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Corso di Economia Applicata (UE), triennale.
Dispense di Economia Docente Dr. Pasquale Tridico ([email protected])
CAPITOLO 1:La contabilità nazionale
1.1. Il Pil
La grandezza fondamentale della Macroeconomia è il PIL. Il PIL è il valore di mercato di tutti i beni
e servizi finali prodotti in un paese in un dato periodo di tempo. Chiariamo i vari termini che
entrano in questa definizione:
-
valore di mercato: i beni e i servizi che entrano nel PIL sono valutati ai prezzi di mercato
(correnti),
cioè
ai
prezzi
a
cui
vengono
effettivamente
venduti;
- tutti: meno quelli prodotti e venduti illegalmente; meno quelli prodotti e consumati
all’interno delle famiglie;
- finali: la farina è un bene finale se venduta come farina; un bene intermedio se venduta
al panettiere per fare il pane. In questo caso il valore della farina è incorporato nel valore
del
pane;
- prodotti: il PIL misura il valore dei beni e servizi prodotti in un anno, non le transazioni di
un anno; così le auto nuove che vengono vendute e acquistate fanno parte del PIL in
quanto prodotte nell’ anno, mentre la compravendita di auto usate non è registrata nel
PIL;
- in un paese: il PIL misura ciò che è prodotto in Italia, non ciò che è prodotto da Italiani.
Gli italiani possono anche produrre all’estero, mentre in Italia possono produrre anche
soggetti stranieri. Il PIL include ciò che è prodotto da soggetti esteri in Italia ed esclude ciò
che è prodotto da soggetti italiani all’ estero. Un esempio è utile a chiarire il concetto: Si
supponga che in un’economia esistano due sole imprese. La prima produce farina
(mugnaio) per un valore complessivo di $ 50, impiegando lavoro, al quale paga salari pari
a $ 10 e la seconda (fornaio) produce pane per un valore pari a $ 100, impiegando farina
per un valore di $ 10 e lavoro, al quale paga salari pari a $= 40.
Qual’è il PIL di questa economia? Non è il valore complessivo della produzione ($=50+100=150)
perché 10 $= di farina sono consumati nella produzione di pane; quindi non sono beni finali. Il PIL
sarà dunque pari a $:
PIL = 50 + (100 - 10) = 140
Implicitamente, abbiamo calcolato il PIL utilizzando un metodo che viene chiamato: metodo del
valore aggiunto. Il valore aggiunto da un’impresa alla produzione è pari al valore della sua
produzione al netto del valore dei beni intermedi utilizzati nella produzione. Nel nostro esempio il
mugnaio non utilizza beni intermedi; quindi il valore netto della sua produzione coincide con il
valore lordo: $ 50. Il fornaio, viceversa, impiega $ 10 di farina; quindi il valore netto della sua
produzione è pari $ 100-10=90.Un altro metodo per calcolare il PIL è il metodo del reddito. Infatti,
la differenza tra valore della produzione e valore dei beni intermedi in ogni impresa non può che
andare a remunerare i lavoratori (salari), al pagamento di imposte indirette, a profitto
dell’impresa (distribuito o meno agli azionisti). Nel nostro esempio non ci sono imposte indirette e
quindi la differenza in questione non può che essere pari ai salari più i profitti: PIL = Reddito =
Salari + Profitti = (10 + 40) + (40 + 50) = 140. Nel nostro esempio il reddito da lavoro
rappresenta il 35,71% del PIL ( 50/140 · 100), mentre il reddito da capitale rappresenta il 64,29%
( 90/140 · 100).
1.2. Pil, reddito e spesa
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Nel precedente paragrafo si è visto che il PIL può essere misurato con ilmetodo del valore
aggiunto e con il metodo del reddito. Ma il PIL può essere calcolato anche con il metodo della
spesa. Nell’ economia semplificata descritta sopra (quella con famiglie e due imprese, mugnaio e
fornaio) abbiamo che la spesa per beni finali è costituita esclusivamente da spesa per consumi,
pari a $ 40 (spesa delle famiglie per la farina) + $ 100 (spesa delle famiglie per il pane). La spesa
di $ 10 per l’acquisto di farina da parte del mugnaio non rientra né tra le spese di consumo delle
famiglie, né tra le spese di investimento del fornaio, in quanto la farina non costituisce un bene
durevole ma è interamente utilizzata nella produzione di una anno.
