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il pentagramma
De suppliciis Purgatorii et de longa, calida aestate
di Patrizia Venucci Merdžo
Gentilissimi,
la passata stagione all’Ivan de Zajc è trascorsa all’insegna del risparmio della corrente elettrica. Possiamo ben comprenderlo; mettici i tagli al budget del
teatro, mettici il costo dell’energia elettrica... a questo
punto, zacchete!, un bel taglio ai cavi dei riflettori del
palcoscenico – principale fonte di spreco - era l’unica,
più saggia ed economica decisione da prendere. E chi
s’è visto, s’è visto!
Siccome gli artisti hanno molto intuito - e la cosa
stava per aria – la strategia dell’“austerity“ ha avuto
inizio già l’anno scorso; ed è questo il motivo per cui
abbiamo potuto gustare una Traviata tutta noir, un’
Adriana demi-noir, una Lucia in versione azteka che
tutta angosciata e avvolta nelle tenebre passeggiava su
e giù per la piramide in attesa del suo Nesahualcoyotl;
ma soprattutto abbiamo potuto “deliziarci“ di “Dafni e Cloè, ovvero il Purgatorio“ in cui le effusioni dei
due illividiti pastorelli cosmico-galattici and company
parevano le contorsioni angosciate di anime in pena.
“Per gli artigli di Cerbero! - mi son detta -, se il purgatorio è una cosa del genere mi conviene rigar diritto“.
Neanche Gustave Doré avrebbe fatto di meglio.
Peccato però che questi del Teatro non sappiano lucrare come si deve. Qui ci vorrebbe un “pacchetto” obbligatorio da acquistare assieme al biglietto: libretto-candela-cannocchiale e, gratis!, aspirina o antidepressivo, a
scelta (il fischietto ve lo portate da casa), da prendere a
fine spettacolo. E così tutti sarebbero felici e contenti: la
gente, perché finalmente ci “vedrebbe chiaro”, e l’administration del Teatro perché con i soldini dell’inghippo
potrebbe aggiustare il bilancio.
Tuttavia bisogna ammettere che il finale della “season” è stato semplicemente luminoso e all’insegna del
futuro, dei giovani e dell’eccellenza con i concerti del
pianista Goran Filipec, che giustamente rifulge sui podi
importanti, e dei giovani concertisti della Scuola di musica, il violoncellista connazionale Fabio Jurić, il violinista Edi Šiljak e il pianista Stipe Bilić. Tre fuoriserie, tre
giovani di alta qualità musicale, aureolati di quella freschezza e pulizia interiore che hanno il potere di risvegliare in ognuno di noi il nostro “bessres ich”, il nostro
io migliore, spesso offuscato e stanco.
Ed ora eccoci qui, immersi nelle “Notti estive fiumane”, una manifestazione dal carattere molto eterogeneo, fin dall’inizio, al punto da chiederci se ciò non
pregiudichi una sua unitarietà e chiarezza concettuali.
Quest’anno poi, il mosaico si è trasformato in un vero
e proprio vestito d’Arlecchino. C’è di tutto e di più; perfino – novità da tempi di crisi – la serata per l’infanzia
e le proiezioni cinematografiche. (Non ci manca che il
corso di ricamo). In questo modo la fisionomia della manifestazione si va, purtroppo, stemperando e alterando
in maniera preoccupante. Sì, la crisi, d’accordo. Però,
a quanto pare, gli spalatini la crisi la stanno snobbando alla grande, altrimenti come si spiega quel po’ po’ di
cartellone dell’Estate di Spalato? O si son messi a stampare soldi falsi? Dodici, dico dodici serate di musica,
contro le nostre sei.
Bisogna prendere atto della qualità dei concerti da
camera (o se vogliamo da spiaggia) con interpreti giovani concertisti quali Milenkovich, Graziani, Hauser,
Kovačić; ammetto, compiaciuta, la notevole fantasia nel
valorizzare i tanti punti della bella città di Fiume, ma
dico e ripeto: non era proprio possibile mettere in piedi
almeno ancora uno spettacolo lirico e una serata di danza? Giusto per non far fare al balletto la parte di Cenerentola, come spesso accade.
Festivalafosamente Vostra
2 musica
Mercoledì, 30 giugno 2010
Il gruppo dei minicantanti a “Voci nostre” 2008
Il coro misto “Haliaetum” in concerto
VITA NOSTRA L’articolata attività della CI «Pasquale Besenghi degli Ughi»
Tra mini, maxi e chitarre...
Patrizia Chiepolo Mihočić
ISOLA - Frequentare la Comunità degli Italiani non è solo
un modo per confermare l’appartenenza al gruppo etnico, ma
anche un’occasione d’incontro,
di svago e divertimento, specialmente per i più giovani. Se poi i
gruppi in questione hanno a che
vedere con la musica, il successo è assicurato. Una delle Comunità che vantano un gran numero
di attività musicali è sicuramente
la CI “Pasquale Besenghi degli
Ughi”di Isola, che vede a capo
Astrid Brenko. Tra cori, gruppi di ballo, mini e midi cantanti
l’allegria non manca, sia in sede
che al di fuori di essa. E perché
no, anche oltre il confine sloveno. Sono tutti gruppi che vantano
una lunga tradizione e lusinghieri successi sia in ambito nazionale che in quello internazionale.
L’eccellenza
del Coro misto
Haliaetum
Uno dei gruppi musicali
più „vecchi“ e importanti della Comunità, è sicuramente il
coro misto Haliaetum, guidato
dal prof.Giuliano Goruppi (prima guidato dal maestro Claudio
Strudthoff) che prende il nome
dall’antica denominazione latina
della cittadina istriana. Colonna
portante della CI in campo musicale, il coro è stato costituito il
2 ottobre 1975. Riunisce membri
la cui età varia per lo più dai 30
ai 40 anni, ma anche persone più
anziane. Il repertorio comprende
brani che spaziano dalla polifonia
sacra e profana del ‘500 al canto
popolare e al folklore internazionale. L’attività dei membri è molto
proficua: sostengono regolarmente
concerti in Slovenia, ma anche all’estero: in Croazia, Austria e Italia.
