fenomeno ha suscitato, metodiche che riescano a individuare con precisione i dati internazionali e nazionali riguardanti il traffico di migranti e la tratta di persone per quanto concerne la dimensione numerica del fenomeno con riferimento alle vittime migranti. Per quanto riguarda le modalità utilizzate dalle organizzazioni criminali nella prassi, i qualificati studi esistenti che esaminano le modalità di reclutamento e di assoggettamento delle vittime divengono rapidamente obsoleti in virtù della velocità con cui le organizzazioni cambiano metodi e collegamenti. Dunque, le difficoltà sono dovute alla principale caratteristica di questi fenomeni criminali (come, d’altronde, degli stessi fenomeni migratori) ovvero alla loro continua mutevolezza e al loro adattamento camaleontico alle condizioni materiali e normative: in tempi rapidi cambiano i soggetti, i flussi, i mezzi, le destinazioni, le modalità di reclutamento e di erogazione del servizio di trasporto. Al mutare delle legislazioni preventive e repressive degli Stati nei quali nascono o si manifestano queste forme criminali o al mutare delle azioni transnazionali di contrasto, il mercato degli esseri umani si adatta con una flessibilità sorprendente. Per questo motivo sono essenziali, ai fini di una funzionale repressione del fenomeno, una ricerca e un’attenzione continue alla sua evoluzione e, soprattutto, l’utilizzo di strumenti normativi capaci, da una parte, di affrontare specificatamente il traffico di migranti e la tratta di persone nonostante i loro repentini cambiamenti e, dall’altra, di essere utilizzati in tutti i territori in cui operano le organizzazioni criminali. I Protocolli Addizionali 14 G. Michelini, “Protocolli delle Nazioni Unite contro la tratta di persone e contro il traffico di migranti: breve guida ragionata (I)”, in Diritto Immigrazione e Cittadinanza, 1, 2002. Si veda infra per un richiamo della legge di ratifica approvata dal Parlamento il 15 febbraio 2006. 31 delle Nazioni Unite15, allegati alla Convenzione di Palermo del 2000, sembrano possedere queste caratteristiche sia rispetto al traffico di migranti che alla tratta di persone, in quanto si basano su una definizione delle fattispecie di tali fenomeni precisa e nello stesso tempo ampia (e quindi flessibile). Affinché tali strumenti normativi possano essere efficaci, è necessario che le definizioni contenute nei Protocolli siano universalmente riconosciute; solo così si avrebbero dei vantaggi sia a fini conoscitivi dei fenomeni in oggetto sia per la pianificazione di coordinate e integrate azioni di contrasto delle attività criminali ad essi collegate. 1.3 I fenomeni migratori: occasione di profitto della criminalità organizzata Per varie ragioni, anch’esse note, i paesi di destinazione dei flussi migratori hanno attuato politiche di contenimento dei flussi degli immigrati. In molti Stati è cresciuta ed è via via diventata particolarmente radicata la convinzione che l’immigrato sia una minaccia alla sicurezza interna (fenomeno esploso in tutti i paesi europei inducendo effetti di generalizzata insicurezza e allarme sociale) e non invece una risorsa, sia sul piano economico che su quello culturale. Non sempre è stata operata la necessaria distinzione tra immigrazione e criminalità, generando così una grave confusione tra le due tematiche, confusione che si è in realtà verificata in ogni epoca storica, ogni volta che le ondate migratorie sono state più intense della norma. Senza entrare nel merito delle politiche migratorie adottate dai singoli paesi, è certo che le scelte di contenimento hanno contribuito a far sì che la criminalità organizzata decidesse di investire risorse sempre più ingenti nella gestione illegale dei flussi migratori16. Al divieto di ingresso regolare oltre un determinato numero prefissato di stranieri è subito seguita l’attivazione di strategie da parte di singoli e di organizzazioni criminali su come superare l’ostacolo frapposto da tale disposizione normativa. La criminalità organizzata a livello transnazionale si è strutturata come una società di servizi in grado, in cambio di un’adeguata retribuzione, di garantire il viaggio per l’Italia o per un altro paese europeo. Si 15 Precisamente il Protocollo Addizionale per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare donne e bambini e il Protocollo Addizionale per combattere il traffico di migranti, via mare, via terra e via aria (disponibili sul sito www.unodc.org). 16 Sugli effetti controproducenti nel contrasto alla tratta di persone e al traffico di migranti cagionati dalle normative restrittive dei flussi migratori in entrata, si vedano anche le considerazioni contenute in: Commissione europea, Tratta degli esseri umani. Rapporto del Gruppo di esperti nominato dalla Commissione europea, Il Centro Stampa, Roma, 2006, disponibile sul sito www.ontheroadonlus.it\pubblicazioni.html 32 è proposta non solo di offrire un servizio, ma ha assunto il ruolo paradossale di dispensatrice di speranze, perché è diventata lo strumento principale, indispensabile, per realizzare un sogno, quello di raggiungere un paese che, agli occhi del migrante, rappresenta un investimento di vita per il futuro. In tal modo chi offriva (e offre) questo servizio illegale acquisiva meriti e creava consenso. Inevitabilmente, in virtù di questa scelta strategica la criminalità organizzata ha subito una profonda trasformazione assumendo sempre più i caratteri di organizzazione criminale transnazionale dal momento che, in ragione del servizio offerto, è obbligata a valicare i confini nazionali per attraversare clandestinamente e illegalmente i confini di uno o più Stati. Come sopra ricordato, il traffico delle persone risponde ad un bisogno elementare: quello di emigrare, di cercare di migliorare la propria esistenza andando a lavorare lontano dal proprio paese, lasciandosi alle spalle situazioni di sofferenza. Quindi, la motivazione principale è la domanda di emigrazione avanzata da chi vuole emigrare e che è soddisfatta, dietro compenso, da un soggetto criminale organizzato che garantisce al richiedente un ingresso per vie illegali in Italia o nel paese di destinazione prescelto dal migrante. Nel particolare comparto del traffico dei migranti, il soggetto criminale svolge una funzione assimilabile a quella di una buona agenzia di viaggi, di un efficiente tour operator, che assicura l’arrivo nel posto pattuito disinteressandosi completamente del futuro della persona trasportata. Si tratta fondamentalmente un rapporto tra il migrante che chiede un servizio di natura illegale e il criminale che lo offre in cambio di un oneroso compenso. Nel corso degli anni, accanto a questa attività illegale, ha assunto dimensioni sempre più significative quella della tratta di persone. Tra traffico di migranti e tratta di persone esistono differenze significative, anche se nel linguaggio comune spesso si tende a confondere questi due fenomeni. Tuttavia, occorre precisare che i confini sono labili e che, di frequente, episodi di traffico, in itinere, divengono casi di tratta. Infatti, i due mercati, sempre contigui, tendono molte volte ad intrecciarsi. Talvolta, infatti, le organizzazioni e i singoli criminali svolgono entrambe le attività e spesso le rotte di trasporto coincidono in tutto o in parte17. Come già sottolineato, accade spesso che la persona trasportata, inizialmente richiedente il servizio di ingresso migratorio illegale in uno Stato, divenga in un momento successivo vittima di tratta. È stato rilevato, infatti, che in molti casi la persona si rivolge spontaneamente agli esponenti delle organizzazioni che gestiscono servizi di immigrazione illegale per essere condotta in 17 L’Albania, ad esempio, è stata per diversi anni un’area di raccolta di gran parte dei migranti dell’Est europeo e dell’Asia, sia vittime di tratta a fini di sfruttamento che semplici acquirenti del servizio di trasporto illegale in altro Stato. 33 altro Stato e solo in seguito, durante le fasi del viaggio, la condotta del trasportatore si modifica, subentra la coercizione e intervengono la finalità di sfruttamento e le altre manifestazioni di prevaricazione (minacce, violenze o si svela l’inganno originario). Il traffico ha luogo in un dato lasso di tempo e riguarda il territorio di più Stati; pur è pertanto frequente che alcuni elementi obiettivi identificativi di tratta si manifestino in uno Stato diverso da quello in cui la persona ha iniziato il viaggio e può accadere che, proprio a seguito del manifestarsi di tali elementi, si possa configurare il reato di tratta di persone piuttosto che quello di traffico di migranti. Ciò comporta la necessità di conoscere e valutare tutte le fasi in cui si è articolata la condotta per poterla identificare e qualificare giuridicamente in maniera corretta. Inoltre, si è registrato che i due fenomeni vengono sistematicamente confusi anche nella percezione dell’opinione pubblica che, almeno nel nostro Paese, difficilmente distingue la figura della persona trafficata da quella dell’immigrato irregolare e difficilmente attribuisce alla prima il ruolo di vittima18. Allo stesso modo, è ancora lontana la comprensione dell’assoluta irrilevanza della volontà di migrare, di sottoporsi a pratiche ritenute da determinate comunità moralmente riprovevoli e discriminanti o addirittura di subire forme di sfruttamento più o meno violente rispetto al fatto che le persone trafficate sono innanzitutto vittime di un grave reato. Deve divenire patrimonio conoscitivo diffuso, tanto nell’opinione pubblica quanto nelle stesse figure professionali che a diverso titolo operano a contatto con le persone oggetto di tratta e di traffico, la fallacia della distinzione tra “vittime innocenti” e “vittime colpevoli”. Il problema è particolarmente visibile in relazione alla tratta per scopi di prostituzione forzata o di altre forme di sfruttamento sessuale, ma è attinente a tutti i migranti trafficati. Questa distinzione presuppone che le “vittime colpevoli” non siano meritevoli di protezione contro il lavoro forzato, la schiavitù o condizioni analoghe, visto che gli abusi a cui sono sottoposte sono ritenuti essere una conseguenza di una loro presunta colpa. Secondo questo approccio pregiudiziale e aberrante le vittime autentiche sarebbero quelle capaci di fornire la prova di essere state forzate, ad esempio, a diventare prostitute, mentre le “vittime colpevoli” sarebbero coloro che erano già coinvolte nella prostituzione prima di essere trafficate, supponendo che esse sarebbero o sono consenzienti a svolgere questa attività anche in condizioni non coercitive. Secondo tale interpretazione ancora molto diffusa, l’elemento di coercizione è erroneamente considerato in relazione alla volontà o meno della persona di svolgere attività di prostituzione e non invece alle condizioni coercitive o schiavistiche alle quali può essere assoggettata in un secondo tempo. 18 Centro Studi di Politica Internazionale, L’Italia nel sistema internazionale del traffico di persone, Commissione per le Politiche di Integrazione degli Immigrati, Dipartimento degli Affari Sociali della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 1999. 34 Peraltro, oltre che frutto di pregiudizi, questa impostazione è contraria alle norme. Infatti, in presenza di una situazione di vulnerabilità della vittima, di cui approfitta il suo sfruttatore con determinate modalità e per finalità di sfruttamento, il consenso originariamente o apparentemente prestato non può avere alcuna validità. Il consenso esiste se è libero, non condizionato e revocabile in qualunque momento, altrimenti è coercizione. Orbene, a prescindere dal fatto che l’elemento della volontarietà non ha la benché minima rilevanza nel traffico di migranti, in cui è rilevante, invece, l’aver procurato l’ingresso di un migrante in uno Stato in violazione delle leggi in esso vigenti, per quanto riguarda la tratta la conseguenza diretta di questa distinzione consisterebbe nel paradosso che anziché essere il responsabile del reato ad essere perseguito, preliminarmente è la vittima a dover provare la sua “innocenza”, essendo colpevolizzata per la sua presunta immoralità19, connessa a scelte di vita infauste, spesso legate ad un progetto migratorio, che hanno costituito il presupposto del suo successivo sfruttamento sessuale, lavorativo o altro. Purtroppo, questi pregiudizi discriminatori sono tuttora presenti non soltanto nelle superficiali convinzioni di parte dell’opinione pubblica, ma, ciò che è più grave e del tutto inaccettabile, talvolta sono riscontrabili anche in capo alle forze dell’ordine o nelle aule giudiziarie da parte degli operatori del diritto. 1.4 Peculiarità aggressive della tratta di persone In linea generale, a differenza del traffico di migranti, la tratta di persone è caratterizzata da un impegno più pervasivo del soggetto criminale che recluta e sfrutta, utilizzando lo strumento della violenza, fisica e psicologica, persone vulnerabili. Nella tratta l’attività dello sfruttatore è molteplice e si esplica in più fasi. La prima fase è quella necessaria del reclutamento delle persone attraverso varie modalità che vanno dal sequestro di persona, al rapimento, all’inganno, alla fraudolenta offerta apparentemente vantaggiosa di un futuro migliore, ma dietro alla quale si cela la contrazione di un forte debito; la seconda fase è quella della gestione delle persone prescelte che parte dal momento del reclutamento e prosegue fino al completamento di tutte le fasi di attraversamento delle frontiere che possono essere numerose (si pensi ai tanti immigrati provenienti dall’Estremo Oriente); la terza e ultima fase è quella relativa allo sfruttamento intensivo delle persone trasportate nel paese di destinazione. Sfruttamento che può essere realizzato mediante una serie di condotte abituali, che connotano finalisticamente le singole violenze, minacce o inganni, mediante cui si soggioga la vittima. 19 Commissione europea, op. cit. 35 Nel percorso di tratta il reclutatore e lo sfruttatore (che a volte coincidono) sono responsabili di diverse attività che si esplicano nelle fasi di reclutamento, viaggio, assoggettamento e sfruttamento delle vittime. La prima fase è quella del reclutamento attuato attraverso l’adozione di tecniche di vario tipo che vanno dal rapimento (sempre più raro) ad ingannevoli promesse di lavoro o di matrimonio. La seconda fase è quella del viaggio che prevede solitamente il reperimento dei documenti necessari all’espatrio, l’organizzazione del viaggio che può comportare anche attraversamento di numerose frontiere; la terza fase è quella relativa all’assoggettamento e sfruttamento intensivo delle persone trafficate nel paese di destinazione. L’assoggettamento può avere inizio subito dopo il reclutamento, durante il viaggio o una volta giunti a destinazione. L’assoggettamento e lo sfruttamento possono essere attuati attraverso l’uso di violenze fisiche e psicologiche, minacce, intimidazioni, inganni, grave indebitamento, che permettono allo sfruttatore di soggiogare le vittime per poter realizzare le sue finalità criminali. Il dato temporale costituisce un’altra delle diversità che differenziano e qualificano il traffico di migranti e la tratta di persone. Mentre nel traffico il rapporto tra il migrante e il soggetto criminale termina nel momento in cui è stata raggiunta la destinazione pattuita, nella tratta il rapporto non ha una durata prestabilita. Solitamente la relazione tra sfruttatore e persona trafficata tende ad essere prolungata ma a tempo determinato quando esiste un obiettivo da raggiungere (ad esempio, la restituzione di un debito da parte della vittima) o addirittura a tempo indeterminato (ad esempio, nei casi di inganno o di rapimento). Peraltro, in caso di asservimento con assunzione di un debito da parte della vittima o dei suoi familiari, l’entità dell’importo e le modalità di restituzione sono a discrezione del trafficante/sfruttatore, al punto tale che la vittima potrebbe anche impiegare anni prima di affrancarsi o potrebbe anche non riuscirvi affatto. Le caratteristiche psicologiche della vittima sono assolutamente peculiari. In molti casi le persone trafficate non hanno la consapevolezza di essere vittime di un grave reato e ciò aumenta la loro grave condizione di vulnerabilità. A questo proposito, solo per sottolineare le peculiarità delle dinamiche di dipendenza, anche psicologica, tra vittima e “carnefice”, che fa della persona trafficata una figura non assimilabile al concetto comune di vittima dei reati più tradizionali, si potrebbe tentare un ardito accostamento (solo simbolico ed espressivo del legame perverso tra sfruttatore e sfruttato) tra la tratta e l’usura. In entrambi i casi, la richiesta proviene dalla vittima, la quale richiede al trafficante il trasporto/il lavoro in altro paese e all’usuraio il prestito di denaro. In entrambi i casi, la richiesta è finalizzata ad ottenere un servizio (trasporto/lavoro e erogazione di denaro) apparentemente strumentale al miglioramento delle proprie condizioni di vita ovvero all’acquisizione di una speranza per 36 il futuro. In ogni caso, dal momento dell’incontro tra domanda e offerta si crea un rapporto perverso con colui che inizialmente viene visto (proprio in ragione di questa mal riposta gratitudine, conseguenza della falsa speranza acquisita) come un benefattore, che successivamente si rivela essere un aguzzino senza scrupoli20. Infine, in entrambi i casi, il rapporto è duraturo, poiché finalità ultima dello sfruttatore e dell’usuraio sarà quella di prolungare al massimo il rapporto con la vittima, allo scopo di ottimizzare i vantaggi da essa ricavabili. È ovvio che le differenze tra le due figure delittuose sono enormi, ma l’analogia appare convincente dal punto di vista del legame perverso e temporalmente prolungato che si instaura tra sfruttatore/usuraio e vittima. Detto questo, la distinzione tra traffico e tratta è importante per conoscere bene fenomeni che, pur avendo delle apparenti somiglianze, sono tra di loro profondamente diversi. È fondamentale per la prassi da seguire da parte degli organi investigativi nazionali e internazionali preposti alla repressione dei reati. È indispensabile per la sempre più attenta creazione di strumenti normativi di diritto interno e internazionale in grado di sanzionare efficacemente le condotte criminali. Occorre tener presente che un ulteriore elemento distintivo tra chi gestisce il traffico di migranti e chi gestisce la tratta di persone è la diversa preoccupazione rispetto al buon fine della loro “merce”, vale a dire della cura che essa arrivi integra a destinazione. Infatti, non mancano coloro che, una volta incassato il compenso del viaggio, mandano allo sbaraglio i migranti costringendoli a intraprendere viaggi pieni di rischi, come di frequente è accaduto tra le coste africane e quelle italiane21. Quest’ultimo esempio può essere sufficiente per affermare che non esiste, a parere dello scrivente, una maggiore gravità oggettiva delle condotte di tratta rispetto a quelle di traffico. Infatti, se nella tratta si riscontrano con frequenza violenze e sevizie di elevata efferatezza, spesso è nel traffico che si registrano i decessi più numerosi, proprio per l’incuria dei trafficanti rispetto al buon esito del viaggio. Tra l’altro, è opinione comune che sia notevolmente più alto il numero di morti mai conosciuti o rinvenuti (soprattutto per le migrazioni via mare) rispetto a quello registrato in seguito alle sciagure venute alla luce22. È fondamentale tener presente che le forme clandestine di viaggio, più degradanti e rischiose per le persone, sono comunque minoritarie rispetto a quelle regolari. Il flusso principale di arrivo nel nostro Paese scorre attraverso 20 T. Grasso, Ladri di vita: storie di strozzini e disperati, Baldini e Castoldi, Milano, 1996. Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, XIV legislatura, op. cit. 22 Si vedano le notizie allarmanti delle autorità delle isole Canarie, secondo cui sarebbero state migliaia in pochi mesi, nel 2007, i dispersi provenienti dalle coste dell’Africa occidentale, nel tentativo di raggiungere le isole spagnole, in seguito alla recente impenetrabilità della via migratoria più naturale, costituita dalle frontiere spagnole prospicienti il Marocco. 21 37 forme di trasporto ordinarie (via aereo o su strada con tanto di documenti validi), a cui fa seguito l’immediato ingresso in clandestinità, conseguenza di un piano già concordato tra lo straniero e l’organizzazione criminale che gli ha fornito i mezzi di sostegno per il viaggio e gli ha garantito la sistemazione logistica e lavorativa. Le linee distintive sopra accennate tra tratta di persone e traffico di migranti sono ormai un patrimonio condiviso negli ambiti di ricerca più accreditati. Si sottolinea, ad esempio, quanto evidenziato dall’Onu in un recente rapporto23 in cui si sottolinea che la vittima di traffico è consenziente ad essere trasportata anche in condizioni pericolose e degradanti, mentre la vittima di tratta non è consenziente e, seppure lo è stata in un momento iniziale, lo stato di sottomissione a cui è sottoposta si protrae in virtù della costrizione attuata dalla condotta del trafficante. Inoltre, il traffico termina con l’(eventuale) arrivo a destinazione della persona, mentre la tratta si protrae con lo sfruttamento, che ne costituisce l’essenza e la finalità. Infine, mentre il traffico è necessariamente transnazionale, la tratta potrebbe anche non esserlo in quanto può avere luogo anche entro i confini nazionali del paese di origine della vittima. Tuttavia, la variegata realtà spesso non si presta ad essere incasellata nelle pur condivise definizioni normative. In taluni casi non è agevole comprendere se si sia in presenza di tratta o di diverse forme di sfruttamento che non possono essere considerate tali. È sintomatico e singolare in tal senso il caso dei lavoratori cinesi impiegati in condizioni estremamente dure da propri connazionali in opifici e fabbriche. Tali lavoratori, vincolati con un forte debito contratto alla partenza, sembrano essere in gran parte solidali con il sistema di sfruttamento in cui sono inseriti, anche perché vedono in questo percorso di pesanti sacrifici un possibile viatico per divenire un domani, a loro volta, piccoli imprenditori, laoban, con manodopera alle proprie dipendenze24. Dunque, in generale, ai tradizionali mercati criminali (armi, droga, contrabbando di tabacchi) si sono aggiunti nuovi settori caratterizzati in modo preminente dallo scambio di una merce del tutto particolare, quella umana, spesso soggiogata in condizioni assimilabili a quella della schiavitù25. Generalmente le organizzazioni che gestiscono questo mercato hanno tutte le caratteristiche del modo di operare delle organizzazioni mafiose, a cominciare dall’uso spregiudicato e permanente della violenza, anche in danno di donne e di bambini. 23 United Nations Office on Drugs and Crime, Trafficking in persons: Global patterns, Vienna, 2006. 24 Si veda sul tema G. Yun, Chinese migrants and forced labour in Europe, Oil, Ginevra, 2004. 25 Per un’analisi del significato giuridico del concetto di schiavitù, così come ridisegnato dalla legge 11 agosto 2003, n. 228, e come delineato dalla recente giurisprudenza, si veda Cass. pen. Sez. III, 20 dicembre 2004/8 febbraio 2005, in Guida al diritto, n. 9, 2005, con commento di A. Amato. Si veda anche infra. 38 Anche sul piano internazionale è diffusa l’idea di definire queste organizzazioni con il termine più appropriato di “nuove mafie”26. Il panorama criminale internazionale si è così arricchito di nuove, più aggressive, presenze organizzate, provenienti da paesi nei quali una simile attività era assente oppure marginale. Nel corso degli anni si è andata progressivamente rafforzando la collaborazione tra mafie straniere e italiane: da un lato si è registrato uno scambio di servizi, dall’altro si è realizzata una gestione comune degli affari più lucrosi. In cambio della tolleranza o di appoggi logistici le mafie nostrane hanno ricevuto vantaggi relativi ad altro tipo di traffici illeciti all’estero, nei settori più disparati, come quello delle sostanze stupefacenti o nell’impiego massiccio di capitali di provenienza illecita in attività apparentemente lecite. In questo contesto, le grandi organizzazioni mafiose straniere, le quali hanno investito parte delle risorse criminali precedentemente accumulate con il traffico delle armi, della droga e del contrabbando, hanno realizzato un network transnazionale in grado di agire in più paesi e di spostare ingenti flussi di persone. A questo proposito, la legge italiana di ratifica della Convenzione di Palermo introduce all’art. 3 una definizione di reato transnazionale (pedissequamente ripresa dall’art. 3, comma 2, della Convenzione) che si attaglia sia al reato di tratta che di traffico e che si identifica in relazione alla pluralità di Stati interessati dal verificarsi, nei rispettivi territori, delle condotte, anche parziali, nonché in funzione dell’operatività su tali territori dei gruppi criminali. La transnazionalità27 delle organizzazioni criminali dedite a tali reati risiede nella capacità di lavorare in rete creando nei singoli paesi, di transito e di destinazione, strutture snelle e specializzate, mentre i vertici delle organizzazioni stesse si trovano altrove, ben protetti nei paesi di origine28. La transnazionalità ha prodotto notevoli effetti di interscambio tra le maggiori organizzazioni criminali e mafiose operanti a livello internazionale. Si sono creati dei raggruppamenti misti formati da criminali appartenenti a diverse nazionalità. Si 26 Cfr. Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, XIV legislatura, op. cit. 27 Sul concetto di transnazionalità e in particolare sui collegamenti a cui consegue l’ottenimento da parte delle organizzazioni criminali di un valore aggiunto in seguito alle sinergie intraprese, si veda la Relazione dell’ex Procuratore Nazionale Antimafia, P.L. Vigna, in occasione della Conferenza paneuropea dei pubblici ministeri (Caserta, 8-10 ottobre 2000). Cfr. anche le esperienze pratiche illustrate in F. Spiezia, F. Frezza, N.M. Pace, Il traffico e lo sfruttamento di esseri umani, Giuffrè, Milano, 2002. 28 Cfr. Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, XIV legislatura, op. cit. Sulle peculiarità dei fenomeni di trafficking e smuggling, sulle fonti normative Onu ed europee, nonché sulle maggiori problematiche investigative e processuali esistenti nell’esperienza dell’autorità giudiziaria, si veda Transcrime, Tratta di persone a scopo di sfruttamento e traffico di migranti, Transcrime Report n. 7, Trento, 2004. Tale studio è stato eseguito per conto del Ministero della Giustizia e il Dipartimento per le Pari Opportunità, in collaborazione con la Direzione Nazionale Antimafia. 39 sono rafforzati gruppi criminali locali di medio livello dopo essere entrati in contatto con strutture criminali e mafiose più efficienti e più potenti. 1.5 La struttura organizzativa criminale La struttura organizzativa complessiva che raggruppa i criminali che operano nel settore può essere definita come un sistema criminale integrato29 all’interno del quale possiamo distinguere tre diversi livelli tra cui si registrano elementi di interdipendenza, ma non di gerarchia. Al primo livello operano le cosiddette organizzazioni etniche, che si occupano di pianificare e gestire lo spostamento dal paese di origine al paese di destinazione di propri connazionali. In una perfetta logica di imprenditorialità i capi di queste organizzazioni non vengono a contatto con le persone trafficate, salvo le eventuali istruzioni circa i comportamenti da tenere e le procedure da seguire durante il trasporto, impartite prima dell’inizio del viaggio, poiché si occupano esclusivamente di gestire i capitali, finanziare i costi della migrazione, rapportarsi con i fornitori dei servizi strumentali e intrattenere le relazioni di tipo corruttivo. Queste organizzazioni gestiscono i flussi migratori provenienti dall’Asia e dall’Africa e possono gestire solamente il traffico o essere anche coinvolte nello sfruttamento delle persone trasportate. Al secondo livello è possibile collocare le organizzazioni che operano nei territori sensibili, situati cioè nelle zone di confine tra i diversi paesi di passaggio o di destinazione. Ad esse le organizzazioni etniche affidano compiti operativi, tra cui fornire documenti falsi, corrompere i funzionari addetti al controllo transfrontaliero, scegliere le rotte e le modalità di trasporto, ospitare i clandestini in attesa del trasferimento. Il terzo livello, infine, è costituito da organizzazioni minori operanti nelle zone di transito e in quelle di confine. Esse rispondono alle richieste delle organizzazioni di livello intermedio, ma anche alle autonome iniziative di singoli migranti o di piccoli gruppi dotati di risorse autonome. Queste organizzazioni si occupano materialmente di ricevere e smistare i clandestini, di curarne il passaggio attraverso i luoghi di confine e di consegnare le persone trafficate30 agli emissari finali. Il modello criminale utilizzato è di tipo misto. Vi è una reciproca tolleranza, poiché, da un lato le organizzazioni criminali italiane consentono il traffico di migranti e la tratta di persone, fornendo talvolta anche assistenza logisti29 Per un recente aggiornamento sulla geografia criminale si veda A. Pansa, relazione all’incontro Agis presso il Consiglio Superiore della Magistratura, tenutosi a Roma il 6-8 febbraio 2006. 30 La definizione in questo caso deve riferirsi alla persona oggetto di smuggling, anche se nella fase del trasporto vi potrebbero anche essere persone trafficate in senso proprio. 40 ca, quando non operano in maniera più attiva, magari ponendo sulla bilancia degli scambi transnazionali altro genere di merce illegale. D’altro canto, le stesse organizzazioni criminali estere presenti in Italia richiedono alle reti criminali transnazionali la fornitura di “merce umana”, variando poi i settori leciti ed illeciti in cui sfruttare gli immigrati. I principali gruppi criminali nazionali attivi nei settori del traffico e della tratta risultano essere quelli albanesi, cinesi, nigeriani, maghrebini, rumeni e cittadini dell’ex Unione Sovietica. In particolare, i gruppi albanesi (e in forma via via crescente anche quelli rumeni) gestiscono la prostituzione con modalità particolarmente violente. Originariamente le giovani vittime trafficate e sfruttate da parte di tali organizzazioni erano connazionali, in seguito lo sfruttamento è stato esteso anche a minori e donne rumene, ucraine, moldove, bulgare. Per i gruppi criminali nigeriani la tratta di persone rappresenta un’attività primaria e comunque lo strumento maggiore di autofinanziamento per lo sviluppo di altri traffici (soprattutto di sostanze stupefacenti, di cocaina in particolare) o di attività commerciali. Nella tratta a scopo di sfruttamento sessuale o di lavoro forzato, le organizzazioni nigeriane hanno raggiunto standard organizzativi e gestionali di alto livello, gestendo interamente ogni fase dal momento del reclutamento in patria alla fornitura di documenti falsi per l’espatrio, al trasferimento nei paesi di destinazione, sino allo smistamento nei vari settori dell’illecito sfruttamento. Le vittime vengono assoggettate attraverso il debt bondage, ovvero l’obbligo alla a restituzione del gravoso debito contratto per poter emigrare. Per quanto attiene alle organizzazioni criminali cinesi, il traffico di migranti e la tratta di persone rappresentano sia un lucro, sia un mezzo indispensabile e funzionale per tutte le attività commerciali diramate all’estero. L’ingresso clandestino di stranieri cinesi avviene principalmente mediante il falso documentale, nel quale, tra l’altro, le organizzazioni criminali asiatiche sembrano dimostrare particolare abilità. Gli enormi vantaggi vengono realizzati sfruttando la disperazione e il desiderio di affermazione dei propri connazionali che aspirano ad affermarsi all’estero, anche a costo di diventare forza lavoro a prezzi irrisori. In concreto, il passaggio delle frontiere nazionali non è di pertinenza, come già detto in precedenza, delle organizzazioni asiatiche, bensì è solitamente demandato a gruppi criminali specializzati di altra etnia (albanesi, sloveni, turchi, etc.). Di recente sono state individuate anche organizzazioni criminali composte da cittadini moldovi, spesso operanti in collaborazione con cittadini rumeni e italiani che favoriscono l’ingresso in Italia di stranieri muniti di documenti falsi e destinati alla prostituzione o al lavoro nero. Anche la Russia va assumendo un ruolo crescente per lo snodo dei flussi di immigrati clandestini, provenienti dal Sud-est asiatico e dalla Cina, nonché 41 dagli altri Stati asiatici un tempo appartenenti all’ex Unione Sovietica. I primi attraversano l’area balcanica settentrionale (diretti al confine italo-sloveno) o meridionale (verso gli approdi marittimi adriatici); i secondi passano direttamente dalla Russia, dove fanno scalo aeroportuale per poi pervenire in Italia. Per quanto riguarda il Nord Africa, le organizzazioni maghrebine hanno accresciuto la loro importanza nella gestione del traffico di migranti, in particolare nell’area di confine sub-sahariana, lungo la quale agevolano il transito (con esiti drammatici che spesso restano ignoti, viste la terribili condizioni di viaggio attraverso zone aride e inospitali) diretto in Marocco, Tunisia e Libia. Quest’ultimo canale si è attivato con vigore dopo le sopravvenute difficoltà di migrazione all’interno dei territori spagnoli31, ad ulteriore conferma della fondamentale importanza della cooperazione internazionale nel contrasto al fenomeno. Si registra, infatti, la straordinaria capacità organizzativa dei gruppi criminali che sanno immediatamente adattarsi ai cambiamenti geopolitici. Semplici accordi bilaterali, che curano gli interessi di due singoli Stati non bastano, anzi, hanno la sola conseguenza di dirottare i traffici verso altre direttrici. Quando il governo italiano intraprese accordi (e garantì ingenti aiuti) con l’Albania, il flusso di migranti che passava attraverso il territorio albanese per giungere via mare sulle coste pugliesi si interruppe localmente, ma proseguì utilizzando altri percorsi: le frontiere terrestri settentrionali di Slovenia e Austria e le frontiere marittime meridionali transitando in altri Stati. La mancanza di una strategia di contrasto comune globale e la scarsa cooperazione tra Stati, a maggior ragione se vicini o se membri dell’Unione europea, rende praticamente impossibile il contrasto efficace al traffico di migranti e alla tratta di persone. Non è un mistero, a tal proposito, la particolare ritrosia delle autorità turche o greche a porre in essere controlli efficienti e sistematici principalmente sul traffico via mare che parte o transita dai rispettivi porti di partenza o transito, con direzione verso le coste italiane. Da ultimo, si deve registrare il recentissimo accordo tra le autorità italiane e quelle libiche, più volte annunciato e poi mai definito. Il 29 dicembre 2007 il ministro dell’interno italiano e il ministro degli esteri libico hanno sottoscritto un Protocollo per la cooperazione tra l’Italia e la Libia per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina. Sarà interessante studiarne sia i risultati concreti, sia le contromisure che inevitabilmente le organizzazioni criminali adotteranno32. 31 Dall’ottobre 2005, a seguito dei fatti accaduti nella contesa enclave di Ceuta e Melilla, dove diversi immigrati vennero uccisi nel tentativo di oltrepassare la frontiera spagnola. 32 L’accordo firmato a Tripoli per fronteggiare l’immigrazione clandestina prevede che l’Italia e la Libia organizzino pattugliamenti marittimi con unità navali cedute temporaneamente dall’Italia. I mezzi imbarcheranno equipaggi misti con personale libico e con personale di polizia italiano per l’attività di addestramento, di formazione, di assistenza e manutenzione dei 42 1.6 Cause del traffico, soggetti coinvolti, forme di sfruttamento L’espressione “tratta delle persone” indica il fenomeno criminale consistente nel reclutamento, trasporto e successivo sfruttamento a fine di lucro di esseri umani. La tratta deve essere considerata, quindi, come una specificazione della più ampia fattispecie del “traffico dei migranti” che comprende ulteriori e differenti aspetti non propriamente rientranti nella tratta di persone, ma ad essa legati. Per questi motivi nel descrivere i fenomeni in questione è imprescindibile inoltrarsi soprattutto nell’esposizione degli aspetti riguardanti il traffico di migranti in genere, nelle diverse fasi del reclutamento e del trasporto, diverse rispetto a quelle eventuali dell’assoggettamento e dello sfruttamento che caratterizzano la tratta. Muovendo dalle esigenze a cui si è fatto cenno in precedenza, dalle esigenze migratorie (che sottostanno sia ai casi di tratta che di traffico, che condividono così un minimo comune denominatore di origine), è possibile delineare le tipologie di persone coinvolte nel traffico di migranti, fermo restando che molte di queste, nella evoluzione difficile delle loro storie, possono restare avvolte da fenomeni di sfruttamento e divenire così, sin dall’origine o in un secondo momento, vittime di tratta. Le vittime del traffico possono essere persone in fuga dal sottosviluppo e alla ricerca di lavoro e di migliorare la propria posizione socio-economica, oppure persone rapite o attirate con promesse di lavoro dalle organizzazioni criminali, o ancora persone in fuga dalla persecuzione, dalla violenza, dalla guerra, da conflitti politici. Per un corretto approccio all’analisi del fenomeno, è bene valutare quali siano le ragioni che generano questo spostamento di massa, ragioni strettamente legate all’andamento politico, economico e climatico dei paesi coinvolti. Le cause da cui scaturisce il traffico di migranti sono riconducibili a due categorie: i push factors (fattori di espulsione) che spingono a far ricorso al traffico e i pull factors (fattori di attrazione) che rendono attraente la meta occidentale. Tra i primi, innanzitutto, si annovera la povertà. In particolar modo, nei paesi in via di sviluppo, le condizioni di vita sono a livelli bassissimi; questo fattore, unito ad una crescita demografica incontrollata e all’impoverimento di interi settori sociali causato dalla liberalizzazione economica e dall’assenza di lavoro e di forme minime di assistenza sociale, ha mezzi. Dette unità navali effettueranno le operazioni di controllo, di ricerca e salvataggio nei luoghi di partenza e di transito delle imbarcazioni dedite al trasporti di immigrati clandestini, sia in acque territoriali libiche che internazionali. L’Italia, inoltre si è impegnata a cooperare con l’Unione europea per la fornitura, con finanziamento a carico del bilancio comunitario, di un sistema di controllo per le frontiere terrestri e marittime libiche, al fine di fronteggiare lo smuggling, da realizzare secondo le esigenze rappresentate dalla parte libica alla delegazione della missione Frontex. L’Italia, inoltre, si è impegnata a fare ogni sforzo perché si giunga nel più breve tempo possibile all’adozione dell’Accordo quadro fra l’Unione europea e la Libia. 43 fatto crescere esponenzialmente l’offerta di potenziali schiavi e nel contempo ne ha abbassato il prezzo. In questi paesi (ma anche in quelli dell’Est europeo dopo il crollo dei regimi autoritari) si è affermato un nuovo modello economico che ha smantellato le precedenti protezioni sociali, seppure minime ed elementari, causando inevitabilmente un ulteriore impoverimento nella popolazione. Anche le guerre tra Stati o guerre civili, magari aggravate da conflitti etnici o religiosi, con conseguenze discriminatorie di una parte della popolazione, costituiscono potenti fattori di espulsione. Ciò è drammaticamente registrabile; non appena si accende un conflitto di particolare rilevanza se ne rilevano le conseguenze in termini di migrazioni irregolari, come, ad esempio, nel caso particolarmente attuale dei tanti curdi iracheni, provenienti in Italia da Turchia e poi Grecia e principalmente diretti nel Nord Europa. Tra i fattori di espulsione spesso incidono le discriminazioni esistenti nei paesi di origine. Relativamente alla tratta a scopo di sfruttamento sessuale, l’ineguaglianza socio-economica tra uomini e donne esistente è da considerarsi una concausa dello sviluppo di tale fenomeno che colpisce molte donne giovani e adulte. Tutti questi fattori spingono da una parte le persone a migrare, dall’altra formano per i trafficanti un enorme bacino di raccolta di schiavi. In forza della capacità attrattiva dei pull factors le persone, abbagliate dal miraggio di un’esistenza scintillante, individuano nei paesi occidentali le condizioni adatte per rifarsi una vita. Senza addentrarsi nell’esame macrosociale di questi fattori, basti pensare che negli stati dell’Occidente i migranti possono trovare assistenza sociale globale, sistemi di governo democratici, stabilità politica e sociale. Paradossalmente la spinta a migrare proviene anche dagli stessi paesi ricchi i cui cittadini non sono più disposti ad esercitare lavori particolarmente rischiosi o per i quali è indispensabile molta forza fisica. In questo contesto di aspettative operano le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico dei migranti, fungendo così da traghettatori verso la speranza di un futuro migliore. Le rilevanti aspettative riposte nei progetti migratori possono determinare particolari vulnerabilità. Con particolare riferimento alla tratta degli esseri umani33, l’esame soggettivo del fenomeno, vale a dire delle persone trafficate coinvolte, evidenzia come essa sia basata principalmente sullo sfruttamento di minori e di donne, cioè le persone normalmente più esposte e vulnerabili e dunque, più facilmente assoggettabili e sfruttabili. I minori sono impiegati il più delle volte, nell’accattonaggio. Altre volte, invece, viene prescelto il mercato della pedofilia o della pornografia infantile. Inoltre, non è infrequente, soprattutto nelle aree urbane, anche se il fenomeno è sfuggevole ai controlli ed è tuttora difficilmente monitorabile, l’utilizzo di minori in attività illegali, 33 F. Spiezia, F. Frezza, N.M. Pace, op. cit. 44 quali reati contro il patrimonio, cessione di sostanze stupefacenti. Il sesso commerciale è l’altro grande ambito in cui vengono principalmente impiegate le donne trafficate. La tratta delle donne ha introdotto profondi cambiamenti nel mondo della prostituzione, sia in quella visibile che si esercita per strada sia in quella invisibile che si esercita nei locali chiusi, quali appartamenti, locali notturni, club privè, alberghi, finte sale di massaggi. Le esperienze di ricerca sul tema hanno mostrato che gli anni ottanta hanno visto la prevalenza delle prostitute italiane e delle latinoamericane nel mercato della prostituzione, ma gli anni novanta, che si sono caratterizzati per l’esplosione dei flussi migratori (e della tratta) in genere e dall’Est europeo in particolare, hanno visto il trasferimento delle donne italiane nei luoghi al chiuso e la presenza sulla strada delle donne africane, delle donne dell’Est provenienti dapprima dai paesi più vicini, poi dagli Stati appartenenti all’ex Unione Sovietica e attualmente dalle repubbliche caucasiche o dell’Asia centrale. Negli ultimi anni si assiste al sempre più frequente aumento di luoghi di prostituzione al chiuso, dove le donne, in particolare dell’Europa dell’Est, hanno aumentato notevolmente le loro presenze. Le vittime della tratta di esseri umani spesso sono giovani senza prospettive nei luoghi di origine, attirate da false promesse di un lavoro ben remunerato all’estero. In molti casi non conoscono né la vera natura della futura occupazione, né le reali condizioni di vita che verranno loro imposte. In altri casi, invece, si trasferiscono all’estero attratte da facili guadagni e da migliori prospettive di vita, più o meno consapevoli del tipo di lavoro che dovranno compiere una volta giunte a destinazione. Una volta giunte nei paesi di destinazione, la maggior parte delle vittime è sprovvista di documenti di identità, di risorse finanziarie, di sistemazioni logistiche, di punti di riferimento e non conosce la lingua. Sono quindi persone estremamente vulnerabili, dipendono totalmente dai loro aguzzini e sono sottoposte ad ogni tipo di violenza e abuso; non nutrono fiducia alcuna nei confronti delle istituzioni perché spesso nei loro paesi di origine esiste una diffusa corruzione; temono ritorsioni nei riguardi dei loro familiari rimasti in patria34. 34 È ovvio che in questa sede siffatta descrizione è assolutamente sintetica. In realtà esistono molteplici modelli di tratta e sfruttamento in relazione alla nazionalità delle organizzazioni criminali. Ad esempio, i modelli albanese, rumeno, nigeriano sono del tutto difformi tra loro. Differiscono le forme di reclutamento, i luoghi di sfruttamento, le tecniche di soggiogamento. Per una descrizione aggiornata dei differenti modelli e per un’illustrazione circa l’aumento della prostituzione al chiuso, si veda F. Carchedi, I. Orfano (a cura di), La tratta di persone in Italia. 1. Evoluzione del fenomeno e ambiti di sfruttamento, Franco Angeli, Milano, 2007; C. Donadel, E.R. Martini (a cura di), La prostituzione invisibile, Regione Emilia-Romagna, Grafiche Morandi, Fusignano, 2005; AA.VV., Il sommerso. Una ricerca sperimentale su prostituzione al chiuso, sfruttamento, trafficking, i Quaderni di Strada, Provincia di Pisa, Pisa, 2004; E. Ciconte (a cura di), I flussi e le rotte della tratta dall’Est Europa, Regione Emilia-Romagna, Grafiche 45 Generalmente le vittime sono costrette a prostituirsi e a versare tutti i loro guadagni a coloro che le sfruttano. Tuttavia questa pratica assume caratteri diversi a seconda della nazionalità dei migranti e dei trafficanti. I criminali originari dell’Europa centro-orientale obbligano le loro vittime a prostituirsi ricorrendo alla violenza o alle minacce e quando non lavorano sono segregate in casa. Invece, le giovani donne africane, in particolare nigeriane, generalmente non subiscono gravi forme di violenza fisica in virtù dei pregressi accordi stipulati – spesso attraverso riti voodoo – con chi le recluta e/o le sfrutta. Esse, temendo le conseguenze negative di tali riti su se stesse e sulle loro famiglie, sono costrette a rispettare tali accordi prostituendosi principalmente per strada. Ma proprio l’aggiunta di questi rituali ad un modo di agire particolarmente invasivo da parte dei trafficanti nigeriani rende estremamente difficoltoso per le vittime sottrarsi al circuito dello sfruttamento. Tuttavia, pur nell’ambito di queste considerazioni generali che servono per orientarsi nell’interpretazione di mondi sommersi e poco conoscibili senza un’osservazione esperta ed approfondita, occorre sottolineare con decisione la profonda differenza esistente tra la tratta di persone e lo sfruttamento della prostituzione, anche se svolto con l’utilizzo di forme intimidatorie e violente. Si tratta di due argomenti ben diversi dal punto di vista fattuale e giuridico. Le forme di reclutamento, lo stato continuato di assoggettamento, l’approfittamento di una situazione di vulnerabilità sono caratteristiche esclusive della tratta che richiedono una netta distinzione tra i fenomeni che anche il legislatore deve tenere sempre presente. Ad ogni modo, può accadere molto spesso che vi siano situazioni di confine in cui è in pratica difficile stabilire se l’affievolimento del consenso della persona sfruttata, il suo stato di vincolo e il conseguente vantaggio dello sfruttatore raggiungano un livello di intensità tale da configurare non già un semplice sfruttamento della prostituzione, bensì una situazione di tratta o riduzione in schiavitù. Infatti, accade sempre più di frequente che alle vittime di tratta dedite alla prostituzione siano lasciate piccole percentuali di guadagno e una apparente o limitata libertà di movimento che potrebbero indurre a pensare che non vi sia una reale menomazione della libertà di autodeterminazione. Inoltre, accade spesso che le vittime di tratta per scopo di sfruttamento sessuale (così come quelle sfruttate in ambiti lavorativi di vario tipo) siano consapevoli, completamente o parzialmente, del tipo di lavoro che devono compiere, anche se magari non conoscevano, al momento della partenza, le precise condizioni alle quali dovevano attenersi. Occorre sottolineare con fermezza che la conoscenMorandi, Fusignano, 2005. Si veda anche F. Carchedi, A. Picciolini, G. Mottura, G. Campani, I colori della notte. Migrazioni, sfruttamento sessuale, esperienze di intervento sociale, Franco Angeli, Milano, 2000; Associazione On the Road (a cura di), Prostituzione e Tratta. Manuale di intervento sociale, Franco Angeli, Milano, 2002. 46 za preventiva delle attività che verranno compiute nel paese di destinazione non costituisce in alcun modo un elemento significativo per stabilire se il migrante sia vittima di tratta35. Questa considerazione è tanto più valida in quanto la si applichi non solo al più conosciuto asservimento a fini di sfruttamento sessuale, ma si consideri la forma di sottomissione più diffusa e ancora sottovalutata del lavoro forzato, sia esso maturato nell’ambito sommerso del lavoro “nero” in condizioni degradanti ovvero a discapito di categorie particolarmente “deboli” o ancora nell’ambito di asservimento insidioso costituito dalla schiavitù domestica. Un consistente numero di donne, bambini e uomini lavora in condizioni di sfruttamento contrarie agli standard normativi minimi di tutela dei diritti dei lavoratori e alle esigenze di rispetto della dignità umana. L’interpretazione dei fenomeni di tratta e di sfruttamento è resa ancora più ardua dalle nuove strategie messe in pratica dagli sfruttatori, i quali, al fine di meglio controllare e sfruttare le vittime, concedono loro una parte dei guadagni e fanno un minor uso rispetto al passato dei metodi brutali e violenti. In questi casi si parla di “prostituzione negoziata” o, comunque, di forme di sfruttamento lavorativo basate su una compartecipazione – per quanto squilibrata – dei profitti derivanti dall’attività svolta e che, solo in apparenza, sembrano non avere i requisiti tipici della tratta di esseri umani. 