Abuso del diritto 1. Abuso del diritto: definizione – 2. Criteri di valutazione dell’abusività – 3. Tre tesi sull’abuso 1. Abuso del diritto: definizione.. - Gli interpreti chiamano abuso del diritto quell’esercizio di un potere (legalmente o convenzionalmente) attribuito ad un soggetto1, formalmente rientrante nello schema della fattispecie, ma sostanzialmente deviante dalla sua funzione.2 La figura viene elaborata in Francia ad opera della dottrina (pur in difetto di una disposizione esplicita). Successivamente viene sviluppata – in alcune ipotesi anche sul piano legislativo – negli altri stati continentali (se si escludono quelli anglofoni3; ciò in dipendenza, presumibilmente, della scarsa dimestichezza dei giuristi di Common law con le clausole generali)4. La dottrina dell’abuso del diritto trova fortuna anche presso di noi. Di essa vengono individuate tre fasi di sviluppo 5: a) inizi ‘900, come reazione alla concezione individualistica dei diritti soggettivi propria del secolo precedente6; b) negli anni ’60 del XX sec, L’esistenza di un potere attribuito è ciò che differenzia l’abuso dal mero eccesso. In tale seconda ipotesi infatti il comportamento è sanzionato in ragione dell’esercizio di un potere che non si ha. In argomento si vedano, rispettivamente, G. Rotondi, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1923, p. 105 ss; e F. Carnelutti, Eccesso di potere, in Riv. dir. proc., 1924, p.33 ss nonché, di recente, R. T. Bonanzinga, Abuso del diritto e rimedi esperibili, in www.Comparazione&diritto civile.it, 2010, p.5 e nt. 5. Per un approfondimento in tema di esercizio del diritto e distinzione tra diritti in cui il contenuto si risolve in esercizio e diritti nei quali esercizio e contenuto divergono si veda R. Sacco, Esercizio del diritto, Dig. disc. priv., Sez. civ., Agg, 2012, p. 497 ss, 2 Tra i molti C.M. Bianca, Istituzioni di diritto privato, Milano, 2014, p. 60; P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo - comunitario delle fonti, II, Napoli, 2006, pp. 643 – 645; 902 - 906; U. Natoli, Note preliminari per una teoria dell’abuso del diritto, in Riv. trim . dir. proc. civ. 1958, p. 31; A. Gentili, L’abuso del diritto come argomento, in Riv. dir. civ. 2012, p. 302, secondo il quale tale definizione appare la più appagante tenendo conto delle formulazioni legali e dottorali della figura in esame (su di un piano comparatistico cfr. o. l. c. pp.299 – 302 in relazione alla codificazione dell’abuso in Germania (§226 BGB) Portogallo (art. 334 c.c.) Spagna (art. 22 c.c.) Olanda (art. 13 c.c.) e Svizzera (art 2 c.c.) nonché riguardo alle disposizioni sovrannazionali che la menzionano (art 17 CEDU; art 54 Carta di Nizza) e alla formulazione – dottrinale – francese ed italiana). Ma su tale aspetto si veda infra § 4. 3 Così F. Ranieri, Il principio di buona fede, in Manuale di diritto privato europeo, II, a cura di C. Castronovo e S.Mazzamuto, Milano, 2007, p. 515; e F. Denozza, Norme, principi e clausole generali nel diritto commerciale: un’analisi funzionale, in Riv. crit. dir. priv., 2011, p. 379 (con riguardo alle clausole generali); L. Panzani, Abuso del diritto. Profili di diritto comparato con particolare riferimento alla disciplina dell’insolvenza transfrontaliera, in Giust. civ., 2014, p. 712; A. Las Casas, Tratti essenziali del modello dell’abuso del diritto nei sistemi giuridici europei e nell’ordinamento comunitario, in www.Comparazione&dirittocivile.it, 2013, p.2.; F. Piraino, Il divieto di abuso del diritto, in Eur. dir. priv., 2013, p. 79 (questi ultimi con riferimento specifico al divieto di abuso del diritto). Va aggiunto come nella tradizione di Common law manchi una costruzione del diritto soggettivo analoga ai sistemi civilistici continentali. E mancando un diritto soggettivo ne deriva l’impossibilità di un suo abuso. Sul punto si veda L. Panzani, o. l. c., p. 713; nonché, in relazione al modo di argomentare dei giuristi di Common law S. Patti, Ragionevolezza e clausole generali, Milano, 2013, p. 23. 