Gli atti dell`amore per una scienza etica nuova

Gli atti dell’amore per una scienza etica nuova
Nel comandamento cristiano dell’amore per il prossimo Kierkegaard coglie
qualcosa di cui gli uomini non avrebbero saputo nemmeno sospettare l’esistenza.
A questo proposito, in Gli atti dell’amore egli cita san Paolo: «Quelle cose che
occhio non vide, né orecchio udì, né mai sorsero in cuore d’uomo, Dio le ha
preparate per coloro che lo amano» (1 Cor 2, 9). Un’etica naturale, che
prescindesse cioè dal cristianesimo, non sarebbe dunque in grado di proporre atti
di vero amore e nemmeno di pensare il prossimo come oggetto di vero amore, e
dunque come vero prossimo. Ciò non significa che allora sia impensabile un’etica
filosofica degli atti d’amore. È tuttavia necessario che essa si configuri come
«scienza nuova» rispetto a tutte le etiche elaborate a prescindere dal
cristianesimo, e che Kierkegaard considera incapaci di vincere l’egoismo cui le
condanna l’inevitabile immanenza del pensiero umano. L’esigenza di una tale
scienza viene da Kierkegaard enunciata, ma non posta in atto, nell’Introduzione
de Il concetto dell’angoscia, dove in riferimento ad Aristotele essa viene
denominata anche «etica seconda». Ma essa, a mio avviso, trova fondazione e
organicità di esecuzione solo in Gli atti dell’amore, dei quali prenderò in
considerazione i primi due Discorsi della prima serie, e particolarmente il
secondo, avente a tema il comandamento: «Tu devi amare il tuo prossimo come te
stesso» (Mt 22, 39). Ma chiediamoci anzitutto: perché mai Kierkegaard giudica
tutte le etiche non cristiane condizionate dall’immanenza e per questo chiuse al
vero amore e al vero prossimo?
Quanto scandalosamente Dio ama la creatura umana
Nel Poscritto alle Briciole filosofiche Kierkegaard propone tre «sfere
dell’esistenza» [Existents-Sphærer]: «estetica», «etica», «religiosa». Si tratta di sfere,
di orizzonti autonomi, non di momenti di una vicenda dialettica idonea a produrre
il progressivo «superamento» dell’estetica nell’etica e di questa nella religiosità.
Tali sfere sono separate da luoghi di «confine» - rispettivamente l’«ironia» e lo
«humor» - sostando nei quali è dato di cogliere l’illegittimità dell’estetica quando
solleva pretese etiche, e dell’etica quando tenta di farsi religione. Sia l’etica sia
l’estetica sono autoreferenziali quanto a contenuti concettuali; in esse ci si può
muovere solo restando nell’immanenza, mentre la religione è rapporto del singolo
esistente con il Trascendente. L’estetica è solitamente paga di restare nei limiti
della sensibilità; non così l’etica. Questa, quando pone all’uomo leggi, doveri,
«imperativi categorici», ritiene di liberarlo da ogni condizionamento empirico, e
dunque da ogni egoismo. Kierkegaard denuncia, appunto con ironia e humor, la
vanità di questa pretesa:
«Kant pensa che l’uomo sia a se stesso la sua legge (autonoma), cioè, che si leghi
alla legge ch’egli stesso si è data. Ma con ciò si pone in sostanza, nel senso più
radicale, la mancanza di ogni legge e il puro sperimentare. Questa diventerà una
cosa così poco seria, come i colpi che Sancio Panza si dà sulla schiena»1.
Veri doveri non possono essere costruzione umana. Ma Kierkegaard, con ciò,
non finisce forse per dichiarare impossibile ogni etica filosofica? Di questo avviso
pare essere Vigilius Haufniensis, l’autore pseudonimo de Il concetto dell’angoscia
(1844), che appunto nell’Introduzione auspica la venuta di una «seconda etica»
1
S. KIERKEGAARD, Journaler [quaderni], NB 15: 66 / SKS 23, 45 (Papirer, X2 A 396); tr. it.
Id., Diario, a cura di C. Fabro, Morcelliana, Brescia 19803, VII, p. 70.
(«seconda» rispetto alla «prima», quella che, in quanto costruita dal pensare
umano, resta autoreferenziale, e per questo incapace di vincere l’egoismo). Questa
nuova etica viene da lui espressamente fondata sulla «dogmatica»:«La nuova
scienza [den nye Videnskab] comincia con la dogmatica, nello stesso senso in cui
la scienza immanente comincia con la metafisica»2.
Una «scienza» fondata su una verità rivelata dovrebbe risultare priva di
autorevolezza filosofica. E tuttavia proprio la base «dogmatica» di questa seconda
etica fa di essa una «scienza nuova»: nuova perché non brancola più nelle
tautologie di doveri che l’uomo si dà da sé, ed è anche scienza perché la
dogmatica le consente di scoprire che l’uomo in quanto tale è capace di «serietà»
morale. Si tratta di una scoperta che non sarebbe stata possibile senza l’aiuto
della dogmatica ma che, una volta avvenuta, deve essere acquisita al patrimonio
della filosofia, costituendo appunto quella «seconda etica» in forza della quale è
dato prendere atto della contraddittorietà di ogni etica basata sulle costruzioni
«metafisiche» della sola ragione, inevitabilmente segnate dall’«immanenza». La
dogmatica è, per così dire, la ratio cognoscendi della nuova etica, mentre è l’uomo
stesso nella sua concretezza individuale, «l’esistente» posto «davanti a Dio», la
ratio essendi dell’atto morale.
Questa nuova scienza non viene svolta nel Concetto dell’angoscia. Qui
Kierkegaard approfondisce il rapporto uomo – Dio dal punto di vista della libertà
che Dio stesso dà all’uomo perché possa porsi e stare in rapporto con lui. Si
tratta di una libertà talmente radicale che l’uomo viene preso da «angoscia»;
davanti ad essa i progenitori preferirono retrocedere: fu «il peccato originale»! I
discendenti non furono condannati a peccare per sempre, ma per sempre
restarono impegnati a cogliere nell’angoscia - nelle molte e provvidenziali forme
che questa assume nei vari individui e nelle varie situazioni dell’esistenza - il
richiamo all’uomo a mettersi di nuovo davanti a Dio con tutto se stesso, alla pari,
a tu per tu.
Nello stesso anno 1844, solo quattro giorni prima dell’uscita del Concetto
dell’angoscia (17 giugno), videro la luce le Briciole filosofiche. Qui il rapporto fra
l’uomo e Dio si configura come il massimo di trascendenza di Dio rispetto
all’uomo, e al tempo stesso come il massimo di apertura dell’uomo rispetto a Dio.