Con il metodo della spesa avremo quindi: PIL = 40 + 100 = 140
Detto altrimenti: poiché il PIL registra solo il valore dei beni e servizi finali e poiché questi ultimi
sono, nel nostro esempio, solo beni di consumo, il valore della spesa non potrà che essere pari al
valore dei beni di consumo. Naturalmente, nelle economie reali la spesa non è costituita solo da
quella per consumi delle famiglie, anche se essa fa la parte del leone (in Italia supera il 60% del
PIL, negli USA è vicina al 70%).Alla spesa per consumi delle famiglie bisogna aggiungere la spesa
per beni di investimento, effettuata dalle imprese per l’acquisto di nuovi macchinari e impianti e
dalle famiglie e dalle imprese per nuovi immobili (l’ acquisto di vecchi immobili non è una spesa
registrata nel PIL, ma rappresenta un impiego della ricchezza di famiglie e imprese). A questi
investimenti fissi vanno aggiunti i cosiddetti investimenti in scorte, nei quali sono compresi tutti i
beni non venduti nell’ anno in corso e collocati nei magazzini delle aziende. In questo caso si parla
di investimenti perché è come se le aziende “acquistassero” oggi una produzione per venderla
negli anni successivi, indipendentemente dalla circostanza che tali “acquisti” siano o meno
volontari, cioè che le scorte si accumulino programmaticamente o perché le previsioni di vendita
non si sono realizzate. Quando la produzione corrente è inferiore alle vendite correnti, le scorte si
riducono: l’ investimento in scorte è negativo. Così negli investimenti in scorte si registrano,
effettivamente, le variazioni delle scorte. Altra componente della spesa è la spesa pubblica per i
beni in uso presso la Pubblica amministrazione (Stato, Regioni, Comuni, istituti della previdenza
obbligatoria, quali Inps, Inpdap ecc.), nonché per i servizi da questa acquistati, ivi compresi,
ovviamente, quelli forniti dai dipendenti della Pubblica amministrazione stessa (il cui valore è
rappresentato dai loro stipendi). Nella spesa pubblica, in questo senso, non rientrano i
trasferimenti che a titolo diverso dallo stipendio ai pubblici dipendenti la PA concede ogni anno alle
famiglie (sussidi di disoccupazione, pensioni, ecc.), poiché tali sussidi e trasferimenti non
costituiscono immediatamente acquisto di benie servizi. Tuttavia, essi rappresentano uscite per la
PA e come tali sono contabilizzate nel bilancio pubblico. A tali spese nazionali (cioè compiute da
soggetti residenti per l’acquisto di beni e servizi prodotti nel paese) vanno aggiunte le spese
compiute da soggetti esteri per l’acquisto di beni e servizi prodotti nel paese: le esportazioni;
mentre vanno sottratte le spese dei soggetti nazionali (famiglie, imprese e PA) per l’ acquisto di
prodotti esteri: le importazioni. In pratica, dunque la voce di spesa che conta è il saldo
commerciale (differenza tra esportazioni e importazioni), per il quale si usa spesso l’espressione
esportazioni nette. Una semplicissima formula riassume tutto ciò:
Y=C+I+G+X
Y = PIL
C=SPESA PER CONSUMI PRIVATI
I=SPESA PER INVESTIMENTI PRIVATI IN BENI DUREVOLI +VARIAZIONI DELLE SCORTE
G=ACQUISTI PUBBLICI
X=ESPORTAZIONI NETTE=E-Z
E=ESPORTAZIONI
Z=IMPORTAZIONI
Abbiamo visto sopra che il PIL può essere misurato con il metodo del reddito e quindi è
identicamente uguale alla somma di tutti i redditi. Possiamo avere due casi: (i) tutti i profitti sono
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distribuiti (via dividendi azionari) alle famiglie; (ii) una parte dei profitti non viene distribuita, ma
trattenuta dalle imprese per finanziare direttamente gli investimenti. Nel primo caso, il reddito che
è effettivamente disponibile per gli usi decisi dalle famiglie è tutto il reddito prodotto. Nel secondo
caso, vanno subito sottratti i profitti non distribuiti dalle imprese, che possiamo anche considerare
risparmio di impresa. In entrambi i casi vanno aggiunti i trasferimenti alle famiglie, ma vanno
immediatamente sottratte le imposte dirette e indirette, nonché i contributi sociali obbligatori (per
esempio, i contributi pensionistici) versati alla PA. Nel primo caso la formula per il reddito
disponibile sarà:
YD = Y + T R - T (1.2)
YD= REDDITO DISPONIBILE
TR=TRASFERIMENTI
T=IMPOSTE + CONTRIBUTI SOCIALI
Nel secondo caso, invece avremo:
YD = Y - Sf + T R - T (1.3)
dove Sf rappresenta il profitto non distribuito ovvero il risparmio di impresa. Una volta che
abbiamo il reddito disponibile delle famiglie possiamo suddividerlo nei due modi in cui le famiglie
possono impiegarlo, cioè per consumi e per risparmi. Nel caso (i) abbiamo:
Y + T R - T = C + S (1.4)
C=CONSUMO
S=RISPARMIO
Nel caso (ii), invece, dovremo distinguere in prima battuta tra risparmio delle famiglie (che
indicheremo con Sh) e il già indicato risparmio delle imprese (Sf ):
Y - Sf + T R - T = C + Sh
È però sufficiente portare Sf a destra, sommarlo a Sh e indicare la somma con S per ottenere
nuovamente la (1.4). Ora S starà a indicare il risparmio privato complessivo e non più il risparmio
delle famiglie. A livello aggregato perde importanza sapere quali siano i soggetti privati che
contribuiscono al risparmio. Uguagliando le espressioni (1.2) e (1.4) otteniamo:
C+S=YD=Y+TR-T
da cui:
C = Y D - S = Y + T R - T - S (1.5)
sostituendo C nella definizione del PIL (1.1) con l’ espressione a destra nella(1.5), otteniamo:
Y = Y + T R - T - S + I + G + NX
quindi:
S = I + (G + T R - T) + NX (1.6)
dove con (G+T R-T) = DB indichiamo il disavanzo del bilancio pubblico. Da quest’ultima
espressione ricaviamo un’informazione importante e cioè che il risparmio privato finanzia tanto le
spese di investimento delle imprese, quanto il disavanzo pubblico quanto le esportazioni nette.
Abbiamo già detto che X = E - Z. Riscrivendo la (1.6) con E - Z al posto di X eportando Z al primo
membro, otteniamo:
S + Z = I + (G + T R - T) + E. A sinistra nell’ identità troviamo le risorse, costituite dal risparmio
nazionale più le importazioni, mentre a destra troviamo gli impieghi, investimenti privati interni,
disavanzo pubblico ed esportazioni. Quanto detto poche righe fa dovrebbe rendere chiaro il motivo
per cui chiamiamo S + Z le risorse e I + (G + T R - T) + E gli impieghi. IL PIL E’ UNA BUONA
MISURA DEL BENESSERE ECONOMICO? Il PIL non misura la salute dei cittadini, ma paesi con un
PIL elevato possono per mettersi miglior assistenza sanitaria. Il PIL non misura la qualità
dell’istruzione, ma paesi con PIL più elevato hanno generalmente istruzione di qualità più elevata.
D’altra parte la crescita del PIL può comportare una riduzione del tempo libero, della qualità
dell’ambiente e non comprende le attività svolte all’interno della famiglia. Quindi il PIL è solo una
misura approssimativa del benessere di un paese, ma si tratta di un’approssimazione accettabile
e, di fatto, accettata.