4 In particolare il modello di Common law è sembrato impermeabile alla nozione di buona fede. Spiega il fenomeno alla luce del principio di sanctity of contract proprio del modello angloamericano A. De Vita, Buona fede e common law (attrazione non fatale nella storia del contratto), in Riv. dir. civ., 2002, p. 264. Per un’apertura si veda G. Gilmore, La morte del contratto, Milano, 1989, trad. it. di A. Fusaro, p. 52 (in relazione alla posizione di F. Kessler ed Edith Fine, Culpa in contrahendo, Bargaining in Good Faith and Freedom of Contract: a Comparative study, in Harv. Law. Rev., 1964, p. 401 ss, riguardo la concepibilità di un’obbligazione di fonte pre-contrattuale generata dalla buona fede); nonché la giurisprudenza citata da E. McKendrick, La buona fede tra common law e diritto europeo, in Manuale di diritto privato europeo, cit., p. 723. 5 Si sta facendo riferimento all’opera di G. Pino, L’esercizio del diritto soggettivo e i suoi limiti. Note a margine della dottrina dell’abuso del diritto, in Ragion pratica, 2005, p. 163. 6 Sul punto si vedano le pagine di F. Losurdo, Il divieto di abuso del diritto nell’ordinamento europeo, Torino, 2011; nonché P. Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, p. 205 ss. 1 in dipendenza di un approccio orientato alla scoperta delle clausole generali e delle norme costituzionali7; c) sul finire degli anni ’90, quale indice di una metodologia esplicitamente antiformalistica8. Si tratta ora di definire di cosa consti tale abuso. Affermare che di un diritto si possa anche abusare nulla dice riguardo al come se ne possa abusare, nè in cosa consista questo abuso. L’abuso, infatti, non è che un uso; formalmente legittimo, che in date circostanze, diviene illegittimo9. La figura ha fortune alterne. Taluno la ritiene ‹‹eversiva del positivismo››10. Ciò per la ragione che segue. La figura (dell’abuso) è eccentrica rispetto ai modelli di strutture normative con cui l’interprete è abituato a lavorare. Il giurista positivo, quando si trova ad operare con regole,11 ha dinanzi a sé una disposizione, che una volta interpretata e applicata al caso concreto, produce determinati effetti. L’abuso del diritto non dice nulla sul ‹‹se x›› (mancando una disposizione regolante la fattispecie, o, dove vi sia, essendo quest’ultima particolarmente indeterminata) né tanto meno sull’ ‹‹allora y›› (difettando la predeterminazione degli effetti)12. Da ciò è facile dedurre come un “uso spericolato”13 della dottrina dell’abuso possa condurre ad una dissoluzione del sistema giuridico; l’interprete infatti, potrebbe usare tale formula per disapplicare disposizioni, correggerne il loro contenuto, o far discendere da una loro applicazione le conseguenze che maggiormente lo aggradano, o che, secondo il suo personale sentimento di giustizia, meglio si adattino al caso concreto. Basti qui il riferimento alla nota prolusione macerte di S. Rodotà, Ideologie e tecniche di riforma del diritto civile, in Riv. dir. comm., 1967, p. 83 ss. 8 Sintomo della metodologia antiformalistica è rappresentato dalla c.d. prospettiva “rimediale”. In materia si rinvia a S. Mazzamuto, Rimedi specifici e responsabilità, Perugia, 2011; nonché, da ultimo, L. Nivarra, Rimedi: un nuovo ordine civilistico?, in Eur. dir. priv., 2015, p. 583 ss. 9 Secondo A. Gentili, o. u. c., p. 297: ‹‹L’abuso non è altro che un uso. E nessuno potrebbe dire a priori che uso: qualsiasi uso nelle circostanze appropriate può esser detto abuso. Ė chiamato abuso, e non uso, in quanto ritenuto illegittimo. Illegittimo però tutto considerato. Perché a prima vista non è che un uso formalmente legittimo, chè se non lo fosse lo chiameremmo abuso ma illecito››. 