E tuttavia questa nuova impostazione, come precisa il sottotitolo, si presenta
come «una minuscola filosofia» [En Smule Philosophi]». Non procede certo per
dimostrazioni e mediazioni, non è un «sistema»; ma di filosofia comunque si
tratta, di un filosofare che cerca l’«urto» con l’impensabile, con «il paradosso»,
invero con ciò che infiamma il pensare: «Non bisogna parlar male del paradosso;
perché il paradosso [Paradox] è la passione del pensiero, e il pensatore che è
senza paradosso è come se fosse un amante senza passione: uno tipo mediocre»3.
Per il pensiero non vi è nulla di umiliante nel fatto di non potere pensare
tutto, dato che ciò è la premessa per potersi aprire con il massimo interesse a ciò
che esso non può pensare. Il paradosso «assoluto», il paradosso cristiano di un
Dio che si fa veramente singolo uomo, dell’Eterno che accade in un tempo
determinato, fa scoprire ad ogni singolo uomo che egli può in ogni momento porsi
a tu per tu con l’Eterno, con l’Onnipotente, con Dio stesso. Sempre nelle Briciole
ID., Begrebet Angest, SKS 4, 328; tr. it. Id. Il concetto dell’angoscia, in Opere, a
cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972, p. 117.
2
3 KIERKEGAARD, Philosophiske Smuler, SKS 4, 242-243; tr. it. ID, Briciole filosofiche, a cura di
U. Regina, Morcelliana, Brescia 2012, p. 77.
2
filosofiche lo pseudonimo Climacus propone un «esperimento poetico», invero un
esperimento tutt’altro che «estetico».
Si immagini che un re (Dio), nel pieno della sua magnificenza, si innamori di
una ragazza di umile condizione (la creatura umana). Quando tutto è pronto per
il fastoso matrimonio, il re viene preso da una «preoccupazione»: la ragazza
penserà, forse, di essere stata semplicemente «fortunata» per essere stata scelta
dal re? In questo caso lei si riterrà come tale non degna di venire tanto elevata; e
un giorno – teme il re - potrebbe addirittura rimpiangere di non aver potuto fruire
dell’amore di qualcuno della sua stessa condizione. Il re non può rassegnarsi al
pensiero che nel cuore di lei possa insediarsi un tale insidioso ed ineliminabile
rivale in amore, e non vorrà nemmeno, per evitarle un tale rimpianto, farle
dimenticare le sue umili origini: non solo non sarebbe degno di lui ingannarla,
ma soprattutto ciò andrebbe proprio contro il fatto che lui la ama come lei era e
deve restare: «Anche se la ragazza fosse contenta di non contare nulla, ciò non
potrebbe appagare il re, appunto perché egli la ama, e perché sarebbe per lui più
pesante essere il suo benefattore che perderla»4.
Nel racconto di Climacus torna a più riprese il termine «franchezza»
[Frimodighed], ad indicare la qualità della ragazza che il re non vuole che venga
assolutamente compromessa dal suo essere stata elevata alla dignità regale. Non
si tratta di una dote che lei possiede e altre ragazze no, ma di qualcosa che resta
intatto a prescindere da povertà o ricchezza, o da qualsiasi altra differenza fra
ragazza e ragazza. Proprio per evitare che qualche differenza estrinseca alla sua
dignità umana possa incrinarne la naturalezza, il re dovrà allora abbassarsi a lei,
umiliarsi, diventare un «servo», ma non dovrà per questo travestirsi da servo;
dovrà invece diventare realmente servo, alla pari di lei.
Sennonché in tal modo la preoccupazione del re aumenterà: riuscirà la
ragazza a capire che è proprio lei, con tutta la sua «naturalezza», colei di cui il reservo si è innamorato? Non proverà «scandalo» di fronte a un tale «paradossale»
pretendente? Il re non finirà per renderle impossibile mantenere proprio quella
tanto preziosa naturalezza?
Qui Climacus si interrompe come narratore, ma continua nell’analisi di ciò
che accadde nel cuore di quel re - Dio stesso - che si fece realmente servo per
amore della creatura umana per comunicarle, come divino Maestro, verità e
salvezza. Un tale Dio sa bene che il suo presentarsi da servo è «scandaloso» per il
discepolo, ma non può fare a meno di comportarsi così, perché l’amore esige che
il discepolo e il Maestro stiano realmente seduti vicino, alla pari: «Giacché è meno
terrorizzante cadere bocconi mentre i monti tremano innanzi alla voce del Dio che
stare seduti accanto a lui come se si stesse accanto al proprio uguale; eppure la
preoccupazione del Dio è proprio di stare seduto così»5. L’amore di Dio è dunque
destinato al fallimento? Se non c’è «comprensione» fra i due che stanno vicini, se
c’è «fraintendimento», e se ciò appare inevitabile, siamo forse allora di fronte a un
«amore infelice» fra Dio e l’uomo? Certamente! Ma l’amore di Dio continua,
seppure nel dolore. La sua «afflizione» è incomprensibile per l’uomo che si
scandalizza di lui; e ciò è inevitabile se si considera che solo Dio, l’Onnipotente,
può patire il dolore di lasciare che la creatura amata vada in rovina. Perché
proprio questo tremendo esito risulterebbe inevitabile se l’uomo, con lo
scandalizzarsi davanti al Paradosso, si chiudesse in se stesso e, da egoista,
perdesse la sua naturalezza, e con questa anche la verità e se stesso:
4
5
Ivi, SKS 4, 234; tr. it. cit. p. 67.
Ivi, SKS 4, 240; tr. it. cit. pp. 74-75.
3
«Il linguaggio umano è talmente egoistico da non avere nemmeno sentore di un tale
dolore. E per questo il Dio riserva a sé l’insondabile dolore di sapere che egli può
respingere il discepolo da sé, che può fare a meno di lui, che il discepolo a causa
della sua colpa è destinato alla perdizione, e che lo può lasciar sprofondare – e sa
come sia pressoché impossibile sostenere la franchezza del discepolo, senza la quale
la comprensione e l’uguaglianza non ci sono più, e c’è l’amore infelice. Chi non è
nemmeno in grado di avere sentore di questo dolore ha un’anima miserabile, egli è
come una moneta di scarso valore, che non porta impressa l’immagine né di Cesare
né di Dio»6.
Se un Dio, per amore della «naturalezza» dell’uomo, ossia della sua libertà,
che egli non vuole nemmeno minimamente condizionare con la sua divina
onnipotenza, è disposto a soffrire senza limiti, sino al punto di perderlo per
sempre, pur continuando ad amarlo, allora vuol dire che ci troviamo davanti alla
vittoria dell’Amore stesso non solo sul dolore, ma anche sulla morte dell’amore.