Ogni anno partecipano a numerosi
concerti e rassegne musicali durante i quali il successo è assicurato,
grazie alla loro bravura e „professionalità“.
Dal 1986 il coro prende parte
al “Concerto dell’Amicizia”, un
incontro divenuto ormai tradizionale che vede a confronto tre cori
provenienti da tre città diverse; il
coro misto “Haliaetum”, il “Komorni pevski zbor” di Celje e il
coro “Foltej Hartman” di Bleiburg
(Austria). Ogni anno il concerto si
svolge in un’altra città partendo da
Celje, per poi proseguire l’anno
dopo a Bleiburg e l’anno successivo ancora ad Isola.
Ci sono poi altri due concerti divenuti ormai tradizionali e che vedono la partecipazione, in qualità
di ospite di casa, il coro della Comunità: “L’Incontro Internazionale
di Cori” e il “Concerto di Primavera” durante il quale si esibiscono
con brani profani o popolari.
Ultimamente il coro ha preso parte a due progetti importanti ideati dal loro direttore, il prof.
Goruppi: il primo era dedicato alle
musiche di Antonio Illersberg, uno
dei massimi esponenti della cosiddetta scuola compositiva triestina,
nell’ambito del quale è stato inciso pure un CD dal titolo “Omaggio
ad Antonio Illersberg “. Il secondo
I chitarristi del Gruppo musicale
riguarda invece le musiche popolari di Giulio Viozzi (compositore, pianista, direttore d’orchestra e
critico musicale italiano, tra l’altro
allievo di Illersberg), dal titolo “Serata Viozzi”.
I membri del coro sono molto
attivi, e lo dimostra pure la carrellata di concerti tenuti negli ultimi
dodici mesi. A Muggia hanno preso parte al concerto “Primorska povjest”, mentre nel mese di dicembre hanno partecipato alla Serata
dedicata alla canzone promossa
dal Comune di Isola. Presenti pure
alla Rassegna annuale di musica
sacra presso la chiesa di S. Mauro di Isola.
Il coro ovviamente non si è limitato solamente al territorio sloveno, ma è stato ospite pure delle
CI di Lussinpiccolo, Parenzo, Torre
e Busolengo.
Facendo un salto nel passato,
veniamo a sapere che il coro ha
tenuto pure un concerto presso la
piccola chiesa di S.Maria di Allieto
(nome usato in epoca romana per
Isola), rimasta chiusa per anni e riaperta nel dicembre del 2008 dopo il
restauro.
Prima del riposo estivo, il coro
parteciperà ancora, nel mese di luglio, al concerto a Trento, mentre a
settembre si esibirà in provincia di
Trento e poi ancora a San Ginesio
(Macerata) nel mese di ottobre. Insomma, più attivi di così…
Laboratori di canto
e di chitarra
La classe di canto istruita da Neven Stipanov
Dal 2009 il Gruppo dei mini
cantanti, il Gruppo dei giovani cantori e il Gruppo musicale
vengono portati avanti dal valido e noto musicista Enzo Horvatin, subentrato al maestro Roberto
Vatovec.
Nell’ambito di questi gruppi
vengono organizzati laboratori canori, di impostazione vocale e anche corsi di chitarra. Del Gruppo
musicale, iniziato l’ottobre scorso,
fanno parte allievi che hanno dagli otto ai 50 anni e che muovono i primi passi tra note e corde di
chitarra.
I giovani cantori, ragazze tra i
12 e i 15 anni, si sono esibite, assieme al Gruppo musicale, in occasione della festa di San Martino
e durante il pomeriggio dedicato
ai bambini, nel periodo più bello
dell’anno, dal titolo “Natale non
aspetta”.
Gli allievi del Corso di canto,
giovani e meno giovani, sotto la
guida del mentore Neven Stipanov,
non sono stati da meno per quanto
riguarda la presenza sul palco. Durante la “Gara dei dolci”, manifestazione improntata alle tradizioni
relative alla Pasqua, si sono esibiti
riscuotendo un notevole successo.
Per quanto riguarda i minicantati, le ultime esibizioni risalgono al
festival “Voci nostre” 2008 durante il quale Tricha Pucer si è esibita
con il brano “Yo-Yo” di Ondina ed
Eleonora Matijašič, e in occasione
dela manifestazione “Arriva Babbo
Natale”, uno dei momenti più attesi dai piccolini. Da allora i pargoletti dall’ugola d’oro si sono presi,
per così dire, un attimo di pausa e
riprenderanno la loro attività a settembre, assieme ad un nuovo gruppo di giovanissimi, e verranno preparati secondo un nuovo programma canoro.
Nell’attesa di vedere, anzi, sentire quanto siano bravi questi piccoli cantanti, auguriamo loro buone
vacanze. E perché no, in vacanza
ce ne andiamo pure noi. Fischiettando senz’ombra di dubbio “Sapore di mare”. Ce le saremo meritate?
Credo proprio di sì!
musica 3
Mercoledì, 30 giugno 2010
A LA RECHERCHE DE LA MEMOIRE PERDUE La Scuola di musica compie 190 anni
Un primato di cultura e civiltà
Patrizia Venucci Merdžo
FIUME – Ricorre quest’anno il centonovantesimo anniversario della fondazione della
Scuola di musica di Fiume, primo istituto musicale municipale
su tutto quel territorio che possiamo definire come ex Jugoslavia, e terzo in Europa, e con
esso la nostra ammirazione per
una temperie che aveva contraddistinto la Fiume del primo Ottocento.
Gli atti di fondazione della
Scuola di musica a noi pervenuti rivelano chiaramente una
volontà di crescita, una mentalità organizzativa e uno spirito
urbano, come pure una sensibilità democratica aperta alle necessità di tutti gli strati sociali,
che per gli odierni cittadini del
capoluogo quarnerino possono
rappresentare una grande lezione di civiltà.