10 A Gentili, o. u. c., p. 321. Tale affermazione merita una precisazione, senza la quale appare forse difficoltoso comprendere il perché di una dottrina dell’abuso. Per il gius-postivista l’ordinamento è un ordo ordinatus; ogni caso ha la sua regola; il diritto si riduce a legge (intesa come insieme di regole); l’interprete non ha spazi discrezionali, ma opera meccanicamente riconducendo il caso alla disposizione (che lui chiama norma); questa operazione darà vita ad effetti predeterminati. Il dispositivo dell’abuso invece concede all’interprete, come si è detto su nel testo, un potere notevole. Questi infatti potrà, ove lo consideri congruo, disapplicare una disposizione o modificare le conseguenze derivanti dalla riconduzione – secondo il metodo “sussuntivo” - di un fatto ad una disposizione. Va aggiunto come spazio per una dottrina dell’abuso vi sia solo ove si distinguano entro un ordinamento le regole ed i principi, sottesi a queste ultime. L’abuso opera come strumento atto a reprimere su un piano sostanziale (o sarebbe meglio dire funzionale, in forza della ratio sottesa alla regola) ciò che sarebbe permesso su di un piano formale (o sarebbe meglio dire strutturale, in forza della fattispecie descritta dalla regola). 11 Ma non – sempre - anche con principi, i quali, se si segue la distinzione prospettata da Robert Alexy, o. u. c., p. 101 ss; non sono suscettibili di applicazione mediante il metodo deduttivo proprio del sillogismo giudiziale, ma mediante la logica del bilanciamento. Ma sulla modalità di applicazione dei principi vedi infra nt. 31. 12 A. Gentili definisce l’abuso del diritto ‹‹connotazione denotativa›› (L’abuso del diritto come argomento, cit., p.298). In semantica si distingue tra denotazione e connotazione. La prima serve ad indicare, la seconda a valutare. Gentili fa l’esempio del termine ‹‹cane››: esso è denotativo se riferito ad un quadrupede, valutativo se riferito ad un cattivo cantante. Vi sono ipotesi in cui, però, la seconda, se la valutazione che implica gode di un’ampia condivisione, può essere utilizzata per indicare. Spostiamoci ora dal piano semantico a quello giuridico. In diritto denotare indica un fatto. Connotare il modo in cui la legge tratta quel fatto. L’abuso del diritto, in quanto connotazione usata per denotare, non ci indica alcun fatto, ma manifesta una sua riprovazione. 13 Definisce la dottrina dell’abuso del diritto come ‹‹meritoria›› e ‹‹sconclusionata›› A. Gentili, A proposito de “Il diritto soggettivo”, in Riv. dir. civ., 2004, p. 353: meritoria in quanto ha consentito a) di mitigare la forza dei diritti, quando essi avevano ‹‹troppa forza››; b) ‹‹di correggere la funzione di prerogative soggettive›› non adeguatamente contemperate dalle norme legali; sconclusionata, poiché incapace di fornire una giustificazione logica delle ragioni del suo utilizzo. Per un’indagine storica F. Losurdo, Il divieto,cit., p. 22 ss. 7 2. I criteri di valutazione dell’abusività - Da ciò la necessità di rinvenire, entro o al di fuori del sistema, un criterio cui ancorare il meccanismo dell’abuso. La dottrina ne individua quattro14. Il criterio soggettivo; il criterio economico; il criterio morale (nelle sue varie articolazioni: morale soggettiva, morale ‹‹sociale››, morale ‹‹endo-sistematica››); il criterio teleologico (nelle sue varie articolazioni: deviazione dallo scopo tipico per cui il potere è attribuito; contrasto della norma con il principio). Alla predisposizione di un criterio cui ancorare il divieto di abuso sono corrisposte delle tesi: A) L’abuso del diritto è un principio B) L’abuso del diritto è una forma di illecito atipico C) L’abuso del diritto è un argomento Discuteremo dapprima i quattro criteri, e successivamente le tre tesi. i)Il criterio soggettivistico presenta due criticità. Il primo di ordine storico; il secondo riguardante il profilo dell’utilità. Quanto al primo, che l’atto emulativo in materia proprietaria configuri l’archetipo dell’abuso del diritto non trova d’accordo la dottrina. Anzi preme qui riferire come chi maggiormente si è occupato del tema si sia premurato di criticare il collegamento tra il primo (l’atto emulativo) ed il secondo (l’abuso del diritto). Secondo tale autorevole opinione15 si tratterebbe, infatti, dell’ennesimo caso di rilettura di figure antiche con gli occhiali della modernità. Quanto al profilo dell’utilità, una tesi che vuole l’abuso solo ove causato dolosamente ne restringerebbe eccessivamente l’ambito di operatività (rendendo lo strumento pressoché inservibile16, o tramutandolo in un duplicato degli illeciti di dolo). Viceversa, ove il dolo venisse presunto, ritenendolo implicito nella mancanza di beneficio per l’autore dell’atto che non sia altro che il nocumento del terzo, si