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1.3. Pil reale e Pil nominale
Quando si fanno confronti tra i PIL di anni diversi, ciò che interessa è, separare le variazioni
dovute a cambiamenti dei prezzi dalle variazioni dovute a cambiamenti nelle quantità prodotte. A
questo fine, quindi, non ha molto senso confrontare i PIL espressi ai valori di mercato correnti in
ciascun anno. Tali valori, infatti, cambiano anche perché cambiano i prezzi. Si rivela perciò
necessario valutare i PIL di anni diversi con i prezzi di un solo anno (detto anno base).
Possiamo allora definire il:
PIL NOMINALE AL TEMPO T:
PtYt= sommatoria (ptiyti) (1.7) che misura il valore monetario corrente della produzione
aggregata nell’anno t. Analogamente, definiamo il PIL REALE AL TEMPO T:
P0Yt =sommatoria (p0iyti) (1.8) che misura la produzione aggregata dell’anno t a prezzi costanti,
quelli dell’anno 0. Per studiare la crescita economica, si guarda all’ andamento nel tempo del PIL
reale. Il tasso percentuale di crescita tra l’anno t - n e l’anno t sarà espresso da: (P0Yt - P0Ytn/P0Yt-n) · 100 dove tanto il PIL dell’anno t quanto quello dell’ anno t - n sono espressi nei prezzi
dell’ anno base. Naturalmente, l’anno base si può far coincidere con l’anno t - n. In questo caso.
Facendo il rapporto PIL nominale e PIL reale, otteniamo il DEFLATOREDEL PIL che misura la
variazione del prezzo della produzione aggregata tra l’anno base e l’anno t. Tutto ciò appare assai
semplice, ma in effetti non lo è, perché la composizione “fisica” del PIL cambia nel tempo: nuovi
beni e servizi entrano in produzione e altri ne escono. Molti beni, grazie al progresso tecnologico e
al cambiamento dei gusti, cambiano di “contenuto”. Le automobili di oggi hanno contenuti
tecnologici incomparabili con quelli delle automobili di 40 anni fa, e il loro prezzo di oggi dipende
anche da questi maggiori contenuti. Dire che il prezzo di un’automobile è variato in 40 anni
dell’x% non è certo preciso, poiché l’auto di oggi è quasi un altro bene rispetto all’auto di 40 anni
fa. Il deflatore del PIL non è altro che un numero indice dei prezzi. Da esso non si ricava
esattamente il tasso di inflazione. Quest’ ultimo, infatti, viene in genere misurato con la variazione
dell’indice dei prezzi al consumo (IPC). La differenza tra IPC e deflatore del PIL risiede nel fatto
che non tutti i beni e servizi registrati nel PIL entrano a far parte del paniere dei consumi delle
famiglie, o vi entrano in proporzioni diverse da quelle con cui entrano nel PIL. Inoltre, i consumi
contengono anche beni importati, che quindi non sono prodotti all’interno del paese e non sono
registrati nel PIL. Quando i prezzi dei beni importati variano in modo molto differente rispetto ai
prezzi interni, deflatore del PIL e IPC divergono. Al contrario,quando tali variazioni sono uniformi, i
due indici appaiono allineati.
1.4. Altre misure del reddito macroeconomico
Il PIL non è l’unica misura del “prodotto” o del “reddito” macroeconomico. Come siè già detto,
esso include i redditi guadagnati in un certo paese (l’Italia, per esempio) dai residenti esteri ma
esclude i redditi dei cittadini italiani ma guadagnati all’estero. Se al PIL sommiamo i redditi netti
dall’estero - cioè il saldo tra redditi dei cittadini italiani all’estero e redditi esteri in Italia otteniamo
il
prodotto
nazionale
lordo
o
PNL:
PNL = PIL + redditi netti dall’estero. In paesi molto grandi, come gli USA o l’ Unione Europea la
differenza tra PIL e PNL è minima (3%-4%), perché i redditi dei residenti all’estero sono di
dimensione molto simile a quella dei redditi degli stranieri all’ interno di tali paesi. Per paesi più
piccoli i due valori possono essere molto diversi. Si pensi al caso di paesi caratterizzati da forte
emigrazione e scarsa immigrazione, dove poche sono le imprese estere che stabiliscono colà i
propri impianti. Per simili paesi avremo un PNL significamente più grande del PIL. Al contrario,
paesi caratterizzati da consistente immigrazione e da una forte capacità di attrarre imprese estere
avranno un PIL ben maggiore del PNL. È adesso venuto il momento di spiegare il significato
dell’aggettivo “lordo” che compare tanto nel PIL quanto nel PNL. Esso sta a indicare che il valore
della produzione (interna o nazionale che sia) viene calcolata al lordo degli ammortamenti, cioè di
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quelle spese che sono volte a reintegrare il capitale che annualmente si logora (e quindi perde
valore) nei processi produttivi. Gli ammortamenti rappresentano una stima della perdita di valore
dello stock di capitale nel corso di un anno e perciò vengono anche chiamati consumo di capitale
fisso. Sottraendo al PNL gli ammortamenti otteniamo una misura della produzione al netto di tali
consumi di capitale fisso: una misura che si chiama prodotto nazionale netto o PNN: PNN = PNL ammortamenti Considerato che gli ammortamenti variano da una quota del 7% a una del 10% del
PNL, il PNN rappresenta dal 90% al 93% del PNL. Infine, bisogna tenere conto del fatto che le
imposte che incassa la Pubblica Amministrazione sono di due tipi: le imposte dirette e le imposte
indirette. Le prime colpiscono tutti i redditi, da lavoro, da impresa o finanziari, con aliquote
(percentuali) variabili secondo regole fissate nelle leggi tributarie. Le seconde, invece, si pagano
quando si effettuano transazioni. Per esempio, ogni volta che compriamo un litro di benzina
paghiamo 1$, ma al gestore della pompa di benzina rimangono circa 45 centesimi; i restanti 55
sono “accise” sui carburanti, cioè imposte indirette che incassa lo Stato (l’IVA o imposta sul valore
aggiunto è un altro esempio di imposta indiretta che grava su tutte le transazioni). Vi è quindi una
differenza consistente,almeno in questo caso, tra ciò che il consumatore paga e ciò che l’impresa
incassa. Poiché tale differenza non è percepita dall’impresa essa non può fare parte dei redditi che
l’impresa stessa distribuisce. D’altra parte, la Pubblica amministrazione può sussidiare i prezzi di
alcuni prodotti di cui vuole incoraggiare il consumo. In questo caso il prezzo percepito dal
produttore è maggiore di quello pagato dai consumatori e la differenza tra i due(ovviamente
moltiplicata per la quantità) costituisce reddito distribuibile dall’impresa. Insomma, per avere una
misura corretta del reddito nazionale o RNL, al PNL dobbiamo sottrarre le imposte indirette e
sommare i contributi alla produzione: RNL = PNL - imposte indirette + contributi alla produzione.
