CAPITOLO VII. I NUOVI ASSETTI TERRITORIALI NEL

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CAPITOLO VII. I NUOVI ASSETTI TERRITORIALI NEL CINQUECENTO.
1.Guerre europee e riflessi locali.
L’inizio dell’età moderna coincise con l’avvio di importanti cambiamenti nell’arco alpino
occidentale, che fu coinvolto sempre più nelle vicende politiche e militari degli stati che si stavano
organizzando sui due opposti versanti: la monarchia francese e il ducato sabaudo. Quest’ultimo
conservava ancora un’identità più transalpina che italiana: il nucleo più esteso e compatto era
infatti al di là delle Alpi e comprendeva la Savoia propriamente detta fino al Rodano, la Bresse col
Bugey, Valromey e Gex oltre il Rodano, le terre che circondavano il lago di Ginevra, mentre al di
qua presentava una conformazione più frammentata, contando parte del Piemonte fino alla Sesia
ad est e al Tanaro a sud, la Valle d’Aosta e la contea di Nizza marittima fino al Varo. Il termine
stesso «Piemonte» non indicava un’area geografica dai contorni precisi e perfino il piemontese
Giovanni Botero alla fine del Cinquecento la descriveva come una sorta di appendice della
Lombardia, assimilando del tutto la Savoia alle regioni alpine francesi.
Nel linguaggio diplomatico del tempo come in quello delle popolazioni, si usava abitualmente la
distinzione tra savoiardi e piemontesi, tra «Savoia» e «Piemonte», anche se esistevano altre realtà
come la Valle d’Aosta e Nizza, che mantenevano caratteri propri, sia dal punto di vista politico, sia
economico. Quando si parla di «regione alpina» non bisogna pensare dunque ad un’unica identità,
quanto considerare le distinte identità dei «territori» alpini. L’individuazione delle analogie
comunque esistenti può consentire di superare il concetto di linea di cresta quale elemento di
separazione fisica, per riconoscere il senso di continuità e di legame che caratterizzò la cultura del
territorio, che si dovette confrontare con il processo di definizione di confini sempre più marcati.
Anzi, il fatto di essere terra di frontiera fu l’elemento che contraddistinse, nel bene e nel male,
gran parte della storia delle Alpi occidentali.
L’ambiente alpino aveva elementi tipici, che lo distinguevano: la neve (riserva energetica per
acqua e ghiacciai), il bosco (di estensione varia, ma comunque sempre più ampia che in pianura,
dove erano quasi scomparso), la verticalità, che determinava una disposizione scalare degli
insediamenti e dello sfruttamento delle risorse. La società alpina non era sedentaria, ma mobile
entro le valli e tale mobilità influì anche sulla formazione del sistema viario.
Nel 1494 la spedizione di Carlo VIII rivelò come l’Italia costituisse uno spazio aperto alle
conquiste delle maggiori potenze europee del tempo (Spagna, Francia,). La regione alpina e
prealpina occidentale divennero così una zona di transito degli eserciti, soprattutto francesi,
nonché un grande campo di battaglia, una condizione che sarebbe durata fino al XIX secolo. I
Savoia, signori di uno stato a cavaliere delle Alpi e quindi di grande importanza strategica, furono
coinvolti in queste contese e cercarono di resistere alla spinta espansionistica della vicina Francia.
Qui i sovrani stavano portando a terminel’unificazione territoriale del regno, che comportava
pure la definizione dei suoi confini. Verso est la catena alpina non costituiva tuttavia un limite e al
di là delle montagne la monarchia francese possedeva importanti sbocchi verso l’Italia, come le
alte Valli della Dora e del Chisone, e la Valle Stura, che favorivano in modo quasi naturale il suo
coinvolgimento nelle vicende della penisola.
Sulla dorsale delle montagne si era formata fin dal tardo medioevo un’entità conosciuta come la
Repubblica degli Escarton, suddivisa in cinque territori, comprendenti vallate situate sui due
versanti delle Alpi Occidentali: Briançon, Queyras, Casteldelfino su quello francese, Oulx e
Pragelato-Val Chisone su quello italiano. Ad essi, considerati parte integrante del Delfinato
francese, era stata concessa nel XIV secolo una Carta che attribuiva ampie autonomie
amministrative e fiscali, nonché particolari privilegi. La capitale di quest’area franca, riconosciuta
in seguito da tutti i re di Francia, era Briançon.
L’espansionismo francese portò in Europa allo scontro con l’imperatore Carlo V d’Asburgo, il
quale era anche re di Spagna.
Il duca Carlo II di Savoia, al governo dal 1504, tentò di seguire una
politica neutrale, che però si rivelò difficile a causa della debolezza finanziaria e militare dello stato
sabaudo. Tra 1521 e 1525 si aprì una fase decisiva delle guerre per la supremazia in Italia, che si
concluse con la sconfitta francese a Pavia e l’insediamento degli spagnoli nella pianura padana. I
Savoia si allearono con l’Impero e in cambio nel 1531 ottennero il contado d’Asti e il marchesato di
Ceva, ampliando così i propri domini nel Piemonte sud orientale. I rapporti con la Francia
peggiorarono e il re Francesco I nel 1536 decise l’invasione del ducato, che venne in gran parte
occupato. Iniziò così un lungo periodo di guerre che si protrasse fino al 1559.
In questi decenni la fisionomia geo-politica del Piemonte cambiò: alcuni antichi principati
autonomi scomparvero (il marchesato di Saluzzo fu inglobato dalla Francia nel 1548) o cambiarono
signore ( il marchesato di Monferrato nel 1536 fu assegnato da Carlo V ai Gonzaga di Mantova). I
territori sabaudi divennero un condominio di francesi e spagnoli e al duca rimasero fedeli soltanto
poche città (Asti, Cuneo, Nizza marittima, Vercelli). Un’eccezione fu rappresentata dalla Valle
d’Aosta, che nel 1538 stipulò autonomamente un accordo di neutralità con la Francia, durato circa
un ventennio.
La regione occupava un’importante posizione strategica, sulla strada dei valichi che
immettevano in Savoia (Piccolo San Bernardo) e Svizzera (Gran San Bernardo). La minaccia
dell’invasione francese comportò importanti trasformazioni nell’assetto politico e istituzionale
locale, destinate a durare per i due secoli successivi. La Valle, tradizionalmente dominata da un
ristretto numero di famiglie nobili, alcune delle quali come gli Challant erano potenti anche presso
la corte sabauda, si dotò di un sistema di autogoverno, il cui organo principale a partire dal 1536 fu
il Conseil des Commis, composto dai delegati dei ceti cittadini e delle comunità rurali, ma in realtà
controllato dall’aristocrazia. Accanto ad esso furono create una milizia paesana, incaricata della
difesa dei passi e una Zecca, che batteva il denaro corrente. Stretti erano i contatti tra la realtà
aostana e quella savoiarda non solo sul piano linguistico e culturale, bensì su quello
dell’organizzazione ecclesiastica: la diocesi di Aosta infatti, era subordinata all’arcivescovo di
Tarantaise.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla storiografia tra Otto e Novecento, il regime francese
non venne accolto in modo ostile dalle popolazioni dei territori occupati. I piemontesi fin dal 1538
chiesero di poter «cultiver les terres et faire sa merchandise» e di «unir perpetuellement» il paese
alla corona di Francia. Francesco I introdusse riforme che miravano a razionalizzare l’apparato
amministrativo con lo scopo di affermare il potere regio. In questo senso limitò le prerogative
dell’assemblea degli Stati ed estese al Piemonte le ordinanze di Villers Cotterets del 1539,
facendone una provincia del regno ed equiparando di fatto i sudditi piemontesi a quelli transalpini.
Vennero
istituiti organismi di governo centralizzati come il Parlamento (supremo tribunale
d’appello) e la Camera dei Conti, entrambi con sede a Torino e perfezionato il sistema di raccolta
delle imposte con l’introduzione della taglia (taille), che gravava sulle proprietà immobiliari.