configurerebbe, da un lato, un indebita adulterazione del campo semantico della disposizione, mentre dall’altro non si eliderebbe la difficoltà di provare che quell’atto (o quel titolare, nel compiere l’atto) non avesse in effetti null’altro interesse che quello di pregiudicare un terzo. ii)Il criterio economico17 non va esente da critiche. La motivazione è la seguente. Definire una condotta come alterante il rapporto costi-benefici dipende dalla scelta delle voci che l’interprete sceglie di utilizzare per effettuare il relativo calcolo. Si tenga conto poi che potrebbe essere proprio la dottrina dell’abuso la causa, e non il rimedio, di tale alterazione.18 iii)Il criterio morale va tripartito19. Si è solito distinguere una morale soggettiva (dell’interprete); una morale ‹‹sociale›› (della società, che si identifica con il costume); una morale “intra – sistematica”. Quale sia il rischio derivante dall’ancorare il giudizio di abusività alla morale del singolo interprete pare evidente: la totale neutralizzazione del sistema giuridico. Accedendo a tale ricostruzione l’interprete, adoperando l’abuso, potrebbe disegnarsi le fattispecie che vuole e G. Pino, L’esercizio del diritto, cit., pp. 9 – 17. Si sta facendo riferimento all’opera di Vittorio Scialoja, il quale, occupandosi del tema in diversi scritti, ha manifestato le sue critiche relativamente alla correlazione tra dottrina dell’ aemulatio romana e la dottrina moderna dell’abuso del diritto. Sul punto si veda di recente M. Brutti, Vittorio Scialoja, Emilio Betti. Due visioni del diritto civile, Torino, 2013, pp. 22 – 29; A. Las Casas, o. c., p. 4. 16 Sul punto si vedano G. Pino, o. u. c., p. 10; e S. Patti, Abuso del diritto, in Dig. disc. priv., Sez. civ., I, Torino, 1986, pp. 5; 8. 17 G. Pino, o. u. c., pp. 11-12. 18 Così P.G. Monateri, Abuso del diritto e simmetria della proprietà (Un saggio di comparatives law and economics), in Diritto Privato, 1997, p. 116; Id., Diritto soggettivo, cit., 183 (dove il giudizio critico sull’abuso appare più attenuato). 19 Per approfondimenti si veda G. Pino, o. u. c., pp. 12 – 15; nonché R. Guastini, La sintassi del diritto2, Torino, 2013, pp. 19-20, nt. 1. 14 15 individuare gli effetti che meglio lo aggradano. L’ordinamento positivo non avrebbe più senso di esistere.20 Il criterio della morale comune non va esente da critiche. Il riferimento alla ‹‹coscienza sociale›› praticata entro una determinata collettività non presenta particolari indici di sicurezza. Inoltre l’abuso del diritto, ove in esso si ravvisi una clausola generale21, è privo di disposizione, da cui indurre una qualche bussola per orientarsi dentro il labirinto di valori che arredano le società pluraliste (come quella italiana attuale)22. Né, ove anche si ritenga congruo il prezzo che la certezza deve pagare alla giustizia, è detto che il giudice che si serva dell’abuso abbia capacità e conoscenze tali da rilevare quali siano i valori costituenti la morale comune. Il tutto si risolverebbe, dunque, in un raffinato maquillage giudiziale in forza del quale, sotto le vesti di un’ipotetica morale comune, la decisione della controversia verrebbe devoluta alla morale del singolo interprete. Quanto alla terza declinazione del criterio morale, può sinteticamente obiettarsi che un ordinamento complesso costituito da una pluralità di fonti di diversa origine (internazionale, europea, interna, fattuale) abbia una sua morale interna non pare convincente. In primis perché chi si muove su tale sentiero pare ancora legato ad una visione dell’ordinamento giuridico come fosse una persona, e che in ragione di ciò esso possa avere una propria morale. In secondo luogo, affermare che trattati e consuetudini internazionali, sentenze delle corti internazionali, regolamenti, direttive, decisioni, pareri (vincolanti e non) di origine europea, costituzione, leggi, regolamenti, circolari amministrative, consuetudini, figlie di momenti storici e contesti sociopolitici (e cronologici) diversissimi siano animati dal medesimo spirito sembra più frutto di una ricostruzione compiuta a posteriori dall’interprete che un dato di fatto che quest’ultimo rileva