1.6.1 L’emergenza del lavoro forzato e del grave sfruttamento lavorativo Il pesante sfruttamento lavorativo è una condizione che contraddistingue l’esperienza migratoria di molti stranieri provenienti da paesi lontani, ma può coinvolgere anche cittadini dell’Unione europea (come nel caso di tanti cittadini neocomunitari). Si pensi ai tanti lavoratori africani e anche dell’Est europeo impiegati nelle campagne del nostro Mezzogiorno in condizioni disumane36 o ai molti cittadini asiatici, particolarmente – ma non esclusivamente – 35 Tra l’altro, ciò è chiaramente stabilito nell’art. 3, lett. b) del Protocollo addizionale sulla tratta, secondo cui: “il consenso di una vittima della tratta di persone allo sfruttamento di cui alla lettera (a) del presente articolo è irrilevante qualora sia stato utilizzato uno qualsiasi dei mezzi di cui alla lettera (a)”. La lettera a) dell’art. 3 recita: “Tratta di persone indica il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha l’autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato o prestazioni forzate, schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi.” 36 Si tratta di crimini oggetto di accertamento attuale da parte di diverse Direzioni distrettuali antimafia. Ma a riprova che la tratta e l’immigrazione sono da considerarsi due fenomeni con 47 impiegati nel lavoro domestico. Si pensi ancora allo sfruttamento dei molti stranieri in vari settori produttivi e, in particolare, ai cittadini cinesi sfruttati soprattutto in opifici e laboratori tessili e manifatturieri; si tratta di attività che sono strettamente collegate non solo allo sfruttamento delle migrazioni da parte di organizzazioni criminali, ma anche ai settori della contraffazione e del riciclaggio di capitali illeciti. Tuttavia, non si possono analizzare i fenomeni sociali in modo schematico, come se gli ambiti dello sfruttamento fossero compartimenti stagni. Lo sfruttamento della merce umana è multiforme e cangiante e le sue forme mutano a seconda delle possibilità di lucro che il mercato offre ai trafficanti e delle azioni di contrasto offerte dai legislatori. A conferma di ciò è utile riportare l’esempio delle organizzazioni criminali cinesi che, tradizionalmente dedite allo sfruttamento lavorativo di connazionali, si interessano con sempre maggior vigore dello sfruttamento sessuale di donne cinesi, ormai molto diffuso, le cui prestazioni sono fruibili sia dagli appartenenti alla comunità cinese che dalla clientela occidentale. Con ciò si vuol dire che la diversificazione dell’offerta è repentina e coglie nell’immediato le aspettative che la domanda di servizi nutre. In realtà, il lavoro forzato, come riconosciuto autorevolmente, è ancora un fenomeno sottovalutato37 e scarsamente contrastato, ma per opinione unanime è anche la forma di schiavitù moderna più diffusa e meno percepita. Una delle spiegazioni possibili risiede nella considerazione che, al di là delle forme più estreme in cui si assiste ad una sostanziale privazione della libertà di azione e movimento attraverso metodi coercitivi o violenti, lo sfruttamento del lavoro avviene in modo sommerso, impalpabile, in contesti difficilmente monitorabili dagli organi preposti. A differenza dello sfruttamento sessuale, poi, presenta sfumature più variegate che possono rendere più arduo percepirne o qualificarne il disvalore. Le situazioni di lavoro forzato possono svilupparsi particolarmente in determinati settori economici che si prestano a pratiche abusive o irregolari. Le macroaree della cd. grey economy, del lavoro clandestino, del lavoro nero, sono tutti campi che possono favorire la nascita di relazioni di sfruttamento tra datore di lavoro e lavoratore. Il lavoro nell’edilizia, quello nel settore agricolo, il lavoro in stabilimenti manifatturieri, il lavoro domestico, sono tra gli ambiti lavorativi che maggiormente hanno fatto registrare situazioni di grave sfruttamento del lavoro. L’emersione di queste forme di lavoro forzato (o delle modalità più attenuate di sfruttamento lavorativo) è ardua per la vulnerabilità e il timore delle vittime, per la difficoltà di monitorare e di investigare degli specificità distinte che possono coinvolgere sia cittadini stranieri che comunitari, come nel recente caso che ha coinvolto cittadini polacchi vittime di tratta sfruttate nelle campagne pugliesi. 37 Cfr. Unodc, Office on Drugs and Crime, op. cit. 48 organi competenti e talvolta per l’assenza di validi strumenti normativi, sia in termini di assistenza e protezione delle vittime, sia in termini repressivi. La stessa conoscenza del fenomeno sconta un ritardo rispetto alle ricerche effettuate nel campo della tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Le vittime di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo sono ancor più invisibili e sono indotte ad emergere solo quando fatti specifici e traumatici accadono, come nel caso di gravi incidenti sul lavoro o la sottoposizione ad atti violenti. L’identificazione delle vittime e dei casi è difficile anche in virtù della ancora scarsa attenzione (e formazione) degli organismi ispettivi del lavoro, le cui energie sono integralmente rivolte ai profili amministrativi a alla prevenzione degli infortuni. Il fenomeno è in ombra. Ad esempio, finora esistono ancora pochi elementi da cui desumere l’esistenza delle cd. “organizzazioni a doppia sponda”, vale a dire di organizzazioni all’interno delle quali le fasi del reclutamento di lavoratori migranti nei paesi di origine siano connesse con la destinazione ultima dello sfruttamento attraverso network criminali collegati in grado di suddividersi i ruoli sulla base di programmazioni preventive. Si colgono in alcune recenti indagini elementi da cui rilevare legami tra taluni datori di lavoro italiani e agenzie di collocamento o di intermediazione di manodopera situate nei paesi di origine o in altri paesi terzi, ma si tratta ancora di indizi labili e privi di ricostruzioni confermate sul piano giudiziario. Pertanto, sulla base delle attuali conoscenze, la maggior parte dei migranti irregolari sfruttati nel lavoro intraprende un percorso migratorio affidandosi alle reti di smuggling, spesso contraendo debiti consistenti, per poi, mediante l’aiuto di comunità di connazionali o di intermediari abusivi, etnici e non, trovare lavoro nel paese di destinazione, in situazione di tale precarietà e vulnerabilità da prestare facilmente il fianco a potenziali forme di sfruttamento38. Il lavoro forzato può essere generalmente individuato in presenza di almeno due circostanze: 1. la costante minaccia di sanzioni; 2. la sottomissione al lavoro contro la propria volontà39. 38 In quest’ottica si colloca la proposta di direttiva della Commissione europea del 16 maggio 2007 che si prefigge lo scopo di obbligare gli Stati membri ad introdurre precise e dettagliate sanzioni contro i datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi soggiornanti illegalmente nell’Unione europea. 39 Questa definizione tuttora valida è tratta dalla Convenzione Oil contro il lavoro forzato n. 29 del 1930, seguita dalla Convenzione n. 105 del 1957 in tema di abolizione del lavoro forzato. Punto di riferimento in materia è tuttora costituito dall’azione dell’Oil/Ilo (Organizzazione Intenazionale del Lavoro/International Labour Organization) dalle convenzioni adottate in materia e da ultimo dalla Dichiarazione sui principi fondamentali e sui diritti nel lavoro del 1998. Si veda per un maggiore approfondimento: A global alliance against forced labour, Ginevra, 2005; Human trafficking and forced labour exploitation. Guidance for legislation and law enforcement, Ginevra, 2005; Legal aspect of trafficking for forced labour purposes in Europe, Ginevra, 2006; Trafficking for forced labour: how to monitor the recruitment of migrant 49 L’identificazione delle vittime di tratta a scopo di lavoro forzato è più ardua e problematica, tanto che manca una definizione di lavoro forzato all’interno del Protocollo di Palermo. Una delle ragioni principali di questa assenza è data dal fatto che in molti paesi la tratta finalizzata allo sfruttamento lavorativo non è percepita e regolata come un fatto di rilevanza penale, sia per ragioni macroeconomiche (in alcuni Stati è proprio l’apparato statuale a tollerare lo sfruttamento), sia perché molto spesso i confini tra grave sfruttamento lavorativo, lavoro precario, lavoro mal retribuito e privo di garanzie non sono di facile demarcazione. Volendo tracciare alcune linee identificative delle situazioni di lavoro forzato è possibile richiamare almeno sei tipologie di condotte, così come enucleate dall’Organizzazione internazionale del lavoro (International Labour Organization): violenza fisica o sessuale o minaccia di tale violenza; limitazioni alla libertà di movimento del lavoratore; lavoro prestato sotto il vincolo della restituzione di un debito; trattenimento del salario o rifiuto completo di pagarlo; sottrazione e trattenimento del passaporto o dei documenti di identità; minaccia di denuncia del lavoratore alle autorità. Ovviamente, ciascuna di queste condotte, soprattutto quelle di natura più “contrattuale”, dovrebbe essere ampiamente illustrata per evidenziare quale intensità deve assumere e a quali altri elementi si deve unire, per qualificare le diverse forme di sfruttamento, fino a parlare di lavoro forzato. Non vi è dubbio che, alla luce del Protocollo sulla tratta di persone che, come detto, non fornisce una definizione di lavoro forzato ma lo nomina a proposito della tratta di esseri umani, gli Stati sono obbligati a sanzionare le più gravi condotte di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo. In aggiunta alle forme più estreme di sfruttamento, però, a parere di chi scrive, in virtù delle numerose Convenzioni dell’Oil e del panorama normativo internazionale, agli Stati spetta, altresì, il compito di introdurre specifiche misure di contrasto, anche mediante previsioni incriminatici, per tutti i casi di grave sfruttamento lavorativo che esulino dalla fattispecie più grave di tratta di persone, a prescindere dal fatto che la vittima sia un lavoratore migrante irregolare, proprio perché lo status di regolarità non attinge la sfera di diritti fondamentali della persona, trattandosi sempre di problematiche attinenti a violazioni di diritti umani e non soltanto ai temi dell’immigrazione negli Stati di destinazione40. workers, Ginevra 2006. Tali pubblicazioni sono tutti scaricabili dal sito dell’Oil/Ilo (www.ilo.org). 40 Sui rapporti tra la Convenzione Oil n. 29 e il Protocollo addizionale, cfr. infra p. 92 e ss. 50 In sostanza, non pare accettabile una situazione normativa quale quella attuale, in cui si registra una profonda frattura tra i concetti di lavoro forzato e tratta a scopo di sfruttamento lavorativo (sanzionati quali gravi reati contro i diritti fondamentali) e tutti gli altri casi di sfruttamento lavorativo non assimilabili ai precedenti che (come nel nostro attuale ordinamento) appaiono relegati in un limbo bagatellare, malgrado anch’essi costituiscano gravi violazioni dei diritti delle persone. Peraltro, la soluzione residuale non può essere quella di costruire interpretazioni forzate, volte a far rientrare lo sfruttamento lavorativo tout court all’interno del fenomeno della tratta, che costituisce un’area più ristretta e qualificata. Certo è che il compito di delineare i confini dello sfruttamento lavorativo nelle sue diverse qualificazioni41 è tutt’altro che agevole, se è vero che i primi tentativi dimostrano non poche difficoltà nel fornire una definizione di grave sfruttamento lavorativo o di lavoro forzato (quando non si traduca in vera e propria tratta di persone) che sia sufficientemente chiara per gli interpreti, non sia eccessivamente restrittiva e d’altro canto non si confonda con più blande (e talvolta quasi fisiologiche) irregolarità nelle relazioni tra datore di lavoro e lavoratore. D’altronde, le difficoltà di regolare le forme meno clamorose di sfruttamento lavorativo non sono soltanto italiane. In alcuni paesi come, ad esempio, Germania, Francia e Belgio42 si è inteso operare definizioni del lavoro forzato che presentano pregi, ma non ricomprendono ogni possibile forma di sfruttamento del lavoro. In Germania, la tratta a scopo di sfruttamento nel lavoro forzato si riscontra quando le condotte di reclutamento a carico della persona vulnerabile sono seguite dall’impiego del lavoratore in condizioni che mostrano una palese disparità rispetto alle condizioni di lavoro di altri lavoratori dello stesso settore o di analoghi. Si tratta di una definizione abbastanza restrittiva, che apre la scena ad una notevole serie di problemi applicativi. In Francia vi sono tre diversi profili punitivi che disciplinano distintamente situazioni riconducibili al lavoro forzato. Il primo sanziona il reclutamento, l’accoglienza e la tratta della persona trafficata; gli altri due lo sfruttamento del lavoro forzato. In ogni caso il lavoro forzato è definito in modo restrittivo come “condizioni di lavoro o di vita contrarie alla dignità del lavoratore”, ovvero come “lavoro non retribuito o lavoro la cui retribuzione appare chiaramente completamente sproporzionata rispetto all’importanza della prestazione 41 Ci si riferisce alle seguenti qualificazioni: lavoro irregolare e sommerso, grave sfruttamento lavorativo non identificabile come tratta, tratta a scopo di sfruttamento lavorativo e/o lavoro forzato. 42 Considerazioni rilevabili su Europol, Public information (Annex III, Legislation on trafficking in human beings), 2005. 51 lavorativa fornita” ovvero ancora come “condizioni di lavoro o di vita incompatibili con la dignità umana”. Analogamente, nella legislazione belga43 (legge 10 agosto 2005 di modifica al codice penale) che punisce le azioni di chi (mediante i presupposti del reclutamento, trasporto, etc.) induce una persona a (o permette alla persona di) lavorare “in condizioni contrarie alla dignità umana”. L’esplicazione di cosa integrerebbe le suddette condizioni non è contenuta nella legge belga, ma è illustrata nel corso dei lavori parlamentari e in successive direttive ministeriali (che evidentemente in Italia non potrebbero avere un ruolo decisivo nell’interpretazione di una norma così ampia), le quali menzionano salari molto bassi o completamente negati, orario di lavoro prolungato rispetto ai limiti legali o contrattuali, condizioni inidonee di sicurezza dei luoghi di lavoro. Certamente utile è la previsione, sia in Francia che in Belgio, secondo cui in caso di reclutamento finalizzato all’impiego lavorativo in condizioni contrarie alla dignità umana non è necessaria la prova di alcuna coercizione, che invece, costituisce una circostanza aggravante della condotta. Tuttavia, definire il lavoro forzato in termini di contrarietà rispetto alla dignità umana significa operare una lettura per certi versi restrittiva della Convenzione Oil n. 29, abbandonando in un’area grigia molteplici situazioni di grave sfruttamento lavorativo che potrebbero rientrare nell’alveo del lavoro forzato delineato dall’Oil e comunque si caratterizzano per abusi e vantaggi del datore di lavoro a discapito del lavoratore (senza necessariamente minare la dignità della persona, sempre che si abbia una chiara idea di quali sono gli atti e i comportamenti contrari alla dignità umana). In linea con le difficoltà legislative di tanti paesi, anche all’interno del nostro ordinamento mancano definizioni e discipline legislative in grado di fronteggiare i fenomeni di sfruttamento lavorativo. Vi sono, allo stato attuale, non poche asperità nel processo volto a definire con esattezza quali siano le condotte di grave sfruttamento lavorativo che possano essere sanzionate in quanto assimilate al lavoro forzato o che possano essere introdotte come nuove ipotesi di reato dirette a colmare le zone grigie in cui proliferano situazioni di approfittamento e sfruttamento non tanto gravi da venire considerate lavoro forzato o tratta a scopo di sfruttamento lavorativo. Questo è un problema rilevante, alla luce della nostra legislazione penale vigente che non prevede adeguate risposte di contrasto, salvo che le condotte poste in essere abbiano le caratteristiche previste dai reati di tratta o riduzione in schiavitù, nel qual caso evidentemente saranno applicabili gli articoli 600, 43 Cfr. Centre for Equal Opportunities and Opposition to Racism, Belgian Policy on Trafficking in and Smuggling of Human Beings: Shadows and Lights, Bruxelles, 2005, in http://www.diversiteit.be/NR/rdonlyres/4DCB2177-A42D-439D-A81BB45FE7BAE244/0/05_reporttrafficking.pdf 52 601 o 602 del codice penale. Inoltre, altro interrogativo che si pone, parzialmente risolvibile allo stato attuale in senso affermativo, è se, eventualmente, alle vittime di lavoro forzato o di altre forme di sfruttamento lavorativo siano applicabili gli strumenti di tutela e protezione sociale, previsti dall’art. 18 del decreto legislativo n. 286 del 1998 e dall’art. 13 della legge n. 228/2003. In sostanza, esiste una notevole area che si colloca tra le previsioni incriminatici con sanzioni penali gravi riguardanti casi di sfruttamento lavorativo che si manifestino con gli elementi della tratta, di cui agli articoli 600, 601 e 602 del codice penale e, su di un livello di gravità e deterrenza infinitamente più blando, le norme che attualmente puniscono l’utilizzo di lavoro irregolare, che possono essere ricondotte agli articoli 12, comma 544, e 22, comma 1245, del d.lgs. 286/1998 con riferimento ai lavoratori extracomunitari irregolari o all’art. 18, comma 146, del d.lgs. 276/2003 (meglio conosciuto come decreto attuativo della 44 Art. 12, comma 5, d.lgs. 286/1998 (Disposizioni contro le immigrazioni clandestine) Fuori dei casi previsti dai commi precedenti, e salvo che il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero o nell’ambito delle attività punite a norma del presente articolo, favorisce la permanenza di questi nel territorio dello Stato in violazione delle norme del presente testo unico, è punito con la reclusione fino a quattro anni e con la multa fino a lire trenta milioni. 45 Art. 22, comma 12, d.lgs. 286/1998 (Lavoro subordinato a tempo determinato e indeterminato) Il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, revocato o annullato, è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno e con l’ammenda di 5.000 euro per ogni lavoratore impiegato. 46 Art. 18 d.lgs. 276/2003 (Sanzioni penali) 1. L’esercizio non autorizzato delle attività di cui all’articolo 4, comma 1, è punito con la sanzione dell’ammenda di euro 5 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro. L’esercizio abusivo della attività di intermediazione è punito con la pena dell’arresto fino a sei mesi e l’ammenda da euro 1.500 a euro 7.500. Se non vi è scopo di lucro la pena è della ammenda da euro 500 a euro 2.500. Se vi è sfruttamento dei minori, la pena è dell’arresto fino a diciotto mesi e l’ammenda è aumentata fino al sestuplo. Nel caso di condanna, è disposta in ogni caso la confisca del mezzo di trasporto eventualmente adoperato per l’esercizio delle attività di cui al presente comma. 2. Nei confronti dell’utilizzatore che ricorra alla somministrazione di prestatori di lavoro da parte di soggetti diversi da quelli di cui all’articolo 4, comma 1, lettera a), ovvero da parte di soggetti diversi da quelli di cui all’articolo 4, comma 1, lettera b), o comunque al di fuori dei limiti ivi previsti, si applica la pena dell’ammenda di euro 5 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione. Se vi è sfruttamento dei minori, la pena è dell’arresto fino a diciotto mesi e l’ammenda è aumentata fino al sestuplo. 3. La violazione degli obblighi e dei divieti di cui agli articoli 20, commi 1, 3, 4 e 5, e 21, commi 1, 2, nonché per il solo somministratore, la violazione del disposto di cui al comma 3 del medesimo articolo 21 è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 250 a euro 1.250. 4. Fatte salve le ipotesi di cui all’articolo 11, comma 2, chi esiga o comunque percepisca compensi da parte del lavoratore per avviarlo a prestazioni di lavoro oggetto di somministrazione è punito con la pena alternativa dell’arresto non superiore ad un anno o dell’ammenda da euro 2.500 a euro 6.000. In aggiunta alla sanzione penale è disposta la cancellazione dall’albo. 53 “legge Biagi”) con riferimento all’intermediazione clandestina di manodopera, attività meglio nota come “caporalato” e punita con reato contravvenzionale. La difficoltà di reprimere le forme di sfruttamento lavorativo non rientranti nella tratta, o comunque non necessariamente attinenti a profili di lavoro di migranti irregolari, ha indotto talune procure della Repubblica ad applicare norme incriminatici di parte generale come, ad esempio, gli articoli 610, 629, 572 c.p., che potenzialmente possono coprire determinate condotte di coercizione e sfruttamento poste in essere da datori di lavoro criminali47. Ora non vi è dubbio che anche in questi casi, sussistendone i presupposti, non dovrebbe trovare difficoltà l’applicazione dell’art. 18 d.lgs. 286/98 con riferimento all’assistenza e alla protezione delle vittime, soprattutto nei casi in cui si possa contestare l’art. 629 c.p. Nelle more di un auspicato intervento legislativo si rileva che è all’esame della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati il progetto di legge n. 2784, già approvato dal Senato e recante il titolo “interventi per il contrasto del lavoro irregolare48” che, a prescindere dall’esito parlamentare, individua un percorso normativo sempre più richiesto dalle emergenze dei fenomeni. 5. In caso di violazione dell’articolo 10 trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 38 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nonché nei casi più gravi, l’autorità competente procede alla sospensione della autorizzazione di cui all’articolo 4. In ipotesi di recidiva viene revocata l’autorizzazione. 6. Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali dispone, con proprio decreto, criteri interpretativi certi per la definizione delle varie forme di contenzioso in atto riferite al pregresso regime in materia di intermediazione e interposizione nei rapporti di lavoro. 47 Per i margini di applicabilità della norma di cui all’art. 572 c.p. (che reca in epigrafe il titolo “maltrattamenti in famiglia” ed è appunto collocata nel capo dedicato ai delitti contro l’assistenza familiare) al settore lavorativo, cfr. D. Mancini, Profili penalistici di tutela nel mobbing, Edizione Prima, Bologna, 2005. 48 Art. 1 (Grave sfruttamento dell’attività lavorativa) 1. Dopo l’articolo 603 del codice penale è inserito il seguente: “Art. 603 bis. – (Grave sfruttamento dell’attività lavorativa). – Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque recluti lavoratori, ovvero ne organizzi l’attività lavorativa, sottoponendo gli stessi a grave sfruttamento, mediante violenza, minaccia o intimidazione, anche non continuative, esercitate nei confronti del lavoratore sottoposto a condizioni lavorative caratterizzate da gravi violazioni di norme contrattuali o di legge ovvero a un trattamento personale degradante, connesso alla organizzazione e gestione delle prestazioni, è punito con la reclusione da tre a otto anni, nonché con la multa di euro 9.000 per ogni persona reclutata o occupata. La pena è aumentata se tra le persone reclutate o occupate di cui al precedente periodo vi sono minori degli anni diciotto o stranieri irregolarmente soggiornanti. La condanna per il delitto di cui al primo comma comporta: a) l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, per il periodo di un anno; b) la perdita del diritto di beneficiare di qualsiasi agevolazione, finanziamento, premio, restituzione e sostegno regionale, delle province autonome, nazionale e comunitario per l’anno o la campagna a cui si riferisce l’illecito accertato e la revoca dei suddetti benefìci già concessi per 54 Il disegno di legge del governo è volto a contrastare lo sfruttamento dei lavoratori, con particolare riferimento agli stranieri irregolarmente presenti sul territorio nazionale, nonché al rafforzamento dell’apparato sanzionatorio per la somministrazione e l’impiego del lavoro irregolare. A tal fine, l’articolo 1, comma 1, del provvedimento introduce, in primo luogo, nel libro II, capo III del codice penale, dedicato ai “delitti contro la personalità individuale”, il nuovo art. 603 bis, rubricato “Grave sfruttamento dell’attività lavorativa”, ponendosi il medesimo anno o campagna. Nel settore agricolo si applicano, a tale fine, l’articolo 33 del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228, e successive modificazioni, e l’articolo 3, comma 5, della legge 23 dicembre 1986, n. 898; c) ove si accerti l’occupazione di almeno un lavoratore straniero irregolarmente soggiornante sul territorio nazionale, la sospensione delle attività dell’unità produttiva interessata per un mese, con esclusione delle attività concernenti cicli biologici agricoli o di allevamento del bestiame.” 2. All’articolo 380, comma 2, lettera d), del codice di procedura penale, le parole: “e delitto di iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile previsto dall’articolo 600 quinquies” sono sostituite dalle seguenti: “delitto di iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile previsto dall’articolo 600 quinquies e delitto di grave sfruttamento dell’attività lavorativa previsto dall'articolo 603 bis.” Art. 2 (Disciplina sanzionatoria) 1. All’articolo 22 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modifiche: a) il comma 12 è sostituito dal seguente: “12. Il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri irregolarmente soggiornanti è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno, nonché con l’ammenda di 5.000 euro per ogni lavoratore impiegato. Al datore di lavoro domestico non organizzato in forma di impresa, nei casi di cui al primo periodo, si applica la sola ammenda da 3.000 a 5.000 euro, qualora siano impiegati contestualmente non più di due lavoratori”; b) dopo il comma 12 sono inseriti i seguenti: “12 bis. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri irregolarmente soggiornanti, usufruendo dell’intermediazione abusiva di cui all’articolo 18, comma 1, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa di 7.000 euro per ogni lavoratore impiegato. 12 ter. Il luogo di lavoro ove sia occupato il lavoratore straniero che versi nelle condizioni di cui al comma 12 bis può essere sottoposto al sequestro preventivo di cui all’articolo 321 del codice di procedura penale.” 2. La condanna per il delitto di cui all’articolo 22, comma 12 bis, del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998, introdotto dal comma 1 del presente articolo, comporta le pene accessorie di cui all’articolo 603 bis, secondo comma, del codice penale, introdotto dall’articolo 1 della presente legge. 3. All’articolo 25 quinquies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modifiche: a) al comma 1, lettera b), le parole: “e 600 quinquies” sono sostituite dalle seguenti: “600 quinquies e 603 bis”; b) dopo il comma 1 è inserito il seguente: 55 sulla scia dei più gravi reati che lo precedono, distinguendosi per minore gravità ma per identità di categoria di diritti lesi. Nello specifico, il reato, sanziona tutti coloro che reclutano lavoratori, ovvero ne organizzano l’attività lavorativa, sottoponendoli a grave sfruttamento “mediante violenza o minaccia o intimidazione” (anche non continuative) e le cui condizioni di lavoro costituiscono “violazione di norme contrattuali o di legge” o sono, comunque, considerate “condizioni” degradanti. In relazione a tale disposizione si osserva che la fattispecie in esame configura espressamente come alternative le tre ipotesi, con la conseguenza che ai fini della configurabilità del reato in esame e della applicabilità della relativa sanzione è sufficiente che allo sfruttamento mediante violenza o minaccia o intimidazione si associ uno solo dei tre predetti comportamenti. Questa formulazione si sostituisce alla precedente versione presentata al Senato in cui era presente un inaccettabile automatismo tra la sussistenza di alcuni presupposti (previsione di una retribuzione ridotta di oltre un terzo rispetto ai minimi contrattuali, sistematiche e gravi violazioni della disciplina in tema di orario di lavoro e di riposi, gravi violazioni della disciplina in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, reclutamento e avviamento al lavoro tramite intermediazione abusiva) e sussistenza del reato. Ai sensi del comma 1 dell’articolo in esame, la sanzione prevista per la violazione del nuovo articolo 603 bis è determinata nella reclusione da 3 a 8 anni e la multa di 9.000 euro per ogni persona reclutata o occupata. Un aumento di pena è stabilito se tra i lavoratori gravemente sfruttati vi sono minori o stranieri “irregolarmente soggiornanti” (tra cui sarebbe logico ricomprendere sia i clandestini, sia coloro con permesso scaduto e non rinnovato). L’introduzione dell’aggravante chiarisce che il reato base di cui all’art. 603 bis c.p. non riguarda solo gli stranieri irregolari ma anche quelli con regolare “1 bis. La sanzione pecuniaria di cui alla lettera c) del comma 1 si applica all’ente anche in relazione al delitto di cui all’articolo 22, comma 12 bis, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”; c) al comma 2, dopo le parole: “lettere a) e b),” sono inserite le seguenti: “e nel comma 1 bis”; d) dopo il comma 2 è inserito il seguente: “2 bis. Per i delitti di cui all’articolo 603 bis del codice penale e di cui all’articolo 22, comma 12 bis, del testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998, è esclusa in ogni caso dall’ambito delle sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, la sospensione delle attività concernenti cicli biologici agricoli o di allevamento del bestiame.” 4. Le sanzioni amministrative pecuniarie previste per le infrazioni concernenti un rapporto di lavoro che riguardi un lavoratore straniero irregolarmente soggiornante sono raddoppiate. Art. 3. (Entrata in vigore) 1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. 56 permesso di soggiorno nonché gli stessi lavoratori italiani in quanto sottoposti a situazioni di sfruttamento. Ai sensi del medesimo comma 1 dell’articolo in esame, a seguito della condanna per il reato di cui all’art. 603 bis c.p., conseguono sanzioni interdittive quali: l’incapacità per un anno di contrattare con la pubblica amministrazione; la perdita di agevolazioni, premio, finanziamenti, la sospensione dell’unità produttiva per un mese, in caso venga accertata l’occupazione di almeno un lavoratore straniero irregolarmente soggiornante. L’esclusione di questa sospensione per quelle attività relative a cicli biologici agricoli o di allevamento del bestiame appare rispondere alla necessità di non provocare un danno verosimilmente maggiore di quello procurato con l’illecito. Il comma 2 dell’articolo 1, attraverso la novella dell’articolo 380, comma 2, lettera d), del codice di procedura penale, incide in maniera indiretta sull’art. 18 del citato T.U. immigrazione; infatti, la previsione dell’arresto obbligatorio in flagranza per il nuovo reato comporta l’inclusione dello stesso nell’ambito della casistica prevista all’articolo 18, comma 1, T.U., per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale. L’articolo 2 del provvedimento interviene, anzitutto, sulla disciplina sanzionatoria relativa ai datori di lavoro che occupano lavoratori stranieri “irregolarmente soggiornanti” (comma 1). Il comma 1 riformula, infatti, il comma 12 dell’articolo 22 T.U. in materia di immigrazione (d.lgs. 286/1998), cui aggiunge, inoltre, due nuovi commi (12 bis e 12 ter). L’art. 22, comma 12 del d.lgs. 286/1998 prevede, attualmente, che il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno e con l’ammenda di 5.000 euro per ogni lavoratore impiegato. Analogamente a quanto previsto dal precedente articolo 1, la contravvenzione disposta dal comma 12 dell’art. 22 del d.lgs. 286/1998, si riferisce, genericamente, al datore di lavoro che occupi alle proprie dipendenze “lavoratori stranieri irregolarmente soggiornanti”, mentre la disposizione attualmente vigente si riferisce, più nel dettaglio, all’utilizzo di lavoratori privi del permesso di soggiorno per motivi di lavoro (perché scaduto e non rinnovato, revocato o annullato). In relazione, poi, al regime sanzionatorio, il nuovo comma 12, conferma le pene già previste dal vigente art. 22, comma 12 del citato d.lgs. 286/1998, in relazione all’illecito principale. Il contenuto della disposizione è, però, integrato per escludere dalla pena detentiva il datore di lavoro domestico: “a) che non sia organizzato in forma d’impresa; b) che non occupi alle proprie dipendenze più di due lavoratori stranieri irregolarmente soggiornanti”. Al riguardo, è prevista, infatti, la sola pena dell’ammenda da 3.000 e 5.000 euro. 57 Espressamente la relazione del progetto motiva tale esclusione con “l’esigenza di evitare sanzioni sproporzionate nei confronti di soggetti socialmente deboli, come ad esempio anziani non autosufficienti che si avvalgano di badanti.” In relazione, poi, al nuovo comma 12 bis dell’art. 22, previsto dalla lettera b) del comma 1 dell’articolo 2 in esame, tale disposizione aggiunge una nuova fattispecie di reato riguardante il datore di lavoro che utilizzi lavoratori stranieri “irregolarmente soggiornanti” usufruendo di un’attività di “intermediazione abusiva di manodopera” ai sensi dell’art. 18 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, recante riforma della disciplina in materia di occupazione e mercato del lavoro (cd. legge Biagi); la sanzione prevista è quella della reclusione fino a 3 anni e la multa di 7.000 euro per ogni lavoratore straniero impiegato. La trasformazione della semplice contravvenzione prevista dall’articolo 18 della legge Biagi per i lavoratori italiani, in delitto, nei casi in cui l’intermediazione abusiva riguardi soggetti stranieri irregolarmente soggiornanti, si giustifica ampiamente “sia alla luce della particolare condizione di debolezza di tali soggetti, sia alla stregua del grave allarme sociale che tali episodi ingenerano”. Infine, il nuovo comma 12 ter dell’art. 22 del T.U. prevede la possibilità che, a fini cautelari, venga disposto il “sequestro del luogo di lavoro” (ai sensi dell’art. 321 c.p.p.) in cui risulti occupato il lavoratore straniero che versi nelle condizioni sopra indicate dal nuovo comma 12 bis. Il comma 2 dell’art. 2 del disegno di legge estende, poi, le pene accessorie previste in caso di condanna per “grave sfruttamento dell’attività lavorativa” di cui all’art. 603 bis c.p. alla condanna per il nuovo reato di cui al citato comma 12 bis dell’art. 22 del T.U. immigrazione. Il comma 3 dell’art. 2 mira al necessario coordinamento normativo conseguente all’introduzione dei due nuovi reati di cui all’art. 603 bis c.p. e art. 22, comma 12 bis T.U. immigrazione con particolare riferimento la disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche di cui al decreto legislativo n. 231/2001 che prevede penetranti sanzioni di carattere economico. Infine, si ricorda, tra le altre fattispecie sanzionatorie, che l’art. 3, comma 3, del decreto legge n. 12 del 2002 (convertito dalla legge n 73 del 2002) punisce l’impiego di lavoratori dipendenti non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria con la sanzione amministrativa da euro 1.500 a euro 12.000 per ciascun lavoratore, maggiorata di 150 euro per ciascuna giornata di lavoro effettivo. Inoltre, si prevede che l’importo delle sanzioni civili connesse all’omesso versamento dei contributi e premi riferiti a ciascun lavoratore impiegato irregolarmente non può essere inferiore a 3.000 euro, a prescindere dalla durata della prestazione lavorativa accertata. Al riguardo si consideri che le sanzioni civili, in caso di omesso o tardivo versamento dei contributi e dei premi dovuti alle gestioni previdenziali ed assistenziali, sono previste, dall’art. 116, commi 8 e 9, della legge n. 388/2000, in percentuale 58 sull’importo dei contributi o premi non corrisposti entro le scadenze. Le sanzioni civili sono applicate in ragione d’anno. Non è possibile soffermarsi oltre sulle luci e sulle possibili ombre di un siffatto intervento normativo (sempre che l’iter si concluda positivamente). Resta il fatto che il legislatore in tal modo prevederebbe una griglia abbastanza completa di risposte sanzionatorie in un ambito che ne è tuttora sprovvisto. Il tutto nell’ottica della tutela di diritti fondamentali delle persone adibite al lavoro e con la corretta valorizzazione degli strumenti di assistenza e protezione. In conclusione, sia per la comprensione globale del fenomeno, sia in prospettiva di eventuali future correzioni legislative, l’interprete, qualunque sia l’angolo di visuale adottato, deve essere preliminarmente consapevole del fatto che traffico dei migranti e tratta di persone sono fenomeni che intaccano la persona umana e la sua dimensione di diritti fondamentali, indipendentemente dalla disponibilità del migrante ad essere trasportato in condizioni disumane o ad essere sfruttato. Queste scelte, quasi sempre, sono dettate soltanto dalla speranza di poter avere una migliore prospettiva di vita, impossibile nel paese di origine per le più disparate ragioni (guerre, persecuzioni, povertà, etc.). Ad ulteriore conferma della necessità di un approccio scevro da giudizi di valore, si consideri che tutte le istituzioni internazionali affrontano il fenomeno della tratta a prescindere dalla presupposizione o dall’emissione di giudizi di disvalore sul fenomeno sociale della prostituzione e sulla diversa disciplina che i singoli Stati riservano a questo settore, proprio per le differenze di approccio esistenti in materia e le conseguenti implicazioni storiche, religiose, politiche esistenti. Ciò non significa che la regolamentazione concreta del fenomeno sottostante, sia nel settore del lavoro, sia in quello della prostituzione, non possa avere una certa incidenza, sia essa positiva o negativa, sul traffico di migranti e sulla tratta di persone49. 49 Si veda in proposito, Transcrime – Joint Research Centre on Transnational Crime, Study on national legislation on prostitution and the trafficking in women and children, Università degli Studi di Trento/Università Cattolica di Milano, 2005; tale studio è stato eseguito su commissione del Parlamento europeo. Inoltre, è recentissimo il dibattito aperto dalle proposte di modifica della legge Merlin, avanzate dall’Osservatorio sulla prostituzione e sui fenomeni delittuosi ad essa connessi, istituito presso il Ministero dell’Interno, in data 2 ottobre 2007 e reperibili sul sito www.interno.it. Pur sussistendo pericoli di confusione tra fenomeni che sono distinti e potenziali riverberi sulle azioni di contrasto alla tratta ad opera di norme che regolano e disciplinano l’esercizio della prostituzione (ad esempio, vietandola in luoghi sensibili), l’Osservatorio stabilisce alcuni punti importanti e propone anche iniziative utili. Si sottolinea la priorità della protezione delle vittime di forme di violenza e grave sfruttamento; si propone di implementare sul territorio il lavoro in rete tra la magistratura (le Procure della Repubblica, le Direzioni distrettuali antimafia), le forze dell’ordine, gli enti pubblici e del privato sociale accreditati; sviluppare il ruolo delle prefetture e questure nel contrasto della tratta degli esseri umani e dello sfruttamento sessuale; dare continuità e certezza alle risorse per i progetti di tutela; adottare le disposizioni contenute nel progetto di riforma del T.U. sull’immigrazione. 59 2. Il contrasto integrato alla tratta e al traffico tra rispetto dei diritti umani ed esigenze investigative 2.1 Le linee guida delle fonti sopranazionali e la Convenzione Onu di Palermo Le specificità che caratterizzano la tratta di persone e la sua natura transnazionale rendono oltremodo difficile la sua conoscenza e ancor più le possibilità di una sua prevenzione e repressione a causa delle difficoltà di coordinamento1 tra i diversi Stati, le difformità esistenti tra le normative sanzionatorie e gli strumenti investigativi nazionali, e la valutazione di liceità delle condotte di traffico (o, comunque, per una sorta di sostanziale disinteresse alla loro punizione). La conoscenza condivisa del fenomeno in ambito internazionale costituisce infatti una premessa imprescindibile per qualsiasi azione di contrasto che voglia risultare efficace. A questo proposito si segnala il recente studio dell’agenzia Onu Office on Drugs and Crime, dal titolo Trafficking in persons: Global patterns (2006)2, che fornisce un quadro globale, aggiornato e suddiviso per aree geografiche, sulla tratta di persone e il traffico di migranti. Questa importante ricerca è stata elaborata nell’ambito del Global Programme against Trafficking in Human Beings, gestito dall’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime) e dall’Unicri (United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute), che si prefigge il compito di illustrare le cause dei fenomeni in oggetto e di promuovere l’adozione di utili ed efficaci strategie di contrasto sopranazionale. Parallelamente all’opera informativa e conoscitiva, per un’efficace azione di contrasto alla tratta e al traffico, è di assoluto rilievo l’armonizzazione normativa a livello transnazionale che permetta di condividere definizioni e prassi operative. La distinzione ormai diffusamente utilizzata fra trafficking in persons (per la tratta di persone in condizioni di assoggettamento e con finalità di sfruttamento) e smuggling of migrants (in senso letterale “contrabbando 1 Si veda l’esaustiva illustrazione di C. Motta, “Il coordinamento delle indagini in materia di traffico di persone”, in A. Spataro, G. Melillo, P.L. Vigna, Il coordinamento delle indagini di criminalità organizzata e terrorismo, Giuffrè, Milano, 2004. 2 Cfr. www.unodc.org/unodc/en/trafficking_human_beings.html, con informazioni anche sul Global Programme against Trafficking in Human Beings. 60 di migranti”, per i casi di traffico), anche per la sinteticità dei termini, consente di individuare subito e definire con maggior precisione le due articolazioni dei rispettivi fenomeni. Ad oggi, tuttavia, i passi da compiere sono ancora molti. A sette anni di distanza, molti degli Stati che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale di Palermo3 non hanno purtroppo ancora firmato e ratificato i due Protocolli addizionali, quello per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di donne e bambini, e quello per combattere il traffico di migranti, via mare e via aria. Tuttavia, il numero minimo di Stati firmatari previsto dall’art. 38 è stato raggiunto e la Convenzione è entrata in vigore il 29 settembre 2003, malgrado il tardivo atto di ratifica del Parlamento italiano, che si è fatto attendere fino al 15 febbraio 2006. I due Protocolli rappresentano il punto di arrivo normativo di un lungo percorso intrapreso nel secolo scorso dalla comunità internazionale, al fine di contrastare il fenomeno della tratta di persone e quello del traffico di migranti. In base all’art. 3 del Protocollo addizionale per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di donne e bambini, per “tratta di persone” si intende “il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato o prestazioni forzate, schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi.” L’art. 3 del Protocollo addizionale per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria contiene la seguente definizione di “traffico di migranti”: “il procurare, al fine di ricavare, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o materiale, l’ingresso illegale di una persona in uno Stato di cui la persona non è cittadina o residente permanente e qualifica ingresso illegale il varcare i confini senza soddisfare i requisiti necessari per l’ingresso legale nello Stato di accoglienza.” Considerata l’elasticità più volte sottolineata, con cui occorre operare la distinzione tra le due forme di movimento transnazionale dei migranti, appare chiaro quanto sia complesso adottare una strategia efficace, sia in chiave preventiva, sia in chiave repressiva. È probabilmente molto più agevole rilevare cosa non debba essere fatto tanto a livello internazionale, quanto a livello nazionale. Certamente non possono essere attivate strategie e azioni di contrasto 3 Convenzione e Protocolli sono consultabili al sito www.unodc.org. 61 ai fenomeni di traffico e di tratta senza implementare un’adeguata cooperazione internazionale tra le agenzie e gli attori che, a vario titolo, operano in ambito giuridico, sociale, culturale, economico, etc. Evidentemente, quindi, le normative interne non possono far altro che seguire la medesima direzione che si auspichi venga tracciata in campo sovranazionale. Occorre, poi, considerare che la visione di intervento deve essere integrata, vale a dire consapevole di tutte le diverse implicazioni tematiche e problematiche4. Ad esempio, non può avere utilità determinante l’adozione di azioni repressive di contrasto se non debitamente accompagnate da altre misure che tengano in considerazione la natura globale e multiforme del fenomeno. In modo sintetico, si può affermare che l’intera rete integrata di intervento deve recare quale fulcro centrale di ispirazione la tutela dei diritti, non solo quelli degli Stati, bensì anche i diritti umani, poiché i migranti sono prima di tutto persone soggetti di diritto. Il complesso delle misure introdotte con la Convenzione di Palermo e con i relativi Protocolli, pur permeato da un’impostazione tipicamente investigativa e giudiziaria, risulta assai ampio e costruttivo proprio in questa direzione. Vengono citati l’obbligo di criminalizzare i delitti individuati dalla Convenzione e dai Protocolli, l’attuazione di misure di prevenzione, e soprattutto, la predisposizione di un più efficace sistema di cooperazione al fine di individuare, processare e punire i responsabili, recuperando nei limiti del possibile i profitti delle condotte delittuose. Lo scopo di incrementare l’efficacia della cooperazione internazionale in materia assume un valore costitutivo e fondante dell’intera Convenzione e viene menzionato in apertura dell’intero testo (art. 1). Per realizzare tale obiettivo si prevede un insieme di misure integrate per sviluppare la cooperazione giudiziaria e di polizia e per elevare la capacità preventiva nei confronti delle organizzazioni criminali transnazionali. In particolare, il testo si preoccupa di fornire preliminarmente definizioni comuni di riferimento in un terreno da sempre afflitto da carenze di determinatezza, con riferimento alla nozione di criminalità organizzata (art. 2); si preoccupa di specificarne il carattere di transnazionalità che, rappresentando la ratio stessa dell’intervento sovranazionale in materia, va precisato nella sua esatta portata (art. 3). Gli artt. 5-9 della Convenzione stabiliscono degli obblighi per gli Stati di legiferare in materia introducendo ipotesi criminose, con particolare riferimento alle forme concorsuali di reato, al riciclaggio e alla corruzione che, se costituiscono per il nostro ordinamento istituti noti e abbastanza ben disciplinati, per altri Stati sono ancora ignoti o poco regolati o estremamente disattesi nella prassi. Si pensi ai metodi occulti di circolazione del denaro mediante le 4 Commissione europea, op. cit. 62 agenzie di money transfer o il sistema Hawala5, che tanti problemi pongono nel contrasto ad ogni forma di crimine organizzato transnazionale6, compreso il terrorismo internazionale. Per quanto attiene alla corruzione è di estrema attualità la diffusione del fenomeno nei paesi dell’Est europeo, alcuni dei quali appena entrati a far parte dell’Unione europea. Gli artt. 12-15 riguardano le forme di sequestro e confisca, particolarmente sentite dalla Convenzione, poiché a ragione dirette a sottrarre ai trafficanti il motivo essenziale del loro crimine. Il dettaglio con cui viene fatto obbligo agli Stati di intervenire sulle proprie legislazioni è lodevole, così come gli obblighi di cooperazione che vengono menzionati. Gli artt. 17-21 della Convenzione disciplinano i profili di reciproca assistenza nel campo investigativo e giudiziario. L’art. 17 dedica molto spazio all’estradizione; l’art. 18 fornisce un’eccellente attenzione alla mutua assistenza legale, con indicazione completa dei presupposti e delle forme per attivare la cooperazione. Gli artt. 19 e 20 individuano la possibilità di cooperazione nelle indagini, anche mediante squadre investigative comuni7. L’art. 21 descrive la possibilità di trasferimenti di procedimenti in un unico Stato per concentrare gli sforzi giurisdizionali in caso di transnazionalità. In un quadro di tale ampiezza e impegno, in cui l’integrazione di strumenti di natura diversa si accompagna ad un innalzamento complessivo del livello di cooperazione, un particolare significato assumono le misure sostanziali. Fra queste, in particolare, si è già richiamato il ruolo prioritario che giocano le definizioni comuni di reato, con i connessi obblighi di incriminazione posti a carico degli Stati per realizzare una piattaforma omogenea di tutela penale in settori chiave del contrasto alla criminalità organizzata. Questo tipo di intervento rappresenta una novità straordinaria, poiché costituisce un passo in avanti lungo il percorso della costruzione di un diritto penale sovranazionale. Per cogliere la portata dell’innovazione bisogna porre attenzione all’impostazione rigorosa dei rapporti fra sistema penale e singoli confini nazionali. È noto, infatti, che tradizionalmente la sovranità nazionale 5 L’hawala è un sistema di trasferimenti informali di fondi sorto anticamente in India prima della diffusione in quelle zone dei sistemi bancari occidentali. È un strumento eccezionale e lecito, tanto da costituire uno dei maggiori mezzi internazionali di trasferimento di ricchezza, ma facilmente utilizzabile come metodo di money laundering. 6 Per un quadro sintetico sui recenti metodi di riciclaggio, cfr. P.M. Jost (www.interpol.int/public/FinancialCrime/MoneyLaundering/hawala/default.asp). 7 È da segnalare il recente disegno di legge governativo in materia di squadre investigative comuni che, prefiggendosi di attuare nell’ordinamento interno la decisione quadro 2002/465/Gai del Consiglio dell’Unione europea del 13 giugno 2002, dovrebbe introdurre la possibilità di costituire squadre investigative comuni per lo svolgimento di indagini riguardanti i reati di competenza delle direzioni distrettuali antimafia e rientranti nella previsione di cui all’art. 51, comma 3 bis, c.p.p. 63 in materia penale ha sempre escluso la scelta dei reati e delle relative sanzioni dall’attività normativa internazionale di contrasto alla criminalità. La forma classica dell’assistenza giudiziaria, che uno Stato fornisce ad un altro su richiesta ed entro i limiti definiti da tale atto, era essenzialmente limitata a rapporti bilaterali fra Stati e in relazione a singole e ben circoscritte vicende processuali. L’insufficienza di tale approccio tradizionale di fronte ai caratteri della criminalità contemporanea ha consentito di raggiungere il consenso politico a sostegno della negoziazione della Convenzione, nonostante la disparità degli ordinamenti giuridici degli Stati appartenenti ad un’organizzazione internazionale di tipo globale come le Nazioni Unite. Ciò tra l’altro non rappresenta un caso singolo, sporadico, ma si affianca ad altre iniziative normative, come nel caso, ad esempio, del mandato d’arresto europeo o dello statuto della Corte penale internazionale8. Il metodo di lavoro e la concezione di base della Convenzione di Palermo si incentrano su un consenso di fondo dei paesi firmatari determinante, ma che comunque deve fare i conti con le difficoltà delle concrete scelte normative sul modello da assumere fra le molteplici soluzioni esistenti nei diversi ordinamenti interessati. Una siffatta questione non ha soltanto una valenza teorica, per valutare se il testo rispetta i canoni di una corretta tecnica di armonizzazione legislativa in materia penale, ma ha un evidente risvolto pratico, perché condiziona modalità e tempi di recepimento della Convenzione da parte dei singoli ordinamenti nazionali. Ritornando alle specifiche previsioni del sistema normativo costituito dalla Convenzione e dai Protocolli, si deve rilevare la centralità rivestita dall’espresso obbligo di prevedere meccanismi efficienti di assistenza alle vittime. Infatti, per quanto attiene alle esigenze di intervento in garanzia dei diritti, in particolare, il Protocollo sulla tratta di persone, che riserva a questo tema l’intero capo II, prevede lo scopo di tutelare e assistere le vittime, nel pieno rispetto dei loro diritti umani, con obbligo per gli Stati di introdurre dettagliate 8 Sul punto sono estremamente pertinenti le argomentazioni e i copiosi richiami di dottrina operati da M. Catenacci, in “Legalità” e “tipicità del reato” nello Statuto della corte penale internazionale, Giuffrè, Milano, 2003. Lo statuto della Corte penale internazionale, adottato durante la conferenza internazionale tenutasi a Roma nel luglio del 1998, è entrato in vigore il 1° luglio 2002. La Corte ha giurisdizione per i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, il genocidio e il crimine di aggressione. Lo statuto di Roma contempla la riduzione in schiavitù tra i crimini contro l’umanità; secondo l’articolo 7, comma 1 (c) e comma 2, dello statuto, infatti, per “riduzione in schiavitù” “s’intende l’esercizio su una persona di uno o dell’insieme dei poteri inerenti al diritto di proprietà, anche nel corso del traffico di persone, in particolare di donne e bambini a fini di sfruttamento sessuale.” Per quanto riguarda, invece, le riflessioni sul progetto di Costituzione europea, cfr. A. Bernardi, “Europeizzazione del diritto penale e progetto di Costituzione europea”, in Dir. Pen. Proc., 2004, p. 7 ss. 64 misure nel diritto interno9. Dal canto suo, il Protocollo sui migranti, più sinteticamente, afferma la necessità della contestuale tutela dei diritti dei migranti oggetto di traffico clandestino. Il Protocollo sulla tratta contiene, dunque, norme a tutela delle vittime che prevedono, fra l’altro, la protezione della loro riservatezza e identità, imponendo il rispetto della privacy delle vittime anche durante i procedimenti giudiziari. Contempla, inoltre, disposizioni finalizzate all’informazione, assistenza (anche tecnico-legale durante le fasi del procedimento) e protezione, con misure di recupero fisico, psicologico e sociale (anche in collaborazione con le organizzazioni non governative). È prevista la possibilità di fornire alloggio, assistenza sanitaria, opportunità di inserimento nonché di risarcimento del danno. È previsto altresì che ogni Stato Parte prenda in considerazione l’adozione di misure che consentano alle vittime di tratta di restare nello Stato di accoglienza e, viceversa, è prescritto allo Stato Parte di cui la vittima sia cittadina (nel caso in cui la stessa decida volontariamente di rimpatriare) di favorire il suo rientro, rilasciando i documenti di viaggio e ogni altra autorizzazione necessaria. Tratto saliente del Protocollo sul traffico di migranti è invece quello di garantire al migrante la non punibilità penale per il fatto di essere stato coinvol9 Art. 6 (Assistenza e protezione delle vittime della tratta di persone) 1. Nei casi opportuni e nella misura consentita dal suo diritto interno, ciascuno Stato Parte tutela la vita privata e l’identità delle vittime della tratta di persone, anche disponendo che i procedimenti giudiziari concernenti la tratta non si svolgano pubblicamente. 