Analoga strategia venne portata avanti in Savoia, che non subì i danni provocati dalla guerra
come in Piemonte. La dominazione francese favorì il definitivo passaggio tra la struttura statuale
medievale e quella moderna. Vennero introdotte importanti novità nell’amministrazione (anche
qui furono costituiti un Parlamento e una Camera dei Conti,) tra cui l’obbligo di utilizzare il volgare
(cioè il francese) negli atti pubblici e di tenere i registri dello stato civile da parte dei parroci.
2.La riorganizzazione del ducato sabaudo al di qua e al di là delle Alpi.
Una volta tornato in possesso dei propri domini con la pace di Cateau-Cambrésis del 1559 tra
Francia e Spagna , il duca Emanuele Filiberto diede inizio alla ricostruzione dello stato. Egli tenne
conto dell’esperienza francese e separò definitivamente dal punto di vista amministrativo e
giudiziario la Savoia dal Piemonte, trasferendo nel 1563 la capitale da Chambéry a Torino e
orientando così gli interessi della dinastia verso gli spazi italiani. Torino allora non era la città più
popolosa del Piemonte, ma tra XV e XVI secolo aveva rafforzato il ruolo di capoluogo politicoamministrativo del ducato, che era stato riconosciuto anche dal regime francese.
In primo luogo Emanuele Filiberto attuò una riforma legislativa, che portò alla realizzazione di
due nuovi codici in materia civile e criminale. Nello stesso tempo procedette alla revisione degli
statuti delle comunità, allo scopo di limitarne i privilegi in materia giudiziaria e fiscale, per
affermare la superiorità del potere ducale. Vennero inoltre rinnovati e potenziati gli organismi
preposti all’amministrazione della giustizia sia a livello centrale (Senato e Camera dei Conti), sia
periferico.
I territori sabaudi al di qua delle Alpi vennero divisi in nuove circoscrizioni amministrative, le
prefetture, che nel 1562 erano sette: Nizza marittima, Asti, Aosta, Vercelli, Ivrea, Piemonte al di
qua del Po (con capoluogo Moncalieri), Piemonte al di là del Po ( con capoluogo Fossano). Il
prefetto aveva soprattutto mansioni giudiziarie, ma estese le proprie competenze in diversi
settori, diventando una delle figure centrali dell’amministrazione periferica insieme al
governatore. Quest’ultimo aveva compiti soprattutto militari e la sua presenza fu dovuta alla
persistente necessità di difesa del territorio, che portò alla fortificazione di molti località non solo
ai confini, bensì allo sbocco delle valli alpine e lungo le principali vie di comunicazione.
In quest’epoca il sistema viario era costituito da due grandi assi con fulcro Torino, l’uno che
attraversava il Piemonte occidentale da est ad ovest verso il Moncenisio e l’altro che fungeva da
suo naturale prolungamento a sud verso Nizza marittima. Essi per secoli furono al centro della
politica stradale dei Savoia. Il passo del Moncenisio fu oggetto di particolari cure da parte dei
duchi, i quali miravano ad attirare sul territorio piemontese i grandi traffici diretti verso l’Europa
settentrionale.
La fortuna del valico consistette nel fatto che entrambi i suoi versanti appartenevano al ducato
sabaudo e che si trovava sulla linea più breve tra Chambéry e Torino. Esso infatti univa le valli della
Dora e dell’Arc nel punto in cui scorrono parallele e più vicine e aveva il vantaggio di collegare
direttamente le pianure dell’ovest e dell’est, senza la necessità di valicare altri passi. Nonostante
avesse una storia meno antica del Monginevro, il Moncenisio già prima dell’anno Mille divenne il
passo più frequentato.
Intorno a tali vie si sviluppò a livello locale un fitto reticolo di strade, dal percorso mutevole e
dall’ ampiezza limitata, specie nelle zone di montagna. Qui tuttavia le strade erano più numerose
di quel che comunemente si crede e svolgevano un’importante funzione. Infatti, non soltanto
erano un prodotto umano che modificava il paesaggio, bensì ne diventavano un elemento stabile,
condizionandone la storia. Così accanto alle strade per così dire «internazionali» che conducevano
ai grandi passi (Monginevro, Moncenisio, Gran S.Bernardo), si erano sviluppate delle varianti
montane verso i valichi regionali e una rete stradale per la mobilità interna della regione alpina,
che prevedeva percorsi più brevi di collegamento tra i due versanti, nonché tra l’alta valle e la
pianura.
A questo proposito bisogna osservare che la transitabilità delle Alpi era cosa diversa se vista da
parte delle popolazioni che vi abitavano o da coloro per i quali la catena era soltanto una barriera
da superare. Per il valligiano la montagna era sinonimo di alpe, di alpeggio, cioè di pascolo di alta
quota e la sua conoscenza delle montagne si arrestava al limite dei ghiacciai. Le popolazioni
vivevano tuttavia un’intensa vita di relazione quotidiana tra i versanti contrapposti, e perciò
sceglievano le vie più brevi e sicure, benché impervie, che collegavano i centri di testata delle valli
opposte del crinale: numerose mulattiere, sentieri e piste sperimentate da secoli disegnavano una
fitta rete di percorso fissi, anche di alta quota.
Sulle grandi strade si erano concentrate fin dall’inizio le attenzioni dei principi sabaudi e dei loro
rivali a livello politico, mentre le altre erano state interessate da un intervento più scarso a causa
delle poche risorse disponibili e della modestia degli attori interessati alla loro conservazione
(comunità di montagna, piccoli poteri locali). Nonostante ciò si erano create delle «aree di strada»,
cioè fasce di territorio interessate in tempi lunghi da un transito significativo (per esempio la bassa
Valle di Susa). La strada alpina, che in questo caso era percorsa anche da grandi correnti di
pellegrinaggio in direzione di Roma (via Francigena), era diventata un generatore di modelli sociali
e di insediamenti (villaggi nati lungo i percorsi di transito), che coincidevano con punti di
riscossione di pedaggi o sedi politico amministrative. L’attraversamento di una zona piuttosto che
di un’altra poteva cambiare la storia di una regione, poiché accentuava i contatti fra società
lontane. La strada produceva servizi (punti di sosta per i mercanti, ricoveri per i pellegrini),
favorendo anche nuovi insediamenti religiosi.
La costituzione delle prefetture interessò unicamente la regione subalpina, perché in Savoia e in
Valle d’Aosta furono conservate le antiche circoscrizioni, come le castellanie e i baliaggi, che però
cambiarono in modo significativo le proprie funzioni, in seguito alla trasformazione del sistema
fiscale introdotta da Emanuele Filiberto. Per avere delle entrate regolari, il duca aveva deciso di
aumentare il prezzo del sale, da sempre monopolio ducale. Viste però le difficoltà di riscossione,
decise di istituire un’imposta diretta sulle proprietà (il cosiddetto tasso, che si rifaceva alla taille
francese), il cui importo veniva calcolato prima dallo stato e suddiviso poi tra i comuni, che
dovevano provvedere alla distribuzione del carico. La decisione ducale fu presa senza consultare
gli Stati, che non furono più convocati e di fatto vennero aboliti.
In questo modo sia al di qua che al di là dei monti i comuni da semplici associazioni collettive che
gestivano beni comunitari, si trasformarono in circoscrizioni fiscali territoriali, diventando
componenti essenziali della struttura amministrativa dello stato. In particolare nelle provincie
savoiarde il castellano, figura tradizionale non soltanto dell’autorità sabauda, bensì di quella
signorile, cambiò le proprie funzioni, diventando l’agente del potere centrale presso le comunità.