e constata.23 Tale conclusione in G. Pino, L’esercizio, cit., p.13 il quale discorre in proposito di ‹‹convenzione che si auto annulla››. Tale affermazione non si pone in contraddizione con il ruolo che nel testo si è attribuito all’interprete nell’edificazione del sistema giuridico. Questi infatti non opera isolatamente, ma in un contesto. Permeato da una tradizione lato sensu politico-sociale e contemplante istituzioni e regole (linguistiche e non; tecniche e non). Un interprete che non tenesse conto di un tale contesto (ad es. offrendo un’interpretazione che obliterasse gli usi normali e tecnici di un dato termine, o che proponesse letture di una disposizione manifestamente in contrasto con i testi costituzionali o sovrannazionali) al fine di affermare una propria morale soggettiva si porrebbe automaticamente al di fuori del Legal Process in cui è chiamato ad operare. In ragion di ciò può dunque affermarsi come la sua discrezionalità rimanga sempre in un certo qual modo vincolata. Per precisazioni sul tema si veda P.G. Monateri, L’interpretazione, in Pensare il diritto civile, cit., p. 89 ss. 21 Con riguardo alla tematica delle clausole generali, e alle problematiche ad essa connesse, in questo contributo solo accennate, si rinvia, per un approfondimento a V. Velluzzi, Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Milano, 2010. 22 Si legga una tale conclusione in F. Benatti, Norme aperte e limiti ai poteri del giudice, in Eur. dir. priv. 2013, p. 20. 23 Risolvere il diritto nella legge, prodotto della volontà di un Legislatore-Demiurgo è oramai nulla più che il residuo di un’ingenua ipostatizzazione (in tale ottica P.G. Monateri, L’interpretazione, cit., pp. 149-151, in partic. nt. 217), figlia di quel fenomeno che va sotto il nome di Creazionismo giuridico, ovvero quella corrente di pensiero, sintesi di giuspositivismo e realismo – continentali – che riduce il diritto a legge, l’interpretazione ad esegesi e stigmatizza il common law come eccentricità inglese, immaginando che come esiste un Dio che crea il mondo, esiste un Legislatore che crea tutto il diritto, anche ove quest’ultimo abbia chiare origini diverse (le frasi riportate sono tratte dal recente saggio di M. Barberis, Contro il creazionismo giuridico. Il precedente giudiziale fra storia e teoria, in Quaderni Fiorentini, 2015, p. 67 ss; in particolare pp.. 69 e 76). Non a caso, recente dottrina (A. Gentili, Scienza giuridica e prassi forense, in Riv. crit. dir. priv., 2010, p. 213) ha avuto modo di ribadire come una mistica volontà legislativa non solo non esista, ma non possa esistere, essendo il legislatore nulla più che ‹‹un’entità istituzionale priva di volontà psichica››. Aggiungendo come la legge non esaurisca il diritto, essendo essa nulla più che una sua fonte, neanche più esclusiva (così già L. Mengoni, Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico, in Diritto e valori, Bari, 1985, p. 25). Sul ruolo della c.d. volontà del legislatore e le sue ricadute sull’interpretazione si veda R. Sacco, L’interpretazione, in G. Alpa, A. Guarneri, P.G. Monateri, G. Pascuzzi, R. Sacco, Le fonti del diritto italiano, II. Fonti non scritte e l’ interpretazione, in Trattato di diritto civile diretto da R. Sacco, Torino, 1999, p. 191. In ordine all’influenza che una rinnovata teoria delle fonti ha avuto sull’interpretazione si veda A. Gentili, Senso e consenso. Storia, teoria e tecnica dell’interpretazione dei contratti, I, Storia e teoria, Torino, 2015, p. 111 a proposito della c.d. 20 iv)Il criterio teleologico24 ha avuto miglior fortuna. La definizione di abuso come esercizio controfunzionale lascia intendere che una funzione il diritto l’abbia, e che l’abuso la adulteri, e che l’interprete debba intervenire per ripristinare lo status quo ante l’indebita alterazione. Neanche tale orientamento sembra dissipare, però, i dubbi che la figura dell’abuso evoca. In primis ad ogni disposizione sono sottesi valori molteplici, a volte esplicitati in principi, positivizzati o meno che siano. Questi principi spesso concorrono. A seconda del principio cui l’interprete intenda fare riferimento, il diritto che quella