2. Ciascuno Stato Parte assicura che il suo ordinamento giuridico o amministrativo contenga le misure che consentono, nei casi appropriati, di fornire alle vittime della tratta di persone: (a) informazioni sui procedimenti giudiziari e amministrativi pertinenti; (b) assistenza per consentire che le opinioni e le osservazioni delle vittime vengano presentate e prese in considerazione nelle opportune fasi dei procedimenti penali contro gli imputati in modo tale da non pregiudicare i diritti della difesa. 3. Ciascuno Stato Parte considera l’attuazione di misure relative al recupero fisico, psicologico e sociale delle vittime della tratta di persone e, nei casi opportuni, in collaborazione con le organizzazioni non governative, altre organizzazioni interessate e altri esponenti della società civile, considera di fornire loro: (a) un alloggio adeguato; (b) consulenza e informazioni, in particolare in relazione ai loro diritti riconosciuti dalla legge, in una lingua che le vittime della tratta di persone comprendono; (c) assistenza medica, psicologica e materiale; e (d) opportunità di impiego, di istruzione e di formazione. 4. Ciascuno Stato Parte tiene conto, nell’applicare le disposizioni del presente articolo, dell’età, del sesso e dei bisogni specifici delle vittime della tratta di persone, in particolare delle necessità specifiche dei bambini, inclusa l’esigenza di un alloggio, d’istruzione e di cure adeguati. 5. Ciascuno Stato Parte cerca di assicurare la sicurezza fisica delle vittime della tratta di persone mentre si trovano nel proprio territorio. 6. Ciascuno Stato Parte assicura che il proprio sistema giuridico interno preveda misure che offrono alle vittime della tratta di persone la possibilità di ottenere un risarcimento per il danno subito. 65 to, quale oggetto, nelle condotte criminose individuate dal Protocollo (art. 5). Quest’ultimo elemento introduce un significativo fattore di attrito con l’attuale legislazione vigente in Italia che, invece, tende a criminalizzare il migrante irregolare. È ovvio, infatti, che l’extracomunitario africano o asiatico irregolare, prima ancora di essere tale, è stato un viaggiatore migrante, che ha usufruito del servizio di trasporto dei suoi vettori illegali, anche se rimasti ignoti. In sostanza, la figura di migrante irregolare coincide con quella di persona oggetti di traffico di migranti. 2.1.1 L’ambito europeo Sulla stessa scia, ma in ambito europeo, la Decisione quadro relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale, adottata dal Consiglio dell’Unione europea il 15 marzo 2001, ha sottolineato la necessità “che gli Stati membri ravvicinino le loro disposizioni (...) per raggiungere l’obiettivo di offrire alle vittime della criminalità, indipendentemente dallo Stato membro in cui si trovino, un livello elevato di protezione. È stato, poi, precisato che le disposizioni della decisione quadro non hanno come unico obiettivo quello di salvaguardare gli interessi della vittima nell’ambito del procedimento penale in senso stretto, ma comprendono altresì misure di assistenza alle vittime, prima, durante e dopo il procedimento penale, che potrebbero attenuare gli effetti del reato” (così nelle considerazioni generali), ed è stato ribadito l’impegno in virtù del quale “ciascuno Stato membro garantisce un livello adeguato di protezione alle vittime di reati” (art. 8.1). Orbene, tutte queste indicazioni non hanno natura meramente assistenzialistica, ma contribuiscono a rafforzare il sistema di prevenzione e repressione della tratta di persone e del traffico di migranti. Come si evince dal testo, esse mirano anche ad incentivare il momento repressivo e ben si inquadrano, quindi, nel più ampio scenario normativo internazionale di sollecitazione all’adozione da parte dei diversi paesi di misure omogenee per prevenire e reprimere severamente le condotte in questione10. Dunque, anche l’Europa ha gradualmente dimostrato di essere fortemente impegnata per contrastare un fenomeno che, come si è visto, da tempo la coinvolge direttamente quale area di destinazione dei migranti. 10 Già con la Convenzione delle Nazioni Unite del 2 dicembre 1949 per la soppressione del traffico di persone e dello sfruttamento della prostituzione altrui (in cui si usava, per la prima volta in un atto internazionale, l’espressione “traffic in persons”), gli Stati si impegnavano, tra l’altro, a proteggere i migranti, in particolare donne e bambini, in tutto il percorso migratorio e a pubblicizzare il rischio e i danni della tratta. Tali convenzioni sono consultabili sul seguente sito: www.unhchr.ch/html/menu3/b/33.htm 66 Durante i primi anni in cui si percepivano la gravità e l’intensità dei nuovi flussi migratori, l’Unione europea ha emanato le prime disposizioni cautelative. Infatti, nella Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen del 19 giugno 1990, all’art. 27 ci si limitava ad impegnare le Parti contraenti “a stabilire sanzioni appropriate nei confronti di chiunque aiuti o tenti di aiutare, a scopo di lucro, uno straniero ad entrare o a soggiornare nel territorio di una Parte contraente in violazione della legislazione di detta parte contraente relativa all’ingresso ed al soggiorno degli stranieri”, a reprimere, cioè, quelle condotte che poi sarebbero state definite di “smuggling of migrants”, solo se commesse a scopo di lucro. In seguito, però, l’Unione europea ha elaborato un sistema normativo più attento alla complessità delle tematiche. Nell’ambito del terzo pilastro relativo alla cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale, l’Unione europea ha sviluppato, a partire dal 1996, un approccio globale e pluridisciplinare in materia di prevenzione e contrasto alla tratta di esseri umani. Nel febbraio 1997 il Consiglio ha così adottato un’azione comune (97/154/Gai del 24 febbraio 1997) relativa all’azione di contrasto al traffico di esseri umani e lo sfruttamento sessuale dei minori al fine di armonizzare la disciplina normativa degli Stati membri. Il Piano d’azione del Consiglio e della Commissione europea del 3 dicembre 1998 ha individuato la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento sessuale dei bambini tra quei reati per cui occorre valutare la necessità e l’urgenza di adottare misure per la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi e alle sanzioni. Il trattato di Amsterdam, entrato in vigore il 1° maggio 1999, ha espressamente menzionato all’art. 29 il contrasto al traffico di esseri umani come uno dei principali obiettivi della cooperazione giudiziaria e di polizia; e nelle conclusioni del Consiglio europeo di Tampere dell’ottobre 1999 (ai punti 22, 23, 26, 48) è stato dato carattere prioritario alla lotta contro la tratta di esseri umani per la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia all’interno dell’Unione. Anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, firmata a Nizza nel dicembre 2000, è stata ribadita la proibizione della schiavitù e della tratta di esseri umani, che costituiscono una grave violazione dei diritti e della dignità della persona (art. 5). I successivi pilastri normativi europei nel campo della legislazione contro la tratta sono stati la Decisione quadro del Consiglio europeo del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta degli esseri umani (2002/629/Gai), che rende più simili gli ordinamenti penali degli Stati membri in materia; la direttiva del Consiglio del 29 aprile 2004 riguardante il titolo di soggiorno da rilasciare ai cittadini di paesi terzi vittime della tratta di esseri umani o coinvolti in un’azione di favoreggiamento dell’immigrazione illegale che cooperino con le autorità competenti; e, in merito ad alcuni aspetti della tratta, la Decisione quadro del Consiglio del 22 dicembre 2003 relativa alla lotta contro lo sfrut67 tamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile. Altri atti, come la già citata decisione quadro del Consiglio del 15 marzo 2001 relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale e la Decisione quadro del Consiglio del 13 giugno 2002 relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, di cui si dirà nel paragrafo seguente, sono anch’essi rilevanti e indice dell’attenzione prestata alla tratta di esseri umani in un contesto più ampio e articolato. Sono da ricordare, inoltre, la serie di programmi (in particolare, Stop, Agis, Daphne, Phare, Tacis, Cards, Equal, Aeneas) finanziati e gestiti dalla Commissione europea, che offrono l’opportunità di realizzare progetti mirati a rafforzare la prevenzione e la lotta alla tratta di esseri umani. Inoltre, organizzazioni come Europol e Eurojust sono state istituite e munite di specifiche competenze nel campo della tratta. Il loro ruolo di coordinamento e impulso è sempre più rilevante non solo per determinare un cambiamento di approccio degli inquirenti dei diversi Stati, ma anche per il concreto raggiungimento di positivi risultati investigativi e processuali11. Nel settembre 2002 ha avuto luogo la “Conferenza europea sulla prevenzione e la lotta alla tratta di esseri umani. Una sfida globale per il XXI secolo”, che ha riunito centinaia di esperti dei paesi europei, il cui prodotto finale è stata la Dichiarazione di Bruxelles. Pur non essendo un documento ufficiale dell’Unione europea, la Dichiarazione (come spesso capita in ambito europeo) è stata posta a fondamento dell’azione della Commissione europea in materia di lotta alla tratta e le sue conclusioni sono state adottate dal Consiglio dell’Unione europea dell’8 maggio 2003. Ancora, appare utile sottolineare che, durante il vertice di Varsavia del maggio 2005, i capi di stato e di governo dei paesi membri del Consiglio d’Europa hanno firmato la Convenzione sulla lotta contro la tratta di esseri umani con l’obiettivo di combattere tale fenomeno, a livello nazionale o internazionale, legato o meno al crimine organizzato12. Si può dire senza dubbio che questo trattato rappresenta il punto più alto raggiunto a livello sovranazionale nella valorizzazione dei diritti umani violati dal crimine della tratta. La sua entrata in vigore è prevista per il 1 febbraio 2008, in virtù del deposito della 10^ ratifica della Convenzione, da parte di Cipro, in data 24 ottobre 2007. Un principio fondamentale enunciato nella Convenzione è che la protezione e la promozione dei diritti delle vittime devono essere assicurate senza discriminazioni basate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza ad una minoranza na11 Per un panorama aggiornato sull’attività di Eurojust, cfr. Eurojust, Relazione annuale, L’Aja, 2006. 12 Tale documento può essere consultato sul sito internet del Consiglio d’Europa (www.coe.int/t/dg2/trafficking/campaign/Docs/Convntn/default_en.asp). 68 zionale, sulla ricchezza, la nascita o su qualsiasi altro tipo di condizione un altro status dato (art. 3). Il valore aggiunto della Convenzione sta proprio nel suo fondarsi radicalmente e senza mezze misure sulla centralità sui diritti umani, nell’attenzione alla protezione delle vittime e nel meccanismo di monitoraggio indipendente che vigilerà sull’applicazione delle norme nei paesi firmatari. Ancora una volta è possibile osservare come l’aspetto repressivo e quello della valorizzazione dei diritti umani delle persone trafficate siano negli strumenti giuridici internazionali i due aspetti inscindibili di una medesima strategia13. Da ultimo, il Consiglio dell’Unione europea14 ha adottato nel 2005 il Piano d’azione sulle migliori pratiche, le norme e le procedure per contrastare e prevenire la tratta di esseri umani. Tale piano – che dovrà essere costantemente aggiornato – mira a rafforzare l’impegno dell’Unione europea nella prevenzione e nella lotta alla tratta finalizzata a qualsiasi tipo di sfruttamento; nell’identificazione, nella protezione, nel sostegno e nel reinserimento delle vittime; nonché nel rafforzamento della cooperazione tra le istituzioni e le organizzazioni della società civile impegnate nel settore anti-tratta. Recependo gran parte delle raccomandazioni contenute nel rapporto del Gruppo di esperti della Commissione europea, il Piano si fonda sul riconoscimento della necessità di adottare un approccio integrato e olistico, incentrato sul rispetto dei diritti umani delle vittime. Il Piano contiene, infine, gli obiettivi e il calendario delle azioni da implementare, e gli strumenti di valutazione da adottare. 2.1.2 Ultime conclusioni del Consiglio dell’Unione europea Il Consiglio dell’Unione europea di Bruxelles, in data 27 e 28 aprile 2006, ha ulteriormente rimarcato la linea di indirizzo già illustrata (e che verrà meglio approfondita quando si accennerà al Rapporto del Gruppo di esperti della Commissione europea) adottando nelle proprie conclusioni le seguenti prospettive di intervento. Nuovamente sottolinea che la lotta contro la tratta di esseri umani è una delle priorità dell’Unione europea. Tenuto conto che la tratta, in particolare di donne e minori, a fini di sfruttamento sessuale o di altro tipo, costituisce una delle violazioni più gravi dei diritti umani, si prefigge di contribuire all’attuazione del Piano di azione sulle migliori pratiche, le norme e le procedure per contrastare e prevenire la tratta di esseri umani. In questa prospettiva, è previsto che misure specifiche contro la tratta vengano 13 Sull’attenzione manifestata sul tema dall’Unione europea si vedano anche i rapporti annuali sui diritti umani pubblicati sul suo sito (www.consilium.europa.eu/cms3_fo/showPage.asp?id=970&lang=en&mode=g). 14 http://ue.eu.int/ueDocs/cms_Data/docs/pressdata/it/jha/87594.pdf 69 adottate in occasione di importanti manifestazioni internazionali, comprese quelle sportive15. Per rendere efficace la lotta contro la tratta di esseri umani nelle Conclusioni si evidenzia la necessità di rafforzare al massimo il lavoro analitico e di intelligence, compresa la valutazione della minaccia rappresentata dalla criminalità organizzata e le funzioni di sostegno alla sua repressione dell’Europol. A tal proposito si ribadisce che l’Europol, l’Eurojust, Frontex e la Task Force operativa dei capi di polizia tratteranno regolarmente questa materia per predisporre le misure di cooperazione adeguate. A tal fine, dunque, le Conclusioni precisano che è essenziale che tutti gli Stati membri: - si forniscano reciprocamente e forniscano alle competenti agenzie europee la massima cooperazione possibile nel mettere a disposizione l’intelligence e le informazioni necessarie alla valutazione dei fenomeni; - si impegnino a fornire sistematicamente informazioni all’Europol, specialmente quando hanno contribuito a un archivio di lavoro per fini di analisi su un determinato tema. Alla luce delle disposizioni contenute nella decisione quadro sulla lotta alla tratta degli esseri umani (2002), nonché nella decisione quadro relativa al rafforzamento del quadro penale per la repressione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali (2002) e nella direttiva volta a definire il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali (2002), nelle Conclusioni vengono inoltre specificate una serie di azioni che l’Unione europea e gli Stati membri dovrebbero adottare. Sebbene quasi tutti gli Stati membri si siano dotati di specifiche disposizioni di diritto penale per contrastare la tratta a fini di sfruttamento sessuale o lavorativo e di norme di diritto penale per la repressione del favoreggiamento del transito e del soggiorno illegali, alcune lacune in materia sono state registrate. Infatti, non tutti gli Stati membri hanno trasmesso alla Commissione le pertinenti informazioni sull’adeguamento alle decisioni quadro e sulle informazioni riguardanti le vittime particolarmente vulnerabili, tra cui segnatamente i minori. Si è quindi stabilito di esaminare ulteriormente la pertinente legislazione degli Stati membri per valutare se sia necessario migliorare la normativa europea al fine di garantire adeguata protezione e assistenza alle vittime, nel rispetto degli interessi dei minori; e di valutare l’applicazione pratica e l’efficacia del quadro giuridico per prevenire lo sfruttamento, principalmente di donne e minori. 15 A tal proposito sono state organizzate azioni specifiche in occasione del Campionato mondiale di calcio svoltosi in Germania nel giugno e luglio 2006 e per il quale era stato previsto un notevole afflusso di donne extracomunitarie da sottoporre a sfruttamento sessuale, afflusso che, poi, sembra non essersi effettivamente verificato. 70 Il Consiglio ha quindi invitato gli Stati membri a dare piena attuazione ai suddetti strumenti di lotta contro la tratta di esseri umani e l’immigrazione clandestina, raccomandando una chiara distinzione tra queste due forme di criminalità, pur nella consapevolezza delle loro possibili sovrapposizioni nella pratica. Inoltre, gli Stati membri sono stati esortati a garantire l’efficace accertamento e perseguimento dei casi di tratta, tenendo conto delle esigenze delle vittime in materia di protezione e assistenza. Uno spazio importante è stato dedicato alla formazione. Per incentivare la formazione di inquirenti specializzati e lo scambio di buone prassi, si prevede l’organizzazione di conferenze formative e conferenze nazionali e internazionali di esperti, che dovranno contribuire a valutare lo stato di attuazione del piano d’azione e le misure specifiche sulla prevenzione e la lotta alla tratta di esseri umani, anche in occasione di importanti manifestazioni internazionali. Questa conferenza di esperti dovrebbe anche fare il punto sulle migliori prassi in materia di identificazione delle vittime e considerare la possibilità di stilare un elenco di massima di criteri con riguardo alle migliori prassi, stabilendo così un chiaro legame con quanto previsto dal piano d’azione con riguardo alle Ong e alle organizzazioni internazionali che forniscono supporto e servizi di reinserimento. Si tratta proprio di uno degli snodi determinanti dell’intera tematica. Queste linee guida sono pertinenti per l’elaborazione di un repertorio dei servizi a livello europeo che sia in grado di monitorare le tipologie di sostegno disponibili (obiettivo specifico del piano d’azione del dicembre 2005) nonché per l’elaborazione, da parte della Commissione, di proposte sui meccanismi di coordinamento e cooperazione necessari a livello dell’Unione. Pertanto, la conferenza dovrebbe esaminare anche le suddette questioni connesse. Traendo spunto dalla citata manifestazione sportiva internazionale, il Consiglio ha colto l’occasione di attribuire importanza strategica non soltanto allo scambio di informazioni tra gli Stati, bensì anche alla valutazione del rischio, all’identificazione delle vittime, allo sviluppo e attuazione di misure che scoraggino la domanda di siffatte vittime – misure intese a fornire un livello adeguato di assistenza e di protezione delle vittime della tratta di esseri umani creazione di rifugi adeguati e l’attivazione di linee di assistenza telefonica plurilingue disponibili 24 ore al giorno. In sintesi, le conclusioni del Consiglio dell’Unione europea del 27 e 28 aprile 2006 costituiscono un condensato di strategie che devono diffondersi a livello sopranazionale (con riferimento agli Stati) e individuale (con riferimento ai singoli operatori istituzionali che si imbattono in casi e/o vittime di tratta e traffico). La vera sfida con cui ci si deve confrontare è che le strategie criminali si muovono con maggior velocità rispetto alle strategie di contrasto degli Stati e alle politiche e ai servizi di assistenza forniti dalle organizzazioni pubbliche e private di supporto alle vittime. 71 2.1.3 Un esempio avanzato di cooperazione giudiziaria: il mandato d’arresto europeo La rapidità che caratterizza le organizzazioni criminali transnazionali nel mutare forme, metodi e obiettivi delle proprie attività delittuose risulta particolarmente problematica per chi opera in ambito giudiziario per assicurare alla giustizia i responsabili della tratta di persone e del traffico di migranti, a causa della lentezza delle procedure rogatoriali, nel rispetto della sovranità nazionale dei singoli Stati di cui, storicamente, l’ambito penale è un caposaldo intangibile. A questo proposito, sarebbe utile che ogni attore impegnato a contrastare direttamente o indirettamente i fenomeni di tratta e traffico (forze dell’ordine, magistratura, Ong accreditate e servizi sociali) conoscesse le difficoltà investigative sulle organizzazioni transnazionali, affinché le diverse culture e metodologie di intervento non rimangano rigidamente separate, quasi contrapposte, nell’attesa reciproca di interventi risolutivi che possono non essere facili o rapidi. Ormai, l’esperienza insegna che se vi è una speranza di un’efficace azione repressiva di contrasto ai fenomeni criminali transnazionali, essa passa necessariamente per l’inserimento nello spazio comune europeo di sicurezza, libertà e giustizia anche degli elementi fondamentali del diritto penale sostanziale e processuale, nell’ambito di un percorso che conduca, prima o poi, alla costruzione di un diritto penale europeo. Senza alcuna pretesa di affrontare i complessi temi di diritto penale sovranazionale, soltanto anticipati in precedenza, un esempio significativo, a testimonianza di un percorso evolutivo in atto, può essere rinvenuto nel recente istituto europeo del mandato d’arresto. Analogamente a quanto detto in merito alla Convenzione Onu di Palermo, la vicenda europea del mandato d’arresto rappresenta un tassello importante nell’ambito della cooperazione giudiziaria europea, così come, d’altra parte, con riguardo alla predisposizione di adeguati strumenti di sottrazione dei proventi dei traffici criminali transnazionali, il cd. “sequestro europeo”, di cui alla decisione quadro 2003/577/Gai16. Non occorrono grandi sforzi di immaginazione per comprendere l’utilità di questi strumenti giuridici con riferimento alle indagini personali e patrimoniali di contrasto ai fenomeni di tratta di persone e di traffico di migranti. 16 Per un esame completo di quest’ultima decisione quadro: G. Iuzzolino, La esecuzione dei provvedimenti di blocco dei beni, di sequestro probatorio e di sequestro preventivo nell’Unione europea nella decisione-quadro del Consiglio della Unione europea n. 2003/577/Gai del 22 luglio 2003, Relazione all’incontro di studio del Consiglio Superiore della Magistratura sul tema del Sequestro e confisca dei beni di origine o destinazione illecita: i moderni strumenti di contrasto sul piano patrimoniale nei confronti della criminalità organizzata nella prospettiva europea (Roma 15-19 marzo 2004). 72 Il mandato europeo d’arresto è una decisione giudiziaria emessa da uno Stato membro in funzione dell’arresto e della consegna da parte di un altro Stato membro di una persona ricercata ai fini dell’esercizio di un’azione penale o dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza. L’aspetto più rilevante del nuovo sistema di consegna, conseguenza dell’applicazione del principio del mutuo riconoscimento, è l’avere condotto la procedura interamente nell’alveo giurisdizionale, cioè nell’ambito di rapporti tra autorità giudiziarie e non più tra autorità governative. Questo processo evolutivo, da collocare nell’ambito dello spazio comune di sicurezza, libertà e giustizia, può rappresentare nell’ambito dell’Unione europea un preludio ad una futura armonizzazione del diritto penale e processuale degli Stati membri, se non alla nascita di un vero e proprio diritto penale europeo. Con notevole ritardo anche l’Italia ha introdotto norme di adeguamento alla decisione quadro relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri. L’iter di recepimento nel diritto interno è stato alquanto travagliato e si è concluso con l’approvazione della legge 22 aprile 2005, n. 69, che ha impegnato il legislatore e gli operatori del diritto in un acceso dibattito sull’opportunità e sulle condizioni collegate all’introduzione nell’ordinamento nazionale di una normativa così delicata per le implicazioni sulla libertà personale. Con il recepimento della decisione quadro si è voluto superare l’istituto estradizionale, previsto nel nostro sistema dagli artt. 697-722 del codice di procedura penale, per sostituirlo con la consegna delle persone ricercate (secondo una procedura che risulta semplificata rispetto a quella in vigore precedentemente) nell’ambito della realizzazione del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giurisdizionali straniere, in uno spazio comune fondato su principi condivisi di civiltà giuridica. In realtà si è inteso procedere ad una riformulazione degli istituti esistenti con uno scopo di adeguamento, alla luce dei progressi delle norme comunitarie (e nella prospettiva della nuova costituzione europea) e della maggiore consapevolezza della transnazionalità di numerose forme di criminalità. Questo processo di sviluppo normativo nella continuità, erede del meccanismo basato sulla convenzione del Consiglio d’Europa firmata a Parigi nel 1957, si innesta nell’alveo dell’istituto dell’estradizione, come si evince dai lavori preparatori della decisione quadro e da altri atti giuridici dell’Unione europea (come ad esempio le conclusioni del citato Consiglio di Tampere). Nella decisione quadro si legge che “l’obiettivo dell’Unione di diventare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia comporta la soppressione dell’estradizione tra Stati membri e la sua sostituzione con un sistema di consegna tra autorità giudiziarie e ancora che l’introduzione di un nuovo sistema semplificato di consegna delle persone condannate o sospettate, al fine dell’esecuzione delle sen73 tenze di condanna in materia penale o per sottoporle all’azione penale, consente di eliminare la complessità e i potenziali ritardi inerenti alla disciplina attuale in materia di estradizione.” Ad ogni modo, lo stesso art. 39 della legge 69/2005 espressamente stabilisce che le norme contenute nel codice di procedura penale, riguardanti l’estradizione, si applicano in quanto compatibili. È ampiamente riconosciuto che l’intenzione del legislatore comunitario sia stata quella di procedere ad una semplificazione dell’estradizione, sia per quanto attiene agli effetti, sia per quanto attiene alla procedura, nel rispetto dei diritti individuali. Pertanto, per valutare se la legge n. 69 del 2005 sia stata rispettosa del dettato della decisione quadro, l’interprete deve verificare se la normativa di recepimento, fermi restando i diritti individuali, si ponga in sintonia con le esigenze di celerità delle procedure. Da questo punto di vista sono rilevabili talune scelte discutibili del legislatore interno. Infatti, non è razionale la condizione posta dalla legge italiana per la consegna, individuata nell’assenza di cause di giustificazione (articolo 18, comma 1, lettere b e c). In tal caso lo Stato italiano sembrerebbe arrogarsi il diritto di invadere la giurisdizione naturale di un altro Stato con una valutazione che attiene al giudizio di liceità o illiceità di un fatto, giudizio connaturato nella ponderazione circa l’esistenza di cause di giustificazione. Allo stesso modo, appare macroscopicamente divergente dal dettato della decisione quadro la previsione di subordinare la consegna allo Stato richiedente alla condizione della sussistenza di “gravi indizi di colpevolezza” (art. 17, comma 4). Si tratta paradossalmente di una condizione peggiorativa rispetto all’ambito della Convenzione europea del 1957 e analoga al sistema vigente relativo ai rapporti con Stati con i quali non vi è alcun accordo internazionale17. Altrettanto singolare è la disposizione con cui si prevede la possibilità per l’autorità italiana di chiedere allo Stato richiedente una copia del provvedimento restrittivo su cui si fonda il mandato d’arresto europeo (art. 6, comma 3), pena il rifiuto della consegna. In realtà, gli interventi della Suprema Corte hanno già fornito qualche risposta alle ambiguità manifestate dal legislatore nella normativa di recepimento. Infatti, è stato chiarito, tra l’altro, che il riferimento ai “gravi indizi di colpevolezza”, di cui all’art. 17 della legge 69/2005, deve essere interpretato alla luce dell’art. 9 della stessa legge, che esclude l’applicabilità in materia cautelare personale delle disposizioni contenute negli artt. 273, commi 1 e 1 bis, 274, comma 1, lett. a) e c) e 280 c.p.p., dovendo il controllo essere limitato alla sola verifica della sussistenza di una motivazione18. 17 In Guida dir., 19, 2005, con commento, tra gli altri, di E. Selvaggi, La sovrapposizione all’estradizione non cancella le incertezze applicative. 18 Cass. pen. sez. feriale 13-14 settembre 2005, n. 33642, in Guida dir., 2005, 38. 74 Infine, una chiara traccia della diffidenza mostrata dal legislatore interno verso questa forma di cooperazione tra autorità giudiziarie è presente; e probabilmente questa “diffidenza” (motivata anche con qualche argomento garantista meritevole di attenzione) svela indirettamente tutte le potenzialità positive di questo tipo di approccio nel contrasto al crimine transnazionale (di cui sono parte la tratta di persone e il traffico di migranti). Il crimine organizzato transnazionale richiede forme immediate di contrasto giudiziario integrato, con la partecipazione delle autorità giudiziarie dei diversi paesi interessati, al di fuori dei classici metodi rogatoriali che, passando per il tramite governativo, si prestano a valutazioni di varia natura, ulteriori rispetto a quelle strettamente giurisdizionali che, nella maggior parte dei casi, non contribuiscono alla rapidità e all’efficacia dell’azione repressiva. 2.2 Il modello italiano dell’art. 18 del T.U. sull’immigrazione Il legislatore italiano è stato precursore in ambito internazionale nell’affermare normativamente il principio della valorizzazione dei diritti umani dei migranti attraverso la loro assistenza, protezione e inclusione sociale, con l’introduzione dell’art. 1819 del d.lgs. 286/1998. Invero, il nostro ordinamento 19 Art. 18 (Soggiorno per motivi di protezione sociale) 1. Quando, nel corso di operazioni di polizia, di indagini o di un procedimento per taluno dei delitti di cui all’articolo 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, o di quelli previsti dall’articolo 380 del codice di procedura penale, ovvero nel corso di interventi assistenziali dei servizi sociali degli enti locali, siano accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento nei confronti di uno straniero ed emergano concreti pericoli per la sua incolumità, per effetto dei tentativi di sottrarsi ai condizionamenti di un’associazione dedita ad uno dei predetti delitti o delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio, il questore, anche su proposta del Procuratore della Repubblica, o con il parere favorevole della stessa autorità, rilascia uno speciale permesso di soggiorno per consentire allo straniero di sottrarsi alla violenza e ai condizionamenti dell’organizzazione criminale e di partecipare ad un programma di assistenza ed integrazione sociale. 2. Con la proposta o il parere di cui al comma 1, sono comunicati al questore gli elementi da cui risulti la sussistenza delle condizioni ivi indicate, con particolare riferimento alla gravità ed attualità del pericolo ed alla rilevanza del contributo offerto dallo straniero per l’efficace contrasto dell’organizzazione criminale, ovvero per la individuazione o cattura dei responsabili dei delitti indicati nello stesso comma. Le modalità di partecipazione al programma di assistenza ed integrazione sociale sono comunicate al Sindaco. 3. Con il regolamento di attuazione sono stabilite le disposizioni occorrenti per l’affidamento della realizzazione del programma a soggetti diversi da quelli istituzionalmente preposti ai servizi sociali dell’ente locale, e per l’espletamento dei relativi controlli. Con lo stesso regolamento sono individuati i requisiti idonei a garantire la competenza e la capacità di favorire l’assistenza e l’integrazione sociale, nonché la disponibilità di adeguate strutture organizzative dei soggetti predetti. 4. Il permesso di soggiorno rilasciato a norma del presente articolo ha la durata di sei mesi e può essere rinnovato per un anno, o per il maggior periodo occorrente per motivi di giustizia. 75 contiene una serie di norme che, anche in virtù di recenti modifiche e integrazioni e benché possa ravvisarsi la necessità di un ulteriore intervento di adeguamento agli impegni internazionali, appaiono rispondenti alla logica del contrasto della tratta nell’ottica del rispetto dei diritti umani delle persone trafficate. Per quanto di più specifico interesse, dopo la rapida apparizione dell’art. 5 del decreto legge 13 settembre 1996, n. 477, improntato ad una logica strettamente premiale e di scarsa efficacia, nel marzo 1998, nell’ambito di un più ampio intervento sulla disciplina dell’immigrazione, il nostro legislatore ha adottato l’art. 16 della legge 6 marzo 1998, n. 40, poi divenuto l’art. 18 del testo unico 25 luglio 1998, n. 286, con cui ha attuato i principi consolidati negli strumenti normativi internazionali, coniugando il rafforzamento delle azioni repressive della tratta di persone e la tutela dei diritti delle vittime20. La norma in questione presenta aspetti assolutamente peculiari e rappresenta un modello in ambito europeo, tanto da restare invariata anche a seguito delle modifiche apportate alla disciplina dell’immigrazione con la legge 30 luglio 2002, n. 189. Questo strumento prevede la possibilità del rilascio da parte del questore di uno speciale permesso di soggiorno allo straniero sottoposto a violenza o a grave sfruttamento, quando vi sia pericolo per la sua incolumità per effetto del tentativo di sottrarsi ai condizionamenti di un’associazione criminale o delle Esso è revocato in caso di interruzione del programma o di condotta incompatibile con le finalità dello stesso, segnalate dal procuratore della Repubblica o, per quanto di competenza, dal servizio sociale dell’ente locale, o comunque accertate dal questore, ovvero quando vengono meno le altre condizioni che ne hanno giustificato il rilascio. 5. Il permesso di soggiorno previsto dal presente articolo consente l’accesso ai servizi assistenziali e allo studio, nonché l’iscrizione nelle liste di collocamento e lo svolgimento di lavoro subordinato, fatti salvi i requisiti minimi di età. Qualora, alla scadenza del permesso di soggiorno, l’interessato risulti avere in corso un rapporto di lavoro, il permesso può essere ulteriormente prorogato o rinnovato per la durata del rapporto medesimo o, se questo è a tempo indeterminato, con le modalità stabilite per tale motivo di soggiorno. Il permesso di soggiorno previsto dal presente articolo può essere altresì convertito in permesso di soggiorno per motivi di studio qualora il titolare sia iscritto ad un corso regolare di studi. 6. Il permesso di soggiorno previsto dal presente articolo può essere altresì rilasciato, all’atto delle dimissioni dall’istituto di pena, anche su proposta del procuratore della Repubblica o del giudice di sorveglianza presso il tribunale per i minorenni, allo straniero che ha terminato l’espiazione di una pena detentiva, inflitta per reati commessi durante la minore età, e ha dato prova concreta di partecipazione a un programma di assistenza e integrazione sociale. 7. Omissis. 20 M.G. Giammarinaro, “Il permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale previsto dall’art. 18 del T.U. sull’immigrazione”, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 4, 1999; M. Virgilio, “Lavori in corso nei dintorni dell’immigrazione: art. 18 e leggi in tema di traffico di esseri umani e prostituzione”, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 1, 2003; V. Tola, “La tratta di esseri umani. Esperienza italiana e strumenti internazionali”, in G. Zincone (a cura di), Secondo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, Il Mulino, Bologna, 2001. 76 dichiarazioni rese in un procedimento penale. Il permesso è rilasciato per consentire allo straniero di sottrarsi alla violenza e ai condizionamenti dell’organizzazione criminale e di partecipare ad un programma di assistenza e integrazione sociale, su richiesta o previo parere del procuratore della Repubblica. Le condizioni di violenza o sfruttamento possono essere accertate o nel corso di operazioni di polizia, di indagini o di procedimenti per delitti connessi alla prostituzione o altri gravi delitti, o nel corso di interventi assistenziali dei servizi sociali pubblici o di enti e associazioni non governative. Il permesso, che ha la durata di sei mesi, può essere rinnovato, per gli stessi motivi, per un anno o per un periodo maggiore. Dopo tale scadenza, il permesso di soggiorno può essere rinnovato per motivi di lavoro o convertito in permesso di soggiorno per motivi di studio. Lo strumento in questione prevede un doppio binario di tutela: 1) la possibilità di un “percorso giudiziario” che può consentire la protezione e l’integrazione sociale dello straniero al quale, in attuazione del programma di assistenza, può essere rilasciato un permesso di soggiorno valido per l’accesso al lavoro, allo studio, in una prospettiva che determina una piena rottura con il passato e con le vicende da cui ha tratto origine la presenza irregolare dello straniero in Italia. Con questo strumento lo straniero irregolare, specie se sfruttato, recupera una dignità annichilita dall’esperienza della tratta; 2) la possibilità di un “percorso sociale” che consente allo straniero di rivolgersi inizialmente ai servizi sociali o ad enti e organizzazioni non governative, con un approccio certamente più agevole e meno traumatico di quello legato ad una denuncia alla polizia giudiziaria. La possibilità innovativa del “percorso sociale” costituisce l’aspetto più significativo e peculiare della norma, senza che vi sia contrasto con le esigenze di accertamento giudiziario, sia perché il percorso sociale è comunque destinato a sfociare in un procedimento giudiziario (il questore è pubblico ufficiale e ha obbligo di riferire all’autorità giudiziaria le situazioni di violenza o sfruttamento – che costituiscono delitti procedibili di ufficio – in presenza delle quali può essere rilasciato lo speciale permesso di soggiorno), sia perché rappresenta un’azione di sostegno nei confronti della vittima che crea un rapporto di fiducia non solo con le associazioni, ma anche con le istituzioni e diventa un incentivo per la collaborazione giudiziaria successiva. A questo proposito, è di primaria importanza il ruolo di mediazione che le associazioni accreditate e i servizi sociali possono svolgere nei confronti della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, in quanto durante il “periodo di riflessione”21 tali agenzie 21 È tuttavia importante qui precisare che la normativa italiana, al contrario di quelle di altri paesi europei, non prevede un periodo di riflessione formale. 77 hanno l’opportunità, oltre che di prestare assistenza, anche di fornire alla persona assistita tutte le informazioni necessarie, specificando diritti e doveri a cui ha titolo in qualità di vittima di tratta in Italia, affinché possa prendere una decisione informata rispetto al suo futuro, anche rispetto alle eventuali successive fasi giudiziarie che potrà affrontare. Durante questa prima fase è indispensabile avviare un percorso di sostegno della persona che può influire positivamente anche sulle attività investigative. Orbene, anche a distanza di anni dall’introduzione dell’art. 18 permangono difficoltà interpretative22 e, ad esempio, alcune questure persistono nel non concedere il permesso di soggiorno se non c’è prima un procedimento penale in corso (il che è un evidente controsenso rispetto alla ratio della norma) 23, il 22 Per tutto quanto detto sarebbe estremamente utile riformulare il dettato letterale dell’art. 18 in maniera da renderlo più chiaramente applicabile anche ai casi di mero traffico di migranti e non solo a quelli di tratta di persone a scopo di sfruttamento. Inoltre, sarebbe opportuno chiarire ulteriormente la distinzione tra percorso sociale e percorso giudiziario, al fine di ridurre le molte difficoltà applicative che ancora si riscontrano presso le Questure. Sarebbe altresì opportuno prevedere la necessità di adottare procedure condivise di identificazione delle vittime in seno alle diverse forze di polizia, all’Ufficio immigrazione, alla Procura della Repubblica. È fin troppo ovvia la considerazione che per poter attivare lo strumento di cui all’art. 18 occorre prima identificare la vittima. La sede più idonea per programmare tali strumenti potrebbe essere, a parere di chi scrive, il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, presieduto dal Prefetto, organo dotato di notevoli competenze in materia di immigrazione. Questa innovazione costituirebbe un importante tassello per uniformare le attività dei diversi soggetti istituzionali coinvolti e per facilitare le attività di primo intervento sulle potenziali vittime in una materia che, per sua natura, richiede conoscenze multidisciplinari che possono sfuggire agli operatori di strada. Per un’analisi sull’applicazione dell’art. 18 da parte delle questure italiane, cfr. S. Fachile, F. Nicodemi, M. Conti Nibali, G. Alteri, La tratta di persone in Italia. 2. Le norme di tutela delle vittime e di contrasto alla criminalità, Franco Angeli, Milano, 2007. 23 Sussisteva, ad esempio, il contrasto interpretativo sulla necessità del parere del procuratore della Repubblica anche nel caso di percorso sociale che, tuttavia, dovrebbe essere risolto alla luce dell’art. 27 del regolamento di attuazione (d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394), modificato dall’art. 27 del nuovo regolamento approvato con d.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334, il quale prevede che la proposta sia effettuata: “a) dai servizi sociali degli enti locali o dalle associazioni, enti ed altri organismi convenzionati con l’ente locale che abbiano rilevato situazioni di violenza o di grave sfruttamento nei confronti dello straniero; b) dal procuratore della Repubblica nei casi in cui sia iniziato un procedimento penale relativamente a fatti di violenza o di grave sfruttamento di cui alla lettera a), nel corso del quale lo straniero abbia reso dichiarazioni.” E richiede, poi (al comma 2), che il questore acquisisca il parere del procuratore della Repubblica “quando sia iniziato un procedimento penale relativamente a fatti di violenza o di grave sfruttamento di cui alla lettera a) (le situazioni, cioè, rilevate dai servizi sociali) ed il procuratore della Repubblica abbia omesso di formulare la proposta (o questa non dia indicazioni circa la gravità ed attualità del pericolo).” Si consideri, inoltre, che nell’ipotesi di un percorso sociale, quando si verta in situazioni di violenza o di grave sfruttamento, il questore, ricevuta la proposta di questi ultimi, in qualità di pubblico ufficiale, dovrà comunicare la notitia criminis all’autorità giudiziaria, così determinando la condizione dell’inizio di un procedimento penale relativamente a quei fatti di violenza o di grave sfruttamento. In questi termini era l’iniziale interpretazione del Ministero 78 bilancio dell’applicazione pratica è di assoluto rilievo. Esistono eccellenti studi che dimostrano, al di là di logiche considerazioni, la centralità del ruolo della vittima per il buon esito processuale delle vicende di traffico e tratta. Le tecniche investigative più evolute impongono agli inquirenti di privilegiare forme alternative e più moderne di indagine24, ma data la scaltrezza e l’abilità dei trafficanti, ciò non sempre è possibile e comunque, anche se soltanto come riscontro ad altro tipo di accertamenti, le dichiarazioni delle vittime sono di primaria importanza. In aggiunta, l’esperienza processuale testimonia che quando una vittima è assistita con gli strumenti che offre l’art. 18 anche gli esiti, investigativi prima e processuali poi, sono positivi e conducono alle condanne dei trafficanti25. L’applicazione dell’art. 18, che ha consentito l’accertamento giudiziario – altrimenti impossibile – di condotte gravissime, l’individuazione degli autori e la loro condanna, ha dimostrato una volta in più l’efficacia, nel contrasto al crimine organizzato, degli strumenti di indagine e dei moduli investigativi legati alla tutela delle vittime, che consentono l’acquisizione a fini probatori di specifici elementi conoscitivi delle vicende delittuose, con la forza del racconto di chi le ha vissute in prima persona26. Tra l’altro, il valore aggiunto di questa norma risiede proprio nel superamento della visione strettamente premiale (tipica del sistema dei collaboratori di giustizia e non applicabile alle persone trafficate che non sono né “collaboratori” o “pentiti”, ma vittime a tutti gli effetti) e nella pianificazione di un intervento pubblico di reintegrazione e valorizzazione dei diritti fondamentali delle persone. È proprio la concezione umanitaria che fa dell’art. 18 un esempio celebrato in tutte le sedi internazionali. Da questo punto di vista la legislazione italiana è all’avanguardia, tanto da rendere superfluo, per l’Italia, il recepimento della direttiva europea del Consiglio del 29 aprile 2004 riguardante il titolo di soggiorno da rilasciare ai cittadini di paesi terzi vittime di tratta di persone o di dell’Interno, riportata nella circolare n. 300/C/227729/12/207 del 23 dicembre 1999. Successivamente, con circolare del 17 aprile 2000, lo stesso Ministero dell’Interno ha però chiarito che il parere va acquisito solo nel caso che sia già iniziato un procedimento penale nel corso del quale lo straniero abbia reso dichiarazioni. Sull’argomento cfr., M.G. Giammarinaro, op. cit. In seguito, sempre il Ministero dell’Interno è ritornato sull’argomento con una lunga serie di circolari che ribadiscono il medesimo concetto. 24 Quelle che vengono definite proactive investigations. 25 Si veda sul punto, ad esempio, AA.VV., Art. 18: tutela delle vittime del traffico di esseri umani e lotta alla criminalità (l’Italia e gli scenari europei). Rapporto di ricerca, On the Road Edizioni, Martinsicuro, 2002. 26 Sulla tematica dell’efficacia dell’azione legislativa dei programmi di protezione sociale e dell’impatto sul contesto sociale, si veda la relazione di M.G. Giammarinaro, in AA.VV., Stop Tratta. Atti del convegno internazionale tenuto in Bologna il 23 e 24 maggio 2002, On the Road Edizioni, Martinsicuro, 2002. 79 traffico di migranti, che si pone un passo indietro rispetto all’art. 18, proprio perché ancora legata ad una visione premiale. Ciò, tra l’altro, è facilmente comprensibile, atteso che l’Unione europea ha dovuto mediare tra legislazioni avanzate (come quella italiana) e il resto dei paesi europei del tutto privi di strumenti di assistenza e protezione delle vittime oppure caratterizzati da meccanismi rigidamente vincolati alla collaborazione delle vittime con le autorità di polizia e giudiziarie. Ciò premesso, la direttiva 2004/81/Ce del Consiglio dell’Unione europea del 29 aprile 2004 riguarda il titolo di soggiorno da rilasciare ai cittadini di paesi terzi vittime della tratta di esseri umani o coinvolti in un’azione di favoreggiamento dell’immigrazione illegale che cooperino con le autorità competenti. Tale direttiva prevede che il soggetto trafficato venga informato delle possibilità offerte dalla legge, eventualmente anche su iniziativa di un’organizzazione non governativa o di un’associazione (art. 5). Si fa obbligo agli Stati membri di prevedere un periodo di riflessione per consentire alla vittima “di riprendersi e sottrarsi all’influenza degli autori dei reati, affinché possa decidere consapevolmente se voglia cooperare con le autorità competenti.” Durante il periodo di riflessione deve essere concesso alla vittima un titolo di soggiorno provvisorio (art. 6). Inoltre, alla vittima va assicurato un livello di vita in grado di permetterle la sussistenza e l’accesso a cure mediche urgenti, eventualmente un’assistenza psicologica, la sicurezza e la protezione, un’assistenza linguistica, nonché un’assistenza legale gratuita (art. 7). Dopo il periodo di riflessione, in caso positivo, è prevista la concessione del permesso di soggiorno (art. 8), con particolari sostegni per categorie vulnerabili (artt. 9 e 10) e con ogni garanzia di accesso a lavoro, formazione professionale e istruzione (art. 11). Tutto ciò è già ampiamente previsto dal sistema italiano attraverso l’art. 18 del T.U. Imm. Comunque, il fatto che la normativa italiana sul punto è all’avanguardia non deve impedire ulteriori progressi. L’articolo 18 deve costituire non un traguardo, ma un punto di partenza per nuove forme di avanzamento delle strategie di contrasto alla tratta di esseri umani. Infatti, obiettivi così ambiziosi richiederebbero una forte collaborazione tra paesi di provenienza e paesi di destinazione, ma anche, in ambito nazionale, azioni integrate tra autorità di pubblica sicurezza, polizia giudiziaria, magistratura, enti locali, servizi sociali privati, strutture sanitarie affinché realmente l’opportunità offerta dal legislatore esplichi tutte le sue potenzialità, sia sul piano sociale, sia su quello giudiziario. In questo modo si raggiungerebbero maggiori garanzie di evitare due tipi di rischi su cui occorre sempre vigilare: che l’art. 18 non venga sminuito a puro assistenzialismo premiale e che i processi non falliscano per la mancata collaborazione delle vittime. Attualmente nel panorama europeo solo in Belgio e per certi versi in Olanda vi sono disposizioni analoghe, pur se alle vittime sono comunque richieste 80 forme di collaborazione con le autorità, mentre, ad esempio, in Germania e Spagna esistono strumenti prettamente premiali in funzione della collaborazione processuale delle vittime. È possibile dunque affermare che, pur avendo negli ultimi anni introdotto legislazioni anti-tratta specifiche, la stragrande maggioranza degli Stati membri dell’Unione europea continua ad avere un approccio strettamente premiale che non consente forme di assistenza e protezione soddisfacenti o finalizzate all’inserimento sociale delle vittime. Ad ulteriore conferma del percorso intrapreso, il legislatore italiano, all’interno della legge 11 agosto 2003, n. 228, sulla tratta di persone, ha riaffermato la volontà di valorizzare strumenti giuridici di assistenza e sostegno alle vittime con la previsione dell’art. 1327. Questa norma dispone che, al di fuori delle ipotesi di speciali misure di protezione dei testimoni di giustizia e fatte salve le disposizioni di cui all’art. 18 d.lgs. 286/1998, venga istituito uno speciale programma di assistenza per le vittime dei reati di cui agli artt. 600 (“Riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù”), 601 (“Tratta di persone”) e 602 (“Acquisto e alienazione di schiavi”) c.p., anche in caso di vittima di nazionalità italiana. Il programma di assistenza art. 13, realizzato da enti locali o da soggetti privati accreditati, consiste in interventi che assicurino alle vittime condizioni di alloggio, vitto, assistenza sanitaria, assistenza e integrazione sociale. Anche in questo caso, come per il citato art. 18, la tecnica adottata dal legislatore è soddisfacente, poiché privilegia la tutela e il riconoscimento dei diritti delle persone come punto di partenza nei rapporti tra autorità e vittime di tratta. Se il panorama normativo sopranazionale è quello descritto per sommi capi non si può non concludere che gran parte degli Stati è inadempiente perché le persone trafficate, quali vittime di gravi violazioni dei loro diritti umani, hanno diritto alla protezione, all’assistenza e al risarcimento indipendentemente dal loro valore come testimoni nell’ambito di un procedimento giudiziario. Occorre, dunque, che le persone vittime di violenza e altre forme di sfruttamento vengano sempre identificate, assistite e protette, oltre che particolarmente garantite nel caso in cui siano anche vittime di tratta28. Anche sul piano del diritto interno, malgrado l’esempio positivo dell’art. 18, è necessario offrire maggiori elementi agli operatori del diritto e alle forze di polizia, poiché i problemi irrisolti sono ancora molti. Un passo avanti è stato compiuto con riguardo ai nuovi comunitari, vale a dire a coloro che, già ammessi a programmi di protezione sociale, sono divenuti successivamente comunitari in seguito all’ingresso dei loro paesi all’Unione europea (come nel caso dei cittadini rumeni e bulgari a decorrere dal 1 gennaio 2007). Di tale questione si parlerà nella sezione che segue. 