Naturalmente, se al reddito nazionale lordo sottraiamo gli ammortamenti, otteniamo il reddito
nazionale netto o RNN: RNN = RNL - ammortamenti. E' utile conoscerle soprattutto per
interpretare correttamente le cifre che si leggono sui giornali o che vengono “strillate” in
televisione e per effettuare i confronti (temporali o tra paesi) utilizzando variabili omogenee.
CAPITOLO 2: DALLA CONTABILITA’ NAZIONALE AL MODELLO IS-LM
2.1. Principali identità
Riprendiamo alcune delle identità di contabilità nazionale introdotte nel primo capitolo, ma con
riferimento ora a un’economia chiusa agli scambi con l’estero e trascurando i trasferimenti alle
famiglie da parte della Pubblica Amministrazione. L’identità tra reddito e spesa sarà:
Y = C + I + G (5.1)
Il reddito può essere impiegato per consumi, risparmi (privati) e pagamenti d’imposte:
Y = C + SP + T (5.2)
Infine, il risparmio privato è uguale alla somma di investimenti privati e disavanzo pubblico:
SP = I + (G - T ) (5.3)
Ma da (5.1) si ha I = Y -G-C. Perciò, sostituendo in (5.3) e semplificando si ottiene:
SP = Y - C - T
Infine, sostituendo quest’ultima espressione in (5.2) ricaviamo:
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Y - C - T = I + (G - T ) (5.4)
o anche: (Y - C - T) + (T - G) = I (5.5)
Tanto la (5.4) quanto la (5.5) rappresentano un conto “risorse - impieghi”. Dalla (5.5) emerge che
il risparmio privato (Y -C -T ) e risparmio pubblico (T - G) finanziano gli investimenti privati: S = I
(5.6) A livello contabile - lo si è già detto nel primo capitolo - l’identità si realizza grazie al modo
in cui vengono contabilizzate le scorte. Resta da chiedersi se l’uguaglianza tra risparmi e
investimenti può essere garantita come equilibrio tra scelte di risparmio e scelte di investimento.
La questione è della massima rilevanza in quanto senza l’equilibrio tra risparmi e investimenti non
può realizzarsi neanche l’equilibrio tra domanda e offerta aggregata, su cui pure abbiamo fondato
l’analisi dei due capitoli precedenti. In effetti la (5.1) può essere reinterpretata come un’equazione
che rappresenta la domanda aggregata, suddivisa nelle sue componenti:
AD = C + I + G (5.7)
L’uguaglianza tra (5.7) e (5.2) esprime l’uguaglianza tra reddito e spesa. Poiché la (5.6) non è
altro che una manipolazione dell’uguaglianza tra (5.1) e (5.2) ovviamente lo è anche
dell’uguaglianza AD = Y; ma allora:
AD < Y allora I < S
AD > Y allora I > S
Poiché il valore delle scorte è semplicemente Y -AD, è evidente che contabilizzare le scorte come
investimenti, cioè come spesa, implica che l’uguaglianza è contabilmente sempre verificata. Ma le
scorte possono essere desiderate o indesiderate. La presenza di scorte non desiderate è segnale di
una situazione non di equilibrio. I soggetti economici cambieranno comportamenti. La domanda
allora è: i mercati finanziari sono in grado di coordinare risparmi e investimenti in modo che AD =
Y sia un equilibrio e non solo un’identità contabile? Con riferimento al lungo periodo, la risposta al
quesito è positiva. Il risparmio si risolve interamente in offerta di fondi mutuabili, gli investimenti
si risolvono in domanda di fondi mutuabili, e il mercato dei fondi mutuabili è perfetto. In un
contesto simile il prezzo dei fondi mutuabili - cioè il tasso di interesse reale (r = i -p) - consentirà
di equilibrare risparmi e investimenti.
2.2. Il modello IS-LM
Nel modello reddito-spesa esaminato nel capitolo precedente si assumeva che gli investimenti
fossero una variabile esogena. In realtà la spesa per investimenti dipende dal tasso di interesse
(reale). È quindi necessario introdurre la relazione tra investimenti e tasso d’interesse nel modello.
Così facendo avremo che una componente di A, cioè della spesa aggregata, dipende dal tasso di
interesse (r). Ne segue che avremo un valore di equilibrio (sul mercato dei beni) di Y per ogni
dato valore di r. Vale a dire che, per ogni valore del tasso di interesse, possiamo individuare un
valore del PIL compatibile con l’equilibrio sul mercato dei beni o, equivalentemente, con
l’uguaglianza di risparmi e investimenti. Questa relazione di equilibrio tra Y e r è graficamente
rappresentabile come una curva: la curva IS (investimenti-risparmio). Per determinare quale, tra i
tanti possibili, sia l’effettivo valore di equilibrio di Y è necessario sapere quale sia il valore effettivo
di r. Per trovare questo valore si cercherà di individuare la relazione esistente tra tasso di
interesse ed equilibrio del mercato monetario. Scopriremo così che esiste un valore di-equilibrio di
Y (sul mercato monetario) per ogni dato valore di r tale per cui la domanda di liquidità è uguale
all’offerta di moneta. Questa relazione di equilibrio tra Y e r è graficamente rappresentabile come
una curva: la curva LM (liquidità-moneta). L’intersezione tra curva IS e curva LM nello spazio (r, Y
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) ci fornirà i valori del tasso di interesse e del PIL compatibili con l’equilibrio simultaneo del
mercato dei beni e di quello della moneta. Analiticamente, tale risultato sarà ottenuto risolvendo
simultaneamente un sistema di due equazioni, una rappresentante la relazione IS, l’altra
rappresentante la relazione LM.