Dal momento che il Piemonte era un paese di «transito», i Savoia cercarono di rafforzare il
controllo sulle vie di comunicazione con l’altro versante delle Alpi e di rendere più omogenei i
domini in territorio piemontese, eliminando le enclaves che ne interrompevano la continuità,
impedendo che il confine con la Francia coincidesse con la linea delle montagne. In questo senso
vanno interpretati i falliti tentativi di Emanuele Filiberto di impadronirsi di Saluzzo e del
Monferrato e la riuscita acquisizione di territori quali la contea di Tenda e la signoria di Oneglia,
che dovevano, almeno in teoria, migliorare i collegamenti con Nizza e la Riviera ligure di Ponente,
con lo scopo di rendere più sicura la «via del sale», tramite la quale il prezioso alimento arrivava in
Piemonte.
Nizza ed il suo territorio erano entrati a far parte dei domini sabaudi nel 1388, quando la città
con un atto di dedizione aveva giurato fedeltà al conte Amedeo VII. I Savoia avevano compreso
l’importanza della sua posizione e di quella del vicino porto di Villafranca, che permetteva di
controllare le comunicazioni via mare tra la Liguria e la Provenza, con la possibilità di esigere
pedaggi sulle merci in transito. Inoltre, fin dall’inizio essi avevano coltivato la speranza di fare del
complesso Nizza-Villafranca non soltanto una base militare per contrastare l’espansione turca nel
Mediterraneo, ma soprattutto per inserirsi nel commercio marittimo in concorrenza con grandi
porti come Genova e Marsiglia.
In effetti, la rilevanza strategica della città venne subito messa in risalto dalle vicende che la
interessarono nella prima metà del Cinquecento, quando fu oggetto di contesa tra spagnoli e
francesi, i cui alleati turchi la assediarono nel 1543. Durante le guerre di religione del secondo
Cinquecento, diventò il punto di partenza delle spedizioni sabaude in Provenza e dovette ospitare
a più riprese gli eserciti. In seguito, divenne il principale approdo navale dei Savoia e dei loro
alleati, in grado di ospitare sia la flotta dei cavalieri di Malta, sia le galere spagnole che
trasportavano le truppe verso il ducato di Milano e le Fiandre.
Per raggiungere dal Piemonte la città provenzale esistevano due
strade, che partivano
entrambe da Borgo San Dalmazzo. L’una attraverso la Val Vermenagna, colle di Tenda, Valle Roya
fino a Breil, poi colle di Brouis, l’Escarène fino a Nizza; l’altra attraverso la Valle Gesso, Entracque,
colle delle Finestre e valle della Vesubie. Nonostante gli sforzi dei duchi, queste vie rimasero
sempre piuttosto disagevoli, tanto che ancora verso la metà del Settecento un testimone
affermava che «les liasons avec le Piémont n’etaient que de bons chemins muletiers». Il problema
delle comunicazioni non fu mai completamente risolto e influì in modo negativo sulle possibilità di
sviluppo della regione. Nonostante ciò i legami culturali con l’area subalpina furono piuttosto
stretti. La lingua nizzarda infatti era un ramo orientale della lingua d’oc, con forti influenze
piemontesi nell’area di Breil e Tenda.
In Savoia Emanuele Filiberto razionalizzò l’amministrazione, mantenendo le riforme introdotte
dai francesi. La regione assunse un ruolo secondario all’interno dello stato sabaudo, ma la
progressiva perdita di centralità politica rispetto al Piemonte, trasformò gli organi amministrativi
locali (Senato e Camera dei Conti di Chambéry) in una sorta di governo provinciale dotato di ampi
poteri e di una certa autonomia. Gli aspetti più evidenti di una maggiore presenza dell’autorità
ducale furono la tendenza ad esercitare un dominio diretto sulle aree prima affidate ai feudatari e
alle èlites aristocratiche, l’aumento della pressione fiscale e la sostituzione delle milizie regionali
con truppe professionali per il controllo militare del territorio.
Tale direttive vennero seguite anche in Valle d’Aosta, dove invece furono mantenuti gli Stati e
confermate tutte le istituzioni nate dopo il 1536. Nel processo di riorganizzazione del ducato,
seguito alla pace di Cateau-Cambrésis, la classe dirigente valdostana venne considerata uno
strumento essenziale per la gestione amministrativa dell’intero stato sabaudo e così per oltre
sessant’anni fornì segretari di Stato, funzionari e militari al governo ducale. Un evento importante
fu poi la proclamazione del francese quale lingua ufficiale, che in realtà costituiva il riconoscimento
di una situazione di fatto largamente attestata e l’esito di una vicenda linguistica ormai millenaria,
da quando la Valle, politicamente separata dal resto d’Italia dopo la caduta del’Impero romano,
aveva seguito lo sviluppo culturale delle regioni transalpine.
Pur rispettando le prerogative locali, la volontà accentratrice si manifestò nella promozione di
un’opera di codificazione delle consuetudine locali, che iniziata nel 1575 terminò nel 1588 con la
pubblicazione dei Coustumes du Duché d’Asoste o Coutumier, una raccolta che disciplinava la
giurisdizione civile e criminale. L’intervento ducale si fece sentire anche nel settore delle imposte
con l’estensione ad Aosta del dazio di Susa, che veniva riscosso alla dogana di Quincinetto e che
gravava sulle merci in transito attraverso la valle.
3.Il sistema difensivo.
E’ stato notato che i conflitti tra le grandi potenze europee nella prima metà del XVI secolo,
diedero inizio alla militarizzazione delle montagne Per la regione alpina occidentale il punto di
svolta fu la pace di Cateau-Cambrésis, che sancì la restituzione dei domini sabaudi al duca
Emanuele Filiberto.
Da quel momento il principe portò avanti una politica di neutralità armata, che prevedeva la
creazione di una «cintura» di fortezze, destinata a difendere i confini del ducato e gli sbocchi delle
valli che mettevano in comunicazione con il regno transalpino e le terre svizzere. Lo stato sabaudo
era del resto penalizzato da una conformazione territoriale sfavorevole, essendo tagliato in due
dalle Alpi e aperto verso le ampie vallate del Rodano, Isère e Grésivaudan. In particolare, nel
tratto delle Alpi Cozie, tra il colle della Maddalena e il passo del Moncenisio, l’asse orografico
presentava numerose insellature, attraverso le quali poteva essere più diretto non solo il
passaggio di uomini e merci, ma anche degli eserciti. Il piano strategico avviato dal duca e
perseguito dai suoi successori distingueva quindi due linee di difesa operativa: una al di là delle
Alpi lungo il confine politico con il Delfinato, l’altra al di qua a sbarramento dei solchi vallivi
provenienti dalla catena montuosa.
Alla morte di Emanuele Filiberto (1580) risultavano fortificate: Montmélian nei pressi di
Chambéry e Bourg en Bresse contro il Delfinato e la Borgogna, il complesso fortificato di NizzaVillafranca contro la Provenza, l’Annunziata vicino a Rumilly contro Ginevra e la cittadella di
Torino, che oltre a proteggere la capitale, era destinata a sorvegliare l’uscita nella Pianura padana
della strada di Francia. Inoltre, venne ristrutturato il castello di Bard all’imbocco della Valle
d’Aosta, che permetteva di controllare la strada per i valichi del Piccolo e Gran San Bernardo.
Gli sforzi ducali vennero indirizzati anche alla fortificazione di località situate in posizione
strategica in prossimità delle montagne, come per esempio Cuneo, posta alla confluenza dei fiumi
Gesso e Stura, a ridosso delle Alpi. La città divenne il baluardo difensivo contro le incursioni
francesi provenienti dalla valle Stura attraverso il Colle dell’Argentera (attuale Colle della
Maddalena); inoltre esso consentiva il controllo delle vie di comunicazione tra Torino e Nizza. Con
questo obiettivo furono anche fortificate Ceva e Mondovì, benché in quest’ultimo caso vi fosse
soprattutto un’esigenza di ordine pubblico. In modo analogo, a protezione della strada del
Moncenisio, venne costruito il forte di Santa Maria presso Susa, mentre all’imbocco della Val
Chisone venne fortificata Pinerolo.