Solo un Dio che è l’Amore può affrontare un amore che è dolore senza fine. Muore
per un amore che vince la morte. La croce di Cristo esprime il dolore che solo il
Dio che è l’Amore poteva assumersi:
«Oh, calice amaro; certo per il mortale l’obbrobrio della morte è più amaro
dell’assenzio; ma quanto amaro sarà allora per l’immortale! Oh, quale acida
bevanda, più acida dell’aceto, è il doversi ristorare con l’incomprensione dell’amato!
Oh, nella sventura è consolazione il soffrire da colpevole; come allora sarà il soffrire
da innocente?»7.
La bella fiaba «tentata» da Climacus nelle Briciole filosofiche non ha un lieto
fine - ma non finisce. Se il soffrire da innocenti non prevede consolazione alcuna
dal punto di vista umano, esso, dal punto di vista divino, ottiene la consolazione
del durare infinito dell’amore da parte di chi è l’Amore. C’è uno squilibrio
incolmabile, sul piano della consolazione, fra il soffrire dell’innocente e quello del
colpevole. Questo, come il Buon ladrone della narrazione evangelica, può trovare
consolazione per il fatto che subisce ciò che si merita. Ma Gesù, l’Innocente, potrà
mai trovare consolazione? L’«etica» umana non può non scandalizzarsi di fronte a
chi ricambia il male con il bene. Ma da questo scandalo la filosofia potrà
guadagnare una preziosa «briciola» per avanzare con le sue forze, purché aiutata
dallo «scandalo» a scoprire di averle.
Una nuova concettualità
L’impresa lasciata incompiuta dal Climacus delle Briciole di filosofia (1844),
viene portata a compimento tre anni dopo, non più da uno pseudonimo, ma da
Søren Kierkegaard autore esplicito de Gli Atti dell’amore (1847). Della difficoltà del
cammino per giungere a cogliere che l’uomo è capace di ricambiare il male con il
bene, senza limiti, dunque di compiere atti di amore, troviamo già tracce
importanti nelle opere intermedie, ancora pseudonime, particolarmente negli
Stadi sul cammino della vita, del 1845, e nella Postilla conclusiva non scientifica
alle “Briciole filosofiche” (1846). La prima contiene, fra l’altro, il dialogo In vino
veritas, nel quale i cinque commensali concordano, pur con argomenti diversi, nel
farsi beffe della donna e del matrimonio. Come replica segue un vero e proprio
trattato, le Considerazioni varie sul matrimonio in risposta a delle obiezioni da
parte di un marito, opera dello pseudonimo giudice Vilhelm.
6
7
Ivi, SKS 4, 235, tr. it. cit. p. 68.
Ivi, SKS 4, 240; tr. it. cit. p. 74.
4
Qui l’amore sponsale viene celebrato con considerazioni di grande elevatezza
etica. Nel finale, tuttavia, il giudice stesso, marito entusiasta ed esemplare,
prospetta la possibilità di un’alternativa non solo all’amore sponsale, ma agli
stessi doveri di marito, padre e cittadino, una possibilità che è un’alternativa
radicale alla stessa etica (beninteso la «prima» etica). Questa ha come riferimento
«il generale», ossia i fini e la norme che valgono su base «metafisica». Ma – pensa
Vilhelm – proprio perché «generale», l’etica non può escludere «l’eccezione», ossia
la decisione di uno sposo di abbandonare la moglie adorata e i figli diletti per
seguire quella che potrebbe essere una chiamata «religiosa», ma che potrebbe
anche essere una sua fantasticheria o un inganno. Osserva che per essere
«legittima» questa «eccezione» (questo sposo e padre) dovrebbe non solo sentire
straziante il distacco dai suoi affetti ma anche privo di ogni riscontro l’attribuire a
Dio la stessa chiamata religiosa: «Allora soccombe, nella disperazione della sua
infelicità, quando gli viene a mancare quell’unica parola, l’ultima, l’estrema, così
estrema da trovarsi al di là del linguaggio umano; quando non lo abita la
testimonianza, quando non può forzare il dispaccio sigillato da aprire solo in alto
mare e che contiene l’ordine di Dio»8.
L’eccezione è possibile - perché tutto ciò che è generale la presuppone, ne ha
anzi bisogno, anche se non la ama9 - ed è «generale» ogni norma etica, che in
fondo desidera le eccezioni. Tuttavia l’etica accetta solo quelle «legittime» legittimate dall’etica stessa! Come uscire da questo circolo?
Nel 1846, l’anno successivo all’uscita degli Stadi sul cammino della vita,
Kierkegaard pubblica l’ampio Poscritto alle «Briciole di filosofia». Qui ancora
Climacus, tenendo implicitamente conto dell’incompatibilità che il giudice Vilhelm
pone fra i doveri familiari (nei quali si impersona l’etica tutta) e la scelta religiosa
(il Paradosso delle Briciole), introduce tre importanti novità concettuali: 1) La
semantizzazione dell’essere come inter-esse; 2) La verità come «incertezza
oggettiva»; 3) La possibilità dell’«incontro nel tempo con l’Eterno-nel-tempo».
Queste tre novità costituiscono la base per ciò che Kierkegaard stesso
proporrà in Gli atti dell’amore come quell’etica che non solo non va sacrificata alla
scelta religiosa, ma che ne rappresenta la stessa attuazione nel mondo. Questi tre
elementi non compaiono improvvisamente nel Poscritto, ma solo qui appaiono
strettamente collegati fra loro, e costituiscono così la trama teoretica sulla cui
base diviene possibile la «seconda etica», la «scienza nuova» degli atti ad essa
conformi: appunto gli atti dell’amore.
Già nell’agosto del 1835, un Kierkegaard appena ventiduenne, durante una
villeggiatura a Gillileje, la punta più settentrionale dello Sjælland, aveva deciso di
votarsi a una verità che fosse «una verità “per me”10». In ciò non vi è affatto
cedimento soggettivistico, bensì l’idea di una verità che per essere tale deve
preoccuparsi anzitutto di stare dalla mia parte, cioè di volere il mio vero bene e di
farmi conoscere come stanno veramente le cose per tutto quanto veramente mi
riguarda. Dunque una verità non oggetto di contemplazione disinteressata, e per
8
KIERKEGAARD, Stadier paa Livets Vei, SKS 6, 168; ed. it. ID., Stadi sul cammino della vita, a
cura di L. Koch, tr. di A.G. Calabresi, Rizzoli, Milano 1993, pp. 308-309.
9 «Ci sono eccezioni. Se non le si può spiegare, allora non si può spiegare nemmeno il
generale. Generalmente non si nota la difficoltà perché nemmeno si pensa il generale con
passione, ma come una comoda superficialità. L’eccezione al contrario pensa il generale con
passione energica» (S. KIERKEGAARD, Gjentagelsen, SKS 4, 93; tr. it. ID., La ripetizione, a cura di D.