2.3. La IS e il mercato dei beni
Riprendiamo il modello reddito-spesa con la presenza del settore pubblico visto nel precedente
capitolo. Sostituiamo, però l’ipotesi di investimento esogeno I = ¯I, con l’ipotesi che l’investimento
sia funzione del tasso di interesse. Ipotizziamo che questa funzione sia lineare:
I = ¯I – qr
¯I rappresenta una componente “autonoma” dell’investimento, una componente non dipendente
dal tasso di interesse. Tale componente, in realtà, tende a catturare analiticamente l’idea che la
spesa per investimenti è anche influenzata dalle aspettative che le imprese hanno circa la
possibilità di vendere le merci da loro prodotte. Tanto più ottimistiche sono tali aspettative e tanto
maggiore sarà ¯I. Graficamente la relazione è rappresentabile come una retta, la cui intercetta
con l’asse delle ascisse è costituita da ¯I e la cui inclinazione rispetto all’asse delle ordinate è q (
1/q rispetto all’asse delle ascisse). Tanto maggiore è q, quindi, e tanto maggiore è l’influenza che
il tasso di interesse esercita sulla spesa per investimenti.
2.4. La LM e il mercato della moneta
La ragione per cui si guarda al mercato monetario per determinare il tasso di interesse è che, nel
breve periodo almeno, il tasso di interesse sembra essere il “prezzo” che equilibria il mercato della
moneta piuttosto che il prezzo che equilibria il mercato dei fondi mutuabili.
Del resto, in questo e nel precedente capitolo si è visto che l’offerta di fondi mutuabili, cioè il
risparmio, nel breve periodo dipende principalmente dal livello del reddito e non dal tasso di
interesse. Secondo Keynes - l’economista che più di ogni altro ha contribuito allo studio del breve
periodo - il tasso di interesse è il prezzo della rinuncia alla liquidità, ovvero della rinuncia alla
principale caratteristica della moneta, che, appunto è l’attività più liquida che vi sia nell’economia
ma che non frutta interessi. Quando gli individui devono scegliere il loro portafoglio di attività,
rinunciano alla moneta nella misura in cui ricevono un interesse soddisfacente dal possesso di
attività meno liquide, come i depositi bancari.remunerati o i titoli obbligazionari. È anzi
ragionevole supporre che la rinuncia alla liquidità sarà tanto maggiore quanto più elevato è il
tasso di interesse. Quest’ultimo può essere visto anche come il costo opportunità del detenere
moneta: tenendo moneta gli individui rinunciano all’interesse che fruttano attività meno liquide e
più rischiose. La condizione affinché esista una certa “preferenza per la liquidità” è che vi sia
incertezza circa il livello futuro del tasso di interesse. Ciò, infatti, introduce un elemento di rischio
associato alla rinuncia alla liquidità. Inoltre, l’incertezza sul futuro del tasso di interesse è la stessa
incertezza circa l’andamento del prezzo dei titoli (che è correlato inversamente con il tasso di
interesse). Naturalmente, più alto è il tasso di interesse oggi, più basso il prezzo dei titoli e più
appetibili risulteranno essere i titoli fruttiferi e più elevato sarà quindi il costo opportunità di
detenere moneta. Ma un tasso di interesse elevato oggi può generare anche aspettative di ribasso
e quindi di prezzi dei titoli più elevati in futuro. Il che può rafforzare la spinta ad acquistare titoli
oggi per rivenderli domani, ottenendo un guadagno speculativo. Al contrario un tasso di interesse
basso oggi può spingere gli speculatori a vendere titoli in attesa che il loro prezzo si riduca in
futuro. La vendita di titoli, naturalmente, si trasforma in domanda di moneta liquida oggi. La
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preferenza per la liquidità è dunque connessa strettamente a un movente tipicamente speculativo
per detenere moneta. Detto in altri termini, la domanda dell’attività più liquida, la moneta, sarà
una funzione inversa del saggio di interesse. Ma, come sappiamo, la moneta non viene tenuta dai
soggetti economici soltanto per gli usi speculativi. Essa viene tenuta anche per effettuare le
transazioni, cioè gli acquisti di beni e servizi, acquisti che non avvengono, ovviamente, nello
stesso momento in cui si percepisce il reddito. La domanda di moneta per motivi transattivi è
strettamente collegata al livello del reddito. Essa sarà tanto più elevata quanto più elevato è il
livello del reddito.
La domanda complessiva di moneta (L) sarà, allora, la somma di due componenti: L1, la domanda
per fini transattivi, che dipende dal livello di Y e L2, la domanda per fini speculativi, che dipende
dal tasso di interesse.
L = L1(Y ) + L2(r)
Capitolo 3 : Le fluttuazioni economiche: domanda e offerta aggregata
3.1. Crescita economica e fluttuazioni
È tradizione suddividere la Macroeconomia in due campi di studio distinti: la crescita e le
fluttuazioni. Si tratta di una tradizione conveniente, anche se la separazione netta finisce per far
passare in secondo piano la stretta interrelazione che esiste tra i due macro-fenomeni esaminati.
Con lo studio della crescita si mette a fuoco l’andamento dell’economia nel corso dei decenni,
analizzando le “forze” che stanno alla base di tale andamento. Al centro dell’attenzione sono
l’accumulazione del capitale fisico (macchinari, impianti e infrastrutture), lo sviluppo delle
conoscenze tecnologiche e le relative applicazioni, la crescita della popolazione, l’accumulazione
delle capacità tecniche e scientifiche dei lavoratori (ovvero l’accumulazione del “capitale umano”).