disposizione attribuisce ad un dato soggetto avrà quello o quell’altro scopo. In secondo luogo, ove si intenda l’abuso come contrasto tra disposizione e ratio, deve precisarsi come sia l’interprete che, individuandolo, di fatto crea il contrasto, e per giustificare tale ‹‹individuazione creativa››, postula per quella determinata disposizione quella determinata ratio.25 3. Tre tesi sull’abuso - Elencati i criteri, pare opportuno menzionare le tesi che, in maniera più o meno corrispondente, a questi fanno riferimento, al fine di suffragare le loro ricostruzioni della dottrina dell’abuso del diritto. a)L’abuso del diritto è un principio26: chi intende l’abuso del diritto come principio induce questo, in primo luogo, muovendo dalla disposizione ex art 833 c.c. in materia di atti emulativi; in secondo luogo, servendosi anche dalle disposizioni del libro IV del codice civile in cui è menzionata la buona fede: nelle trattative (art. 1337) nel rapporto obbligatorio (art. 1175) nell’esecuzione del contratto (art. 1375) nella sua interpretazione (art. 1366), rinvenendo in tali disposizioni una ratio analoga a quella che, appunto, nell’ambito dei diritti reali è sottesa al divieto di atti emulativi. La buona fede anzi risulterebbe strumento per estendere27 quel divieto, esplicito nei rapporti reali, nell’ambito dei rapporti obbligatori, secondo un modulo argomentativo in forza del quale se il legislatore ha inteso espressamente limitare il diritto soggettivo per eccellenza, ovvero la proprietà, a maggior ragione dovrà immaginarsi la possibilità che quello stesso limite operi per i diritti di contenuto meno pieno di quello, quali sono i diritti di credito28. ‹‹svolta ordinamentale››. Sul pluralismo giuridico si veda, inoltre, R. Sacco, Antropologia giuridica. Per una macrostoria del diritto, Bologna, 2007, pp. 80 – 85. 24 G. Pino, o. u. c., pp. 15 – 17. 25 La questione della rilevanza dello scopo della disposizione come criterio ermeneutico è affrontata da R. Sacco, Il concetto di interpretazione del diritto, Torino, 2003 (rist.), pp. 40-46; e più di recente Id. L’interpretazione, cit., pp. 247256. 26 Per l’abuso del diritto come principio si vedano gli scritti di P. Perlingieri (p. 642) e U. Natoli (pp. 28-29) menzionati supra in nota 2. Quanto ai principi, prendendo a prestito la distinzione operata da L. Mengoni, I principi generali del diritto e la scienza giuridica, in Scritti, I, Metodo e teoria giuridica, a cura di C. Castronovo – A. Albanese – A. Nicolussi, Milano, 2011, p. 239 ss, distinguiamo fra principi assiomatici (o deduttivi) e principi dialettici (o argomentativi). I primi si costruiscono muovendo induttivamente da singole disposizioni, per poi, una volta elaborato il principio, applicarsi deduttivamente; i secondi hanno natura di argomenti, punti di partenza di tipo dialettico utilizzati per suffragare una determinata tesi (p. 245). Le frontiere tra le due forme sono mobili (p. 246). Nulla esclude infatti che un principio della seconda specie possa, a date condizioni, operare come principio deduttivo, e viceversa, divenire quest’ultimo un punto di partenza di un’argomentazione. 27 Tale operazione è compiuta da P. Perlingieri, (Il diritto civile, cit., p. 903) e U. Natoli (Note preliminari, cit., p. 29), nonché, ma con un itinerario argomentativo – apparentemente - differente, da F. Piraino (Il divieto, cit., p. 124). 28 Tale chiosa è di C. Castronovo, La nuova responsabilità, cit., p. 29, nt. 59. Ma è da precisare come tale autore non ritenga l’abuso del diritto un principio (né tantomeno un principio germinante dall’utilizzo della buona fede in un ambito diverso da quello suo proprio, che è quello del rapporto obbligatorio) né un argomento (Id., L’eclissi del diritto civile, cit.,, pp. 113; 117 - 118, specif. nt. 68) quanto un elemento ulteriore della fattispecie, il quale, ove presente darà luogo a invalidità o ad inefficacia, se influente sul contratto, o a responsabilità, se rilevante sul piano dell’illecito. b) l’abuso del diritto è una forma di illecito atipico29: come si è accennato alla lettera precedente, chi configura l’abuso del diritto come principio si serve