Borso, Guerini e Associati, Milano 1991, p. 128).
10 ID., Journaler, AA: 12 / SKS 17, 24 (Papirer I A 75); tr. it., ID., Diario, a cura di C. Fabro,
cit., II, p. 41.
5
questo astratta, ma concretamente tenuta in costante rapporto con l’interesse di
chi la cerca per poterne fruire secondo verità e per amore della verità. È
importante notare che nel Poscritto il termine «interesse» [anche in danese:
Interesse, dal latino come in italiano] viene dalla lineetta intermedia scandito in
preposizione e verbo: inter-esse, e in tal modo assume al tempo stesso portata
ontologica ed antropologica: «L'esistere è per l'esistente il supremo interesse
[Interesse] e l'interessamento all'esistere è la sua realtà. Ciò in cui consiste la
realtà non può essere esposto nel linguaggio dell'astrazione. La realtà è un interesse [sic] che sta nel mezzo [mellen] dell'ipotetica unità di essere e pensiero»11.
L'inter-esse fa stare insieme i diversi, li tiene distinti nel loro comune
interesse a differire, appunto perché ugualmente interessati a stare in rapporto
come inter-essenti, appunto. L'interesse è il fondamento e la garanzia di ogni vero
rapporto. Non vi è rapporto senza differenza, ed è proprio l’interesse che
garantisce il rapporto sia dall’implodere nell’identità dei due, sia dal suo svanire
nell’indifferenza. Se l’interesse salva il rapporto, e se il permanere del rapporto
salva l’essere dei differenti che si rapportano, allora l’interesse è garanzia
ontologica. Un vero rapporto è anche la verità di coloro che si rapportano. È una
verità che deve essere costantemente guadagnata nei confronti dell’identità e
dell’indifferenza (che ontologicamente si equivalgono quanto a insidia nichilistica).
L’interesse in quanto inter-esse introduce dunque a una nuova concezione della
verità. Non più adaequatio dell’intelletto alla cosa, bensì «interiorità»,
appropriazione di sé nell’interesse «appassionato» per il «mantenimento»
dell’alterità dell’altro da sé: «La verità è l'incertezza oggettiva [den objektive
Uvished] mantenuta nell'appropriazione della più appassionata interiorità, e questa
è la verità più alta che ci sia per un esistente»12.
L’uomo è colui che si interessa appassionatamente di mettersi e di restare in
rapporto con tutto e tutti, ma anzitutto con Dio. Per questo Anti-Climacus, lo
pseudonimo autore della Malattia per la morte, già all’inizio di quest’opera
definisce l’uomo: «Un rapporto che si rapporta a se stesso, e nel rapportarsi a se
stesso si rapporta a un Altro». Questo Altro è Dio «che ha posto l’intero
rapporto»13.
Il rapporto con Dio, dovendo restare per sempre rapporto e mai identità, è
innervato dall’eternità, come lo è ogni vero rapporto. Ma l'uomo si trova
circondato da «eterni» (idee, concetti, leggi, valori, totalità, universali, sistemi,
ideologie, ecc.) da lui prodotti, e che come tali non esprimono il suo costitutivo
stare in rapporto con il Trascendente. Questi eterni distraggono l’uomo da se
stesso in quanto esistente nel tempo: rispetto alla concretezza dell’esistenza di
singolo sono alienazioni. L’uomo ha certo bisogno di rapportarsi a questi «eterni»
concettuali per dar senso al proprio esistere, ma questo rapporto sarebbe la sua
fine se il senso dell’esistenza fosse pagato con il fare astrazione, in nome di questi
«eterni», dalla propria esistenza in quanto singolo, che è un esistere nel tempo.
Kierkegaard, già nella sua tesi di laurea, Il concetto di ironia in costante riferimento
a Socrate (1841), aveva posto in evidenza il problema di questo conflitto fra il
bisogno di eterni e universali e l’esistere temporale. Socrate preferì vivere e morire
11 ID., Afsluttende uvidenskabelig Efterscrift til de Philosophiske Smuler, SKS 7, 286; tr. it. a
cura di C. Fabro, Id. Postilla conclusiva non scientifica alla «Briciole di filosofia», in Opere, cit., p.
431.
12 Ivi, SKS 7, 186; tr. it. cit., p. 368.
13 ID., Sygdommen til Døden, SKS 11, 130; tr. it. La malattia per la morte, a cura di E. Rocca,
Donzelli, Roma 1999, p. 15.
6
da ignorante, perché così era almeno certo di essere se stesso finché restava al
mondo, piuttosto che essere un sapiente di cose eterne che a tal fine deve
dimenticare di essere esistito nel tempo. Da qui l’ironia socratica venata di
malinconia.
L’accadimento cristiano segnò il tramonto della «posizione socratica». Con la
venuta nel tempo da parte dell’Eterno-nel-tempo [det Evige i Tiden], l'esistente
non ebbe più bisogno di dimenticarsi del proprio esistere temporale per fruire
della verità eterna. Ora l'eternità è «fra» l'esistente e lo stesso Eterno. Se già le
Briciole definivano il Paradosso come la «passione del pensiero», ora il Poscritto
apporta a tale formula un importante arricchimento. Il Paradosso è l'Eterno-neltempo che l'esistente effettivamente incontra nel proprio tempo, momento per
momento. Il Paradosso ora è l'Eterno che gli dà la forza di rompere in ogni
momento la propria solitudine, e che lo colloca in ogni momento in sintonia con
una storia che scaturisce dalla libertà propria, dalla libertà degli altri, ed
anzitutto dalla libertà di Dio. Ora il Paradosso, che nelle Briciole veniva
presentato negativamente come «ciò che non si può pensare», entra in gioco con
un ruolo decisivo per consentire all'esistente di pensare di più: «Quindi il cristiano
credente ha e usa la propria intelligenza [Forstand] […]. Egli usa l'intelligenza
tanto meglio [saa meget], in quanto attraverso ad essa diventa attento
all'inintelligibile [det Uforstaaelige], ed allora si rapporta a questo credendo contro
l'intelligenza»14.
La semantizzazione dell’essere in quanto inter-esse, la concezione della verità
quale «incertezza oggettiva», e «l’incontro nel tempo con l’Eterno-nel-tempo» sono
le tre novità concettuali che innervano l’impianto filosofico del Poscritto, e che
forniscono a Kierkegaard la possibilità di proporre un’etica radicalmente diversa
da quella precedentemente collocata nella «sfera etica».
Due incomparabili modi di amare
Nel 1847, l’anno successivo al Poscritto, Kierkegaard può così pubblicare Gli
atti dell’amore. Nel libro, «amore» è detto con due diversi termini: Elskov e
Kjerlighed. Kjerlighed è l’amore in quanto «atto» compiuto da chi è mosso da
nient’altro che dall’amore stesso, cioè da quell’amore che è in grado di vincere
l’egoismo anche quando questo si sublima nelle forme del più convinto altruismo.