Questi fenomeni cambiano lentamente nel tempo o, comunque, hanno effetti sul sistema
economico dilazionati nel tempo. Per questa ragione, generalmente, lo studio della crescita viene
anche definito analisi di lunghissimo periodo.Se la crescita si concentra sulle tendenze di
lunghissimo periodo, trascura invece le fluttuazioni che il PIL, il tasso di disoccupazione e
l’inflazione mostrano trimestre dopo trimestre, a seguito di piccoli e grandi shocks che colpiscono
l’economia. Per usare un’espressione tipica della statistica delle serie temporali, possiamo dire che
lo studio della crescita mette a fuoco il trend dell’economia; mentre lo studio delle fluttuazioni
mette a fuoco gli scostamenti dal trend. Le fluttuazioni possono essere regolari, oppure (e più
spesso) irregolari. Nel primo caso il PIL assumerà un andamento ciclico regolare intorno al trend;
nel secondo si avranno invece cicli irregolari.Con lo studio delle fluttuazioni (o, come spesso si
dice, del ciclo) si cerca di spiegare le cause e le conseguenze dei movimenti del PIL intorno al suo
trend di crescita e quindi l’attenzione è rivolta a periodi di tempo molto più corti di quelli esaminati
nello studio della crescita. Le fluttuazioni sono inoltre caratterizzate da movimenti congiunti del
PIL e di altre variabili, come i consumi, gli investimenti, l’inflazione, la disoccupazione, ecc. Tali
movimenti congiunti vengono detti comovimenti. Le variabili che hanno comovimenti che vanno
nella stessa direzione dei movimenti del PIL si dicono variabili pro-cicliche. Tra queste i consumi e
gli investimenti. Tra le variabili anti-cicliche troviamo invece il tasso di disoccupazione.
3.2. Misurare il ciclo e il trend
Come è possibile “leggere” nei dati relativi al PIL le tendenze di lunghissimo periodo e le
fluttuazioni cicliche? Ovviamente, le osservazioni che compongono una serie temporale
contengono tanto una componente di ciclo quanto una componente di trend. Al fine di separare la
componente di lunghissimo periodo dalle fluttuazioni cicliche è necessario innanzitutto individuare
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il trend nella serie temporale del PIL. Per fare ciò, si cerca di trovare la retta che meglio
interpolale osservazioni disponibili. Poiché tali osservazioni spesso descrivono una crescita
esponenziale, prima di interpolare i dati con una retta è necessario estrarre i logaritmi dei valori
osservati. La retta interpolante rappresenta il trend, cioè l’andamento di lunghissimo periodo del
fenomeno analizzato, mentre le fluttuazioni saranno misurate dagli scostamenti dal trend, cioè
dalla differenza, in ogni momento del tempo tra i logaritmi dei valori osservati e i valori di trend
corrispondenti (anch’essi in logaritmi). Come s’è detto sopra, nel corso delle fluttuazioni si
possono osservare dei comovimenti tra variabili macroeconomiche. Prendiamo il caso del tasso di
disoccupazione. S’è detto che questa variabile è anticiclica, nel senso che aumenta quando il tasso
di crescita del PIL diminuisce e diminuisce quando il tasso di crescita del PIL aumenta. Tuttavia, se
noi mettiamo su uno stesso grafico il (logaritmo del) PIL e il tasso di disoccupazione (u) ci
rendiamo subito conto che mentre il primo ha un trend, il secondo non cel’ha: il tasso di
disoccupazione fluttua intorno a un livello praticamente costante. I comovimenti risultano poco
chiari. Per ovviare a questo problema, è possibile procedere alla rimozione del trend dalla serie
temporale. Se sottraiamo a ciascun valore di trend se stesso otteniamo sempre degli zero: la
deviazione del trend dal trend è ovviamente nulla. La sua rappresentazione grafica sarà una retta
di ordinata pari a zero. Sottraendo invece i valori di trend dai valori osservati, otteniamo, invece,
delle differenze positive o negative che misurano esattamente gli scostamenti dal trend, cioè dalla
retta di ordinata zero.
3.3. Domanda e offerta aggregata
Fin dall’analisi del funzionamento di un semplice mercato gli economisti sono abituati a distinguere
le “forze” che agiscono dal lato della domanda a quelle che agiscono dal lato dell’offerta. Anche in
Macroeconomia si fa qualcosa del genere distinguendo tra domanda aggregata (o domanda
macroeconomica)
e
offerta
aggregata
(od
offerta
macroeconomica).
Mentre
l’analisi della crescita avviene esclusivamente dal lato dell’offerta, poiché si riconosce che soltanto
le forze che influenzano l’offerta aggregata hanno impatto sull’andamento dell’economia nel
lunghissimo periodo, l’analisi delle fluttuazioni non può prescindere dallo studio anche delle forze
che si trovano dietro la domanda aggregata. Infatti, il modello utilizzato per lo studio delle
fluttuazioni si chiama proprio “modello di domanda e offerta aggregata” o AD-AS (Aggregate
Demand - Aggregate Supply), in cui figurano una curva di domanda aggregata e una curva di
offerta aggregata. Le due curve esprimono diverse relazioni tra livello generale dei prezzi e livello
del PIL (o tra i logaritmi di tali variabili). Nonostante la similitudine con l’analisi microeconomica
dei mercati, le curve AD e AS non sono costruite per semplice aggregazione di curve di domanda e
offerta individuali. In effetti, in micro ciò che conta sono i prezzi relativi: il P che troviamo nel
classico grafico di domanda e offerta è il prezzo del bene i relativamente a quello di un altro bene.
Il P che troviamo nel grafico di domanda e offerta macroeconomiche, invece, rappresenta il livello
generale dei prezzi. Inoltre, in micro la curva di offerta ha senso solo in un contesto di
concorrenza perfetta; in macro la si può costruire anche in un modello di concorrenza imperfetta.