I sovrani francesi dell’epoca non procedettero con altrettanto slancio all’opera di fortificazione,
dal momento che a partire dal 1560 il regno fu dilaniato dalle guerre di religione. Tuttavia, furono
proprio questi conflitti a determinare il rafforzamento di strutture difensive già esistenti, come ad
esempio il forte di Exilles, che sorgeva a sentinella della Valle della Dora Riparia. Fin dal medioevo
esso garantiva il controllo dei collegamenti tra l’alta e bassa Valle di Susa, appartenenti a due stati
diversi: la Francia e il ducato di Savoia, ma soprattutto dei traffici internazionali che con bestie da
soma e carri venivano effettuati attraverso il valico del Monginevro. Quest’ultimo faceva
concorrenza al passo del Moncenisio, secolare possesso dei Savoia.
L’importanza del Monginevro, che univa la valle della Dora Riparia alla valle della Durance, era
già notevole in età romana ed era dovuta al fatto di avere due sbocchi divergenti sull’Italia, uno
dei quali scendeva direttamente lungo la valle di Susa, mentre l’altro raggiungeva la pianura più a
sud, attraverso la valle del Chisone, richiedendo però il superamento di un ulteriore ostacolo,
rappresentato dal colle del Sestriere.
Nella seconda metà del Cinquecento Exilles cominciò ad assolvere un ruolo soprattutto militare,
quando cattolici e ugonotti se lo disputarono come base per reciproche incursioni. Negli anni
novanta il duca Carlo Emanuele I tentò di impadronirsi dell’alta Valle e del forte. Il suo proposito
tuttavia non riuscì e dopo la pace di Lione del 1601 Enrico IV di Borbone lo ristrutturò,
trasformandolo in avamposto del regno transalpino, funzione che mantenne per più di un secolo.
Bisogna tuttavia sottolineare che nonostante questi territori di confine fossero continuamente
contesi, i rapporti tra i loro abitanti non furono mai interrotti. La popolazione dell’alta Val
Chisone e quella del vicino Pinerolese continuarono a mantenere relazioni economiche e
commerciali. Alla fine del Cinquecento l’escarton di Pragelato siglò con Pinerolo un accordo per il
proseguimento degli scambi, benché fosse in corso una guerra tra Francia e stato sabaudo.
Nel corso delle vicende belliche che opposero la monarchia francese e il ducato tra la fine del
XVI e l’inizio del XVII secolo, furono erette altre fortificazioni all’interno delle valli alpine. Vale la
pena di citare da parte sabauda il forte della Consolata di Demonte, costruito a baluardo della
Valle Stura, la fortezza della Charbonniére, situata a monte di Aiguebelle in Maurienne, nonché
Fort Barraux, eretto appositamente per controllare il Grésivaudan. Quest’ultima costruzione però
passò ben presto in mani francesi, diventando un caposaldo della Francia contrapposto a
Montmélian.
L’intensa attività fortificatoria realizzatasi tra Cinque e Seicento nella regione alpina occidentale
vide impegnati illustri architetti e ingegneri militari: basti pensare a Gabrio Busca, Ferrante Vitelli,
Francesco Paciotto, Ercole Negro di Sanfront, Ascanio Vitozzi, che lavorarono per i Savoia e al
francese Jean de Beins. Essa innescò anche una trasformazione dell’ambiente e del territorio
montani, causati dalla sempre maggiore ampiezza delle fortificazioni e dalla partecipazione delle
comunità alpine nella loro edificazione, tramite la fornitura di materiali e maestranze.
La presenza di una fortezza significò inoltre un sempre maggior coinvolgimento delle
popolazioni. Così tra 1540 e 1640 Cuneo subì tre assedi (1542, 1557, 1639), Montmélian due
(1600, 1630), Exilles due (1593, 1595), Susa uno (1592), Pinerolo uno (1592). La stessa capitale non
venne risparmiata e fu assediata nel 1639. Anche in mancanza di una guerra, le vicende costruttive
comportarono profondi mutamenti nel tessuto urbanistico e architettonico delle città: è il caso di
Mondovì, dove per far posto alla fortezza vennero abbattute case e chiese, per non parlare di
Torino, il cui volto iniziò a cambiare tra 1564 e 1566 con l’erezione della famosa Cittadella
pentagonale, opera di Francesco Paciotto.
4.Economia, società e cultura.
All’inizio del Cinquecento Il Piemonte occidentale era caratterizzato dalla presenza di numerosi
nuclei urbani di piccole dimensioni, in cui realtà cittadina e rurale si integravano. I consigli
comunali erano composti dai rappresentanti dei diversi ceti: nobili, mercanti, artigiani e non si
erano ancora chiusi in senso oligarchico come nel resto d’Italia. Nella regione esisteva una
cospicua nobiltà feudale, che viveva ancora nei propri castelli ed esercitava diritti di signoria sulle
campagne. Il ruolo delle città risultava comunque evidente in occasione dell’assemblea dei Tre
Stati, l’organismo rappresentativo che il duca convocava periodicamente per ottenere aiuti
finanziari. Tra il 1496 e il 1533 gli Stati piemontesi concessero sussidi per oltre due milioni di fiorini
e in media il 20% di tale cifra fu offerto dalle 17 terrae del principato di Piemonte.
Il benessere e la stabilità sociale furono messe in crisi della vicende belliche che interessarono il
ducato a partire dagli anni venti. La situazione divenne difficile soprattutto per quei luoghi che si
trovavano lungo i due principali assi viari che attraversavano il Piemonte: quello che collegava
Torino alla Savoia e alla Francia tramite il Moncenisio; l’altro che permetteva di raggiungere Nizza
e il mare attraverso il colle di Tenda. Diverse valli alpine e prealpine (Valli di Susa, Po, Pellice e
Chisone), vennero occupate dalle soldatesche straniere, che le popolazioni dovevano alloggiare e
rifornire.
A causa della posizione geografica il Piemonte era caratterizzato da un cospicuo commercio di
transito e la sua economia si basava soprattutto sull’esportazione dei prodotti del suolo e
dell’allevamento e in misura minore di manufatti. Henry Pugnet, responsabile della zecca di Bourg
en Bresse, nel 1530 calcolava che venivano esportati cereali per un valore di 100.000 scudi e
animali da macello per altri 50.000. Era perciò prioritario mantenere aperte le vie commerciali con
gli stati confinanti e così quando si instaurò la dominazione francese i piemontesi chiesero a
Francesco I che non fosse impedito loro di «negociar grani in tutti li lochi subditi di sua maestà».
Tra 1540 e 1543 il re emanò diverse disposizioni miranti a regolamentare il traffico mercantile,
stabilendo che le merci provenienti dall’Italia dovevano passare esclusivamente per la strada che
da Susa, attraverso il Moncenisio, portava a Lione. Egli in pratica ripristinò il dazio di Susa, tassa già
riscossa dai Savoia, che gravava sui prodotti di passaggio sia all’entrata, sia all’uscita. Tuttavia, fu
concessa l’esenzione per quelli provenienti dalle terre subalpine.
Emanuele Filiberto mantenne il pedaggio, che diventò la base dell’ordinamento doganale
sabaudo. Inoltre, da questo momento vennero stipulati accordi tra Francia e Savoia per la
riscossione delle imposte sui traffici lungo la direttrice Lione- Pont-de-Beauvoisin-ChambéryMoncenisio-Susa. Alla manutenzione del Moncenisio furono dedicate particolari cure e tra XVI e
XVII secolo divenne il più frequentato tra i valichi sabaudi, con parziale eccezione di quelli aostani.
I prodotti dell’agricoltura piemontese erano soprattutto cereali (grano, segala, meliga, avena),
riso, legumi, bestiame e vino. Legata alla campagna era anche la produzione della canapa,
abbastanza diffusa in tutto il Piemonte, tanto da consentirne l’esportazione a Genova, Venezia,
Marsiglia. Quanto al settore manifatturiero, era rivolto in particolare al mercato interno, come i
tessuti di lana prodotti a Pinerolo e Vercelli, mentre in qualche caso esistevano produzioni per
l’estero, come i fustagni lavorati a Chieri o velluti e stoffe di seta prodotti a Torino e Racconigi.