Elskov è l’«amore affettivo», è quell’amore nel quale l’oggetto dell’amore è interno
alla sfera affettiva di chi ama, il cui amare, dunque, anche nelle forme più
eroiche, non è in grado di oltrepassare la sfera della «prima» etica, inevitabilmente
egoistica in quanto iniziativa del solo soggetto. Per questo Kierkegaard fa sua la
sentenza di Agostino e dei Padri, secondo cui le virtù dei pagani, alla luce degli
atti dell’amore cristiano, sono solo «splendidi vizi».
L’amore del prossimo, proprio solo del filone ebraico-cristiano, è la vittoria
radicale sull’egoismo, e come tale è l’atto d’amore che sta alla base di tutti gli altri
possibili atti d’amore. Questa vittoria non sarebbe stata possibile senza la
scoperta del «prossimo», e questa a sua volta non sarebbe stata possibile senza la
rivelazione ebraico-cristiana.
È un asserto di fede, ma conferisce al credente un inesauribile potenziale
critico e autocritico nei confronti di ogni immanenza. In Gli atti dell’amore, per
indicare il ruolo etico di Dio, Kierkegaard usa l’espressione Mellembestemmelse,
14 KIERKEGAARD, Afsluttende uvidenskabelig Efterscrift, SKS 7, 516; tr. it. cit., ID. Postilla
conclusiva non scientifica, in Opere, p. 576.
7
alla lettera: la «determinazione-che-sta-in-mezzo». Dio sta realmente in mezzo fra i
poli di ogni vero rapporto umano proprio perché a lui ci si può rapportare solo in
quanto egli trascende in modo irriducibile tutto ciò che sta in rapporto con lui: il
«rapporto con Dio» [Guds-Forhold] è originario e originante per ogni altro rapporto.
Senza Dio in quanto determinazione-che-sta-in-mezzo i membri di ogni rapporto
finirebbero per formare un solo essere, per implodere nell’identità-indifferenza del
tutto. Senza il rapporto con Dio gli amanti non riuscirebbero a mantenersi in
rapporto, e dunque non potrebbero nemmeno amarsi davvero. Solo un Dio di
irriducibile trascendenza ha potuto «preparare per coloro che lo amano» qualcosa
di inaudito e mai visto, come è la possibilità per l’uomo di compiere atti
irriducibili all’egoismo. Proprio questi atti dovrebbero costituire il contenuto della
«scienza nuova». Resta però da chiedersi se questi atti esistono effettivamente, e
se sono come tali anche riconoscibili.
Kierkegaard, nella Premessa de Gli atti dell’amore, ripetuta all’inizio di
ciascuna delle due Serie - e per questo rivelativa della preoccupazione dell’Autore
di non vedere sprecata la sua fatica di scrittore – porge all’eventuale lettore un
avvertimento sibillino ma che risulterà poi prezioso: «Queste riflessioni cristiane,
che sono il frutto di molta meditazione, vorrebbero essere capite lentamente, ma
allora anche facilmente [langsomt men da ogsaa let], mentre certo diventerebbero
molto difficili se uno le rendesse tali con una lettura fuggevole e curiosa».
Gli atti dell’amore vanno letti lentamente, non perché siano scritti in modo
difficile. Al contrario, le argomentazioni sono costantemente accompagnate da
esemplificazioni avvincenti e da osservazioni psicologiche e sociologiche
realistiche ed attuali. La difficoltà sta nell’afferrare e tenere costantemente
presenti alcuni ardui ma imprescindibili accostamenti concettuali: anzitutto, il
«mutamento dell’eternità» [Evighedens Forandring] che Kierkegaard introduce per
comunicare al lettore ciò che è proprio di ogni atto d’amore, e cioè che l’amore,
che presuppone incondizionata libertà, sia anche un «dovere» che obbliga per
sempre, anche e innanzitutto a prescindere dalla reciprocità: «Quell’amore che ha
sperimentato il mutamento dell’eternità con il diventare dovere, sente certamente
un bisogno di essere amato, e questo bisogno è pertanto in eterno armonioso
accordo con questo «devi», ma se così deve essere [skal være] questo amore può
fare a meno di venire amato, mentre ciononostante esso continua ad amare»15.
Capire «velocemente» cosa significa «mutamento dell’eternità» vuol dire
passare velocemente oltre ciò che appare una contraddizione. Capirla
«lentamente» vuol dire ampliare l’orizzonte del proprio comprendere sino a cogliere
l’eternità come l’unico criterio per orientarsi e muoversi agilmente nel mondo del
divenire:
«Un attrezzo che venga usato da un artigiano si logora con il passar degli anni, la
molla perde la sua elasticità, si indebolisce; ma ciò che possiede l'elasticità
dell’eternità [Evighedens Spændkraft] la mantiene del tutto intatta attraverso tutti i
tempi. Se un dinamometro viene usato a lungo, alla fine anche un debole può
superare la prova, ma la misura dell’eternità [Evighedens Kraftmaal] con cui ogni
uomo viene messo alla prova: se vuole o non vuole avere fede, resta del tutto
immutata in ogni tempo»16.
Capire gli atti dell’amore vuol dire anche capire che l’eternità non è evasione
ma strategia vittoriosa già in questo mondo.
15 KIERKEGAARD, Kjerlighedens Gjerningher, SKS 9, 46; tr. it., Gli atti dell’amore, a cura di U.
Regina, Morcelliana, Brescia 2009, p. 60.
16 Ivi, SKS 9, 34-35; tr. it. cit., p. 47.
8
Cristiani e pagani
Questo viene in luce già nel primo dei 18 Discorsi che compongono Gli atti
dell’amore, intitolato «La vita nascosta dell’amore e la sua riconoscibilità dai
frutti». Il Vangelo afferma che l’amore è come l’albero; lo si riconosce dai suoi
frutti (cfr. Mt 13, 13-15). Come ogni buona strategia, anche quella dell’amore deve
saper restare nascosta. Ciò che conta è: «Lavorare affinché [il nostro amore] possa
essere riconosciuto dai frutti, a prescindere dal fatto che questi vengano poi
riconosciuti o non dagli altri»17.
È il singolo l’albero che dovrà fare di tutto per essere un albero buono, per
produrre frutti buoni, da cui si possa riconoscerlo come buono: «Ciò che il profeta
Nathan (1 Sam 12, 7) aggiunse alla parabola: “Tu sei quell’uomo”, il Vangelo non
ha bisogno di aggiungerlo […]. Non parla a te, mio ascoltatore, su di me, o a me
su di te; no: quando il Vangelo parla, parla al singolo, non parla su noi uomini tu e io - ma parla a noi uomini, a te e a me, e parla su questo: che l’amore deve
essere riconosciuto dai frutti»18.