Dunque - oltre al Teatro, al
siluro, all’elettricità, alla ferrovia, al fenomeno industriale - ,
ancora un altro primato della città di Fiume che la delinea e consolida nella sua posizione di agglomerato urbano emancipato e
pienamente europeo.
Due insegnanti
boemi per la prima
Scuola di musica
Con il decreto del 20 giugno 1820 emanato dal Magistrato Civico, la Pubblica Scuola
di Musica vocale e strumentale
– dopo varie controversie tra il
Magistrato Civico di Fiume, il
Capitaniato Circolare di Fiume
e il Governo del Litorale di Trieste - veniva finalmente fondata.
Come stabilito dall’atto di fondazione, l’ente musicale avrebbe avuto un professore principale (che al contempo avrebbe
ricoperto la carica di organista
del Duomo e di direttore dell’orchestra del Teatro Adamich),
e un secondo insegnante, assistente-coadiuvatore. Entrambi
avrebbero percepito un salario
annuale, rispettivamente di 500
e 300 fiorini, erogato dalla Cassa pubblica.
Lo stesso giorno dell’emanazione del decreto il Magistrato
civico bandì il concorso per l’assunzione dei docenti che venne
pubblicato nelle principali città
dell’impero asburgico (Trieste,
Lubiana, Graz, Venezia, Vienna e Praga), a testimonianza dell’alto livello di criteri, ai quali i
fondatori si ispiravano.
I primi due docenti della
Scuola di musica di Fiume furono i boemi Venceslav Wenzel
– insegnante di musica attivo a
Lubiana - e Joseph Prohaska di
Adelsberg.
La sede della prima scuola di
musica era ubicata in strada del
Lido 490, l’odierna Riva, nell’edificio adiacente all’attuale
chiesa ortodossa di S. Nicola.
Lo spirito
democratico dei
padri cittadini
Con lo statuto della neonata Scuola di musica del 1 aprile 1821, si stabiliva la divisione
degli alunni in „regolari“ e „pre-
parandi“. Questi ultimi venivano
educati per l’insegnamento della
musica nella scuola pubblica.
All’educazione musicale, che
era gratuita, avevano accesso i ragazzi di tutti gli strati sociali; i più
indigenti potevano usufruire di un
contributo da parte del Magistrato civico.
Dai documenti del tempo risulta chiaramente la variegata
estrazione sociale degli allievi;
erano figli di patrizi, magistrati, commercianti, marittimi, proprietari terrieri, come pure figli
di pescatori, artigiani e operai.
Un tanto per mettere in luce lo
spirito democratico ed estremamente evoluto che caratterizzava la mentalità dei padri cittadini
di Fiume.
L’articolato programma dell’istituto, della durata di quattro
anni, prevedeva le sezione archi,
fiati, canto, pianoforte e organo.
Il primo direttore (onorario)
della Scuola fu Andrea da Scherzer, e come testimonia l’elenco degli iscritti del 1821, erano ben 50 i
ragazzi della prima generazione.
Quella di Fiume
fu la prima
Il prof. Klobas nel suo saggio
sulla Scuola di musica di Fiume,
volendo argomentare il primato del detto ente musicale (in un
contesto territoriale più ampio)
in quanto istituzione musicale autonoma e municipale, precisa che
le scuole di musica di Varaždin e
Zagabria furono fondate rispettivamente nel 1828 e nel 1829 da
società musicali (“Musikverein“),
ossia da associazioni di cittadini che autofinanziavano i detti
istituti; quindi si trattava di enti
“privati“ che non usufruivano del
contributo di un soggetto “statale“. A Lubiana operava dal 1816,
nell’ambito della scuola normale,
un indirizzo musicale finalizzato
all’educazione musicale generale dei futuri maestri della scuola “dell’obbligo“; tuttavia questo
tipo di istruzione era presente a
Zagabria e Fiume rispettivamente
sin dal 1788 e 1789. Quando nel
1821 la Società Filarmonica di Lubiana decise di istituire una scuola di musica a parte, appellandosi
al Magistrato cittadino per un sostegno finanziario additò all’esempio della (già operante) Scuola di
musica di Fiume. Il tutto sta ad indicare che la città di San Vito disponeva già di una Scuola di musica autonoma e indipendente da
qualsiasi altro tipo di istituzione
scolastica ed era supportata direttamente dalla municipalità; il che
dimostra il suo primato cronologico nella geografia dell’istruzione musicale sul territorio dell’ exJugoslavia.
Direttori, sedi,
statuti
Nel 1824 il ruolo di direttore era ricoperto da Lodovico de
Lazzarini, patrizio e compositore
fiumano, mentre l’anno dopo il
Prohaska fu sostituito da Giovanni Knezaureck. Il Lazzarini, attivo
a Lubiana negli anni 20 dell’Ottocento, viene menzionato come autore di musica “leggera“ (danze tedesche, laindler, cottillions), come
compositore talentuoso e tecnicamente abile.
Nel 1928 la scuola si trasferisce in casa Adamich e lo studio
viene prolungato a cinque anni,
suddivisi in dieci semestri. Direttore onorario dell’istituto è il patrizio e consigliere fiumano Carlo
Antonio Pauer.
Con lo statuto del 31 agosto
1831 si attualizza il diretto coinvolgimento degli allievi in tutte
le manifestazioni musicali pubbliche, come pure il rilascio, a studi ultimati, di un attestato di frequenza.
Dopo quindici anni di indefessa e pionieristica attività, nel
1835, Venceslao Wenzel, il primo maestro della Scuola di musica fiumana e costruttore delle basi
della vita musicale fiumana, viene
a mancare. Fondamentale era stato
il suo contributo all’attività lirica
del Teatro Adamich; basti ricordare che nella stagione del 1834,
nell’ arco di tre mesi diresse ben
34 spettacoli d’opera.
Facciamo notare che tale numero supera abbondantemente
l’attuale attività lirica del Teatro
fiumano nel corso di tutta stagione.
Negli anni trenta la Scuola di
musica si insedia nella casa di Iginio Scarpa e quindi in Casa Battaglierini, (in Piazza delle erbe)
dove opererà a partire dal 1842.