3.4. La AD
Essa non è spiegabile come una curva di domanda individuale; non c’è sostituzione tra beni più
costosi e meno costosi, perché in macroeconomia l’unico bene che conta è il PIL, cioè un “bene
composito” e, naturalmente, un aumento del livello generale dei prezzi non spinge a sostituire la
“domanda di PIL” con la domanda di qualcosa d’altro. Per capire in cosa consista la curva di
domanda aggregata (rimandando alle prossime lezione un progressivo approfondimento) conviene
ripartire dalle identità di contabilità nazionale.Sappiamo che, considerando per semplicità
un’economia chiusa, deve valere la condizione PIL = Y = AD = C + G + I
Come facciamo a ricavare una relazione tra Y e P? Possiamo ipotizzare che G sia autonomamente
decisa dal governo; ma C e I è plausibile abbiano una relazione con P. Tale relazione prende
fondamentalmente due canali: l’effetto ricchezza (o effetto Pigou) e l’effetto tasso di interesse (o
effetto Keynes). In primo luogo, è intuitivo che la spesa per consumi dipenda, oltre che
9
ovviamente dal reddito disponibile anche dalla ricchezza. Una componente della ricchezza
(finanziaria) è costituita dalla quantità di moneta disponibile. Ciò che conta per la spesa è la
quantità di moneta in termini reali, ovvero il potere d’acquisto della moneta: M/P. Se P scende,
con M costante, allora M/P sale. Quindi una diminuzione del livello generale dei prezzi fa
aumentare la ricchezza reale, quindi C sale. Ne segue che al diminuire di P la domanda aggregata
aumenta perché aumenta C e quindi un più basso P è compatibile con un più alto Y .Un
ragionamento un po’ più complesso consente di intuire anche l’effetto Keynes. Una diminuzione di
P abbiamo visto che, con M costante, allora M/P sale; ma la quantità di moneta domandata dagli
individui (in termini reali) è invariata, se Y non è cambiato. La maggior ricchezza reale verrà
dirottata verso l’acquisto di titoli: B (che costituiscono un impiego alternativo alla moneta liquida).
Conseguentemente il prezzo dei titoli salirà: PB sale. La ben nota relazione inversa tra prezzo dei
titoli e tasso di interesse comporterà, allora, una diminuzione del tasso di interesse: r. Poiché il
tasso di interesse rappresenta anche il costo che gli imprenditori devono sopportare per finanziare
i propri investimenti, una diminuzione di r porterà a un aumento degli investimenti I. Al diminuire
di P la domanda aggregata aumenta dunque anche perché aumenta I. E, quindi, anche per questa
via un più basso P è compatibile con un più alto Y.
3.5. LA AS
Qui non deriveremo, ancora, la AS, ma faremo solo alcune affermazioni in base alla sua
definizione. La AS descrive la relazione tra output e livello dei prezzi compatibile con la
massimizzazione del profitto da parte delle imprese. In linea astratta possiamo dire che tale
relazione può essere ad elasticità nulla (l’output non varia per niente al variare dei prezzi); ad
elasticità infinita (i prezzi non variano per niente al variare dell’output); ad elasticità finita: output
e prezzi sono positivamente correlati. È evidente che quando ci si trovi di fronte a una AS verticale
(caso 1), eventuali spostamenti della AD non hanno alcun effetto su Y . Con una AS orizzontale
(caso 2) spostamenti della AD non hanno alcun effetto su P, ma hanno effetto su Y . Nel caso in
cui la AS sia crescente (caso 3), gli spostamenti della AD hanno effetto sia su P che su Y. E’
chiaro, allora, che nel primo caso lo studio di costa sta dietro alla AD è poco importante, mentre è
massimamente importante nel caso (2); nel caso (3) contano sial a AS che la AD. Il caso (1)
descrive il lungo periodo, in cui i prezzi sono perfettamente flessibili e l’economia produce
esattamente il livello di PIL “potenziale” o “naturale”. Tale livello corrisponde a quello di trend
relativamente all’anno considerato. Ovvero è il livello che - data la disponibilità di capitale fisico e
umano e data la tecnologia - l’economia “sceglierebbe” di produrre. La perfetta flessibilità dei
prezzi fa sì che, nel lungo periodo qualsiasi shock che colpisca la domanda aggregata può essere
“accomodato” da aggiustamenti dei prezzi e salari, cosicché le imprese possono produrre
esattamente livello naturale di PIL. Il caso (2) rappresenta invece il breve periodo, in cui i prezzi
sono completamente rigidi, perché le imprese e lavoratori non aggiustano prezzi e salari. Infine, il
caso (3) rappresenta il medio periodo, in cui i prezzi si aggiustano parzialmente. Il medio periodo
costituisce, in effetti il nesso tra breve e lungo periodo e quindi consente di spiegare la transizione
dal breve al lungo periodo. Prima di chiudere su questo punto, è opportuno precisare che le
fluttuazioni - nella realtà - non finiscono mai con il ritorno dell’economia al livello di output (di
lungo periodo) iniziale. E ciò per due ragioni. La prima è che, come si può vedere dai grafici
presentati sopra, la linea che descrive i valori effettivi del PIL passa da sopra a sotto il trend e
viceversa senza fermarsi su di esso. La seconda è che quando tale linea comunque passa per il
trend, il corrispondente valore del PIL è diverso da (in genere superiore a) quello corrispondente
al passaggio precedente.
Capitolo 4: La bilancia dei pagamenti e l’economia aperta
4.1. Apertura commerciale:
10
Sulla
base
del
Stato
rapporto
export
-
PIL
gli
USA
sono
un’economia
quasi
chiusa:
rapporto Export/Pil %
USA
GERMANIA
G.B.
BELGIO
LUSSEMBURGO
SINGAPORE
GIAPPONE
FRANCIA
ITALIA
CANADA
10
32
25
73
89
140
8
23
23
32
Ricordiamo, di nuovo, l’identità contabile Y = C + I + G + NX, posti NX = X - Z e Z = Cf + If + Gf,
acquisti all’estero di beni e servizi per consumi, investimenti, e consumi pubblici.
4.2. Bilancia dei pagamenti
Bilancia delle partite correnti (NX) X(+) Z(-): Bilancia Commerciale (beni materiali) + Bilancia
delle partite invisibili (servizi, trasferimenti).