27 28 Il relativo regolamento di attuazione è stato approvato con il d.P.R. 19 settembre 2005. n. 237. Commissione europea, op. cit. 81 2.2.1 L’art. 18 svincolato dallo status di cittadinanza: un nuovo statuto per la protezione delle vittime? L’allargamento verso Est dei confini dell’Unione europea ha avuto ripercussioni anche sul fenomeno di tratta e soprattutto sulle possibilità di offrire protezione alle vittime da parte delle istituzioni italiane. Nonostante la loro annessione all’Unione europea (maggio 2004), stati come la Polonia, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Slovenia e l’Ungheria, da un lato, hanno continuato ad essere paesi di origine di molte delle vittime di tratta sfruttate in Italia, dall’altro, sono diventati territori di transito e di destinazione di vittime straniere. Il cambiamento di status giuridico delle vittime originarie di tali paesi – da cittadine straniere a cittadine comunitarie – non permetteva più l’accesso ai programmi di protezione sociale, per legge accessibili solo a persone non comunitarie. In questi casi il rimedio residuale dell’art. 13 della legge 11 agosto 2003, n. 228, è applicabile soltanto alle vittime di tratta e con portata e finalità molto più ridotte. In previsione dell’entrata nell’Unione europea di nuovi Stati come la Bulgaria e la Romania (gennaio 2007), da cui proviene una parte significativa di persone trafficate in Italia per essere sfruttate (nella prostituzione coatta, nell’accattonaggio, nel lavoro forzato), il legislatore ha ritenuto di intervenire per permettere alle vittime rumene e bulgare di continuare ad accedere ai programmi di protezione sociale. Con questi intenti il legislatore ha ritenuto di approvare una norma, inserita all’articolo 6, comma 4, del decreto legge 28 dicembre 2006, n. 30029, convertito in legge senza modifiche, avente per oggetto la “proroga dei termini previsti da disposizioni legislative” che, nella sua disarmante genericità, non si cura di celare il suo reale leit motiv, cioè quello di porre un rimedio last minute ad una serie eterogenea di urgenze e necessità, note soltanto a tecnici e addetti ai rispettivi lavori. La disposizione che interessa l’art. 18 recita: “al programma di assistenza ed integrazione sociale previsto dall’articolo 18 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, può partecipare alle condizioni ivi indicate, in quanto compatibili, anche il cittadino di Stato membro dell’Unione europea che si trovi in una situazione di gravità ed attualità di pericolo.” L’intervento, pur nella sua laconicità, muove dalla premessa implicita del riconoscimento della rilevanza dell’articolo 18 nel panorama normativo italiano ed europeo per la tutela degli stranieri vittime di violenza e grave sfrutta29 In Guida al diritto, 2, 2007, p. 36. 82 mento e per il contrasto ai trafficanti e agli sfruttatori di persone, in ossequio ai più recenti indirizzi degli organismi europei e internazionali e nell’ottica di una prospettiva, sempre più condivisa a livello sovranazionale, fondata sulla tutela e sull’affermazione dei diritti umani, nonché sull’attenzione alla protezione delle vittime di reati gravi. A questo proposito, ad esempio, principio fondamentale della normativa internazionale in tema di diritti umani è il rispetto del principio di non discriminazione. È di chiara evidenza come questo principio si attagli alla perfezione con riguardo ai migranti irregolari o illegali e ad altri gruppi vulnerabili o emarginati. La responsabilità degli Stati è quella di prevenire e combattere la tratta di persone e il traffico di migranti, nonché di assistere e fornire un risarcimento alle vittime, di assicurare che le misure antitratta non creino ripercussioni negative o ledano i diritti umani dei gruppi colpiti. Questo è possibile se vengono introdotti, accanto alle misure preventive e repressive, rimedi che tendano a rimuovere quell’annullamento dei diritti umani che si pone come una precondizione della tratta e dello sfruttamento dei migranti. In questa prospettiva, vista l’efficacia dimostrata dall’applicazione del citato articolo 18 e l’elevata percentuale di vittime di condotte di traffico e di tratta provenienti da paesi il cui ingresso nell’Unione europea è recente o prossimo, si è voluto permettere la loro partecipazione ai programmi di protezione sociale anche se per la presenza nel territorio italiano non vi è più necessità di permesso di soggiorno; e ciò sia nel caso che il programma sia già in itinere, sia nel caso in cui debba essere attivato. Si è ritenuto così di sganciare gli aspetti riguardanti la protezione, l’assistenza e l’integrazione sociale delle vittime di violenza o di grave sfruttamento dal rilascio del permesso di soggiorno. Il legislatore ha inteso intervenire con una norma ad hoc senza toccare la struttura dell’articolo 18, proprio per utilizzare prassi collaudate e non disperdere esperienze acquisite, dimostrando l’intenzione di affidare alla concessione del permesso di soggiorno (nei casi in cui occorre) un ruolo secondario rispetto alla finalità primaria della protezione per motivi umanitari. Pertanto, quando non è richiesto il permesso di soggiorno, per poter accedere ai programmi di assistenza e integrazione sociale è necessaria la presenza delle condizioni e delle procedure in esso previste, in quanto compatibili. Invero, l’estrema sintesi della disposizione da una lato nasconde la sua portata dirompente e dall’altro lascia qualche dubbio interpretativo. L’art. 18 finora consentiva il rilascio di permessi di soggiorno per motivi di protezione sociale a cittadini extracomunitari che venivano ammessi a programmi di assistenza e integrazione sociale. A prescindere dall’esigenza di non lasciare “scoperti” i cittadini “neocomunitari”, (dato che ha costituito l’elemento dell’urgenza insito nel decreto legge) anche a pena di possibili censure di incostituzionalità, con il decreto legge 300/2006 qualunque soggetto, anche ap83 partenente ad uno Stato membro (dunque anche un cittadino italiano) sempre che vi sia un pericolo grave e attuale, per effetto dei tentativi di sottrarsi ai condizionamenti di un’associazione dedita ad uno dei delitti di cui all’articolo 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, o di quelli previsti dall’articolo 380 del codice di procedura penale30, può essere ammesso a partecipare ai programmi di assistenza e integrazione sociale. Se, com’è evidente, in tali casi il permesso di soggiorno è inutile, poiché l’esigenza è la partecipazione ai programmi di assistenza e integrazione sociale, di fatto il legislatore introduce un principio di estrema rilevanza; vale a dire che in presenza di gravi reati, da cui emerga un pericolo grave e attuale per la vittima (a prescindere dalla sua cittadinanza che diviene un elemento opzionale), lo Stato si assume l’onere che questa venga assistita, protetta e integrata socialmente secondo i programmi stabiliti. È ovvio che molto dipende anche dagli stanziamenti e dalle dotazioni di cui questi programmi disporranno, ma ciò non intacca il principio giuridico di base. Questa considerazione induce ad una riflessione ulteriore. In virtù di questa modifica non ha più alcuna motivazione sistematica la presenza di una norma come l’art. 18 all’interno di un testo unico sull’immigrazione. È chiaro che la finalità della norma in esame è da un lato di natura socio assistenziale, dall’altro è tesa a preannunciare (magari inconsapevolmente) la nascita di un futuro statuto degli interventi a sostegno e tutela delle vittime/testimoni di reati gravi, all’interno del quale far confluire anche l’attuale art. 13 della legge 228/2003 e ogni altra disposizione pertinente. Senza addentrarci in auspicabili progressi del legislatore, sorgono spontanei alcuni dubbi interpretativi. Il richiamo all’art. 18 e alle condizioni in esso previste consente di ritenere che continuino ad essere coinvolti i soggetti legittimati ad intervenire31 in base ai percorsi previsti (sociale o giudiziario). Poiché nel caso in cui non si tratti di extracomunitari non vi è necessità di rilascio di permesso di soggiorno, il punto di arrivo del procedimento deve consistere in una valutazione di ammissione ai programmi di assistenza, protezione e integrazione sociale che scaturisce automaticamente dalla riscontrata sussistenza di una situazione di gravità e attualità del pericolo a cui è esposta la vittima. Null’altro dice l’art. 6, comma 4, del decreto legge in esame, ma parrebbe logico intendere che il pericolo grave e attuale debba derivare da una situazione di violenza o grave sfruttamento conseguente al tentativo della vittima di sottrarsi ai condizionamenti di un’associazione dedita ai delitti menzionati 30 Per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Si tratta del procuratore della Repubblica, del questore, dei servizi sociali degli enti locali, delle associazioni, degli enti e degli altri organismi iscritti al registro di cui all’articolo 52, comma 1, lett. c, del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, convenzionati con l’ente locale. 31 84 nell’art. 18 (favoreggiamento e/o sfruttamento della prostituzione o altri delitti previsti dall’art. 380 c.p.p.) o conseguente a dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o di un processo. Più si riflette sulla novità della disposizione e più sembrano aprirsi possibilità forse insondate dallo stesso legislatore. Svincolato dallo status di cittadinanza del beneficiario, l’art. 18 si espande fino a divenire l’espressione positiva dell’obbligo di assistenza, protezione e integrazione sociale di cui si fa carico lo Stato nei confronti dei cittadini che per effetto delle loro dichiarazioni all’autorità giudiziaria si espongano ad un pericolo grave e attuale. È evidente il carattere generale della disposizione, molto più estesa e onnicomprensiva delle vigenti disposizioni in tema di testimoni di giustizia per reati di mafia e eversione. Inoltre, in questo disegno potrebbero rientrare modifiche anche di natura processuale, come quelle finalizzate ad estendere l’uso dell’incidente probatorio quando si debbano assumere dichiarazioni da vittime di reati gravi oppure dirette a prevedere obbligatoriamente forme di audizione protetta in aggiunta alle ipotesi attualmente previste dal codice di procedura penale. La valutazione circa la gravità o l’attualità del pericolo spetta agli stessi organi previsti nell’art. 18. Quindi, è richiesto l’intervento del questore (e/o nei termini previsti del procuratore della Repubblica) e dalla valutazione della situazione di gravità e attualità del pericolo scaturisce la possibilità di accedere al programma di assistenza e integrazione sociale. Sarebbe stato opportuno che il legislatore avesse previsto espressamente che da tale partecipazione debba conseguire la complementare possibilità di accesso ai servizi assistenziali e allo studio, nonché di iscrizione nelle liste di collocamento e di svolgimento del lavoro subordinato, fatti salvi i requisiti minimi di età (tutte possibilità che nel comma 5 dell’articolo 18 sono connesse al rilascio del permesso di soggiorno, del tutto superfluo però per tutti i casi di “neocomunitari” o di comunitari ammessi ai programmi) nonché il diritto a soggiornare nello Stato per un periodo superiore a tre mesi (per la semplice considerazione che i programmi di assistenza art. 18 hanno una durata ben superiore a tre mesi). Infine, sarebbe stato utile raccordare a questa silenziosa innovazione normativa le circolari del Ministero dell’Interno del 28 dicembre 2006 e del 3 gennaio 2007 con cui si forniscono istruzioni agli uffici competenti, sottolineando il regime transitorio per il periodo di un anno, di cui ha inteso avvalersi l’Italia con particolare riguardo alle modalità di accesso a determinate forme di lavoro subordinato. Allo stato attuale, sembrerebbe auspicabile una circolare esplicativa del Ministero dell’Interno in ausilio al lavoro delle singole questure, all’interno delle quali, come già ricordato, non si sono mai sopite le divergenze applicative dell’articolo 18 tradizionale. 85 Infine, è appena il caso di considerare che l’innovazione dell’art. 18 non si sovrappone allo strumento dell’articolo 13 della legge 11 agosto 2003, n. 228, con il quale è stato istituito uno speciale programma di assistenza per le vittime dei reati previsti dagli articoli 600 e 601 del codice penale (che già faceva salve per gli stranieri le disposizioni dell’articolo 18) rispetto alla quale si distingue per i requisiti richiesti per la partecipazione ai programmi e per le caratteristiche e le finalità degli stessi., essendo l’art. 13 limitato alle vittime di tratta ed avendo un durata limitata di soli tre mesi. 2.2.2 Identificazione e protezione della vittima: l’esigenza di formazione multidisciplinare Strettamente legato alla formulazione e all’applicazione dell’art. 18 è il nodo centrale dell’identificazione della persona trafficata e ancora di più, della vittima di tratta32. Si è detto più volte che la tratta di persone è un fenomeno sommerso, nel quale è arduo identificare le vittime e, quindi, determinarne l’emersione. Nelle situazioni di “invisibilità” le vittime non sono identificate e protette ed i trafficanti non possono essere assicurati alla giustizia. Più volte si è affermato che l’art. 18 rappresenta uno strumento formidabile anche nell’ottica repressiva perché, se opportunamente utilizzato, consente l’acquisizione di rilevanti informazioni provenienti dalla vittima del reato, con ottime probabilità di successo delle indagini. Ancora troppo esigue sono le identificazioni operate dalle forze dell’ordine (nell’attività di polizia giudiziaria, di frontiera, etc.) tuttora impreparate e bisognevoli di specifica formazione e di adeguate indicazioni operative. D’altro canto, anche le Ong accreditate o i servizi sociali dovrebbero prestare una attenzione maggiore alla responsabilizzazione della vittima in chiave processuale, sia durante il periodo di riflessione, sia durante l’attuazione del programma di assistenza, non perché l’aspetto giudiziario debba essere un viatico per la tutela dei diritti della persona, ma perché un pieno recupero della sua dignità passa anche attraverso il ristoro morale e materiale che la condanna dei suoi sfruttatori può rappresentare e attraverso il contributo civico alla riaffermazione dei valori di legalità. D’altra parte, anche al fine di evitare i pericoli di aggravamento dei traumi e di quella che viene da più parti chiamata “rivittimizzazione”, è fondamentale che gli operatori sociali conoscano gli aspetti più strettamente investigativi e giudiziari connessi alle azioni di contrasto alla tratta di persone e al traffico di migranti. 32 Anche in questo senso si potrebbe riproporre l’azzardato accostamento con le vittime di usura avanzato in precedenza. 86 A prescindere dalle necessarie riflessioni circa l’importanza di altri strumenti di assistenza e di inclusione sociale, ad avviso di chi scrive il fulcro del problema è costituito da un duplice aspetto: l’azione integrata e coordinata degli attori in campo (enti locali, questure, polizia giudiziaria, magistratura, servizi sociali, etc.) e la formazione reciproca in quanto componenti imprescindibili delle strategie di contrasto a traffico e tratta: Si tratta infatti di due capisaldi attorno ai quali costruire ogni progetto di intervento che consenta di raggiungere due obiettivi principali: 1) l’identificazione, l’assistenza e il recupero della vittima; 2) l’individuazione, l’indagine, il processo penale a carico dei responsabili di tratta o di traffico. A questo proposito sono significativi gli sforzi recenti delle istituzioni, soprattutto europee e internazionali e nell’ambito dei diversi programmi finanziati, tesi a predisporre schemi, protocolli e manuali per gli operatori delle forze dell’ordine e della magistratura affinché siano messi in condizione di fronteggiare nel modo più appropriato questi complessi fenomeni criminali. Alcuni iniziali esempi significativi sono forniti dai manuali pubblicati nel 2003 dall’United Nations Development Program Romania che hanno svolto il ruolo di pionieri nella predisposizione di linee guida aventi come oggetto le buone prassi per la comprensione dei fenomeni di tratta, per l’identificazione e la protezione delle vittime, per l’assistenza e il reinserimento sociale, per la gestione delle indagini e dei processi33. Negli anni successivi, sono stati pubblicati altri strumenti analoghi34, grazie alla sempre più diffusa idea che la formazione interdisciplinare di tutti gli operatori impegnati a vario sul campo sia uno strumento primario ed essenziale per eseguire le azioni di contrasto del crimine e di tutela delle vittime in modo efficace e senza contraddizioni. Si tratta di strumenti, programmi e iniziative in fase di continua evoluzione, sia perché il lavoro di formazione integrata è estremamente impegnativo, sia perché lo si svolge con riferimento a fenomeni in continua evoluzione, in relazione ad aree geografiche distinte, a forme di sfruttamento differenziate, alle specificità etniche, nazionali, culturali e di genere delle vittime35. 33 www.undp.ro/governance/Best%20Practice%20Manuals/ Si veda a tal proposito, Ecpat Europe Law Enforcement Group, Combating the trafficking in children for sexual purposes, Amsterdam, 2006. Parte di un più ampio progetto Agis, finanziato dalla Commissione europea, questo lavoro è diretto a magistrati, forze dell’ordine e operatori sociali di diversi paesi europei (www.ecpat.net/eng/pdf/Trafficking_Report.pdf). 35 Ad esempio, con particolare riguardo all’ormai condivisa esigenza di formazione multidisciplinare, si veda il progetto Agis gestito dall’Oim, anche in collaborazione con la Direzione nazionale antimafia, che si propone l’obiettivo di creare “Reti operative e meccanismi di cooperazione attraverso un processo di formazione multidisciplinare per autorità giudiziarie, forze dell’ordine, Ong e Organizzazioni Internazionali impegnati nella lotta alla tratta di esseri umani”. 34 87 Da ultimo è il caso di segnalare l’importanza di una specifica formazione destinata a coloro che rappresentano i punti terminali del contrasto repressivo ai fenomeni di tratta e di traffico, vale a dire i magistrati, giudicanti e requirenti. Il tema, come accennato in altre parti del presente scritto, è ormai all’attenzione degli organismi internazionali, i quali hanno dedicato importanti risorse, nella consapevolezza che in assenza di un’adeguata formazione della magistratura (anzi, delle magistrature dei singoli paesi), il sistema di contrasto può presentare contraddizioni e malfunzionamenti. Da citare è certamente anche il manuale realizzato dall’International Centre for Migration Policy Development (Icmpd)36 che si prefigge l’obiettivo di fornire strumenti avanzati a giudici e pubblici ministeri, consapevoli che il compito della repressione penale non è soltanto quello di individuare e punire i colpevoli di gravi reati, ma, anche e soprattutto, di rispettare e reintegrare i diritti umani delle vittime. Il rispetto dei diritti umani e la priorità della tutela delle conseguenti prerogative hanno come conseguenza frequente il rafforzamento dell’intenzione di partecipare al processo da parte delle vittime, fornendo un contributo rilevante sin dal momento delle indagini. In questo senso potrebbe essere particolarmente rilevante coinvolgere e sensibilizzare l’organismo istituzionale preposto alla formazione dei magistrati sia in sede centrale che in sede decentrata, vale a dire il Consiglio Superiore della Magistratura che, ai sensi dell’art. 29 del regolamento interno, organizza incontri di aggiornamento professionale, giornate e seminari di studio per i magistrati. Queste considerazioni si pongono in linea con gli orientamenti formativi più avanzati, esistenti in seno allo stesso Consiglio Superiore della Magistratura, che privilegia la formazione multidisciplinare dei magistrati nella consapevolezza che vi sono oggi, nel mutato scenario sociale, situazioni umane e giuridiche complesse che il magistrato non può affrontare senza un adeguato aggiornamento aperto anche a contributi innovativi. Anche in questo caso l’obiettivo fondamentale è duplice: l’emersione delle vittime con conseguente tutela nella fase giudiziaria dei diritti umani violati (senza traumatizzazioni ulteriori dovute a disattenzioni dettate da superficialità o da pregiudizi discriminatori degli stessi magistrati) nonché il buon esito investigativo prima e processuale poi, con le conseguenti condanne dei responsabili. 2.2.3 Gli indicatori di tratta e di altre forme di grave sfruttamento Il primo stadio delle indagini e delle attività di supporto e tutela è necessariamente quello dell’identificazione delle vittime. Molto spesso le persone offese sono trattate come migranti illegali e, quindi, subito espulse e rimpatriate, 36 Icmpd, Anti-trafficking training for judges and prosecutors, Vienna, 2006; e Antitrafficking training for frontline law enforcement officers, Vienna, 2006. 88 senza che nessuna effettiva procedura di approccio finalizzata all’approfondimento di quanto superficialmente rilevabile venga concretamente posta in essere dalle forze dell’ordine. È fondamentale distinguere tra vittime e migranti illegali, tra fenomeni di tratta di persone e di traffico di migranti o di semplice immigrazione illegale autonoma. Le persone vittime di tratta devono essere considerate come vittime e, dunque, non dovrebbero neanche essere perseguite per il loro status di irregolari. Come si è detto e come si dirà in seguito, l’identificazione delle vittime di tratta e di altre forme di grave sfruttamento è particolarmente impegnativa e può richiedere del tempo, compatibilmente con le paure e i timori che condizionano le vittime in questo stadio. Tuttavia, già in una primissima fase di approccio è possibile, per gli operatori debitamente informati e formati, cogliere alcuni elementi rilevatori che possono indicare di essere in presenza di una probabile vittima di tratta. Sono sempre maggiori i tentativi di approntare liste di indicatori utilizzabili dagli operatori (prevalentemente forze dell’ordine e operatori sociali). In linea di massima si può ritenere che tali liste siano utili in fase di identificazione delle potenziali vittime. È fondamentale, tuttavia, che i diversi tipi di indicatori siano considerati sempre e soltanto dei riferimenti di ausilio, non esaustivi, e che siano costantemente verificati e monitorati, in modo da aggiornarli regolarmente, per rispondere adeguatamente a fenomeni criminali dinamici e mutevoli. La previsione di indicatori è certamente utile, purché non si risolva in una rigida codificazione di dati che nel breve periodo potrebbero divenire obsoleti e non più rappresentativi. In sostanza, si tratta di un ulteriore strumento di sostegno nel difficile momento dell’emersione delle vittime. Occorre anche tenere in debita considerazione che gli indicatori devono variare in relazione alle diverse tipologie di vittime, alle loro caratteristiche etniche, religiose, di genere, cultura, nazionalità, nonché in relazione alle specificità del settore di sfruttamento (prostituzione coatta, lavoro forzato, accattonaggio, attività illegali, etc.). Ma anche nell’ambito di uno stesso settore di sfruttamento gli indicatori possono variare; infatti, lo sfruttamento sessuale su strada differisce notevolmente da quello nei luoghi al chiuso (appartamenti, night club, centri estetici, etc.) e, conseguentemente, anche gli indicatori possono essere diversi. In sostanza, non esiste un modello di vittima o un modello di assoggettamento e gli stereotipi devono essere evitati. Tenuto conto delle difficoltà interpretative delle norme penali vigenti in tema di tratta, nonché delle caratteristiche in costante evoluzione del fenomeno criminale, potrebbe essere utile dunque procedere in modo condiviso all’individuazione di indicatori di tratta. La premessa deve essere quella di analizzare le prevalenti circostanze dei fatti, al ricorrere delle quali si impone lo svolgimento di un approfondimento investigativo, poiché, in presenza di quelle premesse, vi è fondato motivo di ritenere che a quel caso possano applicarsi gli articoli 600, 601 89 o 602 c.p. o le norme che sanzionano altre forme di violenza o grave sfruttamento, a cui è comunque possibile applicare l’art. 18 del d.lgs. 286/1998. Ragionevolmente, la presenza di un solo indicatore generalmente non dovrebbe essere sufficiente. Al contrario, la compresenza di diversi indicatori rafforza l’ipotesi che il singolo caso possa essere inquadrato come riduzione in schiavitù o comunque che possa riguardare una vittima di altre forme di violenza o grave sfruttamento. I principali problemi di identificazione riguardano soprattutto le fattispecie abusive o fondate su forme di intimidazione ambientale o larvata, laddove le vittime non sono necessariamente soggette a violenza efferata e non sono del tutto prive della possibilità di movimento. D’altronde, in linea con le recenti evoluzioni del fenomeno, sono sempre più frequenti le forme di “prostituzione negoziata” o di sfruttamento apparentemente meno stringente, in cui alle vittime vengono lasciati maggiori vantaggi e apparenti libertà di autodeterminazione. Ma sono proprio questi i casi in cui l’approfondimento investigativo è fondamentale. Invece, non serve nei casi estremi, poiché se la vittima viene sequestrata, chiusa a chiave, controllata a vista, legata, non vi può essere alcun dubbio sulla configurabilità della riduzione in schiavitù. In sintesi, alcuni dati oggettivi da tenere in considerazione, ai fini della valutazione della condizione di soggezione continuativa dal punto di vista dei mezzi utilizzati dai trafficanti e con specifico riferimento allo sfruttamento sessuale, sono così riassumibili: i singoli o i membri del gruppo sottopongono le vittime ad atti di violenza per costringerle a sottomettersi allo sfruttamento; privano le donne del passaporto in modo che non possano fuggire e fare rientro al paese di origine; le donne sfruttate sono controllate frequentemente, quasi sempre per mezzo di telefoni cellulari; devono dare conto di tutti i loro proventi, di cui gli sfruttatori si appropriano in misura rilevante (o comunque maggioritaria) consentendo loro di mandare somme modeste ai familiari allo scopo di evitarne la ribellione; le vittime sfruttate non hanno alcun potere decisionale sugli orari e sulle modalità delle prestazione sessuali; non sono libere di decidere se, come e quando rientrare al loro paese di origine. Eventuali rientri temporanei sono decisi e organizzati dagli sfruttatori, in base ai loro esclusivi interessi e sotto il loro stretto controllo; quando tentano di ribellarsi in alcuni casi vengono minacciate, talvolta facendo leva sui figli o sui familiari rimasti nel paese di origine. In altri casi vengono riprese, anche quando cercano rifugio in strutture d’accoglienza; anche quando non esercita violenza o minaccia esplicita, il gruppo o il singolo si avvale della fama criminale ottenuta con mezzi violenti nei luoghi di origine. 90 Sul versante delle condizioni di vita della vittima, che rileva soprattutto ai fini dell’individuazione dell’abuso di una situazione di necessità, le circostanze oggettive che vanno prese in considerazione possono essere le seguenti: sradicamento e isolamento; non conoscenza della lingua; povertà estrema e situazione di bisogno dei familiari, in particolare dei figli rimasti nel paese di origine; necessità (o errata convinzione) di dovere ancora restituire quanto dovuto per il pagamento delle spese di viaggio e/o di immigrazione illegale. Si tratta dei casi di cd. servitù da debito (debt bondage); condizionamenti culturali (si pensi al caso dei riti voodoo per terrorizzare le donne nigeriane o altre forme rituali utilizzate nei confronti di donne latinoamericane). In questo caso, tuttavia, l’utilizzo di tali mezzi di coartazione si accompagna spesso a minacce esplicite o comunque a condizionamenti psicologici derivanti dalla fama criminale intimidatoria del gruppo o dalle credenze culturali etniche; fallimento del progetto migratorio; convinzione di non potere abbandonare la prostituzione a causa dello stigma sociale ad essa collegata. Necessariamente diversi sono i criteri di identificazione della tratta di esseri umani ai fini di lavoro forzato. Si tratta di un fenomeno, come detto, ancora poco indagato37 che, tuttavia, deve essere analizzato con sempre maggiore vigore anche attraverso un attento lavoro di investigazione. In tal caso la maggior difficoltà consiste nell’individuare i casi in cui lo sfruttamento del lavoro nero si trasforma in uno stato di assoggettamento paragonabile alla riduzione in schiavitù, secondo i parametri normativi dell’articolo 600 del codice penale. Poiché la casistica è ancora esigua è opportuno fare riferimento a criteri consolidati a livello internazionale. In base alla Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) n. 29 del 1930, il lavoro forzato è la prestazione lavorativa o il servizio ottenuto da una persona sotto la minaccia di una punizione o per il quale la persona non si è offerta volontariamente. Si tratta di una definizione potenzialmente in contrasto con quella contenuta nella Convenzione di Palermo, dove la tratta può essere realizzata anche con mezzi abusivi, oltre che violenti e coercitivi. Occorre, quindi, analizzare quando la prestazione lavorativa possa effettivamente ritenersi volontaria. Sul punto le linee guida dell’Oil suggeriscono di tenere conto del fatto che il consenso del lavoratore possa essere stato manipolato. Quando i lavoratori migranti vengono indotti con l’inganno o con le false promesse e quando i lo37 Sul tema, cfr. F. Carchedi, F. Dolente, T. Bianchini, A. Marsden, “La tratta di persone a scopo di grave sfruttamento lavorativo”, in F. Carchedi, I. Orfano (a cura di), op. cit. 91 ro documenti restano nella disponibilità del datore di lavoro, gli organi di supervisione considerano integrata una violazione della Convenzione. La mancata corresponsione di un salario corrispondente ai minimi sindacali non è di per sé indice di lavoro forzato. Tuttavia, secondo l’Oil, questa violazione può essere presa in considerazione quando si presenta insieme ad altri elementi di fatto, ad esempio, le situazioni nelle quali i lavoratori sono confinati nel posto di lavoro o privati dei documenti. Considerata questa impostazione di fondo, l’Oil ha individuato una lista di indicatori per l’identificazione dei casi di tratta a fini di sfruttamento lavorativo che appare essere tra le più complete: la persona presta il proprio lavoro in condizione di confinamento nel posto di lavoro; è privata dei documenti che restano in possesso del datore di lavoro o di persone di sua fiducia; è sottoposta a violenza fisica o sessuale; è minacciata di denuncia all’autorità per la sua condizione di straniero illegale; è vincolata attraverso il convincimento di avere un obbligo di restituzione di un debito, il cui ammontare non è fissato con precisione o non sono definite esattamente le modalità per l’estinzione; i familiari, anche se nel paese di origine, subiscono minacce o violenze; il salario è ampiamente al di sotto dei minimi sindacali; l’orario di lavoro è sproporzionatamente gravoso rispetto alla retribuzione; il lavoro viene prestato in condizioni molto carenti sotto il profilo igienico-sanitario, nonché in luoghi inadeguati sotto il profilo della sicurezza dei lavoratori. Un altro fenomeno per il quale occorrerebbe diversificare in parte la lista degli indicatori per l’identificazione è la servitù domestica, che altro non è se non una forma di lavoro forzato. La peculiarità e l’insidiosità di questa forma di sfruttamento sono legate al fatto che esiste una relazione personale tra il lavoratore e il datore di lavoro che, spesso, implica anche la coabitazione. La persona è particolarmente vulnerabile perché, diversamente dal lavoro forzato, che ammette qualche forma di negoziazione, nella servitù domestica normalmente non vi è alcuna forma di pattuizione. Alla persona si fa credere di essere un componente della famiglia. Tuttavia, essa deve essere sempre a disposizione di qualsiasi esigenza della famiglia e non ha tempo libero per sé. I riposi giornalieri o settimanali, così come le ferie, non sono concessi e comunque non sono fissati in modo regolare. A volte può verificarsi un vero e proprio confinamento all’interno dell’abitazione. Spesso la persona può essere sottoposta a violenze e comportamenti degradanti. Gli indicatori in tal caso potrebbero essere i medesimi del lavoro forzato, con qualche caratterizzazione specifica: 92 - coabitazione; mancata previsione di riposi giornalieri o settimanali o di ferie con cadenza regolare; - la persona è sottoposta a comportamenti offensivi e razzisti; - è soggetta ad abusi e/o violenze anche sessuali; - le viene impedito di lasciare l’abitazione; - non vi è alcuna contrattazione sulle condizioni di lavoro; - il salario è inesistente o insufficiente ad un’esistenza autonoma; - la persona è vincolata attraverso il convincimento di avere un obbligo alla restituzione del costo del biglietto e dell’ammontare del debito, che non sono fissati con precisione. In conclusione, è chiaro che le liste di indicatori (anche le più complete) rischiano di essere del tutto inutili se non vengono utilizzate da personale formato, in grado di (ri)conoscere gli elementi costitutivi della tratta di persone e dei fenomeni ad essa collegati. È altrettanto vero che fa parte della formazione anche la conoscenza dei modi con cui effettuare l’approccio con la potenziale vittima. Una relazione impostata senza conoscere le specificità che caratterizzano la condizione delle vittime di tratta potrebbe pregiudicare la funzionalità di qualunque lista di indicatori. 2.3 La centralità dei diritti umani: le prospettive del Rapporto del Gruppo di esperti nominato dalla Commissione europea È ormai opinione condivisa da più parti, in ambito europeo e nazionale, che non si possa efficacemente contrastare il traffico di migranti e la tratta di persone senza la complementare e imprescindibile tutela dei diritti umani delle vittime. Occorre che questa convinzione per ogni valida azione di contrasto ai fenomeni venga accolta e praticata da tutti gli operatori che a vario titolo sono coinvolti nel settore anti-tratta, in particolar modo per coloro che agiscono sul piano investigativo e giudiziario. Sul piano nazionale dovrebbe essere quasi superfluo richiamare la centralità del rispetto e della valorizzazione dei diritti umani, ove soltanto si ponga attenzione agli articoli della Costituzione che sono il fondamento dell’affermazione dell’inviolabilità dei diritti umani (art. 2), della promozione di tali diritti al di là di ogni diseguaglianza e discriminazione (art. 3). In particolare, poi, l’art. 10 sancisce la conformazione o subordinazione del diritto interno a quello internazionale e afferma che allo straniero devono essere riconosciute le libertà democratiche garantite dalla Costituzione, anche nel caso in cui ciò sia impedito nel paese di origine, nel qual caso lo straniero ha diritto all’asilo sul territorio italiano. 93 Evidentemente, però, l’applicazione pratica di questi principi fondamentali non è sempre immediata e necessita di particolari percorsi di sensibilizzazione, soprattutto quando i diritti umani devono essere tutelati nei riguardi di persone coinvolte in gravi reati, seppure in qualità di persone offese. Le linee guida di intervento, che si auspica vengano considerate quanto prima nella pratica quotidiana degli operatori dei singoli Stati, sono sintetizzate efficacemente nel più volte citato Rapporto del Gruppo di esperti sulla tratta di esseri umani, nominato dalla Commissione europea che, muovendosi espressamente lungo il solco tracciato dalla richiamata Dichiarazione di Bruxelles del 2002, analizza l’impianto normativo europeo ed internazionale, le attività di assistenza alle vittime, di prevenzione e di contrasto alla tratta per proporre una serie articolata di raccomandazioni alla Commissione e agli Stati membri. Il principio ispiratore del lavoro del Gruppo si basa, da un lato, sulla centralità della tutela dei diritti umani delle vittime e, dall’altro, in considerazione della complessità del fenomeno, sulla necessità di adottare un approccio olistico, multidisciplinare e integrato. Naturalmente il panorama di riferimento non può che essere quello migratorio internazionale, come evidenziato nei precedenti paragrafi. Il Gruppo di esperti ricorda che in base alla normativa internazionale sui diritti umani gli Stati hanno l’obbligo di rispettare e proteggere i diritti degli individui ad esercitare i loro diritti umani. Non è una mera enunciazione di principio poiché l’obbligo include il dovere di investigare le violazioni di tali diritti, di punire coloro che li infrangono e di fornire supporto alle vittime di tali inosservanze. Ne consegue che ogni piano di intervento dovrebbe essere conforme agli obblighi derivanti dalla normativa internazionale ed europea sui diritti umani, così come previsto dai principali strumenti giuridici di riferimento38. Pertanto, lo Stato che introduce discipline in materia di tratta di persone deve evitare che esse confliggano con lo standard minimo di tutela dei diritti umani, così come previsto dalla normativa internazionale vigente. Rilevano gli esperti del Gruppo che “il principio fondamentale è che gli strumenti tesi a contrastare la tratta non solo dovrebbero essere coerenti con il rispetto per la protezione dei diritti umani, ma anche non dovrebbero creare o peggiorare situazioni esistenti che si pongono come cause o contribuiscono ad alimentare la tratta, attraverso l’istituzione di politiche e pratiche che producono effetti negativi sui diritti umani delle persone, in particolare i diritti delle 38 Ad esempio, il Patto internazionale sui diritti civili e politici, il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e gli altri documenti che stabiliscono i criteri per garantire il rispetto dei diritti fondamentali. 94 persone trafficate, delle donne, dei migranti, dei profughi e dei richiedenti asilo39.” A questo proposito, principio fondamentale della normativa internazionale in tema di diritti umani è il rispetto del principio di non discriminazione40. È di chiara evidenza come questo principio si attagli alla perfezione con riguardo ai migranti irregolari o illegali e ad altri gruppi vulnerabili o emarginati. Se così è, ogni azione di contrasto al fenomeno tratta non può implicare discriminazioni, dirette, indirette o soltanto potenziali in relazione alle concrete modalità operative previste, nei confronti di prostitute o di altri gruppi di migranti irregolari, o pregiudicare i diritti umani degli individui. In sostanza, non è possibile che le persone trafficate siano soggette a trattamenti discriminatori nelle pratiche o nell’applicazione della legge e che la loro protezione sia modulata (e diminuita o annullata) in relazione al genere, all’etnia, allo status giuridico, al fatto di essere già state trafficate altre volte o di avere avuto ruoli nel commercio sessuale. La responsabilità degli Stati è quella di prevenire e combattere la tratta, nonché di assistere e fornire un risarcimento alle vittime, di assicurare che le misure antitratta non creino ripercussioni negative o ledano i diritti umani dei gruppi colpiti. Questo è possibile se vengono introdotti, accanto alle misure preventive e repressive della tratta, rimedi che tendano a rimuovere quell’annullamento dei diritti umani che si pone come una precondizione della tratta. Ciò dipende dalla previsione di adeguati strumenti di monitoraggio dell’efficacia delle misure adottate, nonché dall’istituzione di meccanismi in grado di valutare l’impatto agito sui diritti umani da parte delle legislazioni, delle politiche e dei programmi di contrasto alla tratta. È esemplare come il Rapporto sia stato elaborato attorno ad alcuni concetti che potrebbero apparire addirittura banali, ma che, nella prassi, non lo sono affatto se si pensa che, se applicati in toto, anche durante i percorsi investiga39 Commissione europea, op. cit., p. 112. Cfr., tra gli altri, artt. 2 e 7 della Dichiarazione universale dei diritti umani, gli artt. 2 e 26 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e l’art. 2 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, ma anche l’art. 21, paragrafo 3, dello Statuto della Corte penale internazionale. Ma in proposito e più in generale si veda anche l’azione dell’Unione europea che ha dato vita alle direttive sul divieto di discriminazione per motivi di religione, convinzioni personali, handicap, età, tendenze sessuali (2000/43/CE) e per motivi di razza e origine etnica (2000/78/CE). Da tale azione normativa è derivata l’iniziativa interna che, ai sensi dell’art. 7 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215, ha istituito l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (Unar), presso il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, con il compito di promuovere l’effettiva parità di trattamento e rimuovere qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla razza e sull’origine etnica. Sui compiti e sulla natura di detto Ufficio, si veda Dipartimento per le Pari Opportunità, Integrazione e non discriminazione: panorama normativo e ruolo dell’Unar, Roma, 2005. 40 95 tivi e di primo sostegno alla vittima, costituirebbero una rivoluzione copernicana nel modo di agire di quegli organismi – come le forze di polizia giudiziaria – meno abituati agli approcci proposti dal Gruppo di esperti. In questa ottica, quindi, è di primaria importanza affermare e divulgare che gli individui trafficati sono considerati soggetti e titolari di diritti, incluso il diritto alla protezione dallo sfruttamento criminale. Questo riconoscimento implica l’identificazione delle esigenze dei titolari di diritti e dei contestuali obblighi degli operatori, delle cause strutturali che provocano le violazioni dei diritti umani. Le corrispondenti strategie, parallelamente alla tutela della posizione vulnerabile delle persone trafficate, dovrebbero tendere all’empowerment, alla partecipazione, al sostegno delle persone e dei gruppi coinvolti41. Anche in linea con quanto illustrato dai vari manuali di formazione a cui si è fatto cenno in precedenza, per garantire questi risultati è necessario prevedere misure minime di assistenza alle quali tutte le persone trafficate dovrebbero avere diritto di accedere, così come è fondamentale identificare le corrispondenti responsabilità degli organismi istituzionali. Le persone trafficate devono essere considerate, secondo un’accezione di tipo psicologico “soggetti attivi di cambiamento”, proprio perchè vittime di un crimine e di una seria violazione dei diritti umani. Le forme di assistenza devono tendere all’emancipazione, all’inclusione sociale e alla partecipazione delle persone trafficate. Il concetto che si ritiene di dover promuovere è quello secondo cui fino a quando le vittime di tratta non vedranno finalmente riconosciuti e concretamente attuati i propri diritti umani, più difficile sarà eliminare (o, meglio, indebolire) le condizioni di esistenza della tratta. Dal punto di vista investigativo, un approccio fondato sui diritti umani richiede la non criminalizzazione della persona trafficata per reati derivanti dal suo essere stata trafficata. Inoltre, deve essere considerato che l’assenza di un’adeguata protezione e assistenza può far desistere le persone trafficate dal denunciare i crimini subiti; può renderle più fragili dinanzi ai rischi di ritorsioni da parte dei trafficanti; e, quando decidono di sporgere denuncia perché la situazione è divenuta insostenibile, in assenza delle necessarie azioni integrate multidisciplinari, forniscono dichiarazioni imprecise, parziali, insufficienti, con buon esito delle argomentazioni difensive dei trafficanti. L’omessa valutazione delle vittime quali soggetti di diritti può compromettere il raggiungimento degli obiettivi delle legislazioni contro la tratta. Infatti, una componente critica legata all’efficacia del momento investigativo e repressivo è la volontà della persona trafficata di collaborare ai procedimenti penali. La volontà della persona spesso dipende dalla protezione, dalla sicurezza e dal rispetto della privacy che le vengono garantiti, nonché dalla disponibilità di assistenza e dal trattamento che le 41 Commissione europea, op. cit, p. 113. 96 viene riservato da parte delle autorità giudiziarie e di polizia42. Allo stesso modo possono influire i rischi di essere rimpatriati e/o arrestati e perseguiti per reati connessi all’immigrazione illegale o dell’uso di falsi documenti. Ulteriori elementi significativi sono dati dalla possibilità di intraprendere azioni penali, civili o di altro tipo contro i trafficanti e gli sfruttatori, dal diritto di accedere a misure specifiche di protezione durante lo svolgimento dei processi, dalla disponibilità di schemi di protezione dei testimoni e di assistenza legale, dal rilascio di un permesso di soggiorno temporaneo e, se necessario, permanente, dall’accesso ad un alloggio sicuro e adeguato, dalla disponibilità di assistenza sociale, medica e psicologica su base volontaria e confidenziale, dalla possibilità di ottenere un rimpatrio protetto e volontario nel proprio paese di origine, salvo che ciò non esponga la persona trafficata ad un rischio reale di ulteriori abusi, come ritorsioni da parte dei trafficanti, misure coercitive o persecutorie da parte delle autorità del paese di provenienza. Inoltre, il metodo dell’approccio centrato sul rispetto dei diritti umani richiede, per una maggiore efficacia delle azioni adottate, una analisi diversificata del fenomeno in relazione al tipo di vittima. Non ci si può limitare al concetto di persona trafficata, ma occorre diversificare le prospettive in relazione al genere e all’etnia delle vittime. Occorre considerare i ruoli tradizionali attribuiti alle donne, le pratiche discriminatorie di vario genere, incluse quelle basate sull’appartenenza ad un dato paese o gruppo etnico. La previsione di una prospettiva legata al genere e all’etnia è, quindi, essenziale per analizzare la tratta così come per lo sviluppo di politiche di contrasto nonché per garantire una protezione e assistenza alle persone trafficate centrata sulle specifiche esigenze che le riguardano. Non è peregrino rilevare che le attuali politiche sulla tratta considerano esclusivamente la tratta di donne nel mercato del sesso tralasciando quella, forse oggi prevalente, che coinvolge gli uomini e altri settori di sfruttamento. In questi ambiti ulteriori (si pensi, solo per esempio, allo sfruttamento grave di cittadini asiatici, in prevalenza cinesi, nel mercato del lavoro nero e sommerso all’interno di opifici o di cittadini africani e/o dell’Est europeo nelle campagne del Meridione) il fenomeno è tuttora poco conosciuto, difettano legislazioni specifiche e interventi mirati all’identificazione e al sostegno delle varie tipologie di soggetti trafficati e sfruttati. L’approccio centrato sul rispetto dei diritti umani consente di adottare una logica di intervento globale, modulata e diversificata in relazione al tipo di vittime, ai settori di sfruttamento, alle tecniche di indagine. 42 Idem, p. 114. 97 2.4 L'integrazione dei protocolli investigativi con le buone prassi di tutela delle vittime: analisi di un’esperienza A cosa devono condurre le considerazioni contenute nei paragrafi precedenti: a mere dichiarazioni ideologiche oppure a concreti interventi di metodo? Nel secondo caso, i suggerimenti contenuti nelle diverse linee guida sviluppate in ambito internazionale o nei manuali di buone prassi in che tipo di provvedimenti concretamente operanti sul territorio possono essere tradotti? Pochi anni dopo l’esplosione dei flussi migratori che hanno coinvolto l’Italia quale paese di destinazione, alcune procure della Repubblica più sensibili (e anche più interessate dal problema, come nel caso della Procura della Repubblica di Lecce che sin dal 1994 predispose uno specifico protocollo di indagine) hanno stilato dei protocolli investigativi attraverso i quali tentare di razionalizzare le attività di contrasto, individuando organi di polizia giudiziaria specializzati e singole attività specifiche da compiere. Oggi questi protocolli sono divenuti patrimonio comune, perfezionati e arricchiti con i risultati e gli insegnamenti dell’esperienza, tanto da essere generalizzati e qualificati nelle sollecitazioni proposte dalla Direzione nazionale antimafia, che più volte ha invitato, per il tramite delle procure generali, gli uffici giudiziari requirenti ad attenersi alle strategie investigative collaudate. È utile rinviare ad altre analisi per quanto concerne l’identificazione delle tecniche di indagine più proficue43, mentre ciò che più interessa in questa sede è valutare, sia in chiave investigativa, sia in quella di tutela dei diritti umani delle vittime, le prospettive utili connesse alla formalizzazione di rapporti di collaborazione tra i diversi attori – non solo quelli inquirenti – operanti sul campo. In particolare, per quanto concerne lo strumento chiave costituito dall’art. 18 d.lgs. 286/1998, i soggetti principalmente coinvolti sono la Procura della Repubblica competente per territorio, la polizia giudiziaria, l’Ufficio immigrazione della Questura, i servizi sociali (pubblici o privati accreditati). Uno dei maggiori problemi investigativi è dato dalla difficoltà di “gestire” le vittime. Quasi sempre i risultati processuali (ma anche quelli personali e attinenti al recupero dell’integrità psicofisica della vittima) sono affidati al caso o alla capacità degli organi istituzionali di collaborare occasionalmente e/o spontaneamente con le associazioni. Le collaborazioni costruttive non sono infrequenti, ma tutto è demandato alla sensibilità dei singoli, al di fuori da modelli comportamentali condivisi, preordinati e volti a perseguire il duplice obiettivo: il buon esito delle indagini (a cui è connessa la probabilità di punire i colpevoli nel processo) e la tutela dei diritti fondamentali della vittima. 