L’importante
contributo di Zaytz
padre
A Wenzel successe Giovanni
de Zaytz padre, già attivo a Fiume
dal 1830 e noto per la sua attività
di direttore d’orchestra al Teatro
Adamich, maestro e organista al
Duomo, solista agli archi e compositore fecondo. Protagonista di
un ventennio musicale allestì ben
52 opere liriche 45 delle quali erano delle première e portavano la
firma di Donizetti, Bellini, Rossini, Verdi. Rappresentate pochi
anni dopo le loro prime italiane fecero sì che Fiume fosse annoverata tra le città europee più aggiornate nel campo dell’opera lirica italiana. Zaytz padre insegnò canto e
archi alla Scuola di musica, assieme a Venceslao Leschetizky (canto e fiati); tra gli allievi figuravano
pure, nel 1847/48, Giovanni junior
e la sorella Albina, futura cantante
lirica di successo sui palcoscenici
italiani.
Il ricco inventario
della Scuola
di musica
Dopo un periodo di crisi organizzativa e materiale, con lo statuto del 1849 la Scuola vive un processo di riorganizzazione e rinnovamento.
Nel 1853 la Municipalità eroga
1280 fiorini per materiali didattici e 2344 fiorini come sovvenzione annuale fissa. Nel ’54 gli insegnanti impiegati sono tre: Girolamo Francalucci di Firenze per gli
strumenti ad arco, Wenzel Zawrtal
di Praga per i fiati, e il fiorentino
Giuseppe Maria Sborgi per il canto. I direttori sono ben tre e rispondono ai nomi dell’ ing. Primo de
Adamich, del consigliere municipale Luigi Cornet e dell’avvocato
Luigi dall’Asta.
Da un inventario del ’55 risulta che la Scuola di musica possedeva un pianoforte, 16 strumenti
Protocollo della commissione del Magistrato civico del 20 novembre 1819 inerente all’istituzione della Scuola di musica
ad arco, 32 strumenti a fiato e 9
percussioni. La biblioteca consisteva in 461 partiture per orchestra, 112 brani di musica sacra e
35 per orchestra di fiati, un gran
numero di composizioni da camera e per strumenti solisti, come
pure parecchi libri didattico-pedagogici per lo studio del canto e di
strumenti vari. Ricorderemo che
la banda cittadina era stata fondata nel 1851 ed operava sotto l’ala
della Scuola.
Il Teatro Adamich
a livelli europei
Figura di fondamentale importanza per la vita musicale di Fiume fu Giovanni Zaytz figlio; reduce dagli studi al Conservatorio di
Milano, compositore e concertista
al pianoforte e al violino, dal 1855
fu insegnante alla Scuola di musica per gli archi e il canto. Oltre a
ciò, come direttore d’orchestra al
Teatro Adamich aveva l’obbligo di
dirigere l’orchestra negli spettacoli d’opera (da 30 a 40 per stagione), e di prosa, come pure in tutte
le solennità religiose, pubbliche e
benefiche. Inoltre aveva il compito di comporre e copiare le musiche per orchestra per i vari spettacoli di prosa e per le altre occasioni. Maestro ed organista al Duomo, scrisse messe e brani sacri per
l’ufficio divino.
Nonostante l’intensissima attività Giovanni Zaytz riuscì a comporre durante il suo settenale periodo fiumano ben 70 composizioni di genere lirico, sinfonico, cameristico, sacro e profano. Con la
Casa Battaglierini, sede della
SM dal 1842
sua eccezionale e poliedrica cultura musicale e generale, con la sua
rara personalità di uomo di teatro
e di organizzatore impresse alla
realtà musicale cittadina una svolta qualitativa e di aggiornamento
unica su tutto il territorio che oggi
possiamo designare come ex-Jugoslavia.
Purtroppo, l’ambiente cittadino si dimostrò troppo ristretto per
la sua personalità d’artista, e nel
1862 prese la via di Vienna dove si
metterà in luce come autore d’operette di successo.
La Scuola di musica continuerà
il suo percorso fino al 1865, anno
in cui, causa una crisi di tipo organizzativo che non troverà soluzione, interromperà la sua attività nei
successivi decenni.
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musica
Mercoledì, 30 giugno 2010
Mercoledì, 30 giugno 2010
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CINEMA E MUSICA Nella musica il regista reperì un mezzo efficace per influire sul ritmo dell’azione e per esprimere l’interiorità dei personaggi o le forze sotterranee attive in molte situazioni drammatiche
Immagine, suono, relazione mentale in «The Man Who Knew
Too Much» (1956) di Alfred Hitchcock
Matteo Giuggioli
Nella celebre intervista rilasciata a François Truffaut nel
1962, Hitchcock dichiara apertamente di non perseguire come
obbiettivo, nel cinema, la rappresentazione naturalistica della realtà. Quale essenza della narrazione cinematografica, al tranche de
vie egli oppone il principio drammatico, l’azione sfrondata dai
dettagli inessenziali. Il dramma,
sostiene, “è una vita dalla quale sono stati eliminati i momenti
noiosi”. Di conseguenza, afferma che la sua maggiore preoccupazione consiste nel creare, con i
mezzi espressivi del cinema, delle
forme atte ad arricchire l’azione,
che drammatizzino la storia fino
a renderla “senza buchi né macchie”, in grado di coinvolgere ed
emozionare lo spettatore evitando
interruzioni o cali di tensione.
Pregiudizi
nei confronti
di Hitchcock
Per il suo modo di intendere
il cinema, ma forse anche a causa di pregiudizi suscitati dal suo
successo presso il pubblico, Hitchcock fu a lungo frainteso e denigrato dalla critica americana,
restia a considerarlo un ‘autore’
alla stregua degli altri grandi registi dell’epoca. I suoi film venivano accusati di essere privi di
sostanza, di presentare situazioni inverosimili e di abusare di
uno strumento di drammatizzazione come la suspense, ritenuta
una forma inferiore di spettacolo. I giovani critici dei “Cahiers
du cinéma”, entusiasti sostenitori
di Hitchcock, reagirono per primi
contro le opinioni superficiali e
tendenziose che si erano diffuse
in America. Ribaltando i termini,
dimostrarono innanzitutto quanto
fosse assurdo, nel suo cinema, ricercare la sostanza al di fuori delle forme dello spettacolo. Eric
Rohmer e Claude Chabrol (nel
loro Hitchcock del 1957) riconoscono proprio nell’ineguagliabile
capacità di inventare forme cinematografiche la peculiarità artistica del maestro inglese e sottolineano che nei suoi film la forma
non interviene a ornare il contenuto, ma a crearlo.