Se è l’albero che deve anzitutto essere buono, se i frutti sono solo la
conseguenza della sua bontà, c’è tuttavia un suo frutto preziosissimo di cui lo
stesso albero buono potrà subito e incessantemente fruire per preservare la sua
bontà da ogni inquinante condizionamento: l’amore non potrà essere falso con se
stesso, non potrà essere ipocrita. Ma non per questo dovrà anche essere uno
scopritore di ipocriti. Il suo compito è solo di amare, a prescindere dal
riconoscimento altrui e dallo stesso venire corrisposto in amore. Gli ipocriti non
potranno coinvolgerlo nella loro ipocrisia: «La difesa migliore contro l’ipocrisia è
l’amore; anzi non è semplicemente una difesa, ma il porre in mezzo un abisso,
perché esso non ha nulla a che fare con l’ipocrisia, per tutta l’eternità. Anche
questo è un frutto da cui l’amore viene riconosciuto: che cioè assicura la persona
in cui è amore dal cadere nel laccio dell’ipocrita»19.
C’è dunque un atto d’amore che consiste in una sorta di vaccinazione nei
confronti dell’ipocrisia. Kierkegaard lo propone come premessa a tutti gli atti
d’amore di cui tratterà poi nella prima e seconda sezione de Gli atti dell’amore.
Puntare sulla possibilità di riconoscere i frutti buoni dalla bontà dell’albero, non
viceversa, vuol dire che solo il singolo può e deve assumersi la responsabilità dei
suoi atti, e che dunque nessun dubbio lo deve «distrarre» dal compito di
«accentuare» l’interiorità proprio per non essere ipocrita anzitutto con se stesso. Il
singolo può sottoporsi alla «misura dell’eternità» propria del dovere solo se non
cesserà di esistere come quel singolo che egli è, senza nascondersi in universalità
ed eternità che sono solo il frutto del proprio astrarre dalla propria esistenza in
quanto singolo. Non si tratta di soggettivismo. Questo è sempre una forma di
immanentismo, dunque di egoismo. L’«interiorità» è soggettività non egoistica,
aperta all’incontro con l’altro a costo di indefessa autocritica, è «inter-esse»
costante per la trascendenza, «passione» inestinguibile per ciò che l’intelletto non
può far suo; essa è sempre «rapporto», mai sostanza.
Sulla base di questa interiorità non soggettivistica ma esistenziale, il secondo
dei Discorsi de Gli atti dell’amore propone l’interpretazione cristiana della «regola
aurea». Solo «quelle cose che Dio ha preparato per coloro che lo amano» rendono
possibile fare dell’amore per il prossimo un «dovere» che obbliga universalmente
17
18
19
Ivi, SKS 9, 22; tr. it. cit., p. 32.
Ivi, SKS 9, 22; tr. it. cit., p. 33.
Ivi, SKS 9, 23; tr. it. cit., p. 34.
9
di amarlo come si deve amare il proprio «se stesso», né più né meno. Proprio
questa precisazione fa della «regola aurea» cristiana una strategia di vittoria su
ogni amore legato al contraccambio:
«Questa parola, “come te stesso” — sì, nessun lottatore è capace di avvinghiare chi
sta lottando con lui così come sa fare questo precetto con l’egoismo,
immobilizzandolo. In verità, quando l’egoismo ha lottato con una parola come
questa, così facile che per capirla non c'è bisogno che nessuno si rompa la testa,
allora esso deve prendere atto di aver combattuto con il più forte. Come Giacobbe
zoppicava dopo aver lottato con Dio (Gn 32, 25-32), così l’egoismo non può non
sentirsi svigorito se ha lottato con questa parola, la quale tuttavia non vuole
insegnare all’uomo di non amare se stesso, ma al contrario insegnargli appunto
l'egoismo giusto [den rette Selvkjerlighed»20.
L’amore del prossimo sarebbe del tutto ingiusto se l’amante, per vincere
l’egoismo, cioè l’immanenza, amasse l’amato più di se stesso, magari sino al
punto di annullarsi in lui. Se infatti fra i due si istituisse una qualsiasi
commisurazione si produrrebbe la riduzione del rapporto a sostanza della quale i
due sarebbero solo accidenti, e la loro rispettiva differenza verrebbe travolta
dall’immanenza. Questa attenzione alla propria esistenza singola è il giusto
egoismo che dà la regola per amare l’altro con tutto l’amore richiesto per un «atto»
che rifiuta ogni corrispettivo da parte dell’amato. Insomma l’amore del prossimo
esige l’interiorità dell’amante, che questo ami dunque se stesso sempre come
spirito e mai come sostanza, altrimenti non resterebbe in lui alcun posto per
l’altro. Per essere in due è necessario restare giustamente attaccati alla propria
singola esistenza, e poter così volere che l’altro ami ugualmente se stesso,
accentuando infinitamente la propria interiorità:
«In senso egoistico è infatti impossibile essere in due, coscientemente, per essere sé;
questo sé l’egoismo deve esserlo da solo. Perché tu possa adempiere il precetto, non
c’è nemmeno bisogno di essere in tre perché, se siete in due, ciò significa che lì vi è
un altro singolo uomo che tu ami in senso cristiano “come te stesso”, o in cui tu
ami «il prossimo»; così tu ami tutti gli uomini» (41; SKS 9, 29).
I pagani non sono giunti a tanto, sono rimasti nella logica della distinzione
fra il più o meno di egoismo, senza sospettare l’esistenza di un egoismo giusto:
quello che Dio comanda all’uomo per poter essere riamato con un atto
assolutamente libero da ogni comparazione fra amori più o meno egoistici. Amare
il prossimo come si ama il proprio se stesso vuol dire far compiere al proprio
amare un mutamento categoriale inaudito, ma appunto per questo risolutivo per
quanto concerne l’aporia di ogni amore in vista di una remunerazione: «Che
strano! Quale lotta è tanto diuturna, tremenda, complessa quanto quella che
l’egoismo sostiene per difendersi; e tuttavia il cristianesimo decide tutto con un
solo colpo […]. Qui, fra il prima e il poi, sta il mutamento dell’eternità» (38; SKS 9,
26).
Nel sintagma «mutamento dell’eternità» il genitivo va dunque inteso sia come
soggettivo, in quanto è la stessa eternità che comanda di amare il prossimo, a
prescindere da ogni angoscia che accada a chi ama, sia come oggettivo, dato che
l’eternità rende perfetti, nel senso della potenza: «Può sembrare che l’amore
immediato abbia un ben altro potere sul suo oggetto allorché dice: “Se non mi
amerai, ti odierò”; ma questo è un inganno della sensibilità. Forse che l’essersi
mutato è un potere più forte dell’immutabilità? E chi è dei due il più forte, chi
20
Ivi, SKS 9, 26, tr. it. cit., p. 38.