43 Transcrime, Tratta di persone… cit. 98 Dall’analisi di queste difficoltà e dalla consapevolezza della centralità degli obiettivi menzionati si è mossa l’azione della Procura della Repubblica di Teramo che, in collaborazione con l’Associazione On the Road, operante nelle Marche, in Abruzzo e in Molise, ha promosso un lavoro di studio, culminato in un confronto multidisciplinare tra i diversi operatori del settore44 e i cui risultati sono stati successivamente illustrati in diverse sedi istituzionali e non45. Le elaborazioni e le riflessioni acquisite in questo contesto hanno dato vita ad una circolare adottata dal medesimo ufficio giudiziario, avente come destinatari i responsabili delle diverse forze dell’ordine, l’Ufficio immigrazione della Questura e – indirettamente – le associazioni, le Ong, i servizi sociali, attuatori dei programmi di assistenza di cui all’art. 18 d.lgs. 286/1998. Il fulcro di questo modello di lavoro multi-agenzia sta nell’idea di fornire agli operatori che nella quotidianità si trovano ad affrontare, in un contesto ambientale difficile, problemi pratici, che richiedono complesse conoscenze linguistiche, psicologiche, sociologiche, oltre che giuridiche, un vademecum comportamentale in grado di attivare un percorso investigativo e contemporaneamente un percorso di tutela della vittima che siano i più corretti possibile. L’esperienza abruzzese, frutto del confronto con gli stessi destinatari della circolare, fermi restando i rapporti tra le procure ordinarie e la Procura antimafia (nazionale e distrettuale) e i protocolli investigativi (allegati alla stessa circolare) ha inteso, dunque, individuare dei criteri condivisi e omogenei di coordinamento delle diverse fasi di approccio alle potenziali vittime, propedeutiche alle successive indagini in materia. Queste buone prassi, già illustrate nell’ambito del distretto giudiziario abruzzese, intendono valorizzare, anche con finalità formativa, l’interazione sinergica delle azioni di contrasto di forze di polizia, uffici immigrazione, associazioni accreditate e magistratura, con l’obiettivo ultimo della migliore risposta giudiziaria possibile. In primo luogo è stata prevista la creazione di referenti e responsabili, sia all’interno dell’Ufficio immigrazione della Questura, sia all’interno delle diverse forze di polizia giudiziaria. Presso l’Ufficio immigrazione è stato ritenuto prioritario individuare – in linea con le circolari ministeriali – uno o più referenti (e relativi sostituti) che, nell’ambito e secondo gli obiettivi di cui all’art. 18 d.lgs. 286/1998, si occupino di: 44 Si è infatti organizzato un seminario di confronto intitolato “Azioni integrate di contrasto al traffico di esseri umani e di tutela delle vittime nella provincia di Teramo”, tenutosi a Teramo nel giugno 2005. 45 Ad esempio, da ultimo, in ambito nazionale nel seminario tenuto in Roma il 22 maggio 2007 presso la Direzione nazionale antimafia, mentre in ambito internazionale presso il consiglio dell’Unione europea, a Porto, l’8 e il 9 ottobre 2007, presso l’Oil, a Ginevra, nel seminario di esperti sul tema della tratta a scopo di sfruttamento lavorativo e sul ruolo degli ispettori del lavoro, il 4 e il 5 dicembre 2007. 99 illustrare le prassi organizzative e la disciplina amministrativa a tutto il personale delle diverse forze dell’ordine che, per ragioni di ufficio, viene in contatto con le potenziali vittime di tratta e sfruttamento. A tal fine il predetto referente può anche tenere riunioni informative e di programma; coordinare le attività svolte dal predetto personale (attinenti all’identificazione e al primo supporto delle potenziali vittime di tratta e sfruttamento) con le necessità e le esigenze di natura amministrativa di cui al d.lgs. 286/98; per quanto di competenza, tenere i rapporti con il pubblico ministero referente e con i servizi sociali pubblici e privati accreditati. Si è stabilita la necessità di provvedere ad individuare, presso i vertici provinciali delle principali forze di polizia giudiziaria, uno o più responsabili in tema di: 1) procedure di identificazione delle possibili vittime di tratta e sfruttamento; 2) gestione delle indagini relative ai reati di cui agli artt. 600, 600 bis, 601, 602 c.p., art. 12 d.lgs. 286/1998, art. 3 legge 75/1958 (e reati connessi). I predetti responsabili si devono coordinare costantemente con il referente art. 18 d.lgs. 286/1998 dell’Ufficio immigrazione, al fine di pianificare le necessità di indagini con le esigenze di natura amministrativa, di competenza dell’Ufficio immigrazione. Devono, inoltre: - operare in immediato rapporto con il pubblico ministero; - gestire i rapporti con i servizi sociali pubblici e privati accreditati, al fine di svolgere ogni attività utile alla gestione della vittima durante la fase delle indagini, nell’ottica della sua protezione e della sua fattiva collaborazione ad esse. Sono stati individuati, inoltre, alcuni criteri di massima nell’approccio alle potenziali vittime da parte della polizia giudiziaria, prospettando due diverse tipologie di incontro tra la potenziale vittima e le forze dell’ordine: Nel primo caso, ovvero quando il primo contatto con la potenziale vittima di tratta o sfruttamento avvenga da parte del personale delle forze dell’ordine, in strada o in locali chiusi, si è previsto che il personale adotti le seguenti indicazioni generali: 1. essere sempre consapevole dell’eventualità di trovarsi innanzi a possibili vittime di reati gravissimi; 2. valutare l’ipotesi che anche dietro ad un semplice caso di immigrazione “clandestina” può celarsi una vicenda di tratta, traffico, sfruttamento o favoreggiamento; 3. evitare atteggiamenti aggressivi; 4. informare il referente presso l’Ufficio immigrazione e aggiornarlo su ogni aspetto riguardante la persona controllata; 5. informare il referente per le indagini presso il corpo di polizia giudiziaria 100 di appartenenza (ovviamente tale esigenza non rileva quando procedano direttamente e in prima battuta gli stessi responsabili referenti come, ad esempio, nel caso di accompagnamento della vittima da parte di un ente di protezione a sporgere denuncia). In ogni caso, inoltre, si è previsto che il referente per le indagini presso il corpo di polizia giudiziaria di appartenenza debba: 1. informare la persona della possibilità di richiedere informazioni e aiuto, 24 ore su 24, al Numero Verde contro la tratta (800 290.290) che mette a disposizione un interprete per ciascuna lingua dei principali paesi di provenienza delle vittime; 2. informare i servizi sociali (pubblici o privati accreditati) che operano in quel contesto territoriale per la verifica della possibile situazione di sfruttamento o tratta; 3. attivare le procedure di identificazione delle vittime in base agli schemi di “intervista” previo contatto del mediatore culturale (avvalendosi eventualmente di elenchi forniti dal referente presso l’Ufficio immigrazione). Le procedure di intervista, predisposte secondo modelli standard diversificati per tipologia di vittima e per materia, vengono adottate come modello tipo in uso all’Ufficio immigrazione della Questura e, conseguentemente, a tutti i corpi di polizia giudiziaria. Le risposte alle interviste devono essere compilate in forma scritta e tenute agli atti degli uffici; 4. nel caso in cui ritenga che la persona possa essere una possibile vittima di tratta, contattare una associazione accreditata o il servizio sociale preposto. In seguito a tale contatto, il predetto referente, previo accordo con il referente art. 18 d.lgs. 286/98, conduce la potenziale vittima presso le strutture accreditate o redige un invito – diretto a queste ultime – a presentarsi presso l’Ufficio immigrazione; 5. contemporaneamente informare, anche per iscritto, il pubblico ministero per l’adozione delle direttive del caso, sia per quanto attiene all’immediato compimento delle indagini, sia per quanto previsto dall’art. 18 d.lgs. 286/98. Nel secondo caso, quando il primo contatto con la potenziale vittima di tratta o sfruttamento avvenga all’interno della Questura ad opera degli addetti dell’Ufficio immigrazione (perché il soggetto si è presentato spontaneamente o perché ivi accompagnato da personale di associazioni), questi devono: 1. informare immediatamente il referente presso l’Ufficio immigrazione che deve: a) separare la possibile vittima dal luogo in cui sono eventualmente trattenuti i potenziali trafficanti/sfruttatori o le persone che a questi potrebbero riferire. A tale scopo, sarebbe necessario adibire un locale all’interno della Questura, possibilmente privo di elementi distintivi e 101 in cui è possibile assicurare alla vittima di soddisfare i propri bisogni primari (eventualmente curati dai servizi sociali o dalle associazioni accreditate); b) informare la possibile vittima, in lingua comprensibile, circa le opportunità offerte dall’ordinamento giuridico italiano; c) contattare il mediatore culturale (in base alle liste precedentemente preposte) unitamente al quale si effettua una prima intervista alla possibile vittima in base alle procedure concordate; d) all’esito dell’intervista, il referente art. 18 d.lgs. 286/98 concorda con l’associazione accreditata o il servizio sociale le modalità di gestione e l’invio della possibile vittima alla struttura di accoglienza, al fine di programmare la successiva presentazione presso l’Ufficio immigrazione per l’inoltro dell’eventuale istanza ai sensi dell’art. 18 d.lgs. 286/98. Il referente e gli addetti all’Ufficio immigrazione devono: 1. tener presente che malgrado le apparenze potrebbero essere di fronte ad una possibile vittima di reati gravissimi; 2. valutare l’ipotesi che anche dietro ad un semplice caso di immigrazione “clandestina” può celarsi una vicenda di traffico, sfruttamento o favoreggiamento; 3. attivare i processi di identificazione delle vittime secondo i protocolli di intervista sopra menzionati, soprattutto innanzi alle “categorie a rischio” (minori, prostitute, etc.); 4. limitatamente alle esigenze di natura investigativa, in caso di sussistenza degli elementi identificativi dei fenomeni di tratta o sfruttamento, avvisare senza ritardo i referenti per le indagini presso la squadra mobile, dando contestuale comunicazione scritta al pubblico ministero per l’adozione delle direttive di indagine. Si è previsto, inoltre, che anche fuori dall’ambito dell’intervista, comunque si deve: a) informare la persona delle opportunità offerte dalla legge: il percorso di protezione sociale art. 18 (e la correlativa regolarizzazione anche senza l’obbligo della denuncia del trafficante) e il rientro volontario assistito; informare la persona della possibilità di richiedere informazioni e aiuto, 24 ore su 24, al Numero Verde contro la tratta che mette a disposizione una mediatrice per ciascuna lingua dei principali paesi di provenienza delle vittime; b) ove possibile, distribuire materiale cartaceo in lingua sulle opportunità offerte dalla legge in questo settore nei locali dell’Ufficio immigrazione dove sono ubicati gli sportelli adibiti alla ricezione delle istanze e alla riconsegna dei permessi, nonché in quelli dove stazionano per qualsiasi motivo cittadini stranieri; 102 c) informare le persone fermate della possibilità di avvalersi di un avvocato ed eventualmente di accedere al gratuito patrocinio. È stata prevista, infine, la necessità di organizzare riunioni periodiche, ad iniziativa di uno qualsiasi dei partecipanti, tra la Procura, i referenti dell’Ufficio immigrazione, i responsabili per le indagini delle singole forze dell’ordine, i responsabili dei servizi sociali accreditati più coinvolti, al fine di monitorare i risultati delle attività compiute in linea con la presente direttiva e di proporre eventuali aggiornamenti e modifiche. Si tratta, evidentemente, di uno schema sperimentale nel metodo e nel coinvolgimento di realtà istituzionali diverse, tendenzialmente poco abituate ad adottare strategie di intervento eterogenee, ritenute a torto incompatibili tra di loro. Ovviamente le tecniche suggerite nella circolare sono mutuate dalle ricerche nazionali e internazionali sul delicato tema degli indicatori e dalle analisi sociologiche che improntano gli interventi sociali e umanitari e hanno dato vita ad importanti e autorevoli prese di posizione46, sensibili alla duplice esigenza di garantire una più efficiente identificazione delle vittime e una più completa assistenza ad esse. Il dato innovativo è costituito dal tentativo di estendere queste tecniche di approccio alle diverse forze dell’ordine, agli uffici immigrazione, nonché alla stessa magistratura, al fine di introdurre e valorizzare, pure sotto il profilo strettamente investigativo, l’aspetto della tutela dei diritti umani, nella convinzione fondamentale che solo una vittima recuperata e tornata ad essere persona, dopo essere stata “merce”, possa fornire un contributo di primaria importanza all’accertamento della verità nel corso del processo penale. È vero che una buona indagine in materia deve centrarsi anche (e principalmente) su altre fonti di prova (in linea con quella che viene definita “proactive investigation”). Si tratta di una considerazione quasi ultronea, poiché attualmente qualsiasi buon investigatore non incentrerebbe mai un’indagine di traffico di migranti o di tratta di persone sulle sole (o prevalenti) dichiarazioni della vittima. Le tecniche di indagine offrono diverse opzioni; tuttavia, è innegabile che le dichiarazioni della persona offesa (che costituisce proprio “l’oggetto” della tratta, del traffico o dello sfruttamento) abbiano comunque un’importanza notevole, sopratutto in un processo in cui la prova si forma in dibattimento e le dichiarazioni del testimone devono essere valutate nel complesso meccanismo della cross examination, durante il quale una vittima di tratta non recuperata nella sua integrità complessiva difficilmente potrebbe dichiarare senza timori e condizionamenti. 46 Tra tutte è il caso di segnalare ancora i citati manuali di buone prassi e il Rapporto del Gruppo di esperti sulla tratta di esseri umani nominato dalla Commissione europea, op. cit., p. 166 e ss. 103 Ciò tenendo conto anche del fatto che spesso, nel caso in cui non si sia proceduto all’audizione della vittima con le forme dell’incidente probatorio, la cross examination potrebbe intervenire anche dopo molti mesi, se non anni, dalla fase di prima assistenza, contestuale alla fase delle indagini preliminari. Di conseguenza, soltanto una vittima del reato che abbia recuperato appieno la consapevolezza di sé e della propria dignità può essere in grado di sostenere senza timori e condizionamenti il difficile ruolo di protagonista nel processo, inteso come luogo di affermazione dei diritti della persona, precedentemente negati. In conclusione, si potrebbe obiettare che la predisposizione di protocolli di identificazione delle vittime da parte di procure ordinarie della Repubblica è atto ultroneo, poiché la competenza in materia di tratta di persone spetta alle direzioni distrettuali antimafia. Seguendo questo ragionamento si potrebbe addirittura dire che l’intera formazione di magistrati e forze dell’ordine è di interesse secondario, bastando la sola formazione specifica degli appartenenti a forze e uffici specializzati. È evidente quanto sia inconsistente una siffatta argomentazione. Senza dilungarsi oltre, bastando il rinvio alla descrizione dei fenomeni di traffico di migranti e tratta di persone, alle tipologie di vittime e di organizzazioni criminali svolta nei paragrafi precedenti, sia consentito soltanto far rilevare come sia un dato condiviso che la quasi totalità dei procedimenti penali, sia che siano afferenti ai reati di cui agli artt. 600, 601, 602 c.p., o a quelli di cui all’art. 12 d.lgs. 286/1998, tragga origine da attività di indagine svolte dalle procure ordinarie. Pertanto, il momento cruciale dell’identificazione delle vittime quasi sempre fa capo ai magistrati delle procure ordinarie e alle forze di polizia giudiziaria, anche non specializzate, che operano sul territorio. È facile comprendere che nella maggior parte dei casi una vittima di tratta, a causa dei forti traumi, dei timori e dei pericoli di vendette e ritorsioni, non è immediatamente in grado di effettuare dichiarazioni da cui possano emergere gli elementi dei reati di cui agli artt. 600, 601, 602 c.p. che determinano lo spostamento della competenza in capo alle direzioni distrettuali antimafia, cosicché la notizia di reato e le conseguenti prime attività di indagine nella maggior parte dei casi si radicano in capo alle procure ordinarie per i reati di cui all’art. 12 d.lgs. 286/1998, o per altri reati di violenza o sfruttamento, o ancora perchè vengono individuate altre fattispecie criminose comuni in capo allo stesso migrante (es. falsità dei documenti posseduti o altri illeciti connessi alla clandestinità) che in realtà costituiscono indicatori nel processo di identificazione della potenziale vittima. L’assenza di un’azione sinergica, prestabilita e orientata sul rispetto dei diritti della potenziale vittima comporta inevitabilmente la dispersione dei casi 104 di traffico di migranti e di tratta di persone nel sommerso della clandestinità e abbandona i singoli attori delle azioni di contrasto a soliloqui improduttivi, se non ad irritanti incomprensioni reciproche. 105 106 PARTE II Traffico di migranti e tratta di persone nell’esperienza del diritto interno 108 3. Il traffico di migranti 3.1 La versione italiana dello smuggling of migrants prima della legge 189/2002 Gli aspetti criminali legati al fenomeno delle migrazioni sono disciplinati secondo l’ormai tradizionale distinzione tra smuggling of migrants e trafficking in persons. La traduzione italiana della disciplina penalistica dei due fenomeni è rispettivamente quella di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di tratta di persone. Come nella realtà fenomenica, anche sul terreno giuridico si assiste ad una fluidità di etichette e di denominazioni, non essendo sempre così agevole stabilire se determinate condotte siano riconducibili al traffico di migranti o se, per l’esistenza originaria o sopravvenuta di pesanti forme di sfruttamento, si collochino nell’alveo interpretativo della tratta di persone. Le differenze sono di particolare spessore, soprattutto con riferimento alle strategie di indagine, alle implicazioni soggettive delle vittime e alla competenza processuale, essendo attualmente il traffico di migranti di competenza delle Procure ordinarie della Repubblica, mentre la tratta di persone di competenza delle Procure distrettuali antimafia. Il legislatore italiano ha inteso prevedere il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sin dal 1986, quando cominciavano a percepirsi i segnali delle imminenti ondate migratorie, al primo scricchiolio delle divisioni tra Est e Ovest del mondo, soprattutto derivante dalle mutazioni geopolitiche in atto nell’allora ancora esistente Unione Sovietica. Proprio per gli aggiustamenti di tiro a cui è stato costretto il legislatore, sia per il rapido mutare degli eventi (si pensi al veloce precipitare della crisi balcanica), sia in ossequio alle sollecitazioni sovranazionali, la normativa italiana sul tema in oggetto ha visto, dal 1986 ad oggi, una costante evoluzione, con particolare riferimento alle disposizioni sanzionatorie. Con esclusivo riferimento alle condotte penalmente rilevanti riconducibili al fenomeno dello smuggling, è possibile elencare l’art. 12 legge 30 dicembre 1986, n. 943 (abrogato dall’art. 47 del d.lgs. 286/1998); l’art. 3 d.l. 30 dicembre 1989, n. 416, convertito in legge 28 febbraio 1990, n. 39 (poi sostituito dall’art. 10 della legge 6 marzo 1998, n. 40, e poi dall’art. 12 del d.lgs. 286/1998); l’art. 12 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, modificato dall’art. 2, comma 1, d.lgs. 13 aprile 1999, n. 113, che ha sostituito il 109 comma 4 dell’art. 12 del d.lgs. 286/1998, rendendo obbligatorio l’arresto in flagranza per le ipotesi previste dai comma 1 e 3 dell’art. 12; l’art. 12 d.lgs. 286/1998 come modificato dall’art. 11 della legge 30 luglio 2002, n. 189, con un costante andamento di progressivo aggravamento delle pene e con l’introduzione di nuove ipotesi criminose o di circostanze aggravanti. Infine, la legge 12 novembre 2004, n. 271, che ha convertito il decreto legge 14 settembre 2004, n. 241, e che ha introdotto rilevanti modifiche al citato art. 12 d.lgs. 286/19981. L’analisi più completa per esaminare il modello penalistico attuale deve necessariamente muovere da brevi considerazioni concernenti la precedente formulazione dell’art. 12, anteriore alle modifiche più radicali, introdotte con la legge 189 del 2002. L’art. 12 del d.lgs. 286/1998 nella formulazione previgente penalizzava, come ipotesi di reato base, “chiunque compie attività dirette a favorire l’ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del presente testo unico (…).” La medesima attività, se commessa con finalità di lucro, era aggravata in base alla circostanza prevista dall’art. 12, comma 3, che pure delineava altre circostanze aggravanti, individuate come tali dalle pronunce della Suprema Corte. Si trattava di un reato avente “chiunque” quale soggetto attivo del reato, “a condotta libera” ovvero realizzabile con qualsiasi modalità purché causalmente orientata a “favorire l’ingresso” irregolare del migrante nel territorio italiano. La larghezza interpretativa, confermata dalla giurisprudenza, delle forme di realizzazione della condotta ha consentito, in linea con la natura normalmente transnazionale di questo tipo di reato, di ritenere autore del reato anche chi non oltrepassasse la frontiera con i clandestini, magari perché lontano dal confine, anche se situato in altra città o in altro Stato, neanche confinante con quello in cui si ha l’ingresso illegale, secondo un preordinato accordo organizzativo che avesse attribuito ai diversi componenti delle organizzazioni ruoli e compiti specifici2. È presto apparso chiaro che nei casi di smuggling le “attività dirette a favorire l’ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato in violazione 1 Al momento esiste “in cantiere” un ulteriore disegno di legge ministeriale, approvato dal Consiglio dei Ministri in data 12 ottobre 2006, recante disposizioni in materia di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e modifiche al codice di procedura penale, che si prefigge alcuni obiettivi frammentari, quali, in sintesi: un’ulteriore modifica delle fattispecie incriminatrici e delle circostanze aggravanti di cui all’art. 12 d.lgs. 286/1998; l’obbligatorietà, per i casi più gravi, dell’arresto in flagranza e dell’applicazione della misura personale della custodia cautelare in carcere in presenza di gravi indizi di colpevolezza; l’allungamento dei termini di durata massima delle indagini preliminari. 2 Cass. sez. I, 19 maggio 2000, n. 7045 in Ced Cassazione Rv. 216185, ma anche cass. sez. I, 19 maggio 1999, n. 3717, in Ced Cassazione Rv. 213941. 110 della legge” non sono solo quelle condotte direttamente volte a permettere l’arrivo degli stranieri irregolari, ma anche quelle successive che sono tese ad assicurare il buon fine dell’operazione e che si possono concretizzare nella sottrazione ai controlli di polizia, nello smistamento dei clandestini sul territorio, nelle plurime attività di fiancheggiamento e favoreggiamento che, in quanto tali, possono essere commesse anche da chi, a sua volta, varca irregolarmente i confini dello Stato. In sostanza, ciò che viene ritenuto essenziale è il compimento di atti che, in qualsiasi modo, agevolino l’ingresso irregolare, potendo tale fatto essere commesso anche da chi trovasi in posizione di clandestino. Il reato in esame, già nella sua formulazione precedente, oltre che essere a forma libera era (ed è) anche a consumazione anticipata. Per la sua consumazione non era (e non è) richiesto il perfezionamento dell’ingresso clandestino, bensì il compimento di una qualsivoglia attività diretta a favorire l’ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni contenute nel testo unico sull’immigrazione3. Le difficoltà interpretative concrete, indotte dal manifestarsi spesso complicato delle condotte di smuggling hanno determinato la giurisprudenza di legittimità nel senso di ricomprendere nella generica dizione di “attività diretta a favorire l’ingresso” ogni tentativo di elusione delle disposizioni del testo unico e, dunque, anche i casi in cui il visto di ingresso sia richiesto ed eventualmente ottenuto fraudolentemente e mediante simulazione dei necessari presupposti. Tuttavia, la formulazione omnicomprensiva ha creato non pochi problemi agli interpreti se è vero che molteplici sono stati gli episodi concreti in cui le opzioni interpretative non hanno consentito di fornire adeguate risposte in diverse fattispecie. Ad esempio, vi è stato il caso di chi favorisce solo l’uscita illegale del clandestino dal nostro Paese, senza alcun collegamento con il suo ingresso e permanenza sul suolo italiano, pur pretendendo un corrispettivo per il servizio di trasporto in uscita. La Suprema Corte ha sancito la non punibilità di tali condotte, sottolineando la differenza con il precedente art. 12 legge 30 dicembre 1986, n. 943, poi abrogato dal d.lgs. 286/1998, che sanzionava invece ogni attività di intermediazione di movimenti illeciti o co3 Cass. sez. I, 23 giugno 2000, n. 4586, in Ced Cassazione Rv. 217165. Nel caso di specie, in applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha ritenuto che fosse configurabile, ai fini dell’applicazione di una misura cautelare, il reato in questione in un caso in cui gli imputati, previa intesa con un centro associativo operante nel territorio nazionale – il che rendeva il fatto perseguibile in Italia, ai sensi dell’art. 6 c.p. – avevano organizzato il trasporto via mare, dall’Albania all’Italia, di un gruppo di extracomunitari, i quali erano stati all’uopo imbarcati su di una nave che però, a causa di una tempesta, era stata soccorsa, prima del suo ingresso nelle acque territoriali, da mezzi della marina italiana che l’avevano rimorchiata in un porto nazionale. 111 munque clandestini di lavoratori migranti e il vuoto legislativo che si era venuto a creare; di conseguenza, laddove fossero residuate imputazioni ai sensi del citato art. 12 legge 943/1986, attinenti a fattispecie relative all’uscita dallo Stato senza un preventivo collegamento con l’ingresso irregolare, non esisteva una relativa disposizione incriminatrice tale da poter configurare la condotta come reato4. Muovendo da considerazioni analoghe, la Suprema Corte ha anche ritenuto di non integrare più il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina neanche il trasporto in transito da frontiera a frontiera, attraverso il territorio dello Stato utilizzato soltanto quale zona di passaggio, di migranti extracomunitari irregolari diretti all’estero in cerca di lavoro, condotta che, di contro, era prevista come delitto dall’abrogato art. 12, comma 1, della legge 30 dicembre 1986, n. 9435. È stato sostenuto che non costituisce il reato di favoreggiamento dell’ingresso illegale di stranieri nel territorio dello Stato, quale previsto dall’art. 12 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 – nella formulazione antecedente a quella introdotta dall’art. 11 della legge 30 luglio 2002, n. 189 – l’attività di colui che renda possibile il semplice, temporaneo stazionamento degli stranieri, provenienti dal loro paese di origine e diretti in altro paese estero, nella zona di transito internazionale di un aeroporto sito nel territorio italiano. Ovviamente, non sussisteva nessun problema, invece, per tutte le altre condotte di intermediazione previste dall’art. 12, comma 1, della legge 943/1986, ricomprese, per il tramite dei diversi passaggi legislativi sopra menzionati, nell’art. 12 del d.lgs. 286/19986. La circostanza aggravante, di cui all’art. 12, comma 3, del d.lgs. 286/1998, ha subito costituito un tema ricorrente, considerata la frequenza dei casi di favoreggiamento dell’immigrazione finalizzata al successivo sfruttamento della prostituzione. La giurisprudenza ha sostenuto con chiarezza che in tema di favoreggiamento dell’irregolare ingresso di clandestini stranieri extracomunitari nel territorio dello Stato, perché sussista tale aggravante, costruita come una finalità ulteriore dell’azione illecita, non occorre che si sia in presenza di condotte violente o di un rigoroso vincolo di subordinazione7, requisito peraltro non necessario perché si configuri il reato di sfruttamento della prostituzione previsto dall’art. 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, essendo sufficiente che un singolo o una organizza4 Cass. sez. VI, 3 novembre 2000, n. 4060, in Ced Cassazione Rv. 217489. Cass. sez I, 12.11.2002, n. 43533, in Ced Cassazione Rv 222921. 6 Cass. sez. I, 13 luglio 1998, n. 4233, in Ced Cassazione Rv. 211600; Cass. sez. III 18 ottobre 1999, n. 13721, in Ced Cassazione Rv. 214821; Cass. sez. III, 8 marzo 2001 n. 16064, in Ced Cassazione Rv. 210509. 7 Cass. sez. III, 4 maggio 2001, n. 27748, in Ced Cassazione Rv. 219538. 5 112 zione agevolino l’ingresso di persone extracomunitarie al fine di sfruttarne la prostituzione, eventualmente anche con il loro consenso ed eventualmente anche ove tale consenso fosse stato già manifestato in partenza. Da questo punto di vista l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità è di primario valore, poiché, in sintonia con i più attenti orientamenti internazionali, ha affermato la netta distinzione tra l’illiceità delle condotte ascrivibili ai trafficanti di migranti e il giudizio morale, per sua natura variabile, circa la volontà della donna di svolgere la prostituzione e, più in genere, del migrante di acconsentire al suo sfruttamento. Si tratta di diritti, beni giuridici e valori diversi, non contrapposti, non legati da logiche di assorbimento, non rientranti nel novero di facoltà rinunziabili, che possano determinare l’abdicazione della pretesa punitiva da parte dello Stato. Pertanto, logica conseguenza di tale assunto è anche la decisione della Suprema Corte di riconoscere la concorrenza dei reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e dell’induzione a recarsi nel territorio di altro Stato per esercitarvi la prostituzione o comunque di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione (art. 3 legge 75/1958), essendo diverse le condotte sanzionate e gli interessi tutelati dalle due norme, senza alcuna comprensione dell’una nell’altra o sussidiarietà dell’una rispetto all’altra8. Ad ogni buon conto, malgrado la legislazione italiana abbia sempre costituito un punto di riferimento in materia di contrasto alle organizzazioni criminali specializzate nel traffico di migranti e nella tratta di persone, gli operatori hanno individuato diverse lacune che l’originaria formulazione dell’art. 12 d.lgs. 286/1998 presentava. L’emanazione dei due Protocolli addizionali alla Conferenza di Palermo, in materia di traffico di migranti, per quel che qui più interessa, e in materia di tratta rappresentano un superamento della prospettiva dell’originario art. 12. Inoltre, l’esperienza pratica commisurata alle capacità di organizzazione e di adattamento delle organizzazioni transnazionali dimostra l’esistenza di modalità pratiche di svolgimento dello smuggling che sfuggivano alle previsioni incriminatrici e alle azioni di contrasto. Non è un caso, quindi, che l’art. 12 citato abbia subito due sostanziali modifiche estensive nel 2002 e nel 2004. 8 Cass. sez. III, 10 maggio 2000, n. 8358, in Ced Cassazione Rv. 217082. 113 3.2 Il traffico di migranti secondo l’attuale legislazione Italiana; l’ipotesi residuale dell’art. 12, comma 1, d.lgs.286/98 La disciplina attuale del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina degli stranieri è contenuta nell’art. 12 del T.U. 286/989 distinto, in base alle 9 Art. 12 (Disposizioni contro le immigrazioni clandestine) 1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque in violazione delle disposizioni del presente testo unico compie atti diretti a procurare l’ingresso nel territorio dello Stato di uno straniero ovvero atti diretti a procurare l’ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a 15.000 euro per ogni persona. 2. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 54 del codice penale, non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato. 3. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre profitto anche indiretto, compie atti diretti a procurare l’ingresso di taluno nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del presente testo unico, ovvero a procurare l’ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona. La stessa pena si applica quando il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti. 3 bis. Le pene di cui al comma 3 sono aumentate se: a) il fatto riguarda l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o più persone; b) per procurare l’ingresso o la permanenza illegale la persona è stata esposta a pericolo per la sua vita o la sua incolumità; c) per procurare l’ingresso o la permanenza illegale la persona è stata sottoposta a trattamento inumano o degradante. 3. ter. Se i fatti di cui al comma 3 sono compiuti al fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione o comunque allo sfruttamento sessuale ovvero riguardano l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento, si applica la pena della reclusione da cinque a quindici anni e la multa di 25.000 euro per ogni persona. 3. quater. Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall’art. 98 del codice penale, concorrenti con le aggravanti di cui ai commi 3 bis e 3 ter, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti. 3. quinquies. Per i delitti previsti dai commi precedenti le pene sono diminuite fino alla metà nei confronti dell’imputato che si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi di prova decisivi per la ricostruzione dei fatti, per l’individuazione o la cattura di uno o più autori di reati e per la sottrazione di risorse rilevanti alla consumazione dei delitti. 3. sexies. All’art. 4 bis, comma 1, terzo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, dopo le parole: “609 octies del codice penale” sono inserite le seguenti: “nonché dall’art. 12, commi 3, 3 bis e 3 ter del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.” 4. Nei casi previsti dai commi 1 e 3 è obbligatorio l’arresto in flagranza ed è disposta la confisca del mezzo di trasporto utilizzato per i medesimi reati, anche nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti. Nei medesimi casi si procede comunque con giudizio direttissimo, salvo che siano necessarie speciali indagini. 114 modifiche apportate dalla l. 189/2002 e dal legislatore del 2004, in ipotesi semplici e ipotesi aggravate. Il primo comma del suddetto articolo si occupa del favoreggiamento dell’ingresso clandestino relativa alle ipotesi semplici, la cui condotta tipica consiste nel compiere “atti diretti a procurare l’ingresso nel territorio dello Stato di uno straniero ovvero atti diretti a procurare l’ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente”. 5. Fuori dei casi previsti dai commi precedenti, e salvo che il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero o nell’ambito delle attività punite a norma del presente articolo, favorisce la permanenza di questi nel territorio dello Stato in violazione delle norme del presente testo unico, è punito con la reclusione fino a quattro anni e con la multa fino a lire trenta milioni. 6. Il vettore aereo, marittimo o terrestre, è tenuto ad accertarsi che lo straniero trasportato sia in possesso dei documenti richiesti per l’ingresso nel territorio dello Stato, nonché a riferire all’organo di polizia di frontiera dell’eventuale presenza a bordo dei rispettivi mezzi di trasporto di stranieri in posizione irregolare. In caso di inosservanza anche di un solo degli obblighi di cui al presente comma, si applica la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da lire un milione a lire cinque milioni per ciascuno degli stranieri trasportati. Nei casi più gravi è disposta la sospensione da uno a dodici mesi, ovvero la revoca della licenza, autorizzazione o concessione rilasciata dall’autorità amministrativa italiana inerenti all’attività professionale svolta e al mezzo di trasporto utilizzato. Si osservano le disposizioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689. 7. Nel corso di operazioni di polizia finalizzate al contrasto delle immigrazioni clandestine, disposte nell’ambito delle direttive di cui all’art. 11, comma 3, gli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza operanti nelle province di confine e nelle acque territoriali possono procedere al controllo e alle ispezioni dei mezzi di trasporto e delle cose trasportate, ancorché soggetti a speciale regime doganale, quando, anche in relazione a specifiche circostanze di luogo e di tempo, sussistono fondati motivi che possano essere utilizzati per uno dei reati previsti dal presente articolo. Dell’esito dei controlli e delle ispezioni è redatto processo verbale in appositi moduli, che è trasmesso entro quarantotto ore al procuratore della Repubblica il quale, se ne ricorrono i presupposti, lo convalida nelle successive quarantotto ore. Nelle medesime circostanze gli ufficiali di polizia giudiziaria possono altresì procedere a perquisizioni, con l’osservanza delle disposizioni di cui all’art. 352, commi 3 e 4 del codice di procedura penale. 8. I beni sequestrati nel corso di operazioni di polizia finalizzate alla prevenzione e repressione dei reati previsti dal presente articolo, sono affidati dall’autorità giudiziaria procedente in custodia giudiziale, salvo che vi ostino esigenze processuali, agli organi di polizia che ne facciano richiesta per l’impiego in attività di polizia ovvero ad altri organi dello Stato o ad altri enti pubblici per finalità di giustizia, di protezione civile o di tutela ambientale. I mezzi di trasporto non possono essere in alcun caso alienati. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dell’art. 100, commi 2 e 3, del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309. 8 bis. Nel caso che non siano state presentate istanze di affidamento, si applicano le disposizioni dell’art. 301 bis, comma 3, del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, come modificato dall’art. 1 della legge 19 marzo 2001, n. 92. 8. ter. La distruzione può essere direttamente disposta dal Presidente del Consiglio dei Ministri o dalla autorità da lui delegata, previo nullaosta dell’autorità giudiziaria procedente. 115 Il soggetto attivo del delitto in esame può essere chiunque, trattandosi di un reato comune. La struttura del reato è tuttora di mera condotta e a forma libera: non è necessario il verificarsi di alcun evento, non è necessario che l’ingresso clandestino debba realizzarsi, poiché per il perfezionamento della fattispecie è sufficiente il fatto di aver posto in essere un’attività diretta a realizzare l’arrivo dei migranti irregolari. Il reato si perfeziona con il dolo generico, inteso quale coscienza e volontà di commettere atti di agevolazione dell’ingresso; si tratta, inoltre, di un reato di pericolo, in quanto per la punibilità del fatto non è necessario che si verifichi in concreto alcun danno. Si è in presenza di una tipica ipotesi di reato istantaneo, con fattispecie a consumazione anticipata, che non consente la configurazione del tentativo. Occorre però sottolineare che questa ipotesi delittuosa riveste un carattere residuale in considerazione dell’apposizione della clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca più grave reato”. 8. quater. Con il provvedimento che dispone la distruzione ai sensi del comma 8 ter sono altresì fissate le modalità di esecuzione. 8. quinquies. I beni acquisiti dallo Stato a seguito di provvedimento definitivo di confisca sono, a richiesta, assegnati all’amministrazione o trasferiti all’ente che ne abbiano avuto l’uso ai sensi del comma 8. I mezzi di trasporto non assegnati, o trasferiti per le finalità di cui al comma 8, sono comunque distrutti. Si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni vigenti in materia di gestione e destinazione dei beni confiscati. 9. Le somme di denaro confiscate a seguito di condanna per uno dei reati previsti dal presente articolo, nonché le somme di denaro ricavate dalla vendita, ove disposta, dei beni confiscati, sono destinate al potenziamento delle attività di prevenzione e repressione dei medesimi reati, anche a livello internazionale mediante interventi finalizzati alla collaborazione e alla assistenza tecnico operativa con le forze di polizia dei paesi interessati. A tal fine, le somme affluiscono ad apposito capitolo dell’entrata del bilancio dello Stato per essere assegnate, sulla base di specifiche richieste, ai pertinenti capitoli dello stato di previsione del Ministero dell’Interno, rubrica “Sicurezza pubblica”. 9. bis. La nave italiana in servizio di polizia, che incontri nel mare territoriale o nella zona contigua, una nave, di cui si ha fondato motivo di ritenere che sia adibita o coinvolta nel trasporto illecito di migranti, può fermarla, sottoporla ad ispezione e, se vengono rinvenuti elementi che confermino il coinvolgimento della nave in un traffico di migranti, sequestrarla conducendo la stessa in un porto dello Stato. 9. ter. Le navi della Marina militare, ferme restando le competenze istituzionali in materia di difesa nazionale, possono essere utilizzate per concorrere alle attività di cui al comma 9 bis. 9. quater. I poteri di cui al comma 9 bis possono essere esercitati al di fuori delle acque territoriali, oltre che da parte delle navi della Marina militare, anche da parte delle navi in servizio di polizia, nei limiti consentiti dalla legge, dal diritto internazionale o da accordi bilaterali o multilaterali, se la nave batte la bandiera nazionale o anche quella di altro Stato, ovvero si tratti di una nave senza bandiera o con bandiera di convenienza. 9. quinquies. Le modalità di intervento delle navi della Marina militare nonché quelle di raccordo con le attività svolte dalle altre unità navali in servizio di polizia sono definite con decreto interministeriale dei Ministri dell’Interno, della Difesa, dell’Economia e delle Finanze e delle Infrastrutture e dei Trasporti. 9. sexies. Le disposizioni di cui ai commi 9 bis e 9 quater si applicano, in quanto compatibili, anche per i controlli concernenti il traffico aereo. 116 In primo luogo si può rilevare l’utilizzo del verbo “procurare” in luogo di “favorire” l’ingresso, che sembrerebbe avere un tenore maggiormente restrittivo, poiché pare stabilire un criterio di idoneità dell’attività posta in essere rispetto al risultato dell’ingresso. Inoltre, viene stabilito che l’ingresso venga ipoteticamente procurato mediante il compimento di “atti”, al posto delle “attività” di cui alla precedente formulazione, con conseguenza particolarmente estensiva, in quanto anche un singolo atto sarebbe sufficiente a rendere punibile la condotta dell’agente, purché dotato di idoneità e di univocità causale. A differenza della previgente fattispecie, che tipizzava esclusivamente il solo favoreggiamento all’ingresso illegale nello Stato italiano, con questa nuova formulazione si è inteso contrastare anche il passaggio di clandestini dal territorio nazionale verso altri paesi dell’Unione europea ossia le situazioni fattuali nelle quali gli stranieri, oggetto del traffico, non siano diretti ad entrare nel territorio italiano per rimanervi, ma solo a transitare su di esso al fine di raggiungere la destinazione finale del loro illegale progetto migratorio, realizzato appunto grazie all’illecita condotta di favoreggiamento degli organizzatori dei viaggi clandestini. Questa previsione ha inteso adeguarsi alla natura transnazionale dei fenomeni e delle stesse organizzazioni criminali che li governano. Le censure già sollevate dalle interpretazioni giurisprudenziali della legislazione precedente sono state così messe a frutto dal legislatore che si è mosso in una corretta prospettiva globale, laddove gli interessi all’efficace contrasto del traffico di migranti e alla regolazione controllata dei flussi non può appartenere individualmente ai singoli Stati ma, particolarmente in ambito di Unione europea, deve riguardare lo spazio comune di “sicurezza, libertà e giustizia”. Ad esempio, era davvero singolare la precedente disciplina in base alla quale l’Italia avrebbe dovuto disinteressarsi a sanzionare penalmente il trafficante operante nel nostro Paese ovvero in itinere su di esso, per il solo motivo che la destinazione finale dei migranti trasportati fosse la Francia o la Germania o altro paese europeo, come se gli attuali 27 paesi dell’Unione europea non fossero ormai, malgrado le difficoltà, parte di un unico disegno politico e territoriale. Tuttavia, il testo vigente dell’art. 12, comma 1, sembrerebbe richiamare la conoscenza dell’ordinamento dello Stato verso cui lo straniero è diretto in modo illegale, visto il riferimento ai parametri di cittadinanza e di titolo di residenza permanente che appaiono di difficile accertamento concreto, soprattutto nell’immediatezza di un intervento da parte delle forze di polizia. Proprio la residualità di questa norma incriminatrice, che si riferisce ad ipotesi limite, indurrebbe a ritenere punibile, ad esempio, anche chi agevoli (con documenti contraffatti ovvero eludendo i controlli alla frontiera) un cittadino straniero, regolare in Italia, ad uscire illegalmente dal nostro Paese, diretto in altro Stato non appartenente all’Unione europea e dotato di norme molto restrittive in materia di immigrazione, non essendo né cittadino, né avente titolo di residenza permanente nello Stato di destinazione. Ciò potrebbe verificarsi 117 anche qualora lo straniero non passi neanche per il nostro Paese, ma ivi si svolga l’attività di agevolazione del reo. La giurisprudenza, intervenuta sul punto, ha chiarito che per la configurabilità del reato dell’art. 12, comma 1, deve ritenersi necessaria e sufficiente la mancanza di un titolo atto a legittimare il solo “ingresso” nel territorio di un altro Stato, nulla rilevando che tale ingresso sia ipoteticamente finalizzato non ad una permanenza più o meno stabile del soggetto in detto territorio ma solo al suo attraversamento per raggiungere il paese di origine. Diversamente verrebbe frustrata l’effettività della normativa, ove si ritenesse penalmente irrilevante un “ingresso” per il solo fatto che chi lo compie asserisca di essere diretto al suo paese di origine, senza che vi sia modo di controllare la serietà di una tale intenzione né la sua effettiva realizzazione10. Inoltre, è stato pure affermato che integra il delitto di cui all’art. 12, comma 1, la condotta del vettore dichiaratamente diretta a procurare il transito di cittadini extracomunitari verso un paese terzo attraverso il territorio dello Stato, qualora questi, pur non essendo entrati irregolarmente in Italia risultino privi di mezzi di sussistenza idonei a un soggiorno turistico secondo la direttiva 1 marzo 2000 del Ministero dell’Interno, in quanto l’ampia formula letterale della disposizione normativa (“in violazione delle disposizioni del presente testo unico”) è comprensiva anche della previsione dell’art. 4 del d.lgs. 286/1998 che, a sua volta, detta le regole – tra cui rientra la citata direttiva ministeriale – per l’ingresso e il soggiorno in Italia dei cittadini non appartenenti all’Unione europea11. 3.3 Le ipotesi più gravi di cui all’art. 12, comma 3 e seguenti d.lgs. 286/98 L’art. 12, comma 3, del d.lgs. 286/98, nella sua previgente formulazione, prevedeva una serie di circostanze aggravanti che andavano ad innestarsi sulla condotta delineata al comma 1. Una delle conseguenze più nefaste in termini di contrasto era la facile attenuazione della risposta punitiva in funzione del giudizio di bilanciamento anche con le sole circostanze attenuanti generiche, che determinava una drastica riduzione di pena. Una prima categoria di aggravanti era contenuta nella prima parte dell’art. 12, comma 3, e rappresentata dal “fine di lucro”, dal numero di tre o più dei concorrenti nel reato, dal nume10 Cass. sez. I, 25 gennaio 2005, n. 4201, in Ced Cassazione Rv. 230962 (Fattispecie in tema di sequestro preventivo di autovettura di proprietà di un cittadino rumeno indagato per il reato di favoreggiamento della immigrazione clandestina, in quanto sul suo automezzo viaggiavano, in qualità di passeggeri, due cittadini rumeni sprovvisti di permesso di soggiorno, ma forniti di passaporto, che erano diretti verso il confine). 11 Cass. sez. I, 22 ottobre 2003, n. 420, in Ced Cassazione Rv. 226619. 118 ro di cinque o più degli stranieri trafficati, dall’utilizzazione per commettere il reato di servizi di trasporto internazionale o di documenti contraffatti. Una seconda categoria di aggravanti, ad effetto speciale, era catalogata dalla parte seguente dell’art. 12, comma 3, e consistente nel “fine di reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione”, nella circostanza che l’ingresso riguardasse minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento, ulteriore rispetto a quello sessuale. L’intervento modificatore del 2002 ha disciplinato in modo diverso le fattispecie prima formulate come circostanze aggravanti, stabilendo che talune circostanze assurgessero al rango di fattispecie incriminatrici autonome, altre circostanze conservassero la qualità di circostanza aggravante, ma con aumento ordinario di pena, elencate nel comma 3 bis, mentre le restanti circostanze aggravanti, di cui al comma 3 ter, restassero tali conservando l’originaria natura di circostanze ad effetto speciale. In tal modo e con il successivo intervento correttivo in senso repressivo della legge 12 novembre 2004, n. 271, in conversione del d.l. 14 settembre 2004, n. 241, le prime circostanze aggravanti sono previste dal comma 3 bis lett. a), b), c) e c bis), mentre il secondo tipo di aggravanti è menzionato al comma 3 ter. A seguito dell’intervento riformatore del 2002, l’art. 12, comma 3, prevedeva nella sua prima parte l’ipotesi di “chiunque, al fine di trarre profitto anche indiretto, compie atti diretti a procurare l’ingresso di taluno nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del presente testo unico, ovvero a procurare l’ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente.” Rispetto al precedente “fine di lucro”, veniva prevista una più estesa finalità di profitto, anche indiretto, con riferimento a qualsiasi vantaggio, anche immateriale. Il dolo specifico così delineato era di più ricorrente configurabilità e più agevole da sottoporre al vaglio probatorio, a conferma della residualità dell’ipotesi delittuosa di cui al comma 1. Tuttavia, anche per nel caso del comma 3, esisteva un’ulteriore clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca più grave reato.” La nuova formulazione, chiaramente peggiorativa per il reo, non poteva essere applicata ai fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, restando in tal caso vigente la precedente formulazione, ai sensi dell’art. 2, comma 3, c.p. Sempre l’art. 12, comma 3, nella sua seconda parte, disponeva che “la stessa pena si applica quando il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti.” Si è discusso circa l’esatta interpretazione da attribuire a questa seconda parte. Si è sostenuto trattarsi di tante fattispecie di reato autonome, al pari di quella descritta nella prima parte della norma, ovvero di circostanze aggravanti assimilate, sotto il profilo sanzionatorio, alla fattispecie autonoma della prima parte. Si discute119 va, inoltre, se il riferimento al “fatto commesso” doveva essere ricollegato al comma 1 o alla prima parte del comma 3 dell’art. 12. Taluni hanno tentato di intravedere nelle condotte della citata seconda parte tante fattispecie autonome di reato. Orbene, a prescindere dalle argomentazioni a sostegno e dalle finalità interpretative, il problema è del tutto superato. In primo luogo, la Suprema Corte aveva già avuto modo di risolvere la questione propendendo per la natura di circostanze aggravanti, stabilendo che le ipotesi previste dall’art. 12, comma 3, anche dopo l’entrata in vigore della legge 30 luglio 2002, n. 189, non configurano ipotesi autonome di reato ma circostanze aggravanti ad effetto speciale, con la conseguenza che il giudizio di equivalenza con le attenuanti generiche comporta il ripristino della sanzione prevista per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina non aggravato12. In secondo luogo, il legislatore del 2004 ha definitivamente riformulato l’art. 12 nel senso sopra indicato, eliminando dal comma 3 la seconda parte a cui si è fatto cenno e trasferendola al comma 3 bis, lett. c bis), definendola espressamente circostanza aggravante. In sostanza, dopo il novembre 2004 non v’è più dubbio che costituiscano circostanze aggravanti comportanti un aumento ordinario di pena, ossia fino ad un terzo art. 64 c.p., le seguenti condotte: - atti diretti a procurare l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o più persone; - l’esposizione della persona trafficata a pericolo per la sua vita o la sua incolumità; - il trattamento della persona trafficata a situazioni inumane o degradanti; - il concorso nel fatto di tre o più persone o l’utilizzo di servizi internazionali di trasporto o documenti contraffatti, alterati o illegalmente detenuti. Si tratta di condizioni estremamente ricorrenti nel caso di traffico di migranti, a volte concorrenti tra loro. Le condizioni di viaggio dei migranti trafficati sono quasi sempre degradanti, proprio per dissimularne lo stato di irregolarità ovvero per celarli fisicamente ai controlli di frontiera o di polizia. In tal caso il trattamento oltre ad essere degradante diviene anche pericoloso per l’incolumità o addirittura per la vita, come nel caso di occultamento dei migranti all’interno di sottofondi ricavati nei mezzi di trasporto o all’interno di container e finanche di valige di grandi dimensioni. Nel caso di trasporto per mare si potrebbe, poi, sostenere che il pericolo è in re ipsa in considerazione della precarietà dei mezzi utilizzati, del sovraffollamento dei trasportati, delle condizioni naturali e atmosferiche. Inoltre, la natura tendenzialmente organizzata di chi favorisce il traffico dei migranti irregolari determina che il superamento del limite di cinque persone introdotte o fatte permanere nello Stato è un dato concreto assolutamente frequente. Lo stesso discorso merita l’aggravante del concorso tra tre o più persone, assi12 Cass. sez. I, 21 ottobre 2004, n. 44644, in Ced Cassazione Rv. 230187. 