Livelli di senso di alta complessità
A partire dalla nuova consapevolezza sul ruolo della forma
espressa dai due colleghi, Truffaut, nell’introduzione all’intervista, chiarisce altri aspetti essenziali dell’universo creativo
di Hitchcock. Soprattutto spiega
come le sue costruzioni formali,
accessibili a ogni tipo di pubblico e tese, in apparenza, soltanto
a drammatizzare le vicende del
racconto per captare l’attenzione
dello spettatore, inneschino livelli
di senso di alta complessità, assai
diversi tra loro. Essi vanno dall’indagine profonda sui sentimenti, sulle pulsioni, sulle ossessioni
umane, alla riflessione metalinguistica sull’arte cinematografica. L’esame della dimensione
visiva permette inoltre a Truffaut
di confutare l’accusa di inverosimiglianza che i critici americani
muovevano ai film di Hitchcock
e che egli sembrava avvalorare dichiarando di non essere interessato
alla resa del vero. Truffaut osserva
che, tramite l’eccezionale sensibilità nel filmare con le sole immagini i
sentimenti e i più intimi rapporti tra
gli individui, Hitchcock perviene a
un realismo di grado superiore, che
oltrepassa l’arbitrarietà dei materiali narrativi o degli stilizzati costrutti
formali rivolti essenzialmente a intensificare la tensione drammatica.
Sul piano tecnico, la concezione hitchcockiana del cinema implicava la padronanza assoluta di tutte
le risorse. Il regista maturò straordinarie competenze in tale senso sin
dall’inizio della carriera, ricoprendo vari ruoli professionali all’interno delle compagnie di produzione che operavano a Londra. Oltre a
dedicare estrema cura alla realizzazione delle inquadrature, Hitchcock
sovrintendeva a ogni altra fase di
lavorazione del film, dalla stesura
della sceneggiatura, alla fotografia, al montaggio, alla selezione e
sincronizzazione del suono. Tra le
materie dell’espressione predilesse sicuramente l’immagine; si era
formato e aveva esordito alla regia
nell’epoca del cinema muto, pertanto mantenne sempre salda la convinzione che i film muti fossero “la
forma più pura del cinema” e che il
“modo cinematografico” di presentare una storia consistesse nel saperla raccontare per immagini.
Nei confronti dei significanti sonori Hitchcock mostrò un atteggiamento ambivalente.
Sfasatura tra dialogo
e immagine
Fedele all’idea del cinema puro,
che giunge a compiutezza nel racconto per inquadrature e sequenze,
egli riteneva il dialogo una risorsa
scarsamente espressiva. Ne deprecava anzi la pericolosa tendenza ad
abbattere la tensione, a trasformare il cinema in “fotografia di gente
che parla”. Nei suoi film è spesso
presente una sfasatura tra dialogo
e immagine, sbilanciata in favore
dell’elemento visivo. Alla situazione contingente affidata al parlato,
neutra sul piano emozionale, viene
sovrapposta, evocata dall’immagine, una dimensione nascosta, portatrice dei nuclei drammatici. Diversamente, Hitchcock tenne in grande
considerazione i rumori e la musica,
per il loro alto potenziale espressivo. Nel valore aggiunto degli effetti
sonori e della musica da buca sull’immagine reperì un mezzo efficace per influire sul ritmo dell’azione
e per esprimere l’interiorità dei personaggi o le forze sotterranee attive
in molte situazioni drammatiche. Si
servì quindi della musica da schermo non solo per arricchire la narrazione, ma anche per incidere sull’equilibrio tematico. Agli effetti
sonori e alla musica affidò, in molti
casi, un ruolo centrale nella drammatizzazione e nella definizione
delle forme.
Una pellicola
raccontata
con la musica
Un film completamente pervaso dalla musica è The Man Who
Knew Too Much, nella seconda
Fatti, come
labirinti di possibilità
Musica da schermo per “Whatever will be”
versione, del 1956. Rispetto alla
prima versione, girata nel 1934
in Inghilterra, Hitchcock arricchì
con nuove immissioni la consistenza della componente musicale e ne perfezionò il rapporto con
le altre dimensioni del testo filmico. La musica è presente nel film
a vari gradi. C’è il commento musicale da buca composto da Bernard Herrmann; il compositore,
che aveva iniziato a collaborare
con Hitchcock dalla produzione
precedente, A Trouble with Harry,
dello stesso anno, in totale scriverà le musiche per sette suoi film,
firmando capolavori quali Vertigo
(1958) e Psycho (1960). Ci sono
alcuni brani di musica da schermo; i principali, per il rilievo che
assumono all’interno nella vicenda sono Storm Clouds Cantata di
Arthur Benjamin, già al centro dell’intreccio nella prima versione, e
la canzone Whatever will be di Jay
Livingston e Ray Evans. Seguono
la musica d’ambiente del ristorante di Marrakech, l’inno cantato dai
fedeli nella Ambrose Chapel, la
seconda canzone di Livingston e
Evans, We’ll love again, eseguita
da Doris Day all’ambasciata.