10
dice “se non mi amerai, ti odierò”, oppure chi dice “se tu mi odierai,
ciononostante io continuerò ad amarti”?»21.
Kierkegaard propone due riscontri fenomenologici di ciò che accade
nell’amore del prossimo qualora non potesse fruire del mutamento dell’eternità.
Cos’è, ad esempio, la gelosia se non «autocombustione» dell’amore se chi ama,
anziché amare il prossimo come se stesso, lo ama solo come vuole che l’altro lo
ami? «Non osa né fidarsi pienamente della persona amata né darsi
compiutamente, perché potrebbe dar troppo, e così continuamente si brucia,
come si brucia ciò che non si brucerebbe affatto — se non ci fosse questo
angoscioso contatto. La comparazione è autocombustione»22.
Qualcosa di analogo, anche se opposto quanto ad emotività, accade quando
l’amare il prossimo diventa un prodotto dell’abitudine. L’abitudine è il fatale
surrogato del mutamento dell’eternità: «Vuoi liberare la tua anima o il tuo amore
dall’astuzia dell'abitudine? — Gli uomini credono che ci siano molti mezzi per
restare vigili e sicuri, ma in verità ve n’è uno solo: il «devi» dell’eternità»23.
Questo «devi» non è un imperativo categorico di tipo kantiano perché è
l’Eterno stesso che, lungi dal fare astrazione dalle differenze fra gli uomini, si cala
nel tempo e fa diventare ogni uomo il prossimo che ogni singolo deve amare come
se stesso: «Non siamo certo uguali come re, mendicante, uomo colto, ricco,
povero, maschio, femmina, ecc.; in ciò siamo proprio differenti, ma nell'essere “il
prossimo” siamo fra di noi incondizionatamente tutti uguali»24.
Consanguinei di Dio
Sennonché questa via è uno «scandalo per l’uomo naturale», che si vede
comandato ad amare il proprio nemico «come se stesso», dato che Dio, «il Terzo»
tramite il mutamento dell’eternità, fa del mio nemico il mio stesso amico
«spirituale», mio indispensabile collaboratore in atti di amore: «La strada che
conduce al cristianesimo passa per lo scandalo. Con ciò non è detto che l'accesso
al cristianesimo debba consistere nello scandalizzarsene, perché questo è un altro
modo per impedire a se stessi di cogliere ciò che è cristiano. Ma lo scandalo
monta la guardia dell'accesso a ciò che è cristiano. Beato chi non se ne
scandalizzerà (Lc 7, 23)»25.
Nemmeno la filosofia greca ne aveva sospettato l’esistenza e la capacità
umana di fruirne sul piano etico, di compiere cioè atti di amore puri da ogni
egoismo. Kierkegaard non parla di agape, anche se di questo si tratta. con
innovativa efficacia, egli contrappone all’amore contraccambiato e comunque
gratificante, nient’altro che il bisogno di amare: «L'amore è quel bisogno che
esprime ricchezza. Ed ecco che quanto più profondo è questo bisogno, e tanto più
grande è la ricchezza; se il bisogno è infinito, infinita è anche la ricchezza»26. Dio
stesso si è reso il più grande bisognoso perché ha eliminato ogni «orgoglio e
superbia» nel suo amore per l’uomo. Il Dio di Gesù ha dato il comandamento
dell’amore del prossimo proprio per portare ogni uomo al punto più alto di amore
in cui egli stesso eternamente sta e agisce: «Dio è la determinazione-che-media, e
il «devi» dell'eternità lega e regge questo potente bisogno impedendogli di deviare e
21
22
23
24
25
26
Ivi, SKS 9, 42, tr. it. cit., p. 55.
Ibidem.
Ivi, SKS 9, 44, tr. it. cit., p. 57.
Ivi, SKS 9, 94, tr. it. cit., p. 109.
Ivi SKS 9, 65; tr. it. cit., p. 80.
Ivi, SKS 9, 73; tr. it. cit., p. 89.
11
di diventare orgoglio. Nell'oggetto non c'è alcun limite, perché “il prossimo” è tutti
gli uomini, è incondizionatamente ogni uomo. Chi ama “il prossimo” secondo
verità ama anche il suo nemico»27.
Per il cristianesimo Dio e l’uomo hanno in comune l’amore come bisogno
infinito. Sussiste dunque una «parentela» fra ogni singolo uomo finito che ha
bisogno di amare infinitamente nel tempo, nonostante il tempo, e l’eternità
dell’amore infinito di Dio. Si tratta di una consanguineità idonea a farsi sempre
più stretta perché fondata sulla comunanza in un bisogno appassionante e
inestinguibile, nonostante l’infinita differenza qualitativa fra Dio e l’uomo; anzi, in
virtù del persistere ed approfondirsi di questa, rende sempre più amabile il loro
restare a tu per tu:
«Come la lieta novella del cristianesimo è contenuta nella dottrina della parentela
dell'uomo con Dio [Menneskets Slægtskab med Gud] (At 17, 29), così essa ha come suo
compito la somiglianza dell'uomo con Dio. Ma Dio è amore (1 Gv 4, 8). Perciò solo
nell'amare possiamo assomigliare a Dio, come solo così possiamo essere, secondo il
detto dell'Apostolo, “collaboratori di Dio [theòu gàr esmen synergòi] in — amore” (1
Cor 3, 9). Nella misura in cui ami l'amata, tu non assomigli a Dio, perché per Dio
non c'è alcuna predilezione, e questo molte volte lo hai meditato per umiliarti, ma
anche molte volte per elevarti. Nella misura in cui ami il tuo amico, tu non
assomigli a Dio, perché per Dio non c'è nessuna differenza. Ma quando ami il
prossimo, tu assomigli a Dio»28.
L’aver guadagnato il concetto, proprio dal cristianesimo, della
consanguineità fra l’uomo e Dio consente a Kierkegaard di attribuire al «come te
stesso», con cui il singolo deve amare il prossimo, l’infinità e eternità che è
propria dell’amore che Dio ha per ogni singolo uomo. L’uomo dovrà amare se
stesso così come Dio lo ama, e nello stesso modo dovrà amare il prossimo, cioè
ogni altro uomo, a prescindere da ogni differenza fra uomo e uomo, e da ogni
preferenza o predilezione che il singolo abbia per l’uno e indifferenza o inimicizia
per l’altro o tutti gli altri. In ciò al cristianesimo deve essere riconosciuto di aver
fatto scoprire a tutti gli uomini, anche ai non cristiani, ciò di cui nemmeno il
paganesimo antico di più elevato spessore etico, aveva sospettato l’esistenza o la
semplice possibilità:
L’amore per “il prossimo” ha la perfezione dell’eternità […]. Anche chi, peraltro, non
è propenso a magnificare Dio e il cristianesimo, non può tuttavia non dare loro
questo riconoscimento se considera il ribrezzo e l'orrore che suscita il modo con cui
nel paganesimo il differire terreno separava uomo da uomo, o il modo disumano con
cui li separa la divisione in caste, se cioè considera che l'assenza di Dio insegna ad
un uomo a negare disumanamente l'umanità che ha in comune con un altro uomo,
sino all'insolenza e alla follia di dire che quest'altro non esiste, che è “un non nato”.