120 dua nella commissione di fatti da parte di organizzazioni estese o transnazionali. Infine, è assolutamente frequente l’utilizzo di servizi di trasporto internazionali per tutti gli extracomunitari irregolari che non arrivano via mare o, se provenienti dall’area balcanica, per via stradale. Si pensi, ad esempio, agli arrivi dal Sud America o dalle repubbliche asiatiche dell’ex Urss, spesso a mezzo aereo via Mosca. Altrettanto frequente è la disponibilità di documenti contraffatti, alterati o illegalmente detenuti, spesso forniti da potenti organizzazioni intermedie, specializzate proprio nel settore della fornitura di documenti contraffatti o irregolari. Unica circostanza aggravante ad effetto speciale è quella prevista dal comma 3 ter, che determina un aumento di pena da un terzo alla metà oltre ad una proporzionale significativa variazione della pena pecuniaria (25.000 euro per ogni persona in luogo di 15.000 della pena base). Questa aggravante si innesta sulla sola condotta del comma 3, espressamente richiamata al come 3 ter. Questa disposizione stabilisce l’aggravamento nel caso in cui i fatti, di cui al comma 3, siano compiuti: - al fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione; - al fine di reclutare persone da destinare allo sfruttamento sessuale; - o se i medesimi fatti di cui al comma 3 riguardino: - l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento. È possibile rilevare come il legislatore del 2004 ha fatto riferimento alla finalità di “sfruttamento sessuale”, con una formula che appare mutuata dalla legge 3 agosto, n. 269 in tema di prostituzione e pornografia minorile, non esistendo analogo concetto applicato allo sfruttamento degli adulti, almeno fino all’entrata in vigore della legge 11 agosto 2003, n. 228, in tema di tratta di persone. Sotto il profilo della tipizzazione della fattispecie, viene previsto un altro elemento della condotta che, a livello psicologico, deve essere oggetto di dolo specifico, richiedendosi in capo al reo la finalità di trarre profitto, di cui al comma 3, nonché quella di reclutare persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento sessuale. Analogamente deve dirsi per la realizzazione di atti diretti a procurare l’ingresso dei minori da impiegare in attività illecite. In tal caso occorre che la finalità di profitto sia affiancata dal fine di favorirne lo sfruttamento, magari anche da parte di terze persone non responsabili del reato in esame e dunque non concorrenti. Si pensi al caso in cui il trafficante compia atti diretti a procurare l’ingresso di minori con la consapevolezza che successivamente, una volta giunti in Italia, verranno smistati da soggetti terzi e collocati presso aziende che ne sfrutteranno il lavoro “al nero” oppure presso ambienti che ne sfrutteranno l’accattonaggio. In tal caso, salvo che non si determini addirittura un passaggio dal traffico di migranti aggravato ad una vera e propria situazione di tratta, l’aggravante dovrebbe essere applicabile, anche se non è il trafficante a sfruttare il minore, ma il suo contributo favorisce lo sfruttamento altrui. 121 L’aumento ordinario per le aggravanti previste dall’art. 12 comma 3 bis va calcolato sulle pene del comma 3; non sembra che con questa formulazione il legislatore abbia voluto escludere l’applicabilità del medesimo meccanismo anche alle pene previste dall’aggravante speciale del comma 3 ter, il che costituirebbe un’eccezione alla regola generale di cui all’art. 63, comma 3, c.p. Pertanto, pare logico ritenere che il richiamo effettuato al comma 3 ter ai “fatti di cui al comma 3” abbia il solo scopo di integrare la condotta aggravatrice con il necessario presupposto materiale costituito dalla condotta tipica della fattispecie autonoma di reato. La discrezionalità del giudice nella quantificazione concreta della pena è stata mitigata dall’art. 12, comma 3 quater, che ha introdotto un giudizio legale di bilanciamento delle circostanze, derogando così all’art. 69 c.p. È stato stabilito che nel giudizio di comparazione le circostanze aggravanti dei commi 3 bis e 3 ter siano sempre prevalenti sulle concorrenti circostanze attenuanti. In deroga ai criteri generali, tuttavia, le circostanze attenuanti possono essere calcolate comunque, ma le relative diminuzioni devono essere operate sulla pena prevista dalle aggravanti. La ratio di questo intervento risiede nella volontà legislativa di impedire che, attraverso il giudizio di bilanciamento, con la prevalenza di circostanze attenuanti sulle altrettanto gravi circostanze aggravanti si potesse addivenire a pene ritenute troppo miti, a fronte di previsioni edittali particolarmente repressive. Questa disciplina è estesa anche alla speciale attenuante introdotta dal comma 3 quinquies derivante dalla collaborazione dell’imputato. Lo stesso trattamento normativo è stato subito dopo introdotto, in deroga ai principi generali, con la previsione dell’art. 600 sexies, comma 5, c.p., in virtù della novella apportata con l’art. 15, comma 4, della legge 11 agosto 2003, n. 228. Ad ogni modo non si tratta di previsioni normative del tutto originali. Questo tipo di diffidenza legislativa verso la discrezionalità del giudice nell’applicazione della pena13 non è nuova nel nostro ordinamento. La caratteristica comune è il verificarsi di fenomeni criminali in diversi periodi storici in cui sono ricorrenti l’allarme sociale che suscitano, la necessità di esibire risposte statuali particolarmente repressive, al limite della simbologia retributiva per il reato commesso, con qualche sacrificio della funzione composita che gli artt. 25 e 27 Cost. attribuiscono alla pena. Si pensi, a tal proposito, alla disciplina antiterrorismo contenuta nella legge 6 febbraio 1980, n. 15, in conversione del decreto legge 15 dicembre 1979, n. 625. È chiaro che questo esempio è solo indice delle ricorrenti esigenze del legislatore di esibire la propria capacità di fornire risposte repressive efficienti, magari anche a parziale discapito dei principi costituzionali in materia di funzione della pena. 13 Sono illuminanti a tal proposito le considerazioni di E. Musco, L’illusione penalistica, Giuffrè, Milano, 2004. 122 Su questa scia, un’ulteriore conferma della necessità di immediatezza nel contrasto repressivo, a costo di sfociare in alcuni dei peccati ciclici tipici del legiferare d’emergenza, è anche la norma di cui all’art. 12, comma 3 quinquies, che prevede, per i delitti previsti dai commi precedenti la diminuzione della pena fino alla metà “per l’imputato che si adoperi per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi di prova decisivi per la ricostruzione dei fatti, per l’individuazione o la cattura di uno o più autori di reati e per la sottrazione di risorse rilevanti alla consumazione dei delitti.” La formulazione premiale richiama altre norme di tipo analogo, come l’art. 630, comma 5, c.p. (in cui si richiede però anche la dissociazione al reo) e l’attenuante speciale dell’art. 73, comma 7, del d.P.R. 309/1990. L’art. 12, comma 3 quinquies, qualifica, quindi, una sorta di ravvedimento operoso. I criteri di valutazione della decisività dei contributi che il collaborante offre alle autorità dovrebbero essere considerati alternativi, nel senso che anche in presenza di uno soltanto dei risultati positivi per le indagini, può essere espresso un giudizio positivo circa la riconoscibilità dell’attenuante. Pertanto, la circostanza così come tipizzata risulta speciale rispetto a quella prevista dall’art. 62, n. 6, c.p., prevedendo come indispensabile elemento aggiuntivo che il comportamento del dissociato riesca in concreto ad agevolare la fase di accertamento dei reati o l’individuazione dei responsabili o l’aggressione alle risorse provento dei reati. L’intervento del legislatore in materia non sembra essersi esaurito qui, ove si consideri la recente presentazione di un disegno di legge di iniziativa governativa, volto proprio a modificare l’art. 12 del d.lgs. 286/1998, che pur presentando aspetti positivi, come l’inserimento del traffico di migranti nell’art. 407, comma 2, lettera a), c.p.p., lascia qualche perplessità14. Infatti, ove fosse approvata la modifica del comma 3 dell’art. 12 così come viene proposta, si avrebbe da un lato un allargamento delle ipotesi punite poiché, con l’eliminazione del fine di profitto si determinerebbe un ampliamento dell’elemento psicologico, ma dall’altro si rischierebbe un restringimento delle condotte punibili. Infatti, le ipotesi menzionate dalla lettera a) alla lettera e) del testo riformato del comma 3 diventerebbero elementi del fatto tipico e non già circostanze aggravanti, come è previsto nell’attuale comma 3 bis. Di conseguenza, quando non si verta in alcuna delle ipotesi delle citate lettere e i trafficati siano meno di cinque, si determinerebbe l’applicazione automatica del comma 1 dell’art. 12, con notevole diminuzione di pena e sensibile reformatio in melius limitatamente a questo aspetto. 14 Si tratta del disegno di legge del 12 ottobre 2006 ad iniziativa del Ministro della Giustizia recante disposizioni in materia di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e modifiche al codice di procedura penale, tuttora fermo all’esame parlamentare. 123 3.4 Il ruolo della Suprema Corte, abile analista del fenomeno Il rapido succedersi della disciplina sanzionatoria e l’iniziale incertezza del legislatore avrebbero potuto cagionare non pochi problemi all’interpretazione della realtà. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha saputo ergersi ad abile e acuto interprete della disciplina penalistica, probabilmente avendo ben presente la realtà fenomenica in evoluzione, oltre che l’inquadramento internazionale dello smuggling, culminato con la codificazione della Conferenza di Palermo e dei relativi protocolli addizionali. Oltre alle pronunce a cui si è fatto cenno in precedenza, vale la pena di riferire circa alcune prese di posizione che hanno una diretta e rilevante incidenza sulla qualificazione giuridica dei fatti e sulle strategie di contrasto. In una rapida carrellata di alcune pronunce si può prendere contezza del modo in cui la giurisprudenza ha inteso contribuire alla soluzioni dei principali problemi applicativi. Quanto all’art. 12, comma 1, d.lgs. 286/98, si è precisato che il delitto ivi previsto, “come modificato dall’art. 11 della legge n. 189 del 2002, costituisce reato di pericolo, sicché è sufficiente ad integrarlo la condotta diretta a procurare l’ingresso illecito dello straniero dall’Italia nel territorio di uno Stato confinante, del quale egli non sia cittadino o non abbia titolo di residenza permanente, a nulla rilevando né la durata di tale ingresso, né la destinazione finale del trasferimento15.” Sempre con riguardo al delitto del comma 1, è stato chiarito che esso “costituisce reato cosiddetto formale che si perfeziona con la mera realizzazione della condotta, sicché esso ricorre anche nel fatto diretto a procurare l’ingresso illecito dello straniero dall’Italia nel territorio di uno Stato confinante, del quale egli non sia cittadino o non abbia titolo di residenza permanente, a nulla rilevando né la durata di tale ingresso, né la destinazione finale del trasferimento16.” La comprensibile determinazione nell’azione repressiva di contrasto non deve far dimenticare la necessità di accertare la commissione di fatti tipici, 15 Cass, sez. I, 2 dicembre 2003, in Ced Cassazione Rv. 226638 (fattispecie relativa a transito nel territorio italiano di cittadini rumeni la destinazione finale del cui viaggio era proprio il paese di origine). 16 Cass. sez. I, 28 aprile 2004, n. 23193, in Ced Cassazione Rv. 228248, (fattispecie relativa a sequestro dell’autoveicolo destinato al trasporto, attraverso il territorio austriaco, di cittadini rumeni la destinazione finale del cui viaggio sarebbe stata proprio il paese di origine). Nello stesso orientamento prevalente cfr. Cass. sez. I, 4 aprile 2006, n. 15296, in Ced Cassazione Rv. 234211 (nella fattispecie – relativa al reato di ingresso illegale dello straniero nel territorio dello Stato di cui all’art. 12 d.lgs. n. 286 del 1998 – la Corte, affermando il principio, ha accolto il ricorso del pubblico ministero avverso la mancata convalida da parte del Gip dell’arresto eseguito dalla polizia giudiziaria, basata sulla tesi che il concetto di “ingresso illegale” non comprende l’ipotesi di mero transito dello straniero sul territorio dello Stato). In senso contrario, tuttavia, cfr. Cass. sez. I, 24 gennaio 2006, n. 14546, in Guida al Diritto, 25, 2006, p. 97. 124 previsti dalla legge come reato e non già surrogarli con congetture o supposizioni. La Suprema Corte lo ricorda allorché sottolinea che “la condotta penalmente rilevante prevista dall’art. 12, commi 1 e 3, è esclusivamente quella intesa a favorire l’ingresso nel territorio dello Stato dello straniero in violazione delle norme del testo unico, cioè in assenza di valido documento legittimante l’ingresso o in presenza di documento ottenuto con artifici o in modo illecito, e non anche quella di chi favorisce l’ingresso di persona munita di regolare visto, a nulla rilevando i progetti, le intenzioni o le speranze di quest’ultima, eventualmente difformi da quanto consentito dal visto17.” Ovviamente è ben diverso il caso, che si vedrà in seguito, in cui il trafficante è preventivamente a conoscenza dell’esistenza di una rappresentazione fittizia di fatti, diretta solo a consentire l’ingresso (come nel caso di false attestazioni circa la disponibilità di una dimora o delle disponibilità economiche per il soggiorno). Infatti, passando ad esaminare diverse prese di posizioni circa l’interpretazione della più grave ipotesi di cui all’art. 12, comma 3, si è stabilito che “integra il reato di favoreggiamento illegale dell’immigrazione previsto dall’art. 12, comma terzo, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) anche il compimento di atti diretti a favorire l’ingresso nel territorio dello Stato dello straniero per finalità diverse da quelle in relazione alle quali quest’ultimo abbia presentato richiesta di visto di ingresso, mediante false attestazioni o producendo documentazione falsa in relazione agli effettivi motivi del soggiorno in Italia18.” Analogamente si è ritenuto che “integra il delitto di cui all’art. 12, comma terzo, legge n. 286 del 1998 il compimento di atti diretti a procurare l’immigrazione di taluno nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del testo unico e anche quando l’ingresso non sia illegale o clandestino ai sensi dell’art. 4 dello stesso testo unico, perché nel concetto di immigrazione illegale deve essere ricompreso anche il requisito della permanenza illegale19”. 17 Cass. sez. I, 21 ottobre 2004, n. 49258, in Ced Cassazione Rv. 230159, (nella specie, è stato ritenuto insussistente l’addebito di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina contestato a persona che aveva trasportato in Italia cittadini extracomunitari muniti di regolare visto turistico, sul rilievo che appariva meramente congetturale l’ipotesi di una permanenza degli stranieri medesimi nel nostro Paese oltre i limiti temporali indicati nel visto stesso). 18 Cass. sez. II, 11 dicembre 2003, n. 3406, in Ced Cassazione Rv. 227508, (relativa all’emissione di ordinanza di custodia cautelare in carcere; il visto di ingresso era stato chiesto e ottenuto per motivi di turismo da straniero immigrato poi in Italia per motivi di lavoro). 19 Cass. sez. I, 7 aprile 2004, n. 17973, in Ced Cassazione Rv. 228540, (fattispecie relativa alla condotta del titolare di società di autotrasporto in Italia che costituisce una analoga società in Romania allo scopo esclusivo di assumere in quella sede autisti, farli entrare in Italia regolarmente muniti di passaporto e senza necessità di visto di ingresso e poi impiegarli presso la società italiana in violazione delle norme che regolano il mercato del lavoro e la permanenza nello Stato dello 125 Queste specificazioni sono estremamente rilevanti poiché sarebbe errato prestare attenzione solo agli aspetti più clamorosi del traffico di migranti (ad esempio quello per mare). In realtà, l’esperienza quotidiana insegna che sono molto più consistenti e più subdoli i casi di traffico che si celano dietro forme di apparente liceità, quando, al contrario di quanto viene allegato o esibito, le premesse, le attestazioni e le finalità, rappresentate all’atto dell’ingresso apparentemente regolare, sono fittizie e preordinate ad aggirare la normativa vigente del testo unico sull’immigrazione. In tutti questi casi il reato sussiste e sussiste nella forma più grave del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ciò proprio in quanto la norma incriminatrice sanziona le condotte volte a procurare l’ingresso irregolare nel territorio dello Stato in violazione di tutte le norme previste dal testo unico sull’immigrazione. Secondo questa corretta impostazione, quindi, sarebbe un mero sofisma ritenere non punibili le condotte di chi agevoli l’ingresso nel territorio italiano di quei cittadini stranieri, che possono entrare purché giustifichino la loro sussistenza e regolarizzino presso le questure entro un termine esiguo la loro permanenza, quando l’agevolatore abbia la piena coscienza dell’illegalità dell’ingresso e dell’imminente clandestinità dello straniero. Ad esempio, era il caso dei numerosissimi cittadini rumeni, per i quali, prima del loro ingresso nell’Unione europea, vigeva una speciale disciplina. Essi venivano trasportati in Italia, ove, salvo precedenti espulsioni e respingimenti, facevano ingresso in modo formalmente regolare, ma subito dopo proseguivano la loro permanenza in modo illegale, ovviamente avendo già tutto programmato in partenza. Ad ulteriore specificazione della molteplicità di condotte che possono integrare il reato di cui al comma 3 dell’art. 12, si è stabilito che perfeziona il “reato non solo l’attività diretta a favorire gli ingressi di stranieri privi del visto di ingresso nel territorio dello Stato, ma anche il compimento di atti finalizzati ad eludere le disposizioni del suddetto T.U. e, dunque, anche i casi in cui sia stata presentata richiesta di visto di ingresso mediante false attestazioni o la produzione di documenti falsi in relazione agli effettivi motivi del soggiorno nel territorio italiano20.” Queste decisioni, calibrate sulla effettiva realtà della complessità fenomenica del traffico di migranti, costituiscono un punto di riferimento di eccellenza. Ulteriore esempio è fornito dalla capacità di discernimento tra favoreggiamenstraniero. La Corte ha altresì osservato che l’aggravante contemplata al comma terzo bis dell’art. 12, riferibile alla fattispecie di immigrazione, descrive il fatto prevedendo che possa riguardare sia l’ingresso che la permanenza illegale di cinque o più persone nello Stato). 20 Cass. sez. II, 21 settembre 2004, n. 40789, in Ced Cassazione Rv. 230256, (nella fattispecie la Corte, accogliendo il ricorso del Pm, ha annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale del riesame, che aveva revocato la misura cautelare della custodia in carcere a carico di indagato per il reato in questione, escludendo che ricorresse l’ipotesi della irregolarità dell’ingresso degli stranieri sul rilievo che erano tutti muniti di regolare visto di ingresso). 126 to dell’ingresso illegale e la più tenue forma di favoreggiamento della sola permanenza, di cui all’art. 12, comma 5, d.lgs. 286/98. È condivisibile l’assunto per cui integra il primo delitto e non quello di minore rilevanza del comma 5, “il compimento di atti diretti a procurare l’ingresso dello straniero extracomunitario nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del testo unico e quindi di ogni tipo di disposizione, indipendentemente dalla circostanza che l’ingresso possa essere considerato illegale o clandestino ai sensi del precedente art. 4, disciplinante le modalità di tale ingresso21.” A caratterizzare l’autonomo grado di rilevante offensività delle condotte del traffico di migranti contribuiscono anche quelle pronunce che sgomberano il campo interpretativo da eventuali equivoci circa possibili concorsi tra diverse norme incriminatici, a sottolineare la lesioni di beni giuridici primari per la collettività, quali il governo dei flussi migratori per esigenze plurime della collettività, nonché la tutela dei diritti umani degli stessi migranti, i quali devono potersi avvalere di strumenti legali di garanzia per affrontare l’esperienza e il progetto di migrazione. È vero che, a differenza della tratta, in cui il migrante subisce un crimine contro la persona in violazione dei diritti umani fondamentali, nel traffico egli compra un ingresso in un paese straniero; tuttavia, le modalità di trasporto e di occultamento ne determinano una frequente degradazione di dignità, se non dello standard minimo di garanzia per la sua stessa incolumità fisica. Né si può accettare l’idea secondo la quale proprio perchè il migrante chiede di essere trafficato e acquista l’ingresso illegale, l’eventuale sfruttamento a cui dovesse essere sottoposto in seguito all’avvenuto ingresso debba essere considerato come un rischio accettato dal migrante medesimo e, quindi, sul piano giuridico, debba essere assorbito dal reato di cui all’art. 12, comma 3, d.lgs. 286/1998. I diritti fondamentali dell’individuo non sono negoziabili, né possono subire una deminutio in ragione della sua scelta soggettiva di essere sfruttato, qualunque sia il motivo che lo induce ad accettare le conseguenze dello sfruttamento conseguente. Come si è già visto con riguardo alla giurisprudenza formatasi nella vigenza della precedente formulazione dell’art. 12 d.lgs. 286/1998, si è ribadito che “non esiste alcun rapporto di sussidiarietà tra il reato di cui all’art. 3, comma primo, n. 6, legge 20 febbraio 1958, n. 75 e il reato di cui all’art. 12, comma 3, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, essendo diversi gli interessi tutelati e le condotte sanzionate dalle due norme, atteso che la prima è esclusivamente finalizzata ad 21 Cass. sez. I, 27 ottobre 2004, n. 45187, in Ced Cassazione Rv. 229823, (fattispecie in materia de libertate, relativa all’attività di un’agenzia il cui titolare attirava, con la promessa di un lavoro in Italia e previo pagamento di compenso per l’attività di mediazione svolta, donne extracomunitarie prive del prescritto permesso di soggiorno, che, all’atto dell’arrivo nel territorio nazionale, venivano private del passaporto e costrette a denunciarne lo smarrimento per ottenere così, mediante atti fraudolenti, la regolarizzazione della loro posizione agli effetti lavorativi). 127 impedire l’induzione e la diffusione della prostituzione e sanziona la condotta di colui che induce taluno a recarsi nel territorio di altro Stato, o comunque in luogo diverso da quello della residenza abituale, per esercitarvi la prostituzione, mentre la seconda tutela i beni giuridici della sicurezza interna e della disciplina del mercato del lavoro e sanziona la condotta di colui che favorisce l’ingresso ‘clandestino’ di stranieri nel territorio dello Stato italiano, sicché quest’ultima fattispecie criminosa non può ritenersi compresa nella prima22.” Di particolare rilievo, anche alla luce del continuo e progressivo allargamento dell’Unione europea a paesi prima estranei, è la ripercussione sulla fattispecie penale dell’ingresso del paese terzo nell’Unione europea. La questione è stata affrontata e risolta dalla Suprema Corte, che ha stabilito che “sussiste il reato di favoreggiamento all’ingresso nel territorio dello Stato anche se i clandestini appartengano a un paese che, successivamente alla commissione del reato, abbia aderito all’Unione europea, non vertendosi in materia di ‘abolitio criminis’23.” L’orientamento è stato confermato di seguito, con l’argomento che “la successiva adesione all’Unione europea dello Stato di appartenenza dei soggetti che sono stati fatti entrare nel territorio dello Stato illegalmente non fa venire meno il disvalore penale delle condotte di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che conserva pertanto penale rilevanza al pari del reato di associazione per delinquere finalizzata proprio al favoreggiamento illegale dell’ingresso clandestino nel territorio dello Stato24.” Con riferimento alle modalità esplicative delle condotte penalmente rilevanti, un’interpretazione estensiva potrebbe indurre all’interrogativo se l’ingresso illegale possa essere procurato anche mediante omissione. L’orientamento è particolarmente estensivo per quanto attiene al diverso delitto di cui all’art. 12, comma 5, in quanto, trattandosi di fattispecie a forma libera, la condotta tipica, che determina il protrarsi della presenza illegale dell’interessato entro i confini nazionali, può assumere carattere tanto omissivo che commissivo25. Invero, nel caso del favoreggiamento all’ingresso illegale una siffatta conclusione sembrerebbe forse una forzatura eccessiva, anche in ragione della necessità, richiesta dalla norma incriminatrice, di compiere “atti diretti a procurare”, secondo una formula che fa pensare ad una condotta attiva e commissiva. 22 Cass. sez. VI, 23 novembre 2004, n. 81, in Ced Cassazione Rv. 230776. Cass. sez. VI, 16 dicembre 2004, n. 9233, in Ced Cassazione Rv. 230951. 24 Cass. sez. I, 11 gennaio 2007, n. 5875, in Diritto & Giustizia, 2007. 25 Cass. sez. I, 11 maggio 2005, n. 21049, in Ced Cassazione Rv. 231840 (in applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto illegittima la condotta attuata dopo l’introduzione della fattispecie incriminatrice, e consistita nel proseguire, omettendo di risolverlo, un rapporto di locazione abitativa instaurato in epoca antecedente e riguardante stranieri irregolarmente presenti in Italia). 23 128 4. La tratta di persone 4.1 La disciplina italiana del trafficking in persons: dalla riduzione in schiavitù alla nuova legge sulla tratta di persone1 Nella storia dell’umanità sono stati tutt’altro che rari i fenomeni che hanno visto una persona asservita ad un’altra, ridotta a res e come tale utilizzata, per i benefici del suo padrone, ma anche nella logica dello sviluppo dell’intera società, che proprio nella schiavitù individuava un importante tassello delle sue strutture produttive. In fondo, in una visione complessiva della storia umana, l’eccezione è quella degli ultimi decenni, mentre la regola era quella della liceità e della tollerabilità del fenomeno della schiavitù. Il codice penale italiano del 1930 aveva previsto il reato di schiavitù nell’originario art. 600 c.p. che, tuttavia, ha vissuto un lungo periodo di “abrogazione sostanziale”. A tale assetto si pervenne ritenendo che l’art. 600 c.p. avrebbe permesso solamente di perseguire le condotte che de iure minacciassero la libertà individuale, in effetti difficilmente verificabili. Invece, le condotte materiali che concretamente tale libertà avessero messo in pericolo furono ritenute dal legislatore e successivamente dall’interprete, estranee alla fattispecie incriminatrice. Questa impostazione logico-giuridica non era in linea con il precedente giuridico di tale figura di reato, costituito dall’art. 145 del Codice Zanardelli, né lo era con quanto previsto nelle Convenzioni di Ginevra del 1926 e del 1956 che, diversamente, contengono la nozione di schiavitù e di condizione analoga ad essa, concetto che è necessariamente una norma integratrice del 1 Pur non essendo intenzione del presente scritto la trattazione esaustiva di tutti gli aspetti giuridici, si segnala in dottrina, tra gli altri, V. Musacchio, “La nuova normativa penale contro la riduzione in schiavitù e la tratta di persone”, in Diritto e formazione, 2004, p. 787; D. Manzione, “La lotta alla tratta degli esseri umani”, in Legislazione penale, 2003, p. 327; E. Rosi, “La moderna schiavitù e la tratta di persone: analisi della riforma”, in Diritto e Giustizia, 3, 2004, p. 52; A. Peccioli, “‘Giro di vite’ contro i trafficanti di esseri umani: le novità della legge sulla tratta di persone. Commento alla legge 11 agosto 2003 n. 228”, in Dir. pen. proc. 2004, p. 32; E. Aprile, “I delitti contro la personalità individuale. Schiavitù e sfruttamento sessuale dei minori,”, in G. Marinucci, E. Dolcini, Trattato di diritto penale. Parte speciale, Cedam, Padova, 2006; L. Paesano, “Il reato di riduzione in schiavitù, fra vecchia e nuova disciplina”, in Cassazione Penale, 2005, p. 790. 129 precetto penale art. 600 c.p. Questa nozione, con il continuo riferimento alle “istituzioni” e alla “pratiche” in forza delle quali una persona è sottoposta al dominio di un’altra persona, non può non comprendere tanto situazioni di diritto quanto situazioni di fatto. Pur tuttavia, solamente con la sentenza della Corte costituzionale dell’8 giugno 1981, n. 962, l’art. 600 c.p. ha riacquistato la sua originaria portata normativa. Infatti, benché la schiavitù fosse stata abolita come istituto giuridico, ciò non toglieva che nella realtà una persona potesse essere messa in uno stato di asservimento tale da essere considerata ridotta in schiavitù. Si giunse, dunque, all’idea che le condotte che permettono tale soggezione, che non possono essere neutre di fronte al diritto penale, potessero rientrare fra i casi di applicazione dell’art. 600 c.p., ex novo riletto e reinterpretato, all’inizio non senza esitazioni, dalla giurisprudenza e dalla dottrina. La pronuncia della Corte costituzionale riguardava la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma in materia di plagio di cui all’art. 603 c.p., ma indirettamente il suo intervento costituì lo spunto per il successivo intervento della Corte di Cassazione. Infatti, l’esegesi della fattispecie è approdata a risultati in qualche modo definitivi a partire dall’interpretazione delle sezioni unite penali della Corte di Cassazione3. Nel percorso interpretativo della Suprema Corte vi è stata una precisa valorizzazione dei tratti della pronuncia della Corte costituzionale del 1981 in materia di plagio, laddove è stato osservato che il codice Rocco, almeno nei lavori preparatori desumibili dalla relazione del Guardasigilli, intendeva nettamente distinguere la fattispecie dell’articolo 603 c.p., riferibile al plagio come condizione di assoggettamento che in via di fatto può determinarsi nel rapporto tra due persone, dalla condizione di diritto più propriamente rinvenibile negli articoli 600 e 602 c.p. L’eliminazione della previsione normativa, di cui all’art. 603 c.p., con la sentenza n. 96/1981 della Corte, ha consentito di ricondurre alle previsioni di cui agli articoli 600, 601 o 602 c.p. tanto le situazioni di diritto quanto le situazioni di fatto in cui può venire a realizzarsi una condizione di schiavitù. La Corte ha precisato che per verificare la sussistenza degli estremi fissati nella locuzione “condizioni analoghe della schiavitù”, il giudice deve procedere a una valutazione tesa a riscontrare una situazione di mero fatto, nella quale il soggetto passivo si venga a trovare, a seguito dell’attività esplicata sull’altro soggetto, in un esclusivo dominio dell’agente, il quale materialmente ne usi e ne tragga profitto, similmente al modo in cui il padrone un tempo esercitava la propria signoria sullo schiavo. Nel pervenire a queste conclusioni, la Corte ha precisato – e questo è un percorso interpretativo ormai noto e condiviso – che i casi specifici di riduzione in schiavitù, previsti all’art. 1 della Convenzione 2 3 Rivista penale, 1982, 1, p. 10. Cass. sez. un., 20 novembre 1996, n. 261, in Ced Cassazione Rv. 206512. 130 supplementare di Ginevra del 1956, che a sua volta integra la Convenzione fondamentale per la repressione della schiavitù firmata a Ginevra nel 1926, hanno un valore soltanto esemplificativo e non possono essere intesi come gli unici parametri in grado di limitare l’opera di discernimento fattuale del giudice. Ripercorrendo in sintesi il ragionamento seguito, la Corte sostanzialmente è partita da un’interpretazione letterale del dato secondo cui, il disposto dell’articolo 600 c.p., che sanziona(va) la condotta di chi riduce una persona in schiavitù o in condizione analoga, necessariamente fa riferimento non solo alle situazioni di diritto (i casi di riduzioni in schiavitù), non più rinvenibili nel nostro ordinamento per l’abolizione della schiavitù come istituto, ma anche alle condizioni di fatto, in cui si realizza quella condizione di assoggettamento sopra menzionata. Quanto alle più recenti pronunzie della Suprema Corte in materia, vanno ricordate alcune sentenze in cui si è evidenziato che l’eventuale consenso del soggetto passivo o di chi esercita su di lui la potestà, non può mai essere idoneo a legittimare il fatto commesso ai suoi danni, poiché il consenso può essere stato anche acquisito o estorto in un clima di minaccia e violenza, cosicché l’eventuale consenso del soggetto passivo non esclude che possa pur sempre configurarsi il reato di riduzione in schiavitù. Né il fatto che nelle relazioni tra sfruttatore e vittima fossero presenti momenti di convivialità e benevolenza poteva di per sé escludere la sussistenza del reato4. Questa impostazione della Suprema Corte è lodevole, poiché dimostra la conoscenza delle delicate dinamiche psicologiche esistenti tra vittime e colpevoli, nonché i subdoli accorgimenti che spesso questi ultimi pongono in essere. È illuminante la pronuncia in cui la Corte di Cassazione in cui si afferma che “la credibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa deve essere valutata dal giudice di merito dopo un’accurata indagine circa i profili di attendibilità dal punto di vista soggettivo e oggettivo e la verifica dei riscontri obiettivi e non può essere inficiata dalla mera esistenza di un documento redatto dalla persona offesa, il quale possa in apparenza screditarne l’attendibilità, quando è ragionevole ritenere che tale documento sia stato ottenuto a seguito di un atto di violenza o costrizione posto in essere dall’imputato, proprio al fine di precostituirsi una prova a suo favore in caso di giudizio5.” 4 Cass. sez. V, 18 dicembre 2000, n. 13125, in Ced Cassazione Rv. 217846; cass. sez. III, 7 luglio 1998, in Ced Cassazione Rv. 211543. 5 Cass. sez. III, 12 maggio 2004, n. 24348, in Ced Cassazione Rv.229430 (nel caso di specie, la Corte ha ritenuto corretta la valutazione dei giudici di merito circa l’attendibilità della vittima di un reato di riduzione in schiavitù, nonostante la presenza di una lettera, vergata dalla persona offesa e prodotta in giudizio dall’imputato – nella quale veniva manifestata l’esistenza di una relazione affettiva tra l’imputato e la parte offesa e l’apparente consenso di questa alla perpetrazione dei piccoli furti ai quali la vittima veniva invece costretta – in quanto lo stato di assoggettamento della vittima, emerso nel corso del giudizio dalle sue dichiarazioni e confortato da 131 L’esperienza pratica ha dimostrato l’esistenza di meccanismi psicologici perversi e dinamiche spiegabili soltanto con riferimento alla diversità di culture e tradizioni. Si pensi all’esempio, eclatante in tal senso, della straordinaria forza di soggezione che hanno i riti voodoo nei confronti delle donne nigeriane. Si pensi, ancora, alla tremenda realtà di sottoposizione delle donne in vaste zone dell’Africa, laddove il loro stato di inferiorità viene conclamato nelle pratiche infibulatorie6. Altrettanto condizionanti sono le radicate convinzioni culturali riscontrate in molte giovani albanesi, fondate sull’antico codice tradizionale del Kanun, secondo le quali la posizione della donna nella società e nella famiglia è assolutamente subordinata al potere dispositivo dell’uomo. Quindi, considerato ciò, sono da apprezzare gli orientamenti giurisprudenziali elaborati dalla Suprema Corte, che appaiono del tutto in linea con lo spirito che anima le fonti internazionali, tra cui la Convenzione Onu di Palermo e la decisione quadro sulla lotta alla tratta degli esseri umani dell’Unione europea, e ancora, l’orientamento del legislatore italiano del 2003. La legge sulla tratta del 2003 ha cercato di adeguare al mutato panorama internazionale la disciplina interna e ha altresì inteso sopperire alle carenze di determinatezza che connotavano le disposizioni previgenti, principalmente nel caso dell’art. 601 c.p. (che puniva in modo tautologico “chiunque commette tratta o fa commercio di schiavi”)7. riscontri obiettivi, ne confermava la piena attendibilità anche in merito alle giustificazioni dalla stessa fornite durante la testimonianza circa il fatto che la stessa fosse stata costretta dall’imputato a scrivere la missiva). 6 Oggi penalmente sanzionate a seguito dell’introduzione degli artt. 583 bis e 583 ter c.p. da parte della legge 9 gennaio 2005, n. 7. 7 Art. 600 (Riduzione o mantenimento in schiavitù) Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento, è punito con la reclusione da otto a venti anni. La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità, approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno del minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi. Art. 601 (Tratta di persone) Chiunque commette tratta di persona che si trova nelle condizioni di cui all’articolo 600 ovvero, al fine di commettere i delitti di cui al primo comma, la induce, mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità, approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante promessa o dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona, a fare ingresso o a soggiornare o a uscire dal terri- 132 Alla illiceità penale della schiavitù si è affiancata quella della riduzione in stato di servitù, inteso quale mantenimento di uno status di asservimento posto in essere da chi esercita sulla persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà, attuando una situazione di fatto in cui la condotta dell’agente abbia come effetto la riduzione della persona offesa ad una soggezione esclusiva ad un altrui potere di disposizione. La portata innovativa della riforma del 2003 è sostanzialmente rinvenibile nella descrizione della seconda condotta penalmente rilevante di cui al primo comma dell’art. 600 c.p. L’evento giuridico del reato permanente di cui all’art. 600 c.p. è dato dalla costrizione della persona al compimento di attività caratterizzate da sfruttamento (sessuale, lavorativo, accattonaggio, o altri servizi richiesti) che necessariamente coincide con un vantaggio per l’autore del reato. Pertanto, la nozione di schiavitù emergente dalla nuova disciplina è connotata non solo dal concetto di (esercizio di poteri corrispondenti alla) proprietà di un essere umano su di un altro, ma dalla finalità di sfruttamento di questa sopraffazione che impone obblighi di fare. La condotta illecita di asservimento deve essere realizzata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità, approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, mediante promessa o dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona. Alla luce del legame che deve sussistere tra prestazioni servili della vittima e modalità di asservimento, appare ovvio ritenere che le condotte debbano essere connotate da abitualità in capo al reo. In concreto, però, è proprio la nozione centrale della “soggezione continuativa” che, non essendo stata analiticamente descritta nella norma, costituisce, un possibile punto debole, poiché determina problemi di descrizione della fattispecie. Il legislatore, infatti, indica in modo analitico le modalità con cui la soggezione può essere indotta, ma non anche il significato dello stato di soggezione. Poi, è di difficile inquadramento la nozione di “approfittamento di una inferiorità fisica o psichica”. È una formula che crea difficoltà per la sua eccessiva indeterminatezza e può indurre a percorrere soluzioni ambigue. Il senso di tale definizione dovrebbe essere colto nella nozione di “abuse of a position of vultorio dello Stato o a trasferirsi al suo interno, è punito con la reclusione da otto a venti anni. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno del minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi. Art. 602 (Acquisto e alienazione di schiavi) Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo 601, acquista o aliena o cede una persona che si trova nelle condizioni di cui all’articolo 600 è punito con la reclusione da otto a venti anni. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno del minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi. 133 nerabililty”, così come elaborata all’interno del Protocollo addizionale di Palermo e della decisione quadro dell’Unione europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta degli esseri umani8, che si riferisce all’abuso non certo di patologie psicofisiche, ma di una situazione di svantaggio della vittima. Questa situazione svantaggiosa nella realtà può derivare da una complessa serie di situazioni, riconducibili alle caratteristiche sociali, economiche e culturali della persona o da contesti fattuali che limitano fortemente la capacità di autodeterminazione della vittima. Ad esempio, una vittima sottoposta dagli sfruttatori a minacce costanti e concrete di gravi mali fisici sul figlio piccolo rimasto in patria senza valida protezione è certamente in stato di soggezione continuativa ed in inferiorità psichica, indipendentemente dal fatto che magari sia in possesso del documento, abbia possibilità di muoversi in Italia e sia in grado di spedire piccole somme in patria. Da queste imperfezioni normative discende quel perdurante e consistente orientamento giurisprudenziale, anche di merito, che non coglie il contenuto degli elementi costitutivi del fatto tipico e si limita ad una lettura formale, riduttiva e superata9. Qualche dubbio vi può essere, come è accaduto concretamente, se debba essere attuale e concreta una finalità di sfruttamento insita nell’esercizio della “proprietà”10, poiché questo elemento non è richiesto dalla norma, che si limita a prevedere l’esistenza della situazione di schiavitù o servitù che ne comporti l’assolvimento di obblighi di fare o che ne comportino lo sfruttamento. In realtà, la norma è costruita inserendo lo sfruttamento come un elemento costitutivo del fatto tipico, immediatamente collegato alla situazione servile determinata dal soggiogamento, e non come una finalità psicologica 8 Questa ricostruzione è accolta da cass. sez. III, 26 ottobre 2006, n. 2841, in Ced cassazione rv. 236022, secondo cui “in tema di riduzione in schiavitù o in servitù, la situazione di necessità della vittima costituisce il presupposto della condotta approfittatrice dell’agente e, pertanto, tale nozione non può essere posta a paragone con lo stato di necessità di cui all’art. 54 cod. pen., ma va piuttosto posta in relazione alla nozione di bisogno indicata nel delitto di usura aggravata (art. 644, comma quinto, n. 3 cod. pen.) o allo stato di bisogno utilizzato nell’istituto della rescissione del contratto (art. 1418 cod. civ.). La situazione di necessità va, quindi, intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo, adatta a condizionarne la volontà personale: in altri termini, coincide con la definizione di “posizione di vulnerabilità” indicata nella decisione quadro dell’Unione europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta degli esseri umani, alla quale la legge 11 agosto 2003, n. 228 ha voluto dare attuazione.” 9 Invece, sono esempi di interpretazione giurisprudenziale sentenze quali quella della corte di assise di Roma, sez. I, 25 gennaio 2002 n. 2, Thairi + altri (resa prima della riforma del 2003). 10 Cass. sez. feriale,10 settembre 2004, n. 39044, in Ced Cassazione Rv. 230130 (in tal caso la Corte, avendo ritenuto necessaria detta finalità di sfruttamento, in quanto “è quella che distingue la fattispecie dell’art. 600 c.p. da ogni altra forma di inibizione della libertà personale, considerata quest’ultima come facoltà di spostamento nel tempo e nello spazio e tutelata dagli artt. 605-609 decies c.p.”, ha sostenuto che la cessione di neonato uti filius verso il pagamento di una somma di danaro o altra utilità non poteva essere inquadrata nella fattispecie di cui all’art. 600 in quanto il fine di lucro, nel caso concreto, era rimasto nell’ambito della riserva mentale). 134 dell’agente, classificabile come dolo specifico. Diversamente, vi potrebbero essere seri problemi applicativi, ponendo ad esempio i tanti casi di sfruttamento per accattonaggio o per compimento di attività illegali, laddove l’asservimento è propedeutico, anche di qualche anno, al successivo sfruttamento del bambino, quando questi sarà cresciuto a sufficienza per praticare l’attività per cui è stato “formato” sin dai primissimi anni di vita, durante i quali si è limitato, suo malgrado, a stazionare con gli sfruttatori adulti, fungendo da richiamo per la sensibilità dei passanti. Appare significativo, invece, in rappresentanza della già consistente produzione giurisprudenziale successiva all’entrata in vigore delle legge 228/2003, richiamare l’orientamento della terza sezione della Suprema Corte. La sentenza del 20 dicembre 2004/8 febbraio 2005 ha descritto in modo efficace la realtà normativa vigente e ha esaminato la condotta incriminata di colui che, “mediante approfittamento (...) di una situazione di necessità”, riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o a prestazioni sessuali o all’accattonaggio o, comunque, a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento, chiarendo, in proposito, che lo “stato di necessità” preso in considerazione dalla norma è paragonabile alla nozione di “bisogno” di cui all’articolo 1448 c.c. e va inteso come qualsiasi situazione di “debolezza o di mancanza materiale o morale”, adatta a condizionare la volontà della persona. Ciò in quanto, come nel caso di rescissione del contratto per lesione, nell’ipotesi di riduzione in schiavitù si verifica una “sproporzione” tra la prestazione della vittima e quella del soggetto attivo, che deriva dallo “stato di bisogno” della prima di cui il secondo approfitti per trarne vantaggio. Ma più in generale, l’art. 600 c.p. di nuova formulazione prevede un delitto “a fattispecie plurima”, che è integrato dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario: è questo un reato di “mera condotta”, correlato alla nozione di schiavitù prevista dall’articolo 1 della Convenzione di Ginevra sull’abolizione della schiavitù del 25 settembre 1926, secondo il quale “la schiavitù è lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuni di essi.” Inoltre, il reato può essere integrato dalla condotta di chi riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative (servitù per debiti) o a prestazioni sessuali o all’accattonaggio o, comunque, a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento. In questo caso, si tratta di un reato di evento “a forma vincolata”, in cui l’evento, consistente nello “stato di soggezione” in cui la vittima è costretta a svolgere determinate prestazioni, deve essere ottenuto dall’agente, alternativamente, mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità11. 11 Cfr. anche Cass. sez. V, 15 dicembre 2005, n. 4012 in Ced Cassazione Rv. 233600, se- 135 La Suprema Corte ha inoltre precisato che il legislatore del 2003 ha voluto meglio perseguire le esigenze di tipicità della fattispecie, attraverso una più concreta e puntuale definizione delle condotte incriminate. Inoltre, ha voluto costruire queste ultime in modo coerente agli obblighi internazionali assunti dall’Italia, tra cui, appunto, quelli sopra richiamati e derivanti dalla ratifica delle Convenzioni di Ginevra sulla schiavitù del 1926 e del 1956, la prima ratificata e resa esecutiva in Italia con il regio decreto 26 aprile 1928, n. 1723, la seconda, supplementare alla prima Convenzione, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 20 dicembre 1957, n. 1304. Logica conseguenza di questa impostazione è la considerazione che a nulla rileva il fatto che sia stato prestato un consenso all’asservimento da parte della persona offesa, trattandosi di beni tutelati di natura certamente indisponibile. Inoltre, il legislatore ha previsto per categorie particolarmente deboli e vulnerabili, come i bambini, specifiche aggravanti, menzionando i reati di tratta e riduzione in schiavitù all’interno dell’art. 600 sexies c.p., con riferimento ai reati di sfruttamento della prostituzione e della pornografia minorili. La vera e propria tratta di persone trova il suo corrispondente normativo nell’art. 601 c.p., il quale, però, richiama concetti già espressi nell’articolo precedente. Anche in questo caso non sono poche le difficoltà interpretative generate da una formulazione indeterminata in alcuni punti, anche in virtù del richiamo dell’art. 600 c.p. La fattispecie riguarda due condotte penalmente ricondo cui “la previsione di cui all’art. 600 c.p. configura un delitto a fattispecie plurima, integrato alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario o dalla condotta di colui che riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o, comunque, a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento. Quest’ultima fattispecie configura un reato di evento a forma vincolata in cui l’evento, consistente nello stato di soggezione continuativa in cui la vittima è costretta a svolgere date prestazioni, deve essere ottenuto dall’agente alternativamente, tra l’altro, mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità ovvero approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità. Ne deriva che, perché sussista la costrizione a prestazioni (nella specie sessuali) – in presenza dello stato di necessità che è un presupposto della condotta approfittatrice dell’agente e che deve essere inteso come situazione di debolezza o mancanza materiale o morale atta a condizionare la volontà della persona – è sufficiente l’approfittamento di tale situazione da parte dell’autore; mentre la costrizione alla prestazione deve essere esercitata con violenza o minaccia, inganno o abuso di autorità nei confronti di colui che non si trovi in una situazione di inferiorità fisica o psichica o di necessità. (In applicazione di questo principio la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione della Corte d’Assise di appello che – in riforma della decisione della Corte d’Assise – aveva ritenuto la sussistenza del delitto in questione escludendo a tal fine la necessità della costrizione delle vittime con violenza o minaccia ad esercitare la prostituzione, considerato che esse erano state acquistate – previa ispezione del corpo – per dieci milioni, reclutate in Moldova, introdotte clandestinamente in Italia, private della libertà di movimento, segregate in appartamenti, assoggettate nei luoghi pubblici a costante sorveglianza e indotte a praticare la prostituzione consegnando loro i proventi).” 