Tutte queste attività vennero certamente danneggiate dalle vicende belliche che coinvolsero il
ducato, tuttavia con l’avvento della dominazione francese si crearono le condizioni per la
formazione di un «mercato» molto più ampio rispetto al passato e di un’economia «di guerra»,
che avvantaggiò quanti operavano nel settore agricolo e dei servizi per le forniture e il
mantenimento delle truppe d’occupazione.
Una volta recuperato lo stato, Emanuele Filiberto cercò di impostare una politica economica di
tipo proto-mercantilista, mirante a sostenere le poche industrie esistenti e ad attirare nel ducato
artigiani in grado di far attecchire le lavorazioni che mancavano, in modo di diminuire il flusso
delle importazioni. Questa azione però fallì, tanto che un osservatore nel 1566 notava che fra i
piemontesi non vi era «una sola industria, tanto che necessariamente d’ogni minima cosuccia
convengono passare per le mani di mercanti forestieri».
In effetti, qualche risultato venne raggiunto nel settore della manifattura serica, introdotta nello
stato sabaudo verso la metà del XV secolo e che da questo momento assunse una notevole
consistenza ed importanza economica. Si trattava del resto di un’attività che ben si integrava con
l’economia agraria e con la coltura del gelso, visto che nel caso piemontese la produzione si basò
esclusivamente sulle prime fasi del ciclo produttivo e sulla realizzazione di un semilavorato
destinato all’esportazione. Pur con queste limitazioni la lavorazione, oltre che a Racconigi, si
diffuse a Torino, Vercelli, Chambéry.
Comunque sia, fu l’agricoltura a rimanere il settore trainante dell’economia sabauda e il
comparto che garantiva le maggiori entrate fiscali, grazie all’imposta sulla proprietà fondiaria (il
tasso) e a quelle sui consumi, oltre ai vari pedaggi, in primo luogo quello di Susa. Nonostante le
difficoltà delle passate guerre, bastarono pochi anni di pace per consentire la ripresa delle
campagne, a testimonianza della naturale fertilità del suolo piemontese. Era soprattutto intorno ai
grossi comuni rurali come Torino, Chieri, Cuneo, Savigliano che l’economia agricola rivelava uno
sfruttamento più intenso.
A conferma della favorevole congiuntura economica ci sono i dati demografici, che sia pur
frammentari, testimoniano l’aumento che si registrò nella seconda metà del secolo. Il censimento
delle bocche ordinato nel 1571 contava per l’intero Piemonte oltre mezzo milione di abitanti ed
evidenziava la presenza di due città con oltre 10000 abitanti (Torino e Mondovì), e un certo
numero di borghi di piccole dimensioni, con una popolazione superiore a 5000 unità, tra cui centri
situati nell’area prealpina come Fossano, Cuneo, Susa, Savigliano, Pinerolo.
In un contesto economico tutto sommato modesto, la vita culturale non raggiunse certo livelli
paragonabili a quelli di altre regioni dell’Italia centro-settentrionale, dove si era sviluppato il
fenomeno del Rinascimento. Torino dal XV secolo era sede di un’università, che aveva raggiunto
una discreta fama, (ai primi del Cinquecento si era addottorato il famoso Erasmo da Rotterdam),
ma che in seguito era decaduta. La cultura rinascimentale era però giunta in Piemonte per via
indiretta, grazie ai letterati francesi che avevano seguito l’esercito di occupazione e che vi avevano
soggiornato per qualche tempo (è il caso di François Rablais, il quale nel romanzo Gargantua e
Pantagruel inserirà un ricordo della sua breve permanenza a Torino).
Tornato nel ducato, Emanuele Filiberto sentì il bisogno di organizzare anche la politica culturale,
che si concretizzò nella restaurazione dell’Università, insediata prima a Mondovì, poi nuovamente
a Torino nel 1566. L’ateneo torinese per circa vent’anni attraversò un periodo prestigioso, in
quanto vi insegnarono importanti docenti, molti dei quali reclutati appositamente all’estero.
L’istruzione universitaria veniva considerata utile soprattutto alla formazione di magistrati,
destinati ad occupare gli alti gradi dell’amministrazione ducale. Vennero coltivate soprattutto le
discipline giuridiche, che costituirono anche la base della più importante Accademia letteraria nata
in quegli anni, l’Accademia Papinianea. L’importanza attribuita al diritto e le possibilità di carriera
offerte dall’espansione dell’apparato burocratico, stimolarono anche la crescita di un ceto di
funzionari di estrazione borghese, che venne ad affiancarsi alla tradizionale èlite dirigente
composta da nobili ed ecclesiastici, contribuendo così ad avviare un lento, ma costante processo
di mobilità sociale.
In questo periodo la corte ducale non ebbe un ruolo importante come centro di promozione
culturale, in grado di competere con altre realtà coeve quali Firenze, Mantova o Ferrara, anche se
non mancò di attirare personaggi di rilievo come Torquato Tasso. Emanuele Filiberto aveva una
formazione soprattutto pratica e militare, che lo rendeva più interessato alle scienze che alle
lettere, a differenza della moglie Margherita di Valois, donna colta e raffinata, che in Francia era
stata protettrice di poeti e artisti.
Dal punto di vista artistico il gusto rimase legato alla cultura nordico-fiamminga, testimoniata
dalla presenza del pittore Jan Kraek, anche se il duca si servì di esponenti della tardo manierismo
quali il romagnolo Jacopo Vighi e mostrò interesse per la pittura veneta. La situazione era tuttavia
destinata a cambiare con il figlio Carlo Emanuele I, il quale considerò la corte uno strumento
essenziale per consolidare la fama della dinastia e la committenza artistica e letteraria come mezzi
per diffonderne l’immagine prestigiosa.
Il contributo fornito dalla zone di montagna all’economia piemontese era rappresentato
soprattutto dalle materie prime (legname) e dai prodotti dell’allevamento (carne e latticini). Sul
piano economico e culturale la struttura centrale delle regioni alpine era l’alpeggio, cioè l’esercizio
regolato dell’allevamento stagionale, praticato in pascoli naturali, all’interno di un’economia di
sussistenza, basata sulla pastorizia e la coltivazione. Si trattava di una pratica intercomunitaria
diversa dalla transumanza, che era invece un’attività itinerante, associata a caratteri di
provvisorietà e che suscitava spesso conflitti tra pastori e popolazioni locali.
La realtà dell’alpeggio si adeguava alle condizioni stabilite dal diritto consuetudinario e ben
prima del costituirsi dei moderni comuni furono le comunità locali o i consortili a gestire l’uso dei
pascoli. L’alpeggio si inseriva poi in una struttura geografica del territorio montano ben definita,
che presentava unità produttive di piccole o medie dimensioni e grandi superfici (boschi e incolti),
di proprietà collettiva.
La guerra tra Francia e Spagna per il controllo della Pianura padana arrecò meno danni ai
territori sabaudi al di là delle Alpi, che fin dai primi decenni del Cinquecento avevano conosciuto
un periodo di notevole sviluppo, come evidenziano tutti gli studi più recenti. In primo luogo vi fu
una forte crescita demografica, iniziata già alla fine del Quattrocento: tra 1481 e 1518 su un
campione di 374 parrocchie della diocesi di Ginevra, ben 283 registrano un aumento di
popolazione. Tale andamento proseguì anche in seguito e avvenne soprattutto nelle zone di
montagna, dove la crescita continuò perfino negli ultimi decenni del secolo, quando nelle pianure
ci fu invece un regresso.
Le città erano più piccole rispetto al Piemonte e fungevano sia da centri collettori della
produzione agricola, sia da distributori di beni di consumo, attirando molti immigrati dalle
campagne circostanti. Tra queste realtà urbane possiamo ricordare Chambéry, Thonon e Annecy.