La mia analisi si concentrerà
sulle due sequenze in cui compare
la canzone Whatever will be, uno
degli elementi maggiori di musica
da schermo. Sarà indirizzata a delineare le modalità di organizzazione
delle forme attorno a essa e a rilevare gli esiti raggiunti sul piano tematico. Per sondare i livelli di senso
impressi nelle strutture audiovisive
mi riferirò in partenza ai concetti
elaborati da Gilles Deleuze (nella
prima parte del suo studio sul cinema,
L’immagine-movimento)
sulle caratteristiche dell’immagine
nel cinema di Hitchcock. Deleuze individua all’interno della serie
visiva un principio di fondo, che a
mio avviso, in The Man Who Knew
Too Much influenza anche le componenti sonore introdotte nell’intreccio.
dei costumi locali e parlando arabo aveva in breve risolto la questione. Jo nutre dei sospetti su di lui dal
momento che si è mostrato reticente
nel rivelare la propria identità e poiché, all’arrivo dell’autobus, lo ha
visto confabulare con l’uomo dell’incidente, come se tutto fosse stato
architettato. Nella scena della camera d’albergo i sospetti della donna si
infittiscono, per lo strano modo di
comportarsi dell’ospite. Come apprenderemo nelle fasi successive
del racconto, Bernard, che sarà assassinato di lì a poco, era l’agente
segreto sulle tracce dell’organizzazione criminale che progetta l’uccisione del Primo Ministro.
La relazione espressa nella frase
d’apertura va oltre gli avvenimenti,
mira al nucleo tematico profondo
del film. Hitchcock, secondo consuetudine, ce lo propone avvalendosi di una trama avventurosa, ricca
di azione e di situazioni forti. L’argomento, complesso, è quello dell’uomo in mano al proprio destino
e viene sviluppato seguendo due
aspetti complementari. Da una parte il labirinto delle possibilità che si
apre di fronte a ogni scelta, dall’altra l’interferenza, che può unire all’improvviso dimensioni estranee,
distanti, innescando coincidenze
imprevedibili, a volte fatali. La relazione mentale contenuta nella dichiarazione iniziale pertanto risulta
doppia: un labirinto di possibilità
può portare un colpo di piatti a rovinare la vita di una famiglia soltanto
se, a causa di una interferenza, esso
si è a sua volta smarcato, trasformandosi nel colpo di pistola di un
omicidio.
Accanto al tema principale, Hitchcock svolge nel film alcuni motivi tipici della sua produzione cinematografica, quali la metamorfo-
Whatever will be occupa, da elemento sonoro principale, le prime
quattro inquadrature della sequenza, dalla dissolvenza che apre sull’interno della camera d’albergo, ai
rintocchi sulla porta che interrompono Jo e Hank mentre cantano e
ballano insieme. Hitchcock instaura
tra suono e immagine un rapporto di
fuori campo attivo. Esso si ha quando un suono off impone un’aspetta-
si in personaggio eroico dell’uomo
ordinario, indotta da una situazione
eccezionale che egli si trova a fronteggiare, il male che si cela sotto le
sembianze affabili di membri della buona società, l’incapacità delle
forze dell’ordine nel risolvere i casi
di crimine.
Vediamo adesso come interagiscono, nelle sequenze in cui appare
Whatever will be, forma audiovisiva, rappresentazione tematica, relazione mentale.
La canzone compare per la prima volta nella sequenza della camera d’albergo a Marrakech. (I coniugi
Jo e Ben McKenna, con il figlio, il
piccolo Hank, sono da poco arrivati
in Marocco per trascorrere una vacanza. È sera, Jo e Ben hanno invitato a prendere un cocktail nella loro
stanza Louis Bernard, in previsione
di uscire con lui a cena. I McKenna
hanno conosciuto Bernard sull’autobus che li accompagnava in città, in seguito a un disguido occorso a Hank con un uomo del luogo.
Il francese, dimostrandosi esperto
tiva sul campo visivo, incitando lo
sguardo ad andare a vedere che cosa
succede alla sorgente sonora. Nella
sequenza, le voci cantanti, quella di
Jo che intona il ritornello, poi, a catena, quella di Hank che esegue la
prima strofa, sono inseguite dalla
macchina da presa, che in successione rivela le due fonti.
La costruzione audiovisiva,
come dimostra Murray Pomerance
con un’analisi dettagliata dell’episodio, permette alla canzone di trascendere la propria natura e il proprio valore musicale, elevandosi a
fulcro di significati.
In termini deleuziani, il brano attiva una relazione mentale astratta,
divenendo un simbolo delle dinamiche affettive tra i membri della famiglia McKenna. Per il suo tramite
comprendiamo la forza del legame
tra madre e figlio. Si pensi a come
Jo e Hank, alternandosi con estrema
precisione nell’intonazione delle sezioni, dialoghino in musica (inq. 2)
o al perfetto affiatamento che esibiscono nel muovere assieme un pas-
Un rapporto di fuori
campo attivo
Musica d’ambiente per la scena al ristorante di Marrakesch
Il principio risiede nella relazione mentale, che dà luogo ad un tipo
di immagine (immagine mentale),
in cui l’azione non trova significato
esclusivamente nella propria finalità o nei propri mezzi, ma appunto
in una relazione che la fa rimandare a un terzo termine, rendendo palese un atto cognitivo. L’immagine
mentale non coglie l’azione soltanto come rapporto che si instaura tra
due termini, o forze, sulla base di
una legge, ma introduce un’interpretazione.
Relazione mentale
naturale e relazione
astratta
Afferma Deleuze che “In Hitchcock le azioni, le affezioni, le
percezioni, tutto è interpretazione,
dall’inizio sino alla fine un’azione,
essendo data (al presente, al futuro,
o al passato), sarà letteralmente circondata da un insieme di relazioni,
che ne fanno variare il soggetto, la
natura la finalità eccetera. Ciò che
conta non è l’autore dell’azione … e
nemmeno l’azione stessa: è l’insieme delle relazioni in cui sono presi
l’azione e il suo autore.