136 levanti. La prima concerne la tratta di persona già asservita, in quanto posta nelle condizioni di cui all’art. 600 c.p. La seconda concerne la condotta di chi, ponendosi come obiettivo la riduzione in schiavitù o servitù di una persona, la induca ad uno spostamento entro i confini dello stesso paese o all’estero mediante inganno, ovvero la costringa a ciò mediante violenza, minaccia, abuso di autorità, approfittamento di una condizione di inferiorità psichica o fisica o di una situazione di necessità o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro alla persona che ha autorità su di essa. La condotte, quindi, si estrinsecano attraverso i canoni già delineati in precedenza per quanto attiene l’art. 600 c.p., ove per tratta deve intendersi il fatto di colui che svolge un’ampia azione di reclutamento, anche coattivo, di trasporto e compravendita, mentre il far commercio è nozione più restrittiva ed è legata ad attività dirette all’acquisto/cessione della “merce umana”. Secondo l’interpretazione della Suprema Corte il concetto di commercio di esseri umani è in buona parte già contenuto in quello di tratta e la sua previsione scaturisce dalla esigenza di non lasciare esenti da pena quelle attività di reclutamento che sono di più modeste dimensioni. Le modalità di estorsione o di adulterazione del consenso della vittima sono finalizzate al raggiungimento del fine illecito costituito dallo sfruttamento della stessa, che ne caratterizza anche l’elemento psicologico del reato in termini di specificità e di intenzionalità. L’evento del delitto di tratta è costituito dal verificarsi del fenomeno di spostamento migratorio. L’esistenza effettiva di forme di sfruttamento può dare certamente luogo al concorso con altri reati. In realtà, dalla lettura della norma sembrerebbe ragionevole l’interpretazione secondo la quale non occorre necessariamente un movimento transfrontaliero, ma sia sufficiente la sola circolazione delle vittime di tratta nell’ambito del medesimo Stato. In tal caso sarebbero sanzionabili i casi di asservimento con conseguente tratta e alienazione che si verificano all’interno di uno stesso Stato da parte di diversi gruppi criminali, quando magari, per contatti e accordi, per la predisposizione di documenti contraffatti o dei mezzi di trasporto, è accertata la sussistenza di un concreto programma migratorio (si pensi, ad esempio, ai diversi passaggi di donne destinate alla prostituzione che differenti gruppi criminali effettuano all’interno di alcuni Stati balcanici, prima di oltrepassare le frontiere). Tuttavia, la seconda condotta prevista dall’art. 601 c.p. pone non pochi problemi interpretativi. Infatti, vi è da chiedersi se la preposizione “ovvero” sia il fondamento di una distinzione radicale fra tratta di persone già asservite e tratta di “persone libere” mediante azioni determinate e con la finalità di sfruttamento di cui all’art. 600 c.p. Sommessamente, sul punto la definizione dell’art. 601 c.p. appare davvero limitata. Non pare logico ritenere irrilevante la questione, poiché diversamen137 te si dovrebbe pervenire all’assurda conclusione che la tratta presupporrebbe un già consolidato stato di asservimento (per cui sarebbe possibile solo la tratta di persone già in stato di servitù). E allora, si deve chiarire quale sia il senso della seconda condotta dell’art. 601 c.p. Si parla in tal caso di persone libere e/o non ancora asservite? Ancora una volta sembrerebbe che la chiave di volta per una corretta interpretazione sia rinvenibile nel concetto di approfittamento di situazioni di inferiorità (non nello stato di soggezione continuativa che manca nell’art. 601 c.p.) così come analizzato con riferimento all’art. 600 c.p., alla luce della normativa internazionale di riferimento. In sostanza, in entrambe le norme, sia nell’art. 600, sia nell’art. 601 c.p., esistono due diverse tipologie di condotte. Un primo tipo richiama situazioni di cristallina evidenza in cui la persona è addirittura trattata come se fosse di proprietà del reo. Un secondo tipo costituisce la specificità del fenomeno della tratta di persone, così come considerata e disciplinata dal legislatore internazionale e dal legislatore italiano del 2003 (malgrado le ambiguità letterali). In questa seconda tipologia il legislatore ha inteso valorizzare forme di condizionamento continuato della vittima, finalizzate al suo sfruttamento, mediante l’approfittamento di situazioni di vulnerabilità che si pongono ad un livello di coercizione più basso rispetto alla massima soglia della servitù, che costituisce invece il punto più alto della forbice all’interno della quale si collocano le diverse condotte criminali previste dagli artt. 600 e 601 c.p. Nel caso dell’art. 601 c.p., quindi, non può ritenersi che costituisca tratta di persone l’induzione allo spostamento migratorio di una persona se non attraverso forme di reclutamento, abuso o approfittamento di situazioni di inferiorità che determinino una limitazione forte della capacità di autodeterminazione. Tale limitazione dovrebbe avere un’intensità tale da costituire una premessa temporanea dello stato di soggezione che è, peraltro, un presupposto continuativo della finalità ultima delle condotte di cui agli artt. 600 e 601 c.p., vale a dire lo sfruttamento per scopi determinati. Questa lettura interpretativa consente di attribuire all’art. 601 c.p. un significato logico giuridico coerente con l’impianto penalistico vigente e in linea con le intenzioni delle fonti internazionali. Inoltre, permette di scremare tutte quelle numerose situazioni in cui sussistono forme di induzione, abuso, approfittamento di persone tese a determinarne lo spostamento migratorio per finalità di sfruttamento, senza pervenire ad intensità tali da rientrare nel fenomeno della tratta (ad esempio, casi di traffico di migranti con finalità di sfruttamento della prostituzione o per sfruttamento lavorativo in genere). Da ultimo, l’art. 602 c.p., in tema di alienazione di schiavi, appare essere fattispecie di più rara applicazione che presuppone che il soggetto passivo sia una persona che già si trovi in condizione di schiavitù o in condizione analo138 ga. Con tale previsione vengono sanzionati i singoli atti di alienazione e di acquisto degli schiavi indipendentemente dallo svolgimento di un’attività che presenti i requisiti minimi del commercio. Una rilevante novità incriminatrice, introdotta dalla legge 228/2003, è costituita dall’art. 4 che ha novellato l’art. 416 c.p. sanzionando specificamente l’associazione a delinquere che si pone come obiettivo la realizzazione dei delitti di tratta, riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù. Sembrerebbe agevole sostenere che la norma in esame (art. 416, comma 6, c.p.) abbia introdotto una fattispecie autonoma di reato e non già una circostanza aggravante. Ciò non esclude, tuttavia, che i delitti scopo siano commessi da un’associazione che utilizzi in prevalenza il metodo dell’intimidazione proprio dell’art. 416 bis c.p. Ciò si potrebbe ben verificare qualora le organizzazioni della tratta di persone, pur non avendo il controllo di tutti coloro che operano in un determinato territorio, hanno la capacità e la finalità di assoggettare al proprio potere criminale un numero indeterminato di migranti, irregolari e non, avvalendosi di metodi mafiosi e della forza di intimidazione del vincolo associativo per realizzare la condizione di soggezione e omertà delle vittime12. 4.2 L’assimilazione della tratta alla disciplina tipica di contrasto alla criminalità organizzata Il legislatore del 2003 non si è limitato solo a modificare le fattispecie incriminatrici e ad inasprire il sistema sanzionatorio per gli autori dei delitti in questione, ma, sulla scia delle sollecitazioni internazionali e delle opinioni degli operatori, ha introdotto una serie di norme di contrasto tipiche dei fenomeni criminali organizzati che, da un lato, prevedono la possibilità di accesso al sistema dei collaboratori di giustizia e, dall’altro, elevano le potenzialità dell’intervento giudiziario. Ciò per quanto attiene alla più ampia possibilità di ricorso a tecniche di indagine tipiche per fatti di criminalità organizzata, nonché alla maggiore efficacia nell’istruzione e nella celebrazione dei processi, vista la sottrazione della competenza alla Corte di assise, l’attribuzione delle funzioni di pubblico ministero per i delitti di riduzione o mantenimento in schiavitù, tratta di persone, acquisto e alienazione di schiavi e per quello di nuovo conio di associazione per delinquere finalizzata a tali reati alle Direzioni distrettuali antimafia. Quest’ultimo aspetto è stato realizzato con l’art. 6, lett b), della legge 228/2003, che ha inserito i suddetti quattro delitti tra quelli indicati nell’art. 51, comma 3 bis, c.p.p., dal quale scaturisce l’applicabilità di una serie di 12 Cass. sez. VI, 4 ottobre 2001, n. 35914, in Ced Cassazione Rv. 221245. 139 strumenti che rendono certamente più agevole l’accertamento giudiziario di quelle condotte, caratterizzate dagli elementi di organizzazione, transnazionalità, multietnicità che richiedono uno sforzo nel contrasto particolarmente intenso. Le peculiarità delle funzioni di coordinamento tra Procura nazionale antimafia e procure distrettuali, di cui all’art. 117, comma 2 bis, nonché le modalità operative tipiche degli uffici giudiziari antimafia consentono l’utilizzo di esperienze, mezzi e rapporti, anche nell’ambito della cooperazione giudiziaria, garantiscono un livello di risultati certamente maggiore. Resta, tuttora, l’anomalia di una differenza di competenze tra tratta di persone e traffico di migranti, le prime affidate alle procure distrettuali, le seconde alle procure ordinarie, mentre, come si è più volte sottolineato, il confine tra i due fenomeni e tra i due reati è estremamente labile. L’accentuarsi ciclico e ripetitivo dei drammatici flussi di migranti determina la crescita di opinioni e proposte, spesso emotive, volte a far rientrare anche i reati di traffico di migranti nel bacino di competenze delle Direzioni distrettuali antimafia. Questa soluzione, se adottata, potrebbe presentare luci e ombre. Da un lato, infatti, gli strumenti tecnici e normativi in uso alle Direzioni distrettuali antimafia sono notevolmente più penetranti ed efficaci considerata la natura organizzata e transnazionale delle reti criminali, dall’altro, tuttavia, si determinerebbe una notevole perdita di professionalità già acquisite presso molte procure ordinarie e un enorme aggravio di procedimenti in capo alle predette Direzioni distrettuali antimafia, poiché, in termini percentuali, sono molto più numerosi i procedimenti penali per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina rispetto a quelli per tratta di persone. A questo proposito, si deve anche sottolineare che talune direzioni distrettuali, territorialmente più attrezzate di mezzi e personale, potrebbero anche fronteggiare efficacemente l’ampliamento di competenze, mentre molte altre, già in situazione di sofferenza, riceverebbero in eredità un carico di lavoro notevole, attualmente suddiviso tra le tante procure ordinarie presenti nel distretto giudiziario. È fatto noto in ambito giudiziario che molte Direzioni distrettuali antimafia (situate in distretti in cui si contano centinaia di procedimenti per art. 12, comma 3, d.lgs. 286/1998, attualmente suddivisi per competenza tra le diverse procure ordinarie) hanno un organico di pochissimi magistrati. Per tali ragioni pare allo scrivente che i benefici di un possibile passaggio di competenza dei reati di traffico di migranti alle Direzioni distrettuali antimafia potrebbero essere minori delle complicazioni. In fondo, forse sarebbe sufficiente lavorare sul maggiore coordinamento e sulle maggiori sinergie degli uffici giudiziari, magari utilizzando maggiormente strumenti giuridici esistenti, quali l’applicazione del magistrato delle procure ordinarie presso le Direzioni distrettuali antimafia per singoli procedimenti, o quali il cd. “tandem”, vale a dire la contemporanea assegnazione del procedimento sia ad un magi140 strato della Direzioni distrettuali antimafia, sia ad uno della Procura ordinaria, con notevoli benefici complessivi per il migliore sviluppo delle indagini. L’inserimento dei delitti di tratta di persone all’interno dell’art. 51, comma 3 bis, c.p.p., in virtù del richiamo di tale norma operato dall’art. 9 decreto legge 15 gennaio 1991, n. 8, consente l’applicabilità della disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia. La scelta legislativa di proseguire nell’adozione di strumenti premiali era già stata confermata con la legge 3 agosto 1998, n. 269 (che ha introdotto gli artt. 600 bis, 600 ter, 600 quater, 600 quinquies c.p.) sulle indagini in materia di prostituzione e pornografia minorili. Tuttavia, accanto a questa formale possibilità di applicazione della legislazione sui collaboratori di giustizia, non sono state previste specifiche circostanze attenuanti, fatta salva quella di cui all’art. 600 sexies c.p., richiamato dagli artt. 600, 601, 602 c.p. L’applicabilità della disciplina dei collaboratori di giustizia consente, altresì, la concessione dei benefici penitenziari in deroga ai limiti di pena indicati a carattere generale e alle restrizioni specificamente previste per determinati delitti, tra i quali, con la legge 23 dicembre 2002, n. 279, ad ampliamento dell’art. 4 bis legge 26 luglio 1975, n. 354, erano stati inseriti quelli di cui agli artt. 600, 601 e 602 c.p. 4.2.1 Il contrasto ai patrimoni illeciti Di particolare importanza è l’intervento del legislatore sull’aspetto patrimoniale, che rappresenta uno degli obiettivi più preziosi per le organizzazioni criminali e che è anche l’aspetto più difficile dell’attività di contrasto, sia per la capacità dei sodalizi di occultare movimenti di denaro e patrimoni accumulati, sia per la difficoltà di intervenire a livello transnazionale. L’art. 15 della legge 228/2003 ha sostituito l’art. 600 septies c.p. con una nuova formulazione che introduce la rilevante novità della confisca di valore o per equivalente, prevista nei casi di condanna o anche come conseguenza delle sentenze di applicazione della pena a seguito di patteggiamento, con salvezza dei diritti della persona offesa alle restituzioni e al risarcimento del danno. Inoltre, viene stabilito che sia applicata, in caso di condanna, la pena accessoria della chiusura degli esercizi la cui attività risulti finalizzata ai reati di tratta e sfruttamento delle persone, nonché la revoca della licenza di esercizio o della concessione per emittenti radiotelevisive. La stessa ratio è sottesa al richiamo degli artt. 600, 601, 602, 416, comma 6, c.p., all’interno dell’art. 12 sexies del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992 n. 356, con l’estensione della cosiddetta confisca allargata, riguardante ipotesi particolari di confisca, successive alla 141 condanna o alla sentenza di patteggiamento, dei beni o valori di cui il condannato non possa giustificare la legittima provenienza13. In realtà l’istituto della confisca di valore o per equivalente non è una novità né sul piano internazionale, né su quello interno. Infatti, oltre alla Convenzione Onu di Palermo, altri strumenti normativi sovranazionali hanno promosso l’adozione da parte degli Stati nazionali di forme alternative di confisca che prescindessero dall’individuazione materiale dei proventi del reato; e una di queste è proprio la confisca per equivalente che si ha quando non sia possibile acquisire il prezzo o il profitto del reato. In tal caso, la misura di sicurezza può avere ad oggetto i beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore ad essi corrispondenti. In questo modo viene alleviato l’onere investigativo rendendo sufficiente l’accertamento dell’esistenza o dell’ammontare del prezzo o del profitto del reato, senza pretendere la sua materiale individuazione. Inoltre, si rendono vane le operazioni di riciclaggio o di reimpiego che, spezzando la relazione tra il bene e il reato, impedirebbero la sua individuazione e, quindi, la praticabilità della confisca ordinaria. Il diritto interno è stato condizionato in positivo da questa prospettiva europea più elastica, con la conseguenza di un’evoluzione della distinzione classica tra prezzo e profitto del reato. Questa distinzione tradizionale ha ricevuto un primo colpo nella Convenzione di Strasburgo sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato dell’8 novembre 1990 (ratificata in Italia con legge 9 agosto 1993, n. 328) e non trova fondamento nella successiva decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea 2003/577/Gai del 22 luglio 2003, relativo all’esecuzione dell’Unione europea dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio, nonché nella decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea 2005/212/Gai del 24 febbraio 2005 relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato. Nella decisione quadro del 2003 il bene da sequestrare è identificato con quanto sia “il prodotto di uno dei reati di cui all’art. 3 o sia equivalente, in tutto o in parte, al valore di tale prodotto oppure costituisca lo strumento o l’oggetto di tali reati”; e nella decisione quadro del 2005, ai fini della confisca, viene utilizzata la definizione “provento” per indicare genericamente “ogni vantaggio economico derivato da reati”. Nel codice penale sono state introdotte diverse ipotesi di confisca speciale che hanno superato esplicitamente queste distinzioni. È noto difatti che, ai sensi dell’art. 240 c.p., la confisca è obbligatoria in caso di condanna solo in relazione al prezzo del reato, ma non lo è in relazione al profitto di reato. Ma 13 Sui confini di legittimità di questa disposizione e dei principi che la informano si veda Cass. sez. un., 19 gennaio 2004, Montella, in Cass. Pen. 2004, p. 1183 ss. con nota di G. Fidelbo, Sequestro preventivo e confisca ex art. 12 sexies l. n. 356/92: dall’esclusione del nesso pertinenziale con il reato al rafforzamento dei presupposti. 142 oltre che nel citato art. 600 septies c.p. vi sono altri casi di confisca per equivalente. Ad esempio, l’art. 416 bis, comma 7, c.p., pur riferendosi alle medesime definizioni di prezzo, prodotto, profitto, strumento o provento di reato, ha stabilito, in considerazione della gravità del reato perseguito, l’estensione della confisca obbligatoria a tutti i beni che altrimenti sarebbero, ai sensi dell’art. 240, comma 2, c.p., suscettibili solo di confisca obbligatoria. Lo stesso vale per la disciplina di cui all’art. 644, comma 6,. c.p., in materia di usura, che prevede la confisca obbligatoria di prezzo e profitto di reato e che costituisce la prima espressa ipotesi di confisca per equivalente. Analoga misura di sicurezza patrimoniale era stata introdotta dall’art. 322 ter c.p. e dall’art. 640 quater c.p. Ancora più di recente la legge 18 aprile 2005, n. 62 (che ha recepito le direttive europee in tema di abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato-abusi di mercato), ha introdotto nel testo unico n. 58/1998 in materia di intermediazione i reati di abuso e manipolazione del mercato (artt. 184 e 185 T.U. 58/98) e li ha sanzionati anche con la confisca obbligatoria per equivalente sia del prodotto sia del profitto del reato sia dei beni utilizzati per commetterlo (art. 187 T.U. 58/98). È evidente, quindi, come, con particolare riguardo a fenomeni criminali caratterizzati dalla preminenza dell’aspetto patrimoniale, tipico della criminalità organizzata, l’ambito di intervento per forme di apprensione dei patrimoni di origine illecita si vada sempre più ampliando, grazie all’influenza delle fonti di diritto sopranazionale14. L’importanza dell’aspetto patrimoniale nelle strategie di contrasto alla tratta si rileva anche dall’esame dell’art. 7 legge 228/2003. Preliminarmente è stabilito un aumento di pena per i condannati per i reati di cui agli artt. 600, 601, 602 c.p. che erano sottoposti a misure di prevenzione personale fino a tre antecedenti la commissione del fatto. Inoltre, si è ampliato il novero dei reati menzionati all’art. 14 della legge 18 marzo 1990, n. 55, con ciò consentendo l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale e delle altre previste nella legge 31 maggio 1965, n. 575, oltre che ai soggetti indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, anche ai soggetti che si ritenga siano abitualmente dediti a traffici delittuosi o vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi delle attività delittuose indicate negli artt. 600, 601 e 602 c.p. (oltre che in altri reati indicati nel predetto art. 14). 14 Si concorda sul fatto che gli accordi internazionali e le fonti normative europee hanno fatto propria la prospettiva del contrasto alla criminalità organizzata anche e soprattutto attraverso il loro depotenziamento economico: il problema rimane in concreto intercettare e colpire le utilità in continuo movimento. Sul punto si veda N. Bartone, “La lotta alla criminalità economica: gli strumenti giuridici dell’Unione”, in Diritto & Giustizia, 2003. 143 4.3 La crescente previsione di speciali tecniche d’indagine Vista la collocazione dei reati di tratta e riduzione in schiavitù nell’ambito di quelli di cui all’art. 51, comma 3 bis, c.p.p., è stata logica conseguenza anche la previsione di inserimento all’interno dei reati di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p., riguardante i termini di durata massima delle indagini preliminari, ampliati fino a due anni (prospettiva che taluni vorrebbero estendere anche ai reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina). Gli artt. 8, 9 e 10 della legge 228/2003 hanno dato eccezionale rilievo alle tecniche speciali di indagine necessarie per il contrasto alla criminalità organizzata, rispetto alla quale i tradizionali metodi investigativi spesso non consentono adeguati risultati. In primo luogo, l’art. 8, intervenendo sull’art. 10 del decreto legge 31 dicembre 1991, n. 419, convertito con modificazioni in legge 18 febbraio 1992, n. 172 consente la possibilità di esecuzione ritardata di provvedimenti cautelari personali, nonché di sequestri a seguito di provvedimento motivato del pubblico ministero, nonché l’esecuzione differita degli atti di competenza da parte della polizia giudiziaria, quando sia necessario per acquisire rilevanti elementi probatori o per l’individuazione o la cattura dei responsabili dei reati, anche con riferimento ai reati di cui agli artt. 600, 601 e 602 c.p., nonché al reato di cui all’art. 3 legge 75/1958. In un secondo momento, opportunamente e anche per colmare la lacuna che si era formata, con la legge 12 novembre 2004, n. 271, in conversione del d.l. 14 settembre 2004, n. 241, tale disciplina è stata estesa anche ai reati di traffico di migranti di cui all’art. 12 d.lgs. 286/1998. Nel caso in cui nei reati in questione siano persone offese dei minorenni, è possibile utilizzare i metodi di contrasto previsti dall’art. 14 della legge 3 agosto 1998, n. 269, in tema di lotta alla pornografia e prostituzione minorile, con riguardo all’acquisto simulato di materiale pornografico o ad altre attività di intermediazione. Si tratta, in sostanza, dello strumento estremamente delicato dell’agente provocatore, che può costituire un mezzo efficace per avvicinare i gruppi organizzati che gestiscono le diverse fasi della tratta di persone. È uno strumento di difficile attuazione, anche a causa di una disciplina non esente da dubbi interpretativi e operativi, soprattutto quando l’agente provocatore non si limita ad operare sul web, come nel caso della pedopornografia, ma, invece della realtà virtuale, deve confrontarsi con quella materiale15. Sulla stessa scia si colloca la disposizione di cui all’art. 10 della legge 228/2003, che ha previsto, per i reati di cui agli artt. 600, 601 e 602 c.p., all’art. 15 Per alcune attuali questioni irrisolte in tema di agente provocatore, sia consentito rinviare a D. Mancini, “L’attività sotto copertura: margini di utilizzabilità delle prove e contrasti giurisprudenziali”, in Rivista della Guardia di Finanza, 2005, n. 5. 144 3 legge 75/1958 (all’elenco si è aggiunto anche in questo caso nel 2004 l’art. 12 d.lgs. 286/1998), la possibilità di compiere attività sotto copertura. Ciò è possibile in virtù del richiamo alla disciplina dell’art. 4 del decreto legge antiterrorismo 18 ottobre 2001, n. 374, convertito con modificazione dalla legge 15 dicembre 2001, n. 438 e al richiamo al già citato art. 14 legge 269/1998. Malgrado le encomiabili intenzioni del legislatore, non mancano problemi nella formulazione della disciplina che, attraverso il richiamo al decreto antiterrorismo, non chiarisce tutte le modalità operative dell’attività undercover applicata alla tratta che, data la delicatezza dell’istituto, potrebbe risultare poco attuata in concreto. Nell’evolversi delle norme si è avvertita la necessità di operare aggiustamenti, prevedendo le specificazioni contenute nella rivisitazione dell’attività sotto copertura, di cui all’art. 4 terdecies della legge 21 febbraio 2006, n. 49, che ha convertito il decreto legge 30 dicembre 2005, n. 272, in modifica dell’art. 97 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ma avendo anche cura di non perdere le specificità operative attinenti ai singoli reati che si perseguono, essendo evidente che le attività undercover in caso di indagini, ad esempio, per usura sono ben altra cosa rispetto a quelle riguardanti indagini di criminalità transnazionale. Questa disposizione (singolarmente contenuta, insieme alle altre concernenti la riforma della disciplina in materia di sostanze stupefacenti e psicotrope, nella legge sulle misure urgenti per garantire la sicurezza e i finanziamenti per le olimpiadi invernali del 2006) è intervenuta sull’istituto capostipite dell’attività sotto copertura, vale a dire l’art. 73 del d.P.R. 309/1990, ampliando le possibilità operative e stabilendo criteri maggiormente in grado di preservare gli agenti impiegati dalle responsabilità penali per le attività compiute. Orbene, questa congerie di norme affastellatesi confusamente nel corso degli anni secondo l’elencazione sintetica di cui sopra, a decorrere dall’art. 10 d.l. 31 dicembre 1991, n. 419, e con particolare impulso ricevuto dall’art. 14 della legge 269/1998, è stata oggetto di completa rivisitazione da parte della legge di ratifica della Convenzione di Palermo e dei Protocolli addizionali, di cui si dirà in seguito. Un ulteriore elemento innovativo, tipico dei reati di criminalità organizzata, è dato dall’art. 9 legge 228/2003 che, richiamando l’art. 13 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, ha permesso, in deroga a quanto previsto dall’art. 267 c.p.p., di procedere ad intercettazioni di comunicazioni con la sola valutazione di sufficienza degli indizi. Inoltre, l’ascolto delle conversazioni tra presenti nei luoghi di cui all’art. 614 c.p., è consentito anche se in detti luoghi non si stia svolgendo l’attività criminosa. Anche in questo caso la disposizione è stata estesa, oltre che ai reati in questione, anche all’art. 3 legge 75/1958 e all’art. 12 d.lgs. 286/1998. 145 4.4 La legge di ratifica della Convenzione Onu di Palermo Come si è detto, l’assetto normativo interno raggiunto, da ultimo, con la legge 228/2003 ”Misure contro la tratta di persone”, benché assai ricco di potenzialità operative e di possibilità di proficui interventi su entrambi i piani della prevenzione e della repressione, non aveva, però, completato il quadro legislativo necessario per adempiere agli impegni internazionali. L’Italia, infatti, fino al 15 febbraio 2006, non aveva ancora ratificato la Convenzione di Palermo, aperta alla firma dal 12 al 15 dicembre 2000 e i relativi Protocolli addizionali. Il fatto è di per sé deprecabile, considerando che l’Italia è stata il paese ospitante della cerimonia della firma della Convenzione. Invece, a livello globale, il testo è ormai entrato in vigore dal 29 settembre 2003, a seguito del deposito del quarantesimo strumento di ratifica, per i primi quaranta paesi che l’hanno ratificato. Da più parti si è sollecitata per anni la ratifica, con invito ad operare adeguati interventi innovativi nella legislazione interna. In parte, le modifiche legislative del novembre 2004 discendono dai suggerimenti dei Protocolli addizionali e sono state introdotte soprattutto con riferimento all’estensione ai casi di traffico di migranti di norme prima previste solo per la tratta di persone. Tuttavia, era perdurante la necessità di estendere il divieto di concessione di benefici penitenziari ove non sia esclusa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, quella di accesso al sistema sanzionatorio e di protezione riservato ai collaboratori di giustizia, certamente più efficace anche per le maggiori garanzie offerte al collaboratore. Inoltre, nonostante gli impegni in materia di coordinamento delle indagini e cooperazione internazionale, la duplice competenza sulle ipotesi delittuose contenute nell’art. 12 d.lgs. 286/98 e sulla tratta, rispettivamente attribuite alla competenza delle procure ordinarie e delle direzioni distrettuali antimafia, non agevola l’efficacia del contrasto giudiziario (anche in considerazione della più volte ribadita fluidità dei confini tra tratta e traffico) in assenza quanto meno di nuove e specifiche disposizioni di coordinamento tra i diversi uffici. Né a diversa soluzione potrebbe giungersi nel caso di connessione tra fattispecie di cui all’art. 12 d.lgs. 286/98 e delitto associativo (spesso ricorrente, trattandosi di condotte riconducibili ad organizzazioni criminali) in quanto l’associazione diretta a commettere fatti puniti dall’art. 12 non può essere qualificata nella forma del nuovo art. 416, comma 6, c.p., essendone impedimento la rigida limitazione delle finalità di tale associazione alla commissione dei soli delitti di cui agli artt. 600, 601 e 602 c.p. Finalmente, in data 15 febbraio 2006, il Senato ha definitivamente approvato il disegno di legge 2351-B avente per oggetto “ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizza146 to transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 e il 31 maggio 2001” (legge 16 marzo 2006, n. 146). L’originaria versione licenziata dal Senato era stata approvata con modifiche dalla Camera dei Deputati e dunque era ritornata all’altro ramo del Parlamento che, in pochi giorni, aveva definitivamente approvato. La versione della legge di ratifica non è esente da critiche, soprattutto per la visione riduttiva dell’intervento di ratifica che, a detta di taluni, ha caratterizzato la decisione del legislatore. In estrema sintesi, si può sottolineare che, a prescindere dagli artt. 1 e 2 che portano l’autorizzazione alla ratifica e l’ordine di esecuzione, l’art. 3 contiene una definizione di reato transnazionale che risponde alle seguenti caratteristiche: - la punizione con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, qualora sia coinvolto un gruppo criminale organizzato. Inoltre, a) sia commesso in più di uno Stato; b) o sia commesso in uno Stato, ma una parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo avvenga in un altro Stato; c) o sia commesso in uno Stato, ma in esso sia implicato un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato; d) o sia commesso in uno Stato ma abbia effetti sostanziali in un altro Stato. L’art. 4 della legge di ratifica introduce una circostanza aggravante “per i reati puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni nella commissione dei quali abbia dato il suo contributo un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato.” In questi casi la pena è aumentata da un terzo alla metà. Inoltre, viene prevista l’applicazione del comma 2 dell’articolo 7 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, e successive modificazioni. Per garantire l’attuazione e il rispetto della Convenzione di Palermo, ai sensi dell’articolo 18, paragrafo 13, della Convenzione, l’art. 5 attribuisce al Ministero della Giustizia il ruolo di autorità centrale e autorità di riferimento per le attività previste dalla Convenzione e dai Protocolli, stabilendo che con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, adottato entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono individuate le autorità di riferimento per le attività previste dalla Convenzione e dai Protocolli. Ai sensi dell’art. 6, si prevede che il ministro della giustizia informi le Camere sullo stato di attuazione delle previsioni dell’articolo 16 della Convenzione, in merito alla collaborazione tra Stati parte in materia di estradizione. Inoltre, con cadenza annuale il ministro della giustizia deve informare le Camere sullo stato di attuazione delle previsioni dell’articolo 18 della Convenzione, in merito alla collaborazione tra Stati parte in materia di assistenza giudiziaria. I rapporti informativi e di collaborazione hanno particolare rilevanza anche con riguardo al trasferimento dei procedimenti penali previsto dall’art. 21 della Con147 venzione. L’art. 7 stabilisce che ciò può avvenire solo nelle forme e nei limiti degli accordi internazionali, ratificati previa autorizzazione data con legge. A tal proposito il ministro della giustizia informa le Camere sullo stato di attuazione delle previsioni dell’art. 21 della Convenzione, in merito al quadro complessivo degli accordi di trasferimento raggiunti con gli altri Stati parte, al numero dei procedimenti penali effettivamente trasferiti e ad eventuali problemi applicativi. L’art. 8 applica il medesimo principio con riferimento all’art. 27 della Convenzione per quanto attiene all’informazione al Parlamento sulla cooperazione di polizia. L’art. 9 della legge di ratifica è molto probabilmente la norma più rilevante perché opera una rivisitazione della disciplina delle operazioni sotto copertura16 e dei provvedimenti di polizia giudiziaria ritardabili per esigenze investigative. Ciò è ricavabile dall’abrogazione espressa (art. 9, comma 11) delle seguenti norme, a cui in precedenza si è fatto ampio riferimento: a) l’articolo 10 del decreto legge 31 dicembre 1991, n. 419, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 1992, n. 172, e successive modificazioni; b) l’articolo 12 quater del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356; c) l’articolo 12, comma 3 septies, del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286; d) l’articolo 14, comma 4, della legge 3 agosto 1998, n. 269; e) l’articolo 4 del decreto legge 18 ottobre 2001, n. 374, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 dicembre 2001, n. 438; f) l’articolo 10 della legge 11 agosto 2003, n. 228. Di conseguenza, in virtù delle disposizioni contenute nei commi da 1 a 5, l’art. 9 della legge di ratifica diviene una norma fondamentale in materia di attività investigative sotto copertura, eccedenti la normale copertura offerta dalla causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p. È consentito (art. 9, comma 1) l’operato degli ufficiali di polizia giudiziaria della polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri e del corpo della guardia di finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia, nei limiti delle proprie competenze, i quali, nel corso di specifiche operazioni di polizia e, comunque, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti previsti dagli articoli 648 bis e 648 ter, nonché nel libro II, titolo XII, capo III, sezione I, del codice penale, ai delitti concernenti armi, munizioni, esplosivi, ai delitti previsti dall’articolo 12, commi 3, 3 bis e 3 ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286; e dall’articolo 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, anche per interposta perso16 Per un esame approfondito e dettagliato sul tema, si veda A. Cisterna, “Attività sotto copertura, arriva lo statuto”, in Guida al Diritto, 2006, n. 17. 148 na, danno rifugio o comunque prestano assistenza agli associati, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, stupefacenti, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego. Altrettanto deve dirsi per gli ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti agli organismi investigativi della Polizia di Stato e dell’Arma dei carabinieri specializzati nell’attività di contrasto al terrorismo e all’eversione e del corpo della guardia di finanza competenti nelle attività di contrasto al finanziamento del terrorismo, i quali, nel corso di specifiche operazioni di polizia e, comunque, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti commessi con finalità di terrorismo, anche per interposta persona, compiono le attività di cui alla lettera a). Negli stessi casi di cui sopra, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria possono utilizzare documenti, identità o indicazioni di copertura anche per attivare o entrare in contatto con soggetti e siti nelle reti di comunicazione, informandone il pubblico ministero al più presto e, comunque, entro le quarantotto ore dall’inizio delle attività (art. 9, comma 2). L’esecuzione delle operazioni, di cui ai commi 1 e 2, è disposta, secondo l’appartenenza del personale di polizia giudiziaria, dagli organi di vertice ovvero, per loro delega, dai rispettivi responsabili di livello almeno provinciale, d’intesa con la direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere per i delitti previsti dall’articolo 12, commi 3, 3 bis e 3 ter, del testo unico di cui al d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. È prevista l’immediata comunicazione al pubblico ministero ad opera dell’organo che dispone l’esecuzione delle operazioni di cui ai commi 1 e 2; comunicazione preventiva e se necessario o se richiesto, anche il nominativo dell’ufficiale di polizia giudiziaria responsabile dell’operazione, nonché il nominativo degli eventuali ausiliari impiegati. Il pubblico ministero deve, comunque, essere informato senza ritardo, a cura del medesimo organo, nel corso della operazione delle modalità e dei soggetti che vi partecipano, nonché dei risultati della stessa (art. 9, comma 4). Per l’esecuzione delle operazioni di cui ai commi 1 e 2, gli ufficiali di polizia giudiziaria possono avvalersi di ausiliari ai quali si estende la causa di non punibilità prevista per i medesimi casi. Per l’esecuzione delle operazioni può essere autorizzata l’utilizzazione temporanea di beni mobili e immobili, di documenti di copertura, l’attivazione di siti nelle reti, la realizzazione e la gestione di aree di comunicazione o scambio su reti o sistemi informatici, secondo le modalità stabilite con decreto del Ministro dell’Interno, di concerto con il ministro della giustizia e con gli altri ministri interessati. Con il medesimo decreto sono stabilite altresì le forme e le modalità per il coordinamento, 149 anche in ambito internazionale, a fini informativi e operativi tra gli organismi investigativi (art. 9, comma 5). La stessa disposizione dell’art. 9 disciplina anche casi di provvedimenti di polizia giudiziaria ritardabili per esigenze investigative, solitamente distinti dalle vere attività undercover e, comunque, esulanti dai reati di tratta di persone o traffico di migranti. Infatti, si è previsto che quando è necessario per acquisire rilevanti elementi probatori o per l’individuazione o la cattura dei responsabili dei delitti previsti dal comma 1, nonché di quelli previsti dagli articoli 629 e 644 c.p., gli ufficiali di polizia giudiziaria nell’ambito delle rispettive attribuzioni possono omettere o ritardare gli atti di propria competenza, dandone immediato avviso, anche oralmente, al pubblico ministero e provvedono a trasmettere allo stesso motivato rapporto entro le successive quarantotto ore (art. 9, comma 6). Per tali motivi, il pubblico ministero può, con decreto motivato, ritardare l’esecuzione dei provvedimenti che applicano una misura cautelare, del fermo dell’indiziato di delitto, dell’ordine di esecuzione di pene detentive o del sequestro. Nei casi di urgenza, il ritardo dell’esecuzione dei predetti provvedimenti può essere disposto anche oralmente, ma il relativo decreto deve essere emesso entro le successive quarantotto ore. Il pubblico ministero impartisce alla polizia giudiziaria le disposizioni necessarie al controllo degli sviluppi dell’attività criminosa, comunicando i provvedimenti adottati all’autorità giudiziaria competente per il luogo in cui l’operazione deve concludersi o attraverso il quale si prevede sia effettuato il transito in uscita dal territorio dello Stato o in entrata nel territorio dello Stato delle cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere i delitti (art. 9, comma 7). Secondo un’interpretazione razionale e sistematica, questa disposizione, inserita subito dopo la menzione dei reati di usura ed estorsione, deve essere intesa come valevole per le operazioni in genere, anche se la collocazione sembrerebbe richiamarsi direttamente al solo comma precedente. Per garantire un coordinamento di indagini e le necessarie informazioni attinenti a reati tipici della criminalità organizzata, le comunicazioni di cui ai commi 4 e 6 e i provvedimenti adottati dal pubblico ministero ai sensi del comma 7 sono senza ritardo trasmessi al procuratore generale presso la Corte d’appello. Per i delitti indicati all’articolo 51, comma 3 bis, del codice di procedura penale, la comunicazione è data al procuratore nazionale antimafia. È previsto, inoltre, che l’autorità giudiziaria possa affidare il materiale o i beni sequestrati in custodia giudiziale, con facoltà d’uso, agli organi di polizia giudiziaria che ne facciano richiesta per l’impiego nelle attività di contrasto di cui al presente articolo. Al termine, per preservare le esigenze di segretezza connesse alle attività undercover, il legislatore introduce uno specifico reato che punisce con la reclusione da due a sei anni chiunque, nel corso delle operazioni di cui al presente articolo, indebitamente rivela o divulga i nomi degli uffi150 ciali o agenti di polizia giudiziaria che effettuano le operazioni stesse, è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato. Questa nuova figura pluricomprensiva di operazioni sotto copertura viene integralmente mutuata da quella recentemente ampliata in relazione all’attività di contrasto al traffico di droga, di cui alla legge 49/2006. Se da un lato l’intervento presenta una ratio di organizzazione di disparate previsioni all’interno di un’unica norma (non del tutto esaustiva visto, ad esempio, il novellato art. 97 del d.P.R. 309/1990), appare a chi scrive che non siano state adeguatamente considerate le esigenze di specificità connesse alle singole tipologie di indagini, essendo stata dettata una disciplina generale, adattabile ad ogni esigenza, ma priva di sufficiente specificazione. Inoltre, non si comprende il motivo della trattazione in un unico contesto (anzi, in un unico articolo) delle operazioni sotto copertura e dei casi di ritardato arresto, fermo o sequestro, caratterizzati da analoga eccezionalità, ma da ben altra natura e, in caso di abuso da parte degli operanti, sanzionati da ben altre conseguenze. Quest’ultima tipologia di atti esula del tutto dall’ampia categoria nota in dottrina sotto la larga accezione di “agente provocatore”. Ma la dimostrazione clamorosa della superficialità prestata dal legislatore nell’intervenire su una materia così delicata (che lascia arguire l’assenza di qualsiasi intenzione sistematica o dogmatica) si ottiene effettuando un raffronto tra la normativa di ratifica della Convenzione di Palermo e l’art. 16 della legge 6 febbraio 2006, n. 38 recante disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo internet, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 15 febbraio 2006. Si è detto che l’art. 9 della legge di ratifica ha espressamente abrogato una serie di norme in materia di operazioni sotto copertura, tra cui l’art. 10 decreto legge 419/1991, convertito in legge 172/1992. Ebbene, lo stesso giorno in cui il Senato approvava definitivamente la legge di ratifica veniva pubblicata sulla gazzetta ufficiale la legge 38/2006, il cui art. 16 effettuava una modifica del citato art. 10, inserendo al primo comma, dopo le parole “600 quater”, la locuzione “anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600 quater”. Orbene, a prescindere dal merito della modifica che non interessa in questo contesto, appare poco comprensibile una siffatta incuria in una materia tanto delicata, sfuggendo all’attenzione che negli stessi giorni, lo stesso legislatore modificava la norma che stava abrogando. Ulteriore previsione è quella della ulteriore estensione della responsabilità amministrativa degli enti per i reati transnazionali (art. 9, comma 10) per un elenco di reati: - articoli 416 e 416 bis del codice penale; - articolo 291 quater del testo unico di cui al d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43; - articolo 74 del testo unico di cui al d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309; 151 - articoli 648 bis e 648 ter del codice penale; articolo 12, commi 3, 3 bis, 3 ter e 5, del T.U. di cui al d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286; - articoli 377 bis e 378 del codice penale. In ordine ai predetti reati e in diversa misura, si applicano all’ente le sanzioni amministrative e interdittive previste dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, così come si applicano altresì tutte le norme del citato decreto. La previsione è corretta e in linea con la Convenzione, anche se ormai il d.lgs. 231/2001 è diventato un enorme contenitore in virtù di disposizioni disorganiche che, di volta in volta, aggiungono qualcosa. Di particolare importanza è l’art. 11 che disciplina le ipotesi speciali di confisca obbligatoria e confisca per equivalente. Tuttavia, anche in questo caso ben altra avrebbe potuto essere l’ampiezza dell’intervento del legislatore, il quale poteva intervenire con maggiore capillarità, cogliendo l’occasione per effettuare una razionalizzazione della materia. Come è stato autorevolmente ricordato durante lo scarno dibattito parlamentare, premesso il colpevole ritardo nell’inerzia ratificatrice, la fretta di concludere l’iter della legislatura senza l’onta di non aver approvato la Convenzione Onu sul crimine transnazionale ha prevalso sulla necessità di analisi e di approfondimento del provvedimento definitivo da licenziare, malgrado l’importanza dell’argomento in esame. E così ci si limita a disporre che per i reati transnazionali, qualora la confisca delle cose che costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo del reato non sia possibile, il giudice ordina la confisca di somme di denaro, beni o altre utilità di cui il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona fisica o giuridica, per un valore corrispondente a tale prodotto, profitto o prezzo. In caso di usura è comunque ordinata la confisca di un importo pari al valore degli interessi o degli altri vantaggi o compensi usurari. In tali casi, il giudice, con la sentenza di condanna, determina le somme di danaro o individua i beni o le utilità assoggettati a confisca di valore corrispondente al prodotto, al profitto o al prezzo del reato. Al fine di poter operare ai sensi dell’art. 11, il pubblico ministero può compiere, nel termine e ai fini di cui all’articolo 430 del codice di procedura penale, ogni attività di indagine che si rende necessaria circa i beni, il denaro o le altre utilità soggette a confisca a norma dell’articolo 11 della presente legge e dell’articolo 12 sexies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, e successive modificazioni. In questa sede non è il caso di riflettere sulle tante implicazioni conseguenti a queste disposizioni. Tuttavia, il legislatore interviene su questa materia in modo eccessivamente sibillino e riduttivo. Il ruolo delle direzioni distrettuali antimafia è di rilievo anche per quanto attiene alla legittimazione a proporre le misure di prevenzione personali e pa152 trimoniali in tutti i casi di reati transnazionali, anche se di competenza delle procure ordinarie. Infatti, l’art. 13 stabilisce che, in relazione a detti reati, sono attribuite anche al procuratore distrettuale antimafia le competenze attribuite al procuratore della Repubblica e al questore dall’articolo 2 bis, commi 1, 4 e 6, dall’articolo 2 ter, commi 2, 6 e 7, dall’articolo 3 bis, comma 7, dall’articolo 3 quater, commi 1 e 5 e dall’articolo 10 quater, comma 2, della legge 31 maggio 1965, n. 575. Infine, la legge di ratifica conclude con l’aggiunta all’art. 377 c.p., la cui rubrica viene modificata nella dicitura di “intralcio alla giustizia”, di due commi, il primo riguardante la condotta di chi usa violenza o minaccia ai fini indicati al primo comma, punito con pena attenuata nel caso in cui il fine non sia conseguito, il secondo, concernente un’aggravante se concorrono le condizioni di cui all’art. 339 c.p. 153 154 PARTE III Contrasto al crimine transnazionale e repressione dell’immigrazione illegale in Italia 156 5. L’immigrazione illegale dei migranti 5.1 I reati del migrante irregolare artt. 13 e 14 d.lgs. 286/1998 e le evoluzioni del legislatore Accanto alle strategie di contrasto al crimine transnazionale che sempre di più gestisce i canali della tratta di persone e del traffico di migranti esiste il complesso normativo penale che mira a reprimere l’immigrazione illegale. In primo luogo si devono considerare gli strumenti giuridici che consentono allo Stato di espellere coloro che si sono introdotti illegalmente nel territorio nazionale o che ivi illegalmente si trovino. È utile, quindi, accennare all’espulsione amministrativa, presupposto giuridico di ulteriori illeciti penali, quali sono quelli previsti agli artt. 13 e 14 del d.lgs. 286/1998. L’espulsione amministrativa, regolata dall’art. 13 d.lgs. 286/1998, è ministeriale o prefettizia e deve essere adottata con decreto motivato. Essa è disposta dal prefetto nei casi previsti dall’art. 13, comma 2, e con maggiore frequenza concerne i casi di assenza di un titolo legittimo per l’ingresso o per la permanenza nel territorio dello Stato. L’art. 13, comma 8, stabiliva inizialmente che avverso il decreto di espulsione potesse essere presentato ricorso al tribunale in composizione monocratica. Ma con il decreto legge 14 settembre 2004, n. 241, il legislatore ha stabilito che competente a ricevere il ricorso fosse il giudice di pace. Sin dalla “legge Bossi-Fini”, all’art. 12 si prevedeva, inoltre, che l’espulsione amministrativa fosse immediatamente esecutiva, anche se, in pendenza di un procedimento penale nei confronti dell’espulso, l’esecuzione dell’espulsione viene subordinata al nulla osta dell’autorità giudiziaria1. Con la legge 189/2002 il mezzo ordinario di esecuzione dell’espulsione è divenuto (almeno in diritto) l’accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica. Infatti, l’art. 13, comma 4, d.lgs. 286/1998 dispone che l’espulsione è sempre eseguita dal questore (eventualmente previo nulla osta) mediante accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica, salvi i casi di cui all’art. 13, comma 5. In tal caso l’espulsione contiene un’intima1 Da ultimo merita di essere citato il recentissimo intervento normativo che ha restituito la competenza in materia al giudice togato, ovvero al tribunale in composizione monocratica, nell’ambito del decreto legge 29 dicembre 2007, n. 249, recante “misure urgenti in materia di espulsioni e di allontanamenti per terrorismo e per motivi imperativi di pubblica sicurezza”. 