La prima doveva la sua importanza al fatto di essere la capitale storica del ducato e la sede della
corte e del governo sabaudi. Era dunque soprattutto un centro amministrativo, abitato da ricchi
borghesi e da nobili, ma godeva anche di una posizione favorevole dal punto di vista commerciale,
essendo sulla strada che portava a Lione e alle sue fiere. Thonon era anch’essa una residenza
ducale e Annecy divenne a poco, a poco una piccola città industriale, che nel 1511 contava 2.500
abitanti e che si era specializzata nel commercio dei pellami e nella lavorazione dei metalli (lame,
coltelli).
In Savoia esisteva una cospicua nobiltà, più numerosa in pianura, meno in montagna, la cui
presenza era denotata dai castelli che punteggiavano il passaggio. La borghesia era concentrata
soprattutto nei centri urbani, era dedita alle professioni legali (specie notariato) e al commercio,
ma una volta arricchita tendeva ad acquistare una proprietà fondiaria o ad entrare
nell’amministrazione ducale, con lo scopo di ottenere la nobilitazione. Nelle campagne era ancora
diffuso il servaggio e molti contadini erano sottoposti alla taglia, in natura o in denaro, anche se la
differenza tra liberi e tagliabili era minima, contando ormai non tanto la condizione giuridica,
quanto il patrimonio.
La popolazione rurale aveva tuttavia il godimento dei beni comuni, in proporzione del 50% delle
terre disponibili in pianura e in misura ancora più alta in montagna, dove la presenza del
feudatario e dello stato era meno forte . Nonostante ciò la povertà era diffusa, toccando punte
del 10% e provocando tensioni tra gli abitanti e i detentori della signoria fondiaria, che qualche
volta sfociarono in rivolte.
L’economia savoiarda si basava soprattutto sull’agricoltura (cereali) e sull’allevamento. Secondo
testimonianze coeve, il bestiame veniva esportato fino a Genova e Milano, mentre i formaggi
erano molto apprezzati all’estero. Gran parte delle esportazioni erano costituite da materie prime
(prodotti della terra, legname, carne), mentre pochi erano i manufatti (tele, fustagni di Chambéry,
metalli lavorati di Annecy). La Bresse riforniva di generi alimentari Lione, mentre la Savoia faceva
lo stesso con Ginevra. Attiva era l’industria mineraria, diffusa un po’ in tutto il territorio, ma che
aveva il suo centro a Montmélian nella miniera di Allevard. Il commercio era soprattutto di
transito, favorito dalla collocazione geografica della regione.
Come si è detto la dominazione francese, terminata nel 1559, non causò gravi traumi. La
popolazione infatti continuò a crescere: il Faucigny per esempio nel 1561 contava 65.500 abitanti
con 11.770 fuochi (il doppio rispetto all’inizio del secolo). Nello stesso anno in Tarantaise si
registravano oltre 40.000 persone, una cifra oltrepassata soltanto nel XIX secolo. Crebbero anche
le città: nel 1552 Chambéry aveva 4.500 abitanti, con un notevole aumento rispetto alla fine del
Quattrocento.
Il periodo di pace che durò fino agli anni novanta del XVI secolo, aumentò l’importanza della
Savoia nel commercio di transito. La sua posizione ne faceva infatti uno dei passaggi più comodi
tra la Francia e la penisola italiana da un lato, tra il nord Europa e il Mediterraneo dall’altra. La
provincia si trovava infatti sulla grande strada d’Italia, la via della seta, dei velluti e delle spezie. Da
Venezia, Milano e Genova questi prodotti arrivavano a Torino e per le valle di Susa entravano in
Savoia attraverso il Moncenisio. Attraverso la Maurienne raggiungevano Lione, passando per
Montmelian, Chambéry e superavano il Rodano a Pont-de-Beauvoisin.
Un altro cammino da Montmélian, attraverso Chambéry, Rumilly e Annecy raggiungeva Ginevra.
Da qui partiva invece la strada che portava le mercanzie della Germania e delle Fiandre prima a
Seyssel, in territorio savoiardo, poi a Lione. A Seyssel si scaricavano ugualmente il sale proveniente
dalla Provenza e dalla Linguadoca, che aveva viaggiato sul Rodano e che era destinato alla Savoia e
alle terre ginevrine.
Con il declino delle fiere di Lione a partire dal 1570 crebbe il ruolo di Chambéry quale snodo
viario per i commerci. Nella città per qualche tempo si installarono banchieri e mercanti genovesi
e piemontesi (soprattutto fustanieri di Chieri), alcuni dei quali si naturalizzarono (è il caso dei
Cizer, dei Bay, dei Sardoz). L’itinerario del Moncenisio dall’Italia a Lione era già stato reso
obbligatorio da Francesco I e il passaggio delle carovane nel tratto da Pont-de-Beauvoisin a
Lanslebourg favoriva l’economia dell’indotto, costituito da portatori, mulattieri, facchini e
albergatori (all’epoca di contavano 36 alberghi a Chambéry).
Abbiamo già accennato alla presenza dell’industria estrattiva (ferro, piombo, rame), che contava
giacimenti in Maurienne, Tarantaise a Faucigny. Dal momento che le miniere appartenevano al
patrimonio ducale, i principi concedevano a privati i diritti di estrazione, tramite contratti
privilegiati. Carlo II emanò appositi provvedimenti per regolare il settore ed Emanuele Filiberto
concedette privative a grandi feudatari savoiardi come il marchese de La Chambre e il duca di
Genevois-Nemours. Ad avvantaggiarsi furono spesso anche semplici borghesi, a volte stranieri
(tedeschi e francesi) oppure piemontesi come i Castagneri, originari di Torino e destinati ad avere
notevole fortuna nel corso del Seicento.
Quello che tuttavia impedì lo sviluppo dell’economia savoiarda fu la mancanza di capitali. Ciò fu
determinato da diversi fattori: in primo luogo la pressione fiscale, che aumentò progressivamente
a partire dagli anni sessanta. Inoltre, solo una piccola parte delle tasse veniva redistribuita nella
regione sotto forma di pensioni e stipendi ai funzionari; la maggior quantità veniva assorbita da
spese militari, contributi per la corte, appannaggi per principi del sangue. Infine, non è da
sottovalutare la tendenza dei ricchi a cercare l’esenzione dalle imposte, investendo nella signoria
fondiaria o esercitando cariche che comportavano poi la nobilitazione.
Nonostante queste limitazioni, il Cinquecento rappresentò anche dal punto di vista culturale un
momento di svolta per la Savoia. In tal senso l’occupazione francese favorì la diffusione delle
correnti letterarie ed erudite del Rinascimento. Zona di transito per eccellenza, la regione ospitò
illustri personaggi quali Marot, Rablais, Montaigne, Cornelius Agrippa. A Chambéry, grazie anche
all’impegno di alcuni magistrati del locale Parlamento, sorse un piccolo cenacolo letterario
animato da Marc Claude de Buttet e Alphonse Del Bene.
Nella provincia continuavano però a mancare istituzioni scolastiche di un certo rilievo. Le
comunità si sforzavano di mantenere le scuole parrocchiali, che rispondevano alle necessità di un
primo livello di istruzione. Per completare gli studi gli allievi migliori dovevano poi emigrare altrove
e raggiungere sedi universitarie italiane come Vercelli e Torino, ma soprattutto francesi come
Parigi, Bourges (per l’insegnamento del diritto), Montpellier (per la medicina) e Avignone.
Con la restaurazione sabauda il monopolio culturale passò ai nuovi ordini della Controriforma
incaricati della formazione dei giovani; i gesuiti nel 1564 fondarono un collegio nel capoluogo
savoiardo, mentre nel 1574 il vescovo Pierre Lambert ne aprì uno a S. Jean de Maurienne. All’inizio
del Seicento fu la volta dei barbaniti, che tra 1614 e 1615 si insediarono a Thonon ed Annecy. Altri
centri come Evian, Bonneville, Sallanches, Rumilly aprirono nuove scuole, che cercavano di
rispondere alle esigenze dei ceti dirigenti locali, i quali chiedevano con sempre maggior insistenza
un’educazione qualificata per i loro figli.