anche delle disposizioni codicistiche relative alla clausola generale di buona fede oggettiva. Ma l’utilizzo che della buona fede si fa fuori dall’ambito suo proprio (che, a guardare il codice, è esclusivamente quello del rapporto obbligatorio) non si limita a quanto appena enunciato. Ne esiste anche un uso più ‹‹spregiudicato››, che si andrà ora ad esporre. Altra dottrina infatti, ha utilizzato essa quale criterio di risoluzione del giudizio di ingiustizia in seno all’art. 2043 c.c., dal cui esito fare dipendere l’attribuzione o meno di responsabilità al danneggiante. Tale dottrina infatti individua nella disposizione appena menzionata una clausola generale.30 In forza di tale assunto, ritiene che ogni ipotesi di illecito aquiliano presupponga una collisione tra due situazioni soggettive riconosciute dall’ordinamento. Il criterio di ingiustizia, dinanzi a tale situazione, viene giudicato inidoneo a risolvere il conflitto. Il suo ruolo viene ridimensionato a quello di mero selezionatore – su un piano strettamente formale – delle due posizioni soggettive: di colui che si presume danneggiante l’una, di colui che si vuole danneggiato l’altra. Ma una volta poste tali situazioni l’una di fronte all’altra, l’interprete deve ricercare un ulteriore criterio volto a dirimere la questione della responsabilità. Tale criterio questa dottrina rinviene nella buona fede/correttezza, ed in particolare in quella sua, presunta, manifestazione sintomatica che è denominata abuso del diritto.31 Il precipitato di una tale costruzione dogmatica è presto detto. Se l’ingiustizia individua una clausola generale, e le clausole generali offrono un potere discrezionale all’interprete, il quale deve concretizzarle in relazione alle circostanze fattuali che il caso da decidere manifesta, il criterio di ingiustizia non opera più come selezionatore, a monte, delle situazione soggettive che l’ordinamento ha già individuato come meritevoli. Diversamente, esso, a valle, necessiterà di essere ‹‹riempito›› di contenuto ogni qualvolta si presenterà una situazione di conflitto tra esse. L’interprete (nella fattispecie il giudice) in tale caso dovrà effettuare un bilanciamento32 tra la posizione del danneggiante (da analizzare sotto la specola della condotta) e di quella del danneggiato (il quale La definizione è di due teorici generali spagnoli, ovvero M. Atienza e J. Ruiz Manero, Illeciti Atipici. L’abuso del diritto, la frode alla legge, lo sviamento di potere, Bologna, 2004 (ma Madrid 2000). Nel presente contributo si farà riferimento all’elaborazione della dottrina italiana, e specificatamente quella della scuola Pisana: F.D. Busnelli – E. Navarretta, L’abuso del diritto, in Diritto Privato, 1997; E. Navarretta, Dikaion come nominon e dikaion come ison. Riflessioni in margine all’ingiustizia del danno, in Liber amicorum per F.D. Busnelli, II, Milano, 2008, p. 625; Ead. Danno non iure e abuso del diritto, in Diritto civile, a cura di N. Lipari e P. Rescigno, coordinato da A. Zoppini, Milano, 2009, pp. 256 - 272. Per una critica si veda sin da subito C. Castronovo, L’abuso del diritto come illecito atipico?, in Eur. dir. priv. 2006, pp. 1056 - 1058; Id. La nuova responsabilità, cit., pp. 28 - 30; Id., Il ritorno dell’obbligazione senza prestazione, in Eur. dir. priv. 2009, pp. 700 - 704; F. Piraino, o. u. c., pp. 166-175 ; Id. Antigiuridicità e ingiustizia, in Eur. dir. priv. 2005, p.711 ss; e, più di recente, N. Rizzo, Giudizi di valore e ‹‹giudizi di ingiustizia››, in Eur. dir. priv., 2015, p. 295 ss. 30 Sulle orme del pensiero di S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964; p. 84; il quale, va precisato, identificava però nella formula ‹‹danno ingiusto›› il solo danno contra jus, inteso quale lesione di una situazione soggettiva tutelata (p. 112). Nel presente contributo il sintagma clausola generale viene inteso nella sua accezione semantica (cfr. C. Luzzati, La ‹‹normalizzazione›› delle clausole generali. Dalla semantica alla pragmatica, in Riv. crit. dir. priv., 2013, p.172), quale frammento di norma connotato da elasticità e necessitante di un’integrazione valutativa da parte dell’interprete (sulla scia di quanto sostenuto da C. Castronovo, Problema e sistema nel danno da prodotti, Milano, 1979, p. 105). Per una rigorosa ricostruzione del concetto di clausola generale, e per la sua incompatibilità con la responsabilità aquiliana fondata sulla natura contra jus del danno, si rinvia a C. Castronovo, Il significato vivente di Luigi Mengoni nei suoi scritti, in Eur. dir. priv., 2012, p. 211 ss. 31 Tale esposizione ricalca sinteticamente il pensiero esposto da E. Navarretta negli scritti citati in nota 59. Di tale tesi se ne rinviene attenta riproduzione e critica in F. Piraino, nelle opere da ultimo citate. 32 Sul punto si veda R. Alexy, Diritti fondamentali, bilanciamento e razionalità, in Ars interpretandi. 2002, pp. 137 – 141; G. Pino, Diritti fondamentali e ragionamento giuridico, Torino, 2008, pp. 95 – 134, dove una distinzione del bilanciamento come tecnica interpretativa e come logica. Fortemente critico verso l’accostamento della tecnica del bilanciamento di interessi al divieto di abuso del diritto appare F. Piraino, Il divieto, cit., pp. 168 – 169. 29 vanta una pretesa al risarcimento in seguito alla lesione di una situazione giuridica meritevole)33. Ed il discrimen tra responsabilità e non, verrà rinvenuto nella buona fede oggettiva, operante, nelle forme dell’abuso del diritto, ai fini di concretizzazione delle clausola di ingiustizia quale modalità di integrazione di essa. c)L’abuso del diritto è un argomento34: secondo tale orientamento, l’abuso del diritto individua un esercizio lecito di un diritto che contraddice però la ratio sottesa alla disposizione35 attributiva del diritto. Tale esercizio andrebbe sanzionato applicando al comportamento – formalmente lecito, ma sostanzialmente abusivo – una diversa norma, individuata analogicamente36, che lo reprima. I passaggi di tale ragionamento sono i seguenti37: esiste una disposizione D che prevede un caso C e vi riconnette l’effeto E. C’è un caso C1, che dovrebbe perciò produrre l’effetto E perché ha le caratteristiche strutturali e formali previste in D. Si assume però che D abbia la ratio R, e che C1 la contraddica. C1 infatti avrebbe la ratio prevista in ¬D (un’altra disposizione, un principio legale, spesso dati prescrittivi esterni al sistema, come morale, economia, costume) cui consegue l’effetto F. Se si interpreta secondo lo stretto diritto, a C1, essendo sussumibile in C, consegue E. Ma assumendo che vero diritto sia quello della ratio e non quello della fattispecie, poiché C1 ha la ratio di ¬D, gli si fa seguire F. Per tale dottrina infatti il danno per essere ingiusto deve essere tanto sine iure (ovvero antigiuridico) che contra jus (lesivo di una situazione soggettiva altrui). Evidente è come tale impostazione ermeneutica introduca nella fattispecie di responsabilità di cui all’art 2043 c.c., che è fondata sul danno, un elemento esterno e non decisivo quale quello dell’antigiuridicità (che riguarda invece la condotta). 34 A. Gentili, Abuso del diritto e uso dell’argomentazione, in Resp. Civ. prev. , 2010, pp. 362 – 363; Id., L’abuso del diritto come argomento, cit., p. 321 ss; nonché, ci pare, F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2013, p. 57 ; e P. Perlingieri, Il diritto come discorso. Dialogo con Aurelio Gentili, in Rass. dir. civ., 2014, p.785. Critico, invece, C. Castronovo, L’eclissi del diritto civile, cit., p. 117, nt. 67. 35 Si tratterebbe di una disposizione sovra-inclusiva, in quanto contemplante sul piano della fattispecie ciò che invece andrebbe escluso sul piano della ratio. 36 Appare evidente come in tale ricostruzione il ruolo attribuito all’analogia sia insolito. Mentre di norma quest’ultima individua un meccanismo interpretativo volto ad offrire ad un caso non previsto la disciplina applicabile ad un caso previsto, nella dottrina dell’abuso essa serve ad applicare una diversa norma (di contenuto repressivo) in sostituzione di una norma esistente (ma di contenuto permissivo) che l’interprete ritiene inidonea a regolare il caso. 37 Si riporta in maniera quasi letterale quanto sostenuto da A. Gentili, L’abuso del diritto come argomento, cit., p. 322, nt. 57. 33