157 zione a lasciare il territorio dello Stato entro il termine di 15 giorni quando riguardi lo straniero che si è trattenuto nel territorio dello Stato, quando il permesso di soggiorno è scaduto di validità da più di 60 giorni e non ne è stato chiesto il rinnovo. Tuttavia, anche in questa ipotesi eccezionale è previsto che il questore dispone l’accompagnamento immediato alla frontiera qualora il prefetto rilevi “il concreto pericolo” che lo straniero si sottragga all’esecuzione del provvedimento (2° periodo del comma 5 dell’art. 13). Ma che l’accompagnamento alla frontiera resti uno strumento spesso virtuale e inattuabile lo dimostra l’ennesima previsione eccezionale dell’art. 14 d.lgs. 286/1998, che evidenzia i casi in cui non sia possibile eseguire con immediatezza l’espulsione con accompagnamento coattivo, “perché occorre procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all’acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l’indisponibilità del vettore o altro mezzo di trasporto idoneo.” In tali evenienze “il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea o assistenza più vicino.” L’art. 13 comma 5 bis d.lgs. 286/1998, come introdotto dall’art. 2 del decreto legge. 4 aprile 2002, n. 51, convertito con modificazioni nella legge 7 giugno 2002, n. 106, prevedeva che “nei casi previsti ai commi 4 e 5 il questore comunica immediatamente e, comunque, entro quarantotto ore dalla sua adozione al tribunale in composizione monocratica territorialmente competente il provvedimento con il quale è disposto l’accompagnamento alla frontiera. Il provvedimento è immediatamente esecutivo. Il tribunale in composizione monocratica, verificata la sussistenza dei requisiti, convalida il provvedimento entro le quarantotto ore successive alla comunicazione.” A seguito della pronuncia di incostituzionalità avvenuta con sentenza n. 222/2004, di cui si dirà oltre, il legislatore ha introdotto un’ulteriore modifica. Infatti, il decreto legge 14 settembre 2004, n. 241, convertito nella legge 271/2004, prevede al nuovo comma 5 bis che, nei casi previsti ai commi 4 e 5, il questore comunichi immediatamente e, comunque, entro quarantotto ore dalla sua adozione, al giudice di pace territorialmente competente il provvedimento con il quale è disposto l’accompagnamento alla frontiera2. L’esecuzione del provvedimento del questore di allontanamento dal territorio nazionale è sospesa fino alla decisione sulla convalida, mentre lo straniero è nel frattempo trattenuto in uno dei centri di permanenza temporanea e assistenza salvo che il procedimento possa essere definito nel luogo in cui è stato adottato il provvedimento di allontanamento anche prima del trasferimento in uno dei centri disponibili. L’udienza per la convalida vede la partecipazione necessaria di un difensore tempestivamente avvertito, mentre l’interessato è 2 Ora di nuovo il tribunale in composizione monocratica. 158 sentito se comparso. Se la convalida è concessa, il provvedimento di accompagnamento alla frontiera diventa esecutivo, altrimenti il provvedimento del questore perde ogni effetto. Contro il decreto di convalida è proponibile ricorso per cassazione, che però non sospende l’esecuzione dell’allontanamento dal territorio nazionale. Dunque, lo straniero espulso viene rinviato allo Stato di appartenenza (sempre che si sappia qual è) o, quando ciò non sia possibile, a quello di provenienza (sempre che si sappia da dove viene). All’espulsione consegue il divieto di rientrare in Italia per un periodo di 10 anni, salvo che il decreto preveda un termine più breve, comunque non inferiore a 5 anni, tenuto conto della complessiva condotta tenuta dall’interessato nel periodo di permanenza in Italia. L’art. 13, comma 13, (nella formulazione della legge 189/2002) prevedeva per lo straniero che facesse rientro nel nostro paese senza autorizzazione un reato contravvenzionale punibile da 6 mesi ad un anno di arresto3 e una nuova espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera. Era anche possibile effettuare l’arresto in flagranza (facoltativo ai sensi del comma 13 ter) e si prevedeva la forma processuale del rito direttissimo. L’art. 13, comma 13 bis, (anch’esso introdotto con la legge 189/2002) prevedeva poi più delitti, sanzionati con la reclusione da 1 a 4 anni, e consistenti nelle fattispecie dello straniero che, già denunciato per il reato di cui al comma 13, ed espulso, “abbia fatto reingresso sul territorio nazionale”; del trasgressore del divieto di reingresso “nel caso di espulsione disposta dal giudice”, sia essa l’espulsione disposta dal giudice come misura di sicurezza (art. 15 d.lgs. 286/1998), sia l’espulsione disposta come sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione (art. 16). Il comma 13 ter prevedeva che in tutti i casi previsti dall’art. 13, comma 13 bis, è sempre consentito l’arresto in flagranza e il fermo. Si prevedeva altresì la forma processuale del rito direttissimo. Le deroghe a norme generali del codice di procedura penale, quali i limiti edittali dell’art. 384 c.p.p., il rito direttissimo obbligatorio per il fermato e altre difficoltà interpretative scatenavano un acceso dibattito, con conseguenti diver3 Per un esame di sintesi di alcuni provvedimenti di merito emessi subito dopo l’entrata in vigore della legge 189/2002, cfr. D. Mancini, L’arresto con riferimento alle condotte clandestine di permanenza e reingresso del cittadino extracomunitario, in www.giustiziacarita.it. La giurisprudenza di legittimità si è occupata del rapporto con il reato già esistente in forza del d.lgs. 286/1998 stabilendo ad esempio che “vi è continuità normativa tra il reato di violazione del decreto prefettizio di espulsione già previsto dall’art. 13, co. 13, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 e le modifiche introdotte dall’art. 12 della legge 189/2002 e, trattandosi di un reato permanente che dura fino a quando non si pone in essere il comportamento dovuto, ossia l’abbandono del territorio dello Stato, una condotta iniziata sotto la previgente normativa continuata sotto la nuova è sanzionabile secondo le previsioni di quest’ultima.”, in Cass. sez. I, 25 giugno 2003, n. 27399 in Ced Cassazione Rv. 225342. 159 sità applicative, rilevatesi principalmente nella giurisprudenza di merito4. Nel caso già citato dell’art. 14, comma 1, il legislatore disponeva, al comma 3, che il questore del luogo di ubicazione del Centro di Permanenza Temporanea trasmettesse copia degli atti, per la convalida, al tribunale in composizione monocratica (al giudice di pace dopo il decreto legge 241/2004 e di nuovo al giudice in composizione monocratica dopo il decreto legge 249/2007) entro le 48 ore dall’adozione del provvedimento di trattenimento. La convalida comporta la permanenza dello straniero nel centro di permanenza per un periodo di complessivi 30 giorni e qualora l’accertamento dell’identità e della nazionalità, o l’acquisizione dei documenti per il viaggio presenti gravi difficoltà, il giudice, su richiesta del questore, può prorogare il termine di ulteriori 30 giorni. Nel caso in cui trascorrano inutilmente i 60 giorni (cosa che spesso avviene) o non sia possibile fin dall’inizio trattenere lo straniero perché i centri non hanno disponibilità (evenienza anch’essa consueta), il questore ordina allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro 5 giorni ai sensi dell’art. 14, comma 5, mediante una diversa intimazione diretta allo straniero che non sia stato possibile trattenere nei centri di permanenza temporanea o che sia stato rilasciato per decorrenza dei termini massimi di trattenimento. Con la disciplina risalente alla legge 189/2002, se lo straniero si tratteneva oltre il quinto giorno “senza giustificato motivo” veniva integrato il reato contravvenzionale dell’art. 14, comma 5 ter, con previsione di arresto da 6 mesi ad un anno e nuova espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica. Veniva altresì previsto, in forza dell’art. 14, comma 5 quinquies, per il reato di cui al comma 5 ter, l’arresto obbligatorio e la forma processuale del rito direttissimo, nonché la possibilità per il questore, al fine di assicurare l’esecuzione dell’espulsione, di disporre i provvedimenti di cui al comma 1. Accanto al reato contravvenzionale di cui all’art. 14, comma 5 ter, il legislatore prevedeva anche il delitto di cui all’art. 14, comma 5 quater, con riferimento allo straniero espulso ai sensi del comma 5 ter (con accompagnamento alla frontiera) che viene trovato, in violazione delle norme del presente testo unico, nel territorio dello Stato è punito con la reclusione da uno a quattro anni. Anche in tal caso si prevedeva l’arresto (obbligatorio) e il rito direttissimo (art. 14, comma 5 quinquies). 4 La Corte di cassazione, con riferimento al reato di cui all’art. 13, co. 13 bis, come modificato dalla legge 189/2002, concludeva per la sua natura permanente, in quanto “diretto ad impedire l’illegale reingresso e la permanenza illecita nel territorio dello Stato del soggetto espulso, sicché il bene giuridico tutelato dalla norma è quello di impedire l’illegale permanenza e dunque la continuità della condotta antigiuridica volontariamente protratta nel tempo.” (Cass. sez. I, 16 aprile 2004, n. 17878, in Ced Cassazione Rv. 228548). 160 Non si ritiene possano avere, invece, un grosso rilievo, almeno in termini statistici, le nuove norme incriminatrici introdotte dal decreto legge 249/2007 in tema di violazione del divieto di reingresso conseguente all’allontanamento per motivi di prevenzione del terrorismo e per motivi di pubblica sicurezza, previsto dall’art. 5 del citato decreto legge. In questo farraginoso sistema sanzionatorio che impegnava (e impegna) in modo estenuante polizia giudiziaria e magistratura nella repressione dell’immigrato illegale, la Corte costituzionale è intervenuta per definire una clausola fondamentale dell’intero sistema di reati, vale a dire il “giustificato motivo” di cui all’articolo 14, comma 5 ter. Con la sentenza 18 dicembre 2003-13 gennaio 2004, n. 55, ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento alla presunta indeterminatezza di tale formula, ma ha espressamente riconosciuto il ruolo chiave che questa clausola riveste nell’individuazione dei limiti della condotta penalmente rilevante, che non può ritenersi integrata allorché sia presente una causa di giustificazione o una concreta inesigibilità dell’osservanza del precetto in presenza di situazioni ostative. In particolare, la Corte equipara al giustificato motivo almeno gli stessi motivi che legittimano la pubblica amministrazione a non procedere all’accompagnamento coattivo, ossia la necessità di soccorso, la difficoltà nell’ottenimento dei documenti per il viaggio, l’indisponibilità di vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo, l’esistenza di rilevanti esigenze oggettive (non riconducibili alla mera di mancanza di denaro, connaturale ai migranti). Il riconoscimento dell’esistenza del giustificato motivo, sostiene poi la Corte, deve essere riscontrato direttamente dalla polizia giudiziaria al momento del controllo e deve precludere l’arresto, rientrando nella doverosa osservanza, che la polizia giudiziaria deve compiere, del divieto espresso nell’art. 385 c.p.p.6 Ma la Corte costituzionale ha avuto modo di intervenire in materia anche con altre pronunce. Con la sentenza 8-15 luglio 2004, n. 2227, richiamando 5 In Guida dir., 2004, 4, con commento di L. Palamara, “Nell’utilizzazione di concetti elastici nessun pregiudizio alla determinatezza”. 6 Sul concetto di giustificato motivo anche la giurisprudenza di legittimità ha successivamente affermato che “ai fini della sussistenza del ‘giustificato motivo’, idoneo ad escludere la configurabilità del reato di inosservanza dell’ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato ai sensi dell’art. 14, comma quinto ter, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, come introdotto dall’art. 13 della legge, n. 189, del 2002, rileva, da un lato, l’accertamento in concreto delle condizioni in cui si è prodotta e mantenuta la condotta di permanenza nel territorio dello Stato oltre i cinque giorni, nonché della volontarietà o meno della stessa; dall’altro, il giudizio di esigibilità dell’obbligo, che va condotto tenendo conto del reale condizionamento psichico esercitato dalle circostanze concrete sulle capacità individuali di adempimento dell’obbligo stesso.” (Cass. sez. I, 15 luglio 2005, n. 26374, in Ced Cassazione Rv. 231854; v. anche Cass. sez. I, 2 settembre 2005, n. 32929, in Ced Cassazione Rv. 232248). 7 In Guida dir., 2004, 30, con commento di O. Forlenza, “Dall’inefficace valutazione a posteriori un’incontrollata privazione della libertà”. 161 ampiamente in motivazione la precedente sentenza 105 del 2001, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 5 bis d.lgs. 286/98 nella parte in cui non prevedeva che il giudizio di convalida dovesse svolgersi in contraddittorio prima dell’esecuzione del provvedimento di accompagnamento alla frontiera e con le garanzie della difesa, con conseguente violazione della garanzia contenuta nell’art. 13, comma 3, Cost. e del diritto di difesa di cui agli artt. 24 e 111 Cost. Contemporaneamente, con la sentenza 8-15 luglio 2004, n. 2238, la Corte Costituzionale ha anche dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5 quinquies, nella parte in cui stabiliva che per il reato previsto dal comma 5 ter del medesimo art. 14 era obbligatorio l’arresto. La Corte ha illustrato che la previsione dell’arresto obbligatorio per un reato contravvenzionale (per il quale il codice di procedura penale non consentiva l’applicazione di misure coercitive) è “manifestamente irragionevole” perché configuri un’ipotesi senza sbocco sul terreno processuale, non potendo in sede di convalida dar luogo, ad esempio, ad una misura quale la custodia cautelare in carcere o gli arresti domiciliari. La restrizione della libertà personale è consentita dalla Costituzione solo in chiave strumentale rispetto ad altre esigenze che consentano, in un giudizio di bilanciamento, la temporanea diminuzione della libertà personale in vista dell’intervento dell’autorità giudiziaria. La Corte ha disvelato, in realtà, la vera funzione che si voleva raggiungere con la norma incostituzionale, cioè l’agevolazione di una successiva espulsione amministrativa dello straniero che non abbia ottemperato all’ordine del questore, dichiarando l’illegittimità di tale previsione. Il legislatore, in una rincorsa a colmare i buchi creati dalla Consulta (rincorsa che certo non migliora l’assetto normativo di qualsiasi settore quando è diretta ad aggirare i principi espressi dal Giudice delle leggi) approvava il citato decreto legge 241/2004 sostituendo il comma 5 quinquies con una nuova formulazione in cui si disponeva che “per i reati previsti ai commi 5 ter e 5 quater si procede con rito direttissimo. Il questore, per assicurare l’esecuzione dell’espulsione, dispone i provvedimenti di cui al comma 1. Per il reato previsto dal comma 5 quater è obbligatorio l’arresto dell’autore del fatto.” Ma è con la legge di conversione n. 271/2004 che si introducono sostanziali modifiche al decreto legge, nell’ottica di una risposta più efficace alle sentenze della Corte Costituzionale. Ne è conseguita la trasformazione delle contravvenzioni in delitti, con previsione di sanzioni penali rilevanti, subito da taluno ritenute (a ragione) eccessive9. Inoltre, la legge di conversione ha ri8 9 Anch’essa in Guida dir., 2004, 30, op. cit. La Corte costituzionale è stata nuovamente investita da Trib. Genova, ordinanza 10 dicem- 162 formato l’art. 14, comma 5 ter, e co. 5 quater10 nel tentativo di ovviare al corto circuito che la sentenza della Consulta aveva determinato. 5.2 Le perduranti difficoltà applicative e i tentativi chiarificatori della Corte di Cassazione Una delle discussioni di maggior rilievo che hanno animato gli operatori del diritto è quella relativa alla natura permanente o istantanea dei reati in questione. Ed è un tema che continua ad avere importanti conseguenze, ad esempio, in ordine all’applicabilità delle nuove norme in presenza di condotte realizzate in periodo antecedente all’entrata in vigore della legge 271/2004. Quanto al nuovo art. 13, commi 13 e 13 bis, appare certo che l’obbligatorietà dell’arresto per il delitto e le gravi sanzioni penali previste dalla legge 271/2004 si applicano solo alle condotte commesse in data successiva all’entrata in vigore della novella. bre 2004 n. 544, in Guida dir. 2005, 7. 10 In sostanza, il legislatore della conversione ha previsto che: l’art. 14, comma 5 ter, primo periodo prevede un delitto punito con la reclusione da uno a quattro anni per lo straniero che si sia trattenuto, senza giustificato motivo, nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine impartito dal questore art. 14, comma 5 bis, qualora l’espulsione sia stata decretata dal prefetto per ingresso illegale nel territorio nazionale ai sensi dell’art. 13, comma 2, lett. a) e c), ovvero per non aver richiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto in assenza di cause di forze maggiore, ovvero per essere stato il permesso revocato o annullato; l’art. 14, comma 5 ter, secondo periodo prevede una contravvenzione (punita con la pena dell’arresto da sei mesi ad un anno) se l’espulsione è stata disposta perché il permesso di soggiorno è scaduto da più di sessanta giorni e non ne è stato richiesto il rinnovo. Trattasi di ipotesi del tutto distinta dall’ordine di allontanarsi nei cinque giorni successivi alla notifica di cui all’art. 14, comma 5 bis, poiché rientrante invece nell’ipotesi dell’art. 13, comma 5 (caso in cui la espulsione non viene decretata con accompagnamento coattivo bensì contiene l’intimazione a lasciare il territorio dello stato entro il termine di quindici giorni). Inoltre, si dispone che “in ogni caso” si procede all’adozione di un nuovo provvedimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica. Resiste anche un meccanismo di progressione criminosa, art. 14, comma 5 quater, per lo straniero già espulso ai sensi del comma 5 ter, primo periodo, che viene trovato nel territorio dello Stato (reclusione da uno a cinque anni). Se l’ipotesi riguarda lo straniero espulso ai sensi del comma 5 ter, secondo periodo, la pena è la reclusione da uno a quattro anni. È comunque tuttora necessario che la previa espulsione si sia concretizzata nell’uscita effettiva dal territorio dello Stato; l’art. 14, comma 5 quinquies, prevede poi che per tutti i reati (contravvenzioni e delitti) di cui ai commi 5 ter e 5 quater si proceda con rito direttissimo e che al fine di assicurare l’esecuzione dell’espulsione, il questore dispone i provvedimenti di cui al comma 1. I provvedimenti in questione devono essere adottati dal questore in correlazione con il nuovo provvedimento di espulsione mediante accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica, che deve essere adottato in ogni caso, a norma dell’ultima parte del comma 5 ter. 163 Con riguardo all’art. 14, comma 5 ter, le difficoltà interpretative sorgono nel caso in cui la condotta consista nell’inottemperanza ad un ordine emesso prima dell’entrata in vigore della legge 271/2004. Le soluzioni adottate nel merito sono state diverse. Da una parte si è ritenuto trattarsi di una successione di leggi penali nel tempo con la conseguenza di dover dirimere il punto della natura istantanea o permanente del reato, poiché solo alla luce della permanenza può applicarsi la sopravvenuta figura del delitto, mentre allo scadere del quinto giorno, applicandosi la precedente normativa, si imporrebbe l’applicabilità della previgente contravvenzione più favorevole art. 2, comma 3, c.p.11 Sembrerebbe più ragionevole procedere, comunque e in ogni caso, all’applicazione della nuova normativa, a nulla rilevando che la consumazione del reato abbia avuto inizio in un periodo antecedente l’entrata in vigore della legge 271/2004 (potendo l’autore del reato interrompere la condotta illecita in ragione delle più severe sanzioni), ma non sono mancati orientamenti diversi, anche nella giurisprudenza di legittimità. Il nodo di maggiore difficoltà è rappresentato dall’art. 14, comma 5 ter. Ed è proprio in relazione a questa norma che si intrecciano le principali contraddizioni strategiche del nostro legislatore. La nuova formulazione dell’ultimo periodo, che prevede comunque la necessaria adozione di un nuovo provvedimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica, oltre alla previsione del comma 5 quinquies sul trattenimento nei Centri di permanenza temporanea, ha indotto la giurisprudenza (di merito prima e anche di legittimità poi) ad un flusso di pronunce di assoluzione rispetto alle contestazioni ripetitive di reato art. 14, comma 5 ter, riguardanti cioè extracomunitari più volte colpiti da diversi ordini del questore di allontanarsi dal territorio dello Stato. Questo diffusissimo fenomeno rappresenta un drammatico allarme dell’approccio isterico che il legislatore ha avuto sul tema delle migrazioni, un indice della miopia consistita, ad esempio, nel non capire che il clandestino è una persona che viola le norme italiane in tema di ingresso nel territorio dello Sta11 Cass. sez. I 17, maggio 2004, n. 23197, in Ced Cassazione Rv. 228252, in cui si afferma che il luogo di consumazione del reato di cui all’art. 14, comma 5 ter, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, è quello in cui si trova lo straniero colpito dal provvedimento di espulsione nel momento in cui scade il predetto termine. Cfr. anche Cass. sez I 23 settembre 2005, n. 34261, in Ced Cassazione Rv. 232217, secondo cui l’inottemperanza, da parte dello straniero, all’ordine di lasciare il territorio dello Stato entro cinque giorni dalla notifica del provvedimento del questore configura il reato di cui all’art. 14, comma 5 ter, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, come modificato dalla legge 12 novembre 2004, n. 271, che si perfeziona alla scadenza del termine fissato nel provvedimento dell’autorità amministrativa e si protrae per tutto il tempo della mancata ottemperanza. La permanenza illegale, infatti, non cessa fino a quando non sia posto in essere il comportamento prescritto, ossia l’abbandono del territorio dello Stato. 164 to, ma è anche e soprattutto la “merce umana” manipolata e utilizzata dalle organizzazioni internazionali che gestiscono i flussi migratori illegali. È sorprendente e fuorviante l’inutile spiegamento di forze istituzionali per il raggiungimento di risultati effimeri, costellati di adempimenti amministrativi e processuali che impegnano risorse umane e mezzi in un corto circuito cartaceo fine a se stesso. Sono numerosi in tutta Italia i casi di stranieri irregolari arrestati diverse decine di volte sempre per il medesimo reato di inottemperanza all’ordine del questore. Stranieri a fronte dei quali, sia per il paradosso normativo, sia per perdurante assenza di una formazione avanzata di tutti gli operatori, poche volte vengono compiute tutte le necessarie attività finalizzate all’identificazione delle potenziali vittime di tratta di persone e traffico di migranti. In alcune pronunce si è individuata una tipologia di ne bis in idem nei casi in cui, dopo ogni giudizio per il reato dell’art. 14, comma 5 ter, non venisse emessa una nuova intimazione12. Tuttavia, da subito l’orientamento ha cominciato ad evolversi, fino a pervenire alla conclusioni, invero più corretta e rigorosa, che inibisce al questore di emettere ordini di allontanamento “a cascata”, da cui far derivare ogni volta un nuovo reato art. 14, comma 5 ter, con ogni conseguenza del caso (ad esempio, relativamente alla facoltà di arresto per la polizia giudiziaria). Pertanto, la suprema Corte ha ritenuto non configurabile il reato di cui all’art. 14, comma 5 ter, nei confronti dello straniero che, dopo essere stato condannato una prima volta per tale reato, non abbia ottemperato al nuovo ordine di lasciare entro cinque giorni il territorio dello Stato adottato dal questore a seguito di nuovo provvedimento di espulsione. “L’espulsione deve infatti essere eseguita dal questore mediante accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica e, qualora ciò non sia possibile nell’immediatezza, per la necessità di accertamenti supplementari per la completa identificazione o per l’acquisizione dei documenti di viaggio, lo straniero deve essere trattenuto presso i centri di accoglienza.” L’art. 14, comma 5 ter, ultima parte, esclude che il questore abbia il potere di emettere ulteriori intimazioni art. 14, comma 5 bis, in quanto, dopo la prima violazione dell’intimazione a lasciare il territorio nazionale, deve essere disposto l’accompagnamento coattivo alla frontiera dello straniero, quale unico mezzo mediante il quale effettuare l’espulsione13. 12 Si è sostenuto che qualora lo straniero violi il provvedimento di espulsione eseguito mediante l’ordine di allontanamento, commette un nuovo reato previsto dall’art. 14, comma quinto, e legittima il questore ad emettere una nuova espulsione che va eseguita, se possibile, mediante accompagnamento forzato, ma nel caso di materiale impossibilità mediante un nuovo ordine di allontanamento, Cass. sez. I, 25 ottobre 2005, n. 39238, in Ced Cassazione Rv. 232267; Cass. sez. I, 15 novembre 2005, n. 41439, in Ced Cassazione Rv. 232268. 13 Cfr. Cass. sez. I, 11 gennaio 2006 n. 580, in Ced cassazione Rv.232381; Cass. sez. I, 12 gen- 165 L’interpretazione è razionale. Altrimenti, le conseguenze applicative sarebbero del tutto illogiche e determinerebbero anche la paralisi della norma incriminatrice più grave di cui all’art. 14 comma 5 quater che non potrebbe operare. Un problema più delicato si pone nel caso in cui lo straniero o il paese di origine non abbiano collaborato per l’identificazione e per la verifica dei documenti, ostacolando l’espulsione, malgrado l’avvenuto trattenimento, alla cui scadenza di termini non resterebbe soluzione che effettuare una nuova intimazione di allontanamento. Diversamente si potrebbe arrivare alla conclusione, anch’essa paradossale, che il clandestino che si ostini a fornire false generalità e che impedisca la sua identificazione venga trattato meno severamente di colui che invece fornisca le sue generalità autentiche. Sul punto, si è registrato un orientamento di legittimità favorevole al ritorno alla procedura “ordinaria” dell’espulsione mediante decreto/ordine del prefetto/questore, orientamento che affonda in un’interpretazione riduttiva del potere di disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice ordinario14. Diversamente, un altro più convincente orientamento, che al momento appare prevalente, ritiene che la motivazione addotta a base del nuovo ordine del questore assume una rilevanza sostanziale e deve essere conosciuta e vagliata dal giudice15. Pertanto, si è affermato che “il reato di ingiustificato trattenimento di uno straniero nel territorio dello Stato non si configura in assenza di un’adeguata motivazione dell’ordine impartito dal Questore e il controllo sulla motivazione compete al giudice del procedimento per inottemperanza all’ordine stesso16.” Il contrasto giurisprudenziale, dunque, tutto sorto all’interno della prima sezione penale della Corte di Cassazione, sembrerebbe ormai risolto, ove si consideri la recente sentenza 18 maggio 2006-14 giugno 2006, n. 2037417 che ha escluso la possibilità della reiterazione a cascata delle intimazioni del questore e, di conseguenza, l’insussistenza di un ulteriore reato art. 14, comma 5 ter (e l’impraticabilità dell’arresto). È vero che in tal modo residuano seri problemi per i casi in cui il clandestino e/o il paese di origine non collaborino all’esatta identificazione e alla conseguente espulsione, ma è altrettanto vero che questa è una delle lacune dell’impianto legislativo vigente in tema di immigrazione, che non può essere colmata distorcendo la funzione e i principi generali del diritto penale. naio 2006, n. 1052, in Ced cassazione Rv.232382; Cass. sez. I 9 febbraio 2006, n. 9120, in Ced cassazione Rv. 233523; Cass. sez. I, 2 febbraio 2006, n. 5888, in Ced cassazione Rv.233109. 14 Ad esempio, Cass. sez I 21 settembre-23 novembre 2004, n. 45390, in Ced cassazione Rv. 230391. 15 Cass. sez. I 7 luglio 2005-2 agosto 2005 n. 29221, in Ced cassazione Rv. 231944. 16 Cass. sez. I, 24 novembre 2005, n. 42555 in Ced cassazione Rv. 232670. 17 In Guida dir, 2006, 27, con commento di G. Amato. 166 Conclusioni Al termine di queste riflessioni, un accenno sintetico deve essere rivolto proprio alle contraddizioni che emergono dall’analisi della legislazione e delle prassi in tema di migrazioni, argomento osservato sia con la lente del contrasto alle organizzazioni criminali transnazionali che gestiscono le reti della tratta di persone e del traffico di migranti, sia con la lente della prevenzione e repressione dell’immigrazione illegale. Pur riconoscendo dignità e spessore ad entrambi gli obiettivi, appare ormai imprescindibile predisporre forme più armoniche e sinergiche di intervento, per evitare che la repressione dell’immigrazione illegale si trasformi non soltanto in una mera petizione propagandistica di principio, ma che addirittura si riveli un ostacolo beffardo alle azioni di contrasto alla tratta di persone e al traffico di migranti, nonché un involontario assist alle organizzazioni del crimine transnazionale. Questa armonizzazione deve essere raggiunta prima di tutto sul piano della conoscenza dei fenomeni. Un primo elemento può essere colto nella consapevolezza che, al di là di quote minoritarie e di casi eccezionali, quasi tutti gli immigrati clandestini sono anche persone trafficate, oggetto di lucro per le organizzazioni, più o meno organizzate, di traffico di migranti. Inoltre, di frequente il clandestino è anche vittima di tratta di persone, contestualmente o successivamente allo spostamento migratorio, vertendosi nelle diverse manifestazioni di sfruttamento e asservimento a cui si è fatto ampio riferimento. Occorre, in sostanza, sgomberare prima di tutto il campo dal travisamento di fondo secondo il quale il migrante irregolare sia un criminale, reale o potenziale. Ma ciò non deve avvenire solo a mezzo di effimere dichiarazioni di principio, bensì con una legislazione che sia improntata ad una visione razionale ed efficiente. Molto più spesso egli è la vittima di gravi reati ed è la merce scambiata o manipolata per il raggiungimento di elevati profitti da parte delle reti criminali. Dal piano conoscitivo queste semplici considerazioni dovrebbero divenire patrimonio comune della realtà normativa vigente. Le disposizioni incriminatici degli artt. 13 e 14 del d.lgs. 286/1998, così come sono state in precedenza descritte, con le loro contraddizioni e i loro paradossi, si pongono, ad avviso di chi scrive, anche in contrasto con la normativa sopranazionale e segnatamente con i due Protocolli Addizionali alla Convenzione di Palermo, in tema 167 di tratta di persone e di traffico di migranti, che impediscono agli Stati di criminalizzare la vittima di tratta e/o il migrante irregolare. Peraltro, forme così penetranti e generalizzate di repressione penale dei migranti irregolari sembrano entrare in conflitto anche con lo spirito e le norme della Convenzione sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, adottata dall’Assemblea Generale dell’Onu il 18 dicembre 19901. Appare, poi, ancora più lampante il contrasto tra queste previsioni repressive, che spingono ancora di più il migrante alla clandestinità e indirettamente agevolano le forme di sfruttamento, e altre (per tutti valga l’art. 18 d.lgs. 286/1998) che mirano, invece, a far emergere la vittima con il suo patrimonio di conoscenze e di diritti. L’impressione che si rischia di cogliere è che lo stesso legislatore sia affetto dalla confusione che anima il corpo sociale quando viene chiamato a distinguere, con esiti spesso infruttuosi, tra migrazione regolare, irregolare, fenomeni criminali di sfruttamento, nelle forme variegate in cui la costante è data dal fatto che il migrante è sempre una vittima estremamente vulnerabile. Ma l’effetto ancora più nefasto delle contraddizioni legislative, se l’ottica principale è quella del tutela dei diritti delle persone migranti, la si riscontra nel messaggio distorto che perviene a coloro che in prima persona devono operare per il contrasto alla tratta e al traffico e che, quindi, da un lato dovrebbero cercare di identificare le vittime di reati gravi, compito estremamente dif1 Le esigenze di contrasto dell’immigrazione illegale ha determinato in Europa l’adozione di misure fortemente repressive verso l’ingresso e la permanenza in condizioni di irregolarità, tendenza che comporta il costante aumento del numero di immigrati irregolari, trattenuti nei centri di detenzione amministrativa, e quindi in strutture detentive vere e proprie, sottoposti poi a procedure di allontanamento forzato sempre più rapide. La Convenzione Onu del 1990 contiene disposizioni particolarmente significative proprio con specifico riferimento ai lavoratori migranti irregolari privati della loro libertà personale, con previsioni che non trovano ancora riscontro nelle direttive comunitarie recenti. Secondo l’articolo 17 della Convenzione: “I lavoratori emigranti e i membri delle loro famiglie che siano privati della loro libertà dovranno essere trattati con umanità e con rispetto della persona umana e della loro identità (...)” ed ancora, in base alla stessa norma, “qualsiasi lavoratore emigrante o membro della sua famiglia che sia detenuto in uno stato di transito o in uno stato di arrivo per violazione delle norme relative all’emigrazione deve essere tenuto, per quanto è possibile, separato da persone condannate o da persone detenute in attesa di giudizio. Durante qualsiasi periodo di reclusione in esecuzione di una sentenza emessa da un tribunale, lo scopo essenziale del trattamento di un lavoratore emigrante o di un membro della sua famiglia deve essere il suo emendamento e la sua riabilitazione sociale.” In realtà, questa prospettiva è ribaltata nelle legislazioni dei principali paesi di immigrazione, dove le misure detentive costituiscono la prassi quotidiana di contrasto nei confronti dei cd. “clandestini”, e dove qualunque ipotesi di detenzione dell’immigrato irregolare, pure nel caso di assoluzione per non avere commesso alcun fatto penalmente rilevante, prelude inevitabilmente all’accompagnamento forzato in frontiera. Sul punto si veda F. Vassallo Paleologo, L’immigrazione e il mondo del lavoro, tra normativa e tutela giurisdizionale dei diritti civili dell’immigrato, relazione tenutasi al corso del Consiglio Superiore della Magistratura, Roma 21-23 settembre 2005. 168 ficoltoso di cui si é ampiamente detto in precedenza, ma contestualmente le dovrebbero perseguire, arrestare, condurre nei centri di trattenimento, espellere. Tra l’altro, mentre i diversi stadi investigativi dei reati di tratta di persone e favoreggiamento dell’ingresso illegale nel territorio dello Stato sono complessi ed estenuanti, l’accertamento dei reati dell’immigrato irregolare è molto semplice, quasi solo documentale, e pertanto le opzioni di scelta delle forze di polizia possono essere condizionate dalla certezza di un risultato facile a discapito del dubbio di un risultato faticosamente raggiungibile solo all’esito di complesse indagini, da cui far scaturire procedimenti penali e processi che si concludano con condanne. In sostanza, appare ormai improcrastinabile e prioritario promuovere una piena conoscenza della complessa realtà dei fenomeni migratori in capo ai soggetti incaricati più specificamente della repressione dei reati (forze dell’ordine e magistratura). In un contesto simile sarebbe più facile calibrare senza anomalie il legittimo intervento statuale che mira a contrastare anche l’immigrazione illegale, senza che questo si risolva – come accade oggi – in una ricorrente contraddizione rispetto alle strategie di contrasto delle organizzazioni criminali, che nelle migrazioni colgono un’enorme ricchezza da capitalizzare. D’altronde, le sole punte di eccellenza rappresentate dagli strumenti normativi sopranazionali e dagli organismi di avanguardia nel settore rischierebbero di essere incapaci di incidere significativamente nelle azioni di contrasto. È essenziale ribadire che il risultato non può essere perseguito semplicemente con una riforma (pur necessaria) della legge 189/20022. Un segnale importante di un nuovo corso sembra provenire dall’iniziativa del Consiglio dei ministri che in data 24 aprile 2007 ha approvato il disegno di legge che delega al governo il riesame della disciplina dell’immigrazione e delle norme sulla condizione dello straniero3. In breve, in questo testo, viene individuato quale criterio cardine dell’intervento riformatore una profonda 2 Si veda l’audizione del ministro dell’Interno alla Camera dei Deputati, Commissione Affari Costituzionali, in data 20 giugno 2006, in cui, preannunciando riforme della disciplina vigente in tema di immigrazione, si afferma esplicitamente: “(…) noi dobbiamo combattere l’immigrazione clandestina perché certo c’è un limite alla capacità di assorbimento dei nostri paesi, ma in primo luogo perché è organizzata da dei delinquenti che in realtà sfruttano le aspettative di brave persone (…).” Tuttavia, a questi concetti condivisibili non sembra corrispondere il documento illustrativo delle linee di riforma del testo unico presentato al Senato della Repubblica, Commissione Affari Costituzionali nel settembre 2006, un adeguato intervento riformatore degli illeciti penali di cui agli artt. 13 e 14 del d.lgs. 286/1998, che tante critiche hanno ricevuto da esperti ed operatori del settore. Né una risposta adeguata viene offerta dal disegno di legge ad iniziativa parlamentare n. 1065, primo firmatario sen. Livi Bacci, presentato al Senato della Repubblica il 5 ottobre 2006. 3 Il testo del disegno di legge è reperibile sul seguente sito web: http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/ddl_amato_ferrero/ddl_amato_ferrero.pdf 169 modifica dei meccanismi di regolazione tra domanda e offerta di lavoro, con radicale cambiamento dei sistemi di ingresso nel territorio nazionale. Per quanto di più stretto interesse per il nostro argomento, si precisa la ferma intenzione di garantire l’accesso ai diritti previsti dalla normativa vigente alle vittime di riduzione in schiavitù o servitù, di tratta, di violenza o sfruttamento. È da segnalare, inoltre, che il progetto di legge delega mira anche a rendere effettive le espulsioni, anche introducendo programmi specifici di rimpatrio volontario e assistito, dei quali potranno usufruire gli immigrati che collaborino alla propria identificazione, in tal modo beneficiando di una riduzione relativa ai tempi di divieto per un eventuale reingresso in Italia. Questo nuovo sistema di espulsioni, secondo le previsioni del Ministero dell’Interno, dovrebbe far diminuire il numero di soggetti destinati ai centri di permanenza temporanea e assistita, agevolando un progressivo svuotamento di tali strutture che dovrebbero essere utilizzate esclusivamente per quanti si sottraggano all’identificazione e che si trovino nella fase di transito tra l’espulsione deliberata e la sua attuazione. Si prevede che gli stranieri in condizioni di bisogno debbano essere accolti in strutture di accoglienza vera e propria, dove la permanenza avrà durata limitata. Ma soprattutto, è essenziale il fatto che si deleghi il governo ad introdurre norme tese “a favorire una adeguata tutela delle vittime di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, delle vittime di tratta, delle vittime di violenza o grave sfruttamento e garantire il loro accesso ai diritti previsti dalla normativa vigente” attraverso i seguenti percorsi: “1) la revisione della disciplina delle espulsioni che tenga conto della necessità di sospendere il provvedimento di espulsione nei casi in cui vi siano fondati elementi per ritenere che lo straniero sia stato assoggettato ad una situazione di violenza e grave sfruttamento nel territorio nazionale; 2) la revisione della disciplina e della procedura di ricongiungimento familiare che consenta l’adozione di procedure accelerate e la semplificazione dei requisiti quando i familiari dello straniero che sia stato vittima di tratta o di grave sfruttamento corrano rischi per la propria incolumità in ragione dell’assoggettamento alla situazione di violenza o grave sfruttamento di cui lo straniero stesso è vittima; 3) l’esclusione della punibilità per i reati e le infrazioni relative alla condizione di soggiorno illegale, per mancata ottemperanza all’ordine di espulsione, commessi dallo straniero in condizioni di assoggettamento alla violenza e al grave sfruttamento.” In sostanza, il legislatore delegato sarà depositario di un potere molto ampio, ove si consideri che il progetto di legge delega reca settori di intervento che possono aprire scenari di ampio respiro, come nel caso in cui si delega il governo a “coordinare, sul piano formale e sostanziale, le disposizioni emana170 te in attuazione della presente delega con le altre disposizioni del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e con la legislazione nazionale e comunitaria vigente in materia.” Come sopra anticipato, l’intervento di riforma del legislatore è auspicabile per diverse ragioni, ma occorre riconoscere che la vera scommessa su cui investire è quella culturale di un’azione sinergica di diversi attori su diversi piani di intervento (formazione multidisciplinare separata e congiunta, informazione diffusa sui fenomeni, maggiore responsabilizzazione e coinvolgimento degli enti locali nei programmi di assistenza, previsione di specifiche norme processuali, strumenti di sempre maggiore cooperazione, armonizzazione della realtà giuridica internazionale). D’altronde, in questo come in altri settori, la consapevolezza delle coscienze rappresenta il vero traguardo a cui mirare. Ogni operatore (e prima ancora il legislatore) deve muoversi sapendo che il fulcro attorno al quale far ruotare le azioni di contrasto è costituito dal riconoscimento del “diritto ad avere diritti” in capo ad ogni persona, indipendentemente dalla sua cittadinanza o dalla sua appartenenza a specifiche comunità. 171 172 Appendici 1. Strumenti normativi internazionali, europei ed italiani Normativa internazionale ed europea Accordo internazionale inteso a garantire una protezione efficace contro il traffico criminale conosciuto sotto il nome di tratta delle bianche, 18 maggio 1904. Convenzione internazionale per la repressione della tratta delle bianche, 4 maggio 1910. Convenzione internazionale contro la schiavitù, 25 settembre 1926. Convenzione Oil contro il lavoro forzato e la schiavitù n. 29 del 1930. Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, 10 dicembre 1948. Convenzione per la soppressione della tratta di esseri umani e dello sfruttamento della prostituzione, 2 dicembre 1949. Accordo addizionale concernente l’abolizione della schiavitù, della tratta degli schiavi e delle istituzioni e pratiche analoghe alla schiavitù, 7 settembre 1956. Convenzione Onu sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna, 18 dicembre 1979. Risoluzione del Parlamento europeo dell’11 giugno 1986 sulla violenza nelle donne. Risoluzione del Parlamento europeo del 17 dicembre 1993 sulla pornografia. Risoluzione del Parlamento europeo del 6 maggio 1994 sulle violazioni della libertà e dei diritti fondamentali delle donne. Risoluzione del Parlamento europeo del 18 gennaio 1996 sulla tratta degli esseri umani. Azione comune del 24 febbraio 1997 adottata sulla base dell’articolo K.3 del trattato sull’Unione europea per la lotta contro la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento sessuale dei bambini. Raccomandazione numero 1325 dell’Assemblea parlamentale del Consiglio d’Europa del 23 aprile 1997. Conferenza ministeriale sulla cooperazione nella lotta contro la tratta degli esseri umani e in particolare delle donne ai fini di sfruttamento sessuale, “Linee guida europee per misure efficaci di prevenzione e lotta contro la tratta delle donne a scopo di sfruttamento sessuale”, L’Aja, 26 aprile 1997. Risoluzione del Parlamento europeo del 16 settembre 1997 sulla necessità di organizzare una campagna a livello dell’Unione europea per la totale intransigenza nei confronti della violenza contro le donne. Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata in occasione del Consiglio europeo di Nizza del 7 dicembre 2000 (articolo 5). Protocollo Onu per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di donne e bambini (Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, Palermo 2000). 173 Protocollo contro il contrabbando di migranti via terra, mare e aria (Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, Palermo 2000). Decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea del 19 luglio 2002 relativa alla lotta contro la tratta degli esseri umani. Commissione europea, Dichiarazione di Bruxelles sulla prevenzione e la lotta alla tratta di esseri umani, 2002. Direttiva del Consiglio dell’Unione europea del 28 novembre 2002 volta a definire il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali. Decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea del 27 novembre 2002 relativa al rafforzamento del quadro penale per la repressione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali. Risoluzione del Consiglio del 20 ottobre 2003 sulle iniziative contro la tratta di esseri umani, in particolare donne. Direttiva del Consiglio dell’Unione europea del 29 aprile 2004 riguardante il titolo di soggiorno da rilasciare ai cittadini di paesi terzi vittime della tratta di esseri umani coinvolti in un’azione di favoreggiamento dell’immigrazione illegale che cooperino con le autorità competenti. Consiglio d’Europa, Convenzione su Azioni Contro la Tratta di esseri Umani, 2005. Consiglio dell’Unione europea, Risoluzione del 20 ottobre 2003 su iniziative sulla lotta alla tratta di esseri umani, in particolare donne. Consiglio dell’Unione europea, Piano d’Azione dell’Ue sulle migliori prassi, standard e procedure per la lotta e la prevenzione della tratta di esseri umani, 2005. Commissione europea, Comunicazione da parte della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio – Lotta alla tratta di esseri umani: un approccio integrato e proposte per un piano d’azione. Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Protocollo per Prevenire, Reprimere e Punire la Tratta di Persone, particolarmente Donne e Minori, collegata alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla Criminalità Organizzata Transnazionale, 2005. Normativa italiana Legge 20 febbraio 1958, n. 75: in tema di prostituzione. Legge 15 febbraio 1996, n. 66: norme contro la violenza sessuale. Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286: testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero e modifiche apportate dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo. Legge 3 agosto 1998, n. 269: norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù. D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394: regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizione concernente la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, altre modifiche apportate dal d.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334. Decreto interministeriale del 23 novembre 1999: indicazione dei criteri e modalità preordinati alla selezione dei programmi di assistenza e di integrazione sociale dei disciplinati 174 dell’articolo 18 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 18 dicembre 1999: istituzione in ciascuna provincia di un Consiglio territoriale per l’immigrazione, ai sensi dell’articolo 57 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394. Legge 11 agosto 2003, n. 228: misure contro la tratta di persone. Decreto legge 14 settembre 2004, n. 241, convertito in legge 12 novembre 2004, n. 271, recanti modifiche varie al d.lgs. 286/1998. Legge 22 aprile 2005, n. 69, in tema di ratifica delle disposizioni sul mandato d’arresto europeo e sulle procedura di consegna tra gli Stati membri. Legge 14 marzo 2005, n. 41, per l’attuazione della decisione del Consiglio dell’Unione europea che istituisce l’Eurojust per rafforzare la lotta contro le forme gravi di criminalità. Legge 6 febbraio 2006, n. 38, in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo internet. Legge 16 marzo 2006, n. 146, “ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 e il 31 maggio 2001”. Decreto legge 28 dicembre 2006, n. 300, in tema di accesso ai programmi di cui all’art. 18 d.lgs. 286/98 anche ai cittadini comunitari. Decreto legge 29 Dicembre 2007, n. 249, “misure urgenti in materia di espulsioni e di allontanamenti per terrorismo e per motivi imperativi di pubblica sicurezza”. Circolare ministeriale del 25 ottobre 1999: permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale. Circolare ministeriale del 23 dicembre 1999, che regola l’applicazione del Regolamento di attuazione del decreto legislativo 284/98 per gli articoli che riguardano il Ministero dell’Interno. Circolare ministeriale del 17 aprile 2000: permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale articolo 18 decreto legislativo 284 /98. Circolare ministeriale del 22 maggio: permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale articolo 18 decreto legislativo 284 /98. Circolare ministeriale del 24 luglio 2000, “Numero Verde” a disposizione delle vittime della tratta di donne e minori al fine dello sfruttamento sessuale. Individuazione di un referente per i responsabili del progetto e le associazioni. Circolare ministeriale del 31 luglio 2000, attivazione del “Numero Verde” a disposizione delle vittime di tratta di donne e minori al fine dello sfruttamento sessuale. Circolare ministeriale del 4 agosto 2000: articolo 18 sociale articolo 18 decreto legislativo 25 luglio 1998, numero 286 e articolo 27 del decreto del Presidente della Repubblica del 31 agosto 1999, numero 394. Circolare ministeriale del 2 gennaio 2006 sulle iniziative in materia di tratta degli esseri umani. 175 2. Manuali e pubblicazioni utili sulla lotta alla tratta e la tutela delle vittime Anti-Slavery International et al., Protocol for identification and assistance to trafficked persons and Training kit, Londra, 2005. Commissione europea, Tratta degli esseri umani. Rapporto del Gruppo di esperti nominato dalla Commissione europea, Il Centro Stampa, Roma, 2006. Ecpat, Combating the trafficking in children for sexual purposes. A training guide, Amsterdam, 2006. Europol, Rapporto sulla valutazione del reato: tratta di esseri umani nell’Unione europea, 2005. International Centre for Migration Policy Development, Anti-trafficking training for judges and prosecutors, Icmpd, Vienna, 2006. –, Anti-trafficking training for frontline law enforcement officers, Icmpd, Vienna, 2006. International Organization for Migration, Una Guida per i membri delle forze dell’ordine, dell’autorità giudiziaria e di organizzazioni internazionali/Ngo sulle migliori prassi nella lotta alla tratta di persone (Manuale per lo studente e il formatore), Bruxelles, 2004. –, The Iom handbook on direct assistance for victims of trafficking, Ginevra, 2007. –, Aspetti legali del trafficking a fini di lavoro forzato in Europa. Programma d’azione speciale per combattere il lavoro forzato, Ginevra, 2006. –, Costruire un partenariato regionale per la lotta alla tratta di persone nel contesto dell’allargamento dell’Unione. Rapporto di Conferenza. Oim, Varsavia, 2004. –, Raccolta dati e ricerca sulla tratta di esseri umani: una indagine globale, Oim Ginevra, 2005. –, Secondo rapporto annuale sulle vittime di tratta nell’Europa Sud-orientale. Oim Ginevra, 2005. –, Gli aspetti di salute mentale nella tratta di esseri umani. Manuale di formazione, Budapest. 2004. International Labour Organisation, Legal aspect of trafficking for forced labour purposes in Europe, Ginevra, 2006. –, Trafficking for forced labour: how to monitor the recruitment of migrant workers, Ginevra 2006. –, A global alliance against forced labour, Ginevra, 2005. –, Human trafficking and forced labour exploitation. Guidance for legislation and law enforcement, Ginevra, 2005. Interpol, Manuale per investigatori anti-tratta. Gruppo di lavoro Interpol sulla tratta di donne e minori per sfruttamento sessuale, Lione, 2002. Unicef, Guidelines for Protection of the Rights of Children Victims of Trafficking in South-eastern Europe, Ginevra, 2003. 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