Al pari delle provincie piemontesi e savoiarde, a partire dal 1559 pure il Nizzardo conobbe un
certo sviluppo economico e demografico. Caratterizzata da un suolo collinoso e poco
pianeggiante, la contea presentava un’agricoltura di tipo mediterraneo piuttosto diversificata,
dove dominavano le colture arboree (vite, olivo, alberi da frutta) associate ai cereali. Dominante
era la piccola proprietà, dove i contadini, che provenivano generalmente dall’entroterra
conducevano un’esistenza difficile.
L’allevamento da parte dei singoli era scarso, ma esisteva tuttavia un’attività pastorale come la
«bandita», praticata anche nelle Alpi marittime. Si trattava di pascoli comuni, situati nelle colline,
che accoglievano durante l’autunno e l’inverno le greggi della contea che effettuavano la
transumanza inversa, dagli alpeggi di montagna verso le zone costiere. A questo sistema erano
vincolate molte proprietà, sottoposte a regole che implicavano una vera e propria servitù agraria.
Il proprietario godeva liberamente della terra dalla Quaresima fino al raccolto, poi lasciava la terra
e l’erba al titolare della «bandita», che vi pascolava le greggi per sei mesi. Durante l’estate invece
le grosse mandrie migravano al nord, verso le zone alpine della Provenza e del Delfinato.
La capitale era un importante centro di smistamento delle merci e attirava un consistente
numero di immigrati. Verso la metà del XVI secolo Nizza contava circa 12000 abitanti, il 25% dei
quali provenivano da fuori (metà dalla vicina Provenza, metà da Liguria e Piemonte). Le attività
economiche più importanti erano il commercio di transito, insieme al noleggio e alla costruzione di
navi, che alimentavano una fiorente industria cantieristica.
La popolazione era ancora divisa in «classi», secondo gli antichi statuti medievali: da una parte i
nobili, dall’altra mercanti, artigiani, lavoratori. Tale ripartizione iniziò però progressivamente a
mutare, in particolare quando diverse famiglie dedite al commercio o che esercitavano il
notariato, si spostarono in città dai paesi della contea e riuscirono ad entrare nell’aristocrazia,
dando inizio ad un notevole processo di ascesa sociale. Già alla fine del Cinquecento il Consiglio
cittadino risultava controllato da un’oligarchia, in cui accanto a esponenti dell’antica nobiltà come
i Lascaris e i Grimaldi, vi erano ormai legisti e mercanti arricchiti, molti dei quali avevano lasciato il
contado per la capitale, provenendo da Tenda, Saint-Etienne, Briga.
5.Fermenti religiosi sui due versanti alpini.
Alle soglie dell’età moderna nella regione alpina occidentale non esisteva ancora un’omogeneità
tra confini politici e confini ecclesiastici: in alcuni territori di frontiera le chiese locali dipendevano
da diocesi straniere. Era il caso di parte della Savoia e della contea di Nizza, che era ripartita tra
l’omonima diocesi, quattro diocesi francesi (Embrun, Glandèves, Vence e Senez), una sabauda
(Torino) e una genovese (Ventimiglia).
Le conseguenze della crisi religiosa scoppiata nel nord Europa con la Riforma protestante, si
fecero sentire anche nelle aree alpine. Le dottrine riformate si diffusero nello Stato sabaudo fin
dagli anni venti del Cinquecento e specie nel Piemonte occidentale trovarono un terreno
favorevole nella dottrina cataro-valdese, che contava ancora numerosi aderenti, concentrati nelle
valli Chisone, Germanasca e Pellice, confinanti con la Francia.
La confessione valdese, grazie all’emigrazione, si era sparsa anche nelle zone vicine: le valli della
Dora Riparia e del Po. Perciò esistevano già vari nuclei di dissidenti, i quali trovarono subito punti
di contatto con le idee luterane e calviniste. Il processo ebbe ulteriore impulso, allorché i valdesi
aderirono formalmente alla Riforma nel 1532 con il Sinodo di Chanforan, dando inizio ad una vasta
opera di proselitismo, svolta in collaborazione con predicatori inviati dalle città svizzere, prima fra
tutte Ginevra. A favorire la nuova mentalità religiosa contribuirono il transito degli eserciti, dove
numerosi erano i mercenari di fede riformata.
Fin dall’inizio i Savoia furono ostili alla Riforma, tuttavia dovettero tenere
conto delle
dimensioni internazionali assunte dal fenomeno e della necessità di mantenere buoni rapporti con
i principi protestanti. Nel complesso il loro atteggiamento fu caratterizzato dall’alternanza di
momenti di tolleranza e di interventi repressivi. Nel 1527 il papa Clemente VII elesse un Inquisitore
generale per gli stati sabaudi e il Delfinato, ma il provvedimento rimase senza seguito. Ben altro
effetto ebbe nel 1535 la nomina di un commissario ducale per la persecuzione dei valdesi, il quale
in breve tempo imprigionò molti dissidenti, alcuni dei quali furono anche condannati al rogo. Fu
però lo stesso duca Carlo II, allarmato dalle conseguenze della persecuzione, ad ordinarne la fine.
Durante l’occupazione francese e almeno fino al 1547, i riformati piemontesi godettero di lunghi
periodi di relativa tranquillità, grazie al fatto in Piemonte soggiornarono generali apertamente
aderenti alla riforma come Gauchier Farel, fratello del riformatore Guillaume o governatori
tolleranti. Anche quando la Francia emanò provvedimenti più severi ed Enrico II istituì la Chambre
ardente contro gli eretici, la condizione dei dissidenti non peggiorò, perché le direttive regie
vennero poco applicate. Solo dopo la metà del secolo iniziarono le persecuzioni e il Parlamento di
Torino ebbe l’ordine di collaborare con l’Inquisizione romana. Segno della svolta autoritaria fu
l’editto contro i religionari della Val Pellice, promulgato nel novembre 1556.
Anche la Valle d’Aosta negli anni venti era stata toccata dalle idee protestanti, portate da alcuni
monaci eterodossi, provenienti non tanto da oltralpe, quanto dalla Pianura padana. Le autorità
ecclesiastiche tuttavia, capeggiate dall’intransigente Pietro Gazino, vescovo di Aosta dal 1528,
riuscirono ad opporsi al moto riformato, organizzando un’attenta opera di predicazione e di
repressione, tanto che già nella prima metà del Cinquecento la valle compì un passo decisivo verso
la Controriforma.
In questo senso fu determinante la convergenza di intenti che si realizzò tra il clero e i ceti
dirigenti locali, testimoniata dalla collaborazione che si instaurò tra il vescovo e il governatore
René de Challant. Tale alleanza rimase una caratteristica della società valdostana anche nei secoli
seguenti. Alla morte di Gazino nel 1556, l’azione di riforma della Chiesa venne proseguita dai
successori Marcantonio Bobba (significativamente in corrispondenza epistolare con San Carlo
Borromeo) e Girolamo Ferragatta, che diedero impulso all’istituto delle visite diocesane e si
impegnarono a favorire l’applicazione nella Valle dei decreti del Concilio di Trento.
Non va però dimenticato che l’azione di controllo esercitata dai presuli per imporre la disciplina
ecclesiastica e l’obbedienza ai canoni conciliari, si scontrò sovente con la volontà del clero di
mantenere i propri privilegi. Particolarmente ostinati si dimostrarono i membri delle chiese
capitolari aostane, forti della loro dipendenza dall’arcidiocesi di Tarantaise al di là dei monti e
inclini a seguire le dottrine gallicane, che si erano affermate nella vicina Francia fin dalla seconda
metà del XV secolo e che sostenevano l’autonomia delle Chiese nazionali nei confronti del papa.
Al pari della Valle d’Aosta anche la contea di Nizza rimase immune dalle infiltrazioni riformate.