Movimenti di capitale (BK) : variazione delle attività o passività sull’estero: aumento passività o
riduzione di attività (+), acquisto attività estere o aumento di passività (-). Poi ci sono le
variazioni delle riserve ufficiali (acquisti e cessioni di attività o passività da parte della Banca
Centrale). Vale perciò la seguente uguaglianza:
NX + BK = BP = Delta RU
Esempio: ditta esporta per 100$ (+100 Bil Commerciale); li deposita in banca che a sua volta va
alla B.C e si fa dare il controvalore in euro al posto dei 100$ (+100 var Riserve Ufficiali). Acquisto
di titoli per 100$: -100 C.F. In un modo o nell’altro la B. dei Pagamenti è contabilmente in
pareggio o dovrebbe esserlo; per far tornare i conti c’è la voce errori e omissioni. Se: Saldo
positivo B.C. ?valore degli incassi > valore esborsi; saldo positivo C.F. ? afflusso netto di capitali
dall’estero. Vale NX+BK -DeltaRU = 0. Se DeltaRU = 0 DeltaNX = -BK = N F I, cioè le esportazioni
nette eguagliano i movimenti di capitale o investimenti esteri netti. Se NX > 0, anche -BK >
0, cioè BK < 0, e in effetti se la la bilancia commerciale è attiva vuol dire che il risparmIo
aggregato è superiore alla spesa per investimenti e al disavanzo pubblico interni (S -I -(G-T) =
NX), quindi concediamo fondi in prestito
all’estero. Al contrario, se NX < 0, allora S - I - (G - T ) < 0, quindi abbiamo bisogno di prestiti
esteri per pagarci l’eccesso delle importazioni sulle esportazioni. (Negli USA gli investimenti netti
esteri sono negativi, così come le esportazioni nette. Deficit di Bilancia Commerciale e avanzo di
BK. per risparmio aggregato negativo (Deficit di Bilancio Pubblico).
4.3. Investimenti esteri netti ed esportazioni nette
-Il livello del PIL è dato dall’offerta di fattori produttivi e dalla loro produttività, cioè dalla curva
AS;
-L’occupazione è data dal livello del PIL e dalle condizioni prevalenti nel mercato del lavoro.
-Il livello dei prezzi interni è determinato dall’equilibrio tra domanda e offerta di moneta nazionale
(non influenzata da variazioni delle riserve ufficiali).
Gli investimenti netti esteri sono una funzione della differenza tra tassi reali interni ed esteri. La
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domanda complessiva di fondi all’interno di un paese sarà data dalla somma della domanda di
fondi per investimenti interni e della domanda di fondi per investimenti all’estero meno l’offerta di
fondi esteri, cioè, appunto N F I. Sul mercato dei cambi si scambia valuta nazionale con valuta
estera. Rivolgiamo la nostra attenzione alla “merce” valuta estera. La domanda di valuta estera da
parte dei residenti europei sarà uguale all’offerta di moneta europea. E l’offerta di moneta europea
sarà pari ai fondi che i residenti europei vogliono investire all’estero al netto degli investimenti che
i residenti esteri vogliono effettuare in Europa. In sintesi, la domanda di valuta estera sarà pari a
N F I. Per converso, l’offerta di valuta estera si identifica con le esportazioni nette (NX). Queste
ultime sono dipendenti da tasso di cambio, mentre N F I sono indipendenti dal tasso di cambio.
Eppure, come si è detto, deve realizzarsi NX = N F I. Quindi il tasso di cambio reale sarà
determinato dall’incontro tra una retta verticale che rappresenta N F I (domanda di valuta estera)
e una retta crescente che rappresenta NX (offerta di valuta estera).
Ci si può chiedere se esiste un particolare valore da prendere in considerazione. Una teoria
risponde alla domanda che i tassi di cambio sono determinati dalla parità dei poteri d’acquisto.
Secondo tale teoria, il tasso di cambio nominale assume quel valore tale che una unità di merci
costi lo stesso prezzo (una volta espressi i prezzi in valuta comune) in ogni paese. L’idea non è
differente da quella sottostante la legge del prezzo unico, o condizione di non arbitraggio. Se una
merce costa 100 a Milano e 50 a Roma, conviene acquistare a Roma (sostenendo costi di
trasporto pari a 25) e rivendere a Milano. Ciò fa aumentare la domanda e il prezzo a Roma, e fa
aumentare l’offerta e diminuire il prezzo a Milano. Fino a quando? Fino a quando il prezzo sarà in
tutte e due le città (compresi i costi di trasporto) uguali: es. Roma 62 (+25), Milano 87. Lo stesso
dovrebbe valere a livello internazionale (trascuriamo i costi di trasporto): se un chilo di caffè costa
500 yen in Giappone e 5 euro in Italia il tasso di cambio, secondo la teoria della parità dei poteri
d’acquisto, sarà
5/ 500 =1/ 100 di euro per uno yen. Infatti tale tasso di cambio nominale garantisce che il tasso
di cambio reale sia: e =1/ 100* 500/ 5 = 1
Per questa teoria, dunque, il tasso di cambio reale deve esser pari ad1, perciò il tasso di cambio
nominale varia esclusivamente in funzione del livello dei prezzi nei due paesi. In effetti, tra il 1970
e il 1995 il tasso di cambio nominale tra dollaro e marco si è dimezzato, e tra dollaro e lira è più
che raddoppiato, mentre il tasso di inflazione medio è stato 3,7% in Germania, del 5,6% negli Usa
e del 10,5% in Italia.
Limiti della teoria della parità dei poteri d’acquisto:
1) non tutte le merci sono facilmente commerciabili: si pensi ai servizi alla persona; servizi di
pubblica utilità; servizi sociali, e quindi l’arbitraggio non è perfetto.
2) anche i beni facilmente commerciabili non sono perfetti sostituti; quindi il principio di
arbitraggio non sempre si applica.
N.B. :INTEGRARE CON LE DIAPOSITIVE DELLE RELATIVE LEZIONI.
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