Allora anche costui magnificherà il cristianesimo, che ha salvato l'uomo dal male
imprimendogli, in modo profondo ed eternamente indimenticabile, la parentela fra
uomo e uomo, giacché la parentela è garantita dall'uguale parentela di ogni singolo
uomo con Dio e dal rapporto con Dio in Cristo; poiché la dottrina cristiana è rivolta
in ugual modo a ogni singolo, al quale insegna che Dio lo ha creato e che Cristo l'ha
salvato»29.
Per esprimere l’originarietà, la radicalità e l’immediatezza di questo
rapportarsi fra Dio e gli uomini e degli uomini fra di loro, Kierkegaard ricorre al
sintagma «scorciatoia dell'eternità» [Evighedens Gjenvei] con cui il cristianesimo
27
28
29
Ivi, SKS 9, 74; tr. it. cit., p. 89.
Ivi, SKS 9, 69-70; tr. it. cit., pp. 84-85.
Ivi, SKS 9, 75-76; tr. it. cit., p. 91.
12
«lascia alle spalle tutte le differenze, ma insegna l'uguaglianza dell'eternità. Esso
insegna che ognuno deve elevarsi al di sopra della differenze terrene»30. Se invece
esse fossero amate in modo egoistico, allora sarebbe come se ciascuna di esse
desiderasse e perseguisse la non-esistenza di ogni altra differenza, comportandosi
cioè come se queste nemmeno esistessero, e come dunque se l’uomo stesso fosse
indifferente al proprio esistere, privo del giusto egoismo per il proprio esserci. A
questo proposito Kierkegaard osserva che sia gli aristocratici sia gli appartenenti
al basso ceto, gli uni chiudendosi in «circoli», gli altri nutrendosi di risentimento
in quanto esclusi da questi, non fanno che negarsi reciprocamente l’esistenza:
«Amare il prossimo significa voler esistere in modo essenziale [væsentligen at ville
være] per ogni altro uomo, con uguale grandezza, incondizionatamente, restando
nella propria diversità terrena, quale a ciascuno assegnata. Voler esistere di fronte
ad altri uomini solo sulla base del vantaggio che dà la propria differenza terrena,
questo è manifestamente superbia e prepotenza; ma l'astuta invenzione di non voler
affatto esistere per altri, per godere nascostamente del vantaggio della propria
differenza, in comunione con i propri pari, questo è superbia da vili»31.
L’amore del prossimo sta dalla parte dell’«esistere essenziale», cioè
dell’importanza eterna di ogni esistenza temporale del singolo. Un siffatto esistere
non è propriamente altro che esistere come si deve esistere in quanto uomini,
ossia avendo effettuato quel «mutamento dell’eternità» che non abbisogna, anzi
esclude, ogni «quantizzare» il proprio differire dagli altri ed il proprio elevarsi
progressivo verso la pienezza della dignità umana. L’«elasticità dell’eternità» non
abbisogna di progredire gradualmente attraverso antitesi e sintesi sino a
raggiungere l’identità con l’assoluto. Essa resta sempre a disposizione del singolo,
purché voglia lo scandalo cristiano senza scandalizzarsene.
L’io che viene interpellato «non ha alcun senso se non diventa quel “tu” al
quale l'eternità incessantemente si rivolge e dice: “Tu” devi, tu devi, tu devi. […] Tu
devi, tu devi amare il prossimo. Oh, mio uditore, non è a te che io parlo, parlo a
me, a cui l'eternità dice: tu devi»32. Il «come te stesso» e «il prossimo», sottolineati
rispettivamente nelle sezioni A e B del Discorso, convergono in questo «Tu» in cui
culmina la sezione C. È il Tu a cui l’Eterno instancabilmente si rivolge per
salvarne «l’anima», cioè l’«esistenza essenziale», l’unica cosa che dovrebbe stare a
cuore a ciascun singolo, indistintamente, purché «voglia compiacersi di esistere
[vil behage at existere]»33.
Umberto Regina
ABSTRACT
Nelle pagine introduttive de Il concetto dell’angoscia (1844) Kierkegaard
promette una «scienza nuova» che, echeggiando Aristotele, egli chiama anche
«seconda etica». Essa avrebbe dovuto trovare nella «dogmatica», nel cristianesimo,
il fondamento per l’accesso a norme non più succubi dell’immanenza,
inevitabilmente egoistiche. La promessa venne mantenuta solo tre anni dopo con
la pubblicazione de Gli atti dell’amore (1847). Nel frattempo, con le Briciole
filosofiche (1844) e il Poscritto alle “Briciole filosofiche” (1846), Kierkegaard aveva
potuto fruire di una concettualità nuova, né greca né moderna, riguardante
30
Ivi, SKS 9, 78; tr. it. cit., p. 94.
Ivi, SKS 9, 89; tr. it. cit., pp. 104-105.
32 Ivi, SKS 9, 95; tr. It. cit., p. 111.
33 KIERKEGAARD, Afsluttende uvidenskabelig Efterscrift, SKS 7, 382; tr. it. cit., ID., Postilla
conclusiva non scientifica, in Opere, p. 491.
31
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l’essere, l’uomo e la verità, finalmente idonea a vincere l’immanenza del soggetto e
a rendere l’uomo consapevole di essere capace di compiere autentici «atti di
amore». Si tratta di modi di amare aventi quale criterio l’«egoismo giusto», come
recita il comandamento cristiano: «Tu devi amare il tuo prossimo come te stesso»
(Mt 22, 39). Kierkegaard lo interpreta attraverso sorprendenti sintagmi: il
«mutamento dell’eternità», l’«uguaglianza dell’eternità», «l’elasticità dell’eternità», la
«scorciatoia dell’eternità», ed anzitutto la «parentela di Dio e dell’uomo». Non sono
«virtù», bensì direttive esistenziali che consentono al singolo di scoprire in se
stesso la capacità di compiere atti puri da ogni ricaduta egoistica. È una scoperta
che non sarebbe stata possibile senza il cristianesimo, ma che può essere fatta
propria dalla filosofia.
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