Deleuze spiega che l’immagine
mentale fa nascere due generi fondamentali di relazione, naturale o
astratta. La relazione mentale naturale, che egli chiama ‘smarcatura’, è
prodotta dall’uscita di un elemento
dalla serie di pertinenza, in cui gli
altri sono soliti riconoscerlo. L’effetto è tanto più forte quanto più comune è l’oggetto che fuoriesce dalla trama consueta. Il filosofo mostra
diversi esempi tratti dai film di Hitchcock, gli uccelli, per natura innocui, in The Birds (1963), il mulino
in Foreign Correspondent (1940),
le cui pale girano in senso contrario
al vento, l’aereo solforante in North
by Northwest (1959), che compare
sebbene non ci siano campi da solforare. La relazione mentale astratta
si attua invece nel ‘simbolo’, inteso
non come pura astrazione, ma come
oggetto reale che porta in sé diverse
relazioni. Secondo tale accezione, è
un simbolo, ad esempio, la fede in
Rear Window (1954). Talvolta le
smarcature e i simboli possono convergere nei medesimi elementi.
In The Man Who Knew Too
Much gli estremi di una relazione
mentale sono rintracciabili già nella frase che appare sullo schermo
in apertura del film, in conclusione
del passaggio orchestrale che ha accompagnato, con le sezioni di ottoni
e percussioni inquadrate dalla macchina da presa, i titoli di testa. Sullo
sfondo dei piatti, che il percussionista ha appena suonato nell’accordo
finale del breve preludio strumentale, leggiamo: “A single crash of
cymbals and how it rocked the lives
of an American family”. Capiremo
molto più avanti, retroattivamente,
il significato dell’enunciato. In esso
è condensato il nucleo concettuale
del racconto. Hitchcock non espone
semplicemente un fatto, ma esibisce un ragionamento, una relazione
mentale che agisce a partire da un
elemento sonoro e musicale al tempo stesso. L’azione (il colpo di piat-
ti) rimanda a una conseguenza (la
rovina di una famiglia) che non può
essere implicata se non per mezzo
di un atto interpretativo.
Ovviamente, saranno gli eventi
narrati nel film a mostrare il nesso tra i termini. Un’organizzazione
criminale ha pianificato l’assassinio
del Primo Ministro di una nazione
(non specificata per motivi di censura), che dovrà avvenire a Londra
durante l’esecuzione della Storm
Clouds Cantata alla Royal Albert
Hall. Il sicario, per occultare il rumore ha l’ordine di sparare in coincidenza del colpo di piatti che segna
il culmine del brano. La famiglia
americana dei McKenna, in vacanza a Marrakech, viene a conoscenza, per una serie di coincidenze, di
alcuni particolari del piano e per
questo subisce il rapimento figlio.
Alla disperata ricerca del bambino,
che infine avrà esito positivo, Jo e
Ben McKenna saranno protagonisti di una concitata serie di vicende.
Riusciranno, tra l’altro, a sventare
l’omicidio durante il concerto.
so di danza su quanto stanno cantando (inq. 4).
“When I was just
a little boy …”
Quando sentono il bambino
cantare poi, entrambi i genitori si
scambiano un sorriso compiaciuto,
che manifesta tutta la loro soddisfazione per la sua precoce sensibilità
(inqq. 2-3). Pomerance nota che anche il testo poetico della canzone, in
sé di scarso spessore, assume rilievo se considerato in questa ottica.
Hank canta delle strofe nostalgiche,
che rimandano in prima persona a
momenti dell’infanzia e dell’adolescenza ormai lontani: “When I was
just a little boy … / When I was just
a child in school … / When I grew
up and fell in love …”. Si tratta di
esperienze e sensazioni che, per la
sua età, non può avere vissuto. Esse
potrebbero semmai essere ricondotte alla storia personale di Jo, che
evidentemente ha insegnato il brano al figlio. Ascoltandole cantate
dal bambino, per di più fuori campo, ossia in assenza della sua figura, ci fanno percepire una sfasatura temporale. Sembra che la voce
provenga dall’interiorità della madre, che rivive nel figlio le emozioni
di un tempo, a testimonianza della
profonda reciprocità che intrattiene con lui.
Sul fronte della rappresentazione tematica, la forma audiovisiva
offre dei consistenti riferimenti ai
due aspetti complementari del tema
centrale del film, labirinto e interferenza. Le stanze separate da cui
provengono le voci di Jo e Hank,
congiuntamente al movimento della macchina da presa, che si muove alla loro ricerca imbattendosi di
passaggio in molti altri elementi, rimandano all’idea del labirinto delle
possibilità (inq. 2). Un labirinto acustico, come spiega ancora Pomerance è invece provocato dallo scarto
temporale che si crea tra il passato
degli avvenimenti raccontati nella
canzone e l’anticipo che la canzone
stessa gioca sull’immagine attraverso il fuori campo attivo. Si crea una
sospensione del tempo, dominata da
una sorta di doppia memoria. Una,
lontana, è legata agli eventi evocati
dal brano, l’altra, immediata, viene
prodotta dal movimento della macchina da presa, che giunge a inquadrare la sorgente quando della voce,
appena estinta, non è rimasto che il
ricordo.
L’interferenza è richiamata dai
rintocchi sulla porta che, interrompendo l’esecuzione di Whatever
will be, spezzano l’incanto del sereno quadretto familiare. Ben apre
la porta una prima volta e si trova
di fronte il cameriere con la cena
per Hank (inq. 5). Poco dopo però,
quando ad aprire va Jo, i coniugi si
trovano a contatto diretto, ignorandolo, con il sicario Rien. Considerata a posteriori, quando saranno
ormai definite le identità e le intenzioni di ogni personaggio, la comparsa del criminale sulla porta della
camera d’albergo appare come il segno ineluttabile del destino sventurato che sta per travolgere i McKenna (inq. 20).
Segue nelle pagine 6 e 7
6 musica
Mercoledì, 30 giugno 2010
MUSICA SACRA Quel celebre mottetto mozartiano che continua a commuovere
Amadè e le sue vette spirituali
L
’Ave Verum Corpus, o semplicemente Ave Verum, è un testo eucaristico che viene fatto risalire a
una poesia del XIV secolo. La poesia riguarda il credo cattolico della presenza
del corpo di Gesù Cristo nel sacramento dell’Eucarestia; il significato italiano
del titolo è Salve, Vero Corpo o Corpo
di Verità.