Nella società nizzarda la fedeltà alla Chiesa cattolica costituì un fondamentale fattore di coesione,
anche perché gli ordini regolari non conobbero una decadenza pari ad altri contesti geo-politici e i
conventi contribuirono a mantenere alto il livello spirituale della comunità. I gesuiti, ultimi arrivati
nel 1606, si resero subito popolari per le loro opere di carità e l’attività di insegnamento svolta dal
loro collegio.
Nelle provincie savoiarde la penetrazione delle dottrine riformate venne favorita dalla vicinanza
alla Svizzera e dalla presenza di un centro di dissidenza politica come la città di Ginevra, la quale
nel 1526 si emancipò dall’autorità sabauda, alleandosi con Berna e Friburgo e aprendosi alla
propaganda eterodossa, iniziata dal predicatore francese Guillaume Farel e proseguita da Giovanni
Calvino. La diffusione del protestantesimo portò nel 1535 al trasferimento del vescovo ad Annecy,
che da allora divenne la capitale religiosa della Savoia e il baluardo della Controriforma cattolica.
Le popolazioni della provincia si mantennero infatti fedeli al cattolicesimo e le cose non
mutarono neppure con l’invasione francese nel 1536. In Francia le idee protestanti si erano diffuse
fin dal 1521 e via, via avevano preso piede, penetrando in aree come il Delfinato e la Provenza, che
confinavano con i domini sabaudi lungo la catena alpina. Lione e Grenoble divennero sedi di
consistenti nuclei prima luterani, poi calvinisti. Nei loro confronti il governo regio iniziò un’opera di
repressione a partire dalla metà degli anni trenta, che venne intensificata, come in Piemonte, da
Enrico II, il quale emanò tra 1551 e 1557 diversi editti contro gli eterodossi, che vennero estesi
pure alla Savoia.
Quando il ducato venne restituito ad Emanuele Filiberto nel 1559, egli dovette fronteggiare il
problema dei nuclei riformati che si erano costituiti nelle zone del Piemonte occidentale confinanti
con la Francia. Si trattava delle Valli Chisone e Pellice, la bassa Valle di Susa e il Pinerolese. Inoltre,
anche Cuneo e le contigue Valli Stura, Grana e Vermenagna, presentavano consistenti presenze
eterodosse. In un primo tempo il duca intraprese una politica repressiva, culminata con la guerra
contro i Valdesi, a cui pose fine la pace di Cavour del giugno 1561, primo esempio di compromesso
fondato su una parziale tolleranza religiosa. Poi preferì seguire una strategia di recupero
attraverso l’opera di missionari, specie cappuccini e gesuiti, questi ultimi guidati dal famoso
predicatore Antonio Possevino.
Le misure contro i dissidenti divennero col tempo più dure: nel 1566 fu costruito il forte di
Mirabocco per impedire i collegamenti dei valdesi della val Pellice con i correligionari dell’alta Val
Chisone. Da questo momento e in misura ancora sempre maggiore, la mobilità della minoranza
valdese fu sempre più limitata, tanto che le zone dove risiedevano persero la loro originaria
denominazione geografica e vennero indicate da quel momento in poi, sia negli atti ufficiali, sia
nelle carte topografiche come le «valli valdesi». Analoghi provvedimenti restrittivi vennero presi
nei confronti di Cuneo e di centri vicini come Robilante, Cervasca, Borgo San Dalmazzo, Caraglio,
dove secondo una testimonianza contemporanea esisteva una chiesa riformata di circa 900
persone. Nel giro di pochi anni i nuclei di dissidenti che vivevano al di fuori delle valli abitate dai
valdesi furono definitivamente smantellati.
Nelle provincie sabaude al di là delle Alpi non fu necessario seguire le misure drastiche adottate
per il Piemonte. Emanuele Filiberto si limitò a confermare la severa normativa già promulgata
dalle autorità francesi, favorendo altresì le missioni evangelizzatrici e la fondazione di collegi
gesuitici, il primo dei quali fu eretto a Chambéry.
Sul versante transalpino la Riforma si diffuse in un’area come il Delfinato che storicamente
presentava alcune caratteristiche particolari. In primo luogo la presenza di due arcidiocesi (Vienne
ed Embrun) e di ben cinque diocesi, tra cui importanti città come Gap, Grenoble e Valence; poi
l’esistenza di giurisdizioni ecclesiastiche che appartenevano a stati diversi, per cui le valli francesi
al di là delle Alpi dipendevano dall’arcivescovo di Torino, mentre parte della Savoia era sottoposta
al vescovo di Grenoble. Infine, i presuli di Embrun e Gap esercitavano la preminenza anche sulla
Provenza e in parte anche su Nizza, che era dominio sabaudo.
Allo scoppio delle guerre di religione le istituzioni cattoliche entrarono in crisi e molte proprietà
del clero regolare (specie domenicani e francescani) furono confiscate dai protestanti. Si creò
un’organizzazione ecclesiastica ugonotta, parallela a quella cattolica: capitale del movimento
riformato divenne la città di Die, mentre a Montélimar fu costruito il tempio più grande di tutta la
regione.
Tale situazione determinò lo scoppio di un aspro conflitto tra le due confessioni, che coinvolse le
comunità riformate, che pur essendo sul versante italiano, dipendevano dall’antico Delfinato,
come le alte valli della Dora Riparia e del Chisone. In questi luoghi la vita degli abitanti fu segnata
dalle divisioni tra cattolici e ugonotti, e seguì il ritmo convulso delle guerre che insanguinarono la
Francia tra 1562 e 1597. Lungo il confine franco-piemontese luoghi come Bardonecchia, Oulx,
Exilles, Pragelato, Fenestrelle e le vallate limitrofe divennero teatro di scontri e rappresaglie tra le
opposte fazioni.
Queste località, insieme a Saluzzo, subirono nel corso del secolo l’influenza politico religiosa dei
riformati francesi, una delle cui roccaforti diventò proprio il Delfinato. A Gap infatti era nato Farel,
il quale vi aveva fondato una fiorente chiesa. Col tempo la provincia si divise in due parti: città
come Romans e Gap divennero calviniste, mentre Briançon, Embrun e Vienne si mantennero
cattoliche. Con la costituzione della Lega cattolica nel 1588, la lotta confessionale si accentuò; per
qualche tempo la stessa Grenoble fu in mano ai leghisti, che si avvalsero del sostegno di Carlo
Emanuele I di Savoia. Poi la città venne assediata e conquistata dagli ugonotti, guidati dal loro
capo carismatico, François de Bonne, signore di Lesdiguieres, il quale la governò per circa un
trentennio, instaurando un regime di convivenza tra le due religioni.
La Riforma si diffuse anche in Provenza, la regione che confinava con il Delfinato e le Alpi
piemontesi sud occidentali. Anche qui la Chiesa e il clero erano in crisi, ma una prima azione di
riforma era stata portata avanti dal vescovo di Carpentras Jacopo Sadoleto, fine umanista animato
da principi di tolleranza. Un nucleo di dissidenza storica era tuttavia costituito dai Valdesi, diffusi
soprattutto nella zona del Luberon. Nei loro confronti il governo francese prima perseguì una
politica mirante alla conversione, poi passò alla repressione, che culminò nel 1545 nel massacro di
circa 3.000 religionari.
Con l’inasprirsi delle lotte confessionali, i riformati provenzali si collegarono con i confratelli del
Delfinato e dopo il 1585 contarono soprattutto sull’appoggio militare del citato Lesdiguieres. Le
loro roccaforti divennero Sisteron, collocata in una posizione strategica sulla Durance e Seyne-lesAlpes. I baluardi dell’ortodossia cattolica furono invece Avignone, città da lungo tempo sotto
l’amministrazione del papa e Marsiglia. Nelle vicende politiche e religiose della Provenza si
intromise anche il duca Carlo Emanuele I di Savoia, il quale vi compì un spedizione tra 1590 e 1592,
in apparenza con lo scopo di appoggiare il partito cattolico, ma in realtà per espandere i propri
domini in territorio francese. Il tentativo sabaudo tuttavia si concluse con un insuccesso.
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