Questo testo è stato musicato da numerosi compositori, tra i quali Gounod,
Liszt, Elgar, Jenkins; comunque la versione più celebre è certamente l’opera K.618
di Wolfgang Amadeus Mozart.
Si tratta di un mottetto per coro misto,
orchestra e organo in Re magg., composto dall’autore salisburghese a Baden, nei
pressi di Vienna, fra il 17 e il 18 luglio del
1791.
L’opera è dedicata all’amico Anton
Stoll, Kapellmeister della chiesa parrocchiale di Baden. Nata per l’occasione della
solennità del Corpus Domini, viene considerata uno dei momenti più alti del genio
mozartiano.
Pëtr Il’ič Čajkovskij rielaborò questo
celebre mottetto nella preghiera che costituisce il terzo movimento della Suite n.
4, op. 61, nota - non a caso - come Mozartiana.
L’Ave Verum Corpus nella musica moderna è legata al cantante rock Jon Anderson
che interpreta tale brano nel proprio album
solista Toltec del 1996 (il brano ha titolo Ave
Verum). Tra la miriade di esecuzioni - in varie formazioni vocali, strumentali - spicca
l’interpretazione, con organico originale, di
Leonard Bernstein.
All’Arena di Verona una stagione firmata Zeffirelli
VERONA - Il Festival Lirico
Arena di Verona dal 18 giugno al
29 agosto, raggiunge quest’anno
la sua 88 esima edizione: Franco Zeffirelli e l’Arena, questo è
il sottotitolo della stagione interamente dedicata al regista fiorentino che firma tutti i titoli in cartellone: Turandot di Giacomo Puccini, Aida di Giuseppe Verdi, Madama Butterfly di Giacomo Puccini,
Carmen di Georges Bizet, Il Trovatore di Giuseppe Verdi.
Completamente nuovo è l’allestimento di Turandot, ideato
appositamente per quest’edizione
del festival; le altre quattro mises
en scène Aida, Madama Butterfly,
Carmen, Il Trovatore sono riprese
di già famose produzioni, che in
passato portarono grande successo per il palcoscenico operistico
più grande al mondo.
Così lo stesso Franco Zeffirelli
rammenta la sua prima Aida, allestita nel 2002:
“Fu, forse, la più grandiosa
Aida mai vista sul pianeta, come
scrisse qualcuno, ma al tempo
stesso molto diversa da tutto quello che avevo mai fatto fino ad allora. L’intero allestimento era una
sorta di grandiosa macchina delle
sorprese, realizzata interamente in
metallo dorato, su cui le luci rimbalzavano in modo sempre sorprendente. Il pubblico ne fu sbalordito. Dopotutto ‘lo scopo del
poeta è stimolare la fantasia, e suscitare meraviglia, sorpresa e so-
gni’. Il pubblico è molto esigente e proviene da tutta Europa, in
pellegrinaggio per portarsi a casa
esperienze memorabili.”
A esibirsi sarà un cast di fama
internazionale: fra i direttori d’orchestra non mancheranno Plácido
Domingo, Giuliano Carella, Daniel Oren, Antonio Pirolli, Julian
Kovatchev, fra gli interpreti spiccano i nomi di Marcelo Álvarez,
Maria Guleghina, Dmitri Hvorostovsky ed ancora Fiorenza Cedolins, Marianne Cornetti, Hui He,
Kristin Lewis, Amarilli Nizza,
Svetla Vassileva, Tichina Vaughn,
Marco Berti, Carlo Ventre, Ambrogio Maestri, solo per menzionare alcuni significativi protagonisti della prossima stagione.
to è quella tra Jo e Bernard, dovuta alle risposte evasive dell’agente che insospettiscono la donna.
Sono le inquadrature, che ritraggono Bernard nell’ombra, spesso
di spalle, in disparte ma vigile, a
rendere in pieno l’idea del suo incombere sui McKenna e dell’alone di mistero che avvolge la sua
figura. Così come spetta ancora
all’immagine comunicare l’allarme procurato al francese dalla
vista del sicario. La zoomata improvvisa sul volto di Rien, unita
al codice iconografico cui risponde il volto dell’uomo, non ci fanno avere dubbi poi, sulla minaccia che egli rappresenta. Anche
gli atteggiamenti dei due coniugi,
la diffidenza di Jo, la tranquillità
di Ben, sono espressi attraverso
l’elemento visivo. Sulla domanda
di Bernard, che riaccende i dubbi
della donna (inq. 6), inizia la mu-
Dalle pagine 4 e 5
Sbilanciamento
caratteristico tra
immagini e dialogo
Nel resto della sequenza (inqq.
5-31) la narrazione è meno densa
di implicazioni ed è basata sullo
sbilanciamento, caratteristico del
cinema di Hitchcock, tra immagini e dialogo. L’unica tensione
che possiamo cogliere dal parla-
sica da buca di Herrmann, caratterizzata da una melodia orientaleggiante, poco direzionata, che
rimarrà sospesa su tutta la scena.
La musica ben si adatta ed esternare i sospetti di Jo e a rivestire il
clima di incertezza che cala sull’episodio.
La canzone appare per la seconda volta nella sequenza dell’ambasciata, l’ultima scena
d’azione del film. Sicuri che i
rapitori trattengano Hank prigioniero nell’ambasciata, i McKenna vi si recano, sfruttando l’invito rivolto dal Primo Ministro a
Jo, che gli ha salvato la vita all’Albert Hall. Jo chiede di poter
cantare in omaggio agli invitati al
ricevimento. In realtà la sua intenzione è quella di intonare a gran
voce Whatever will be, in modo
tale da farsi sentire da Hank, se
si trova nell’edificio. Il bambino,
musica 7
Mercoledì, 30 giugno 2010
LE GRANDI VOCI Giulietta Simionato, il mezzosoprano che incantò il mondo
Quel timbro di voce
incomparabile...
S
i è spenta nello scorso
maggio, a Roma, all’età
di 99 anni Giulietta Simionato, una delle massime
voce di mezzosoprano del Novecento.
Da ragazza studia in un collegio di suore che ne intuiscono
le qualità e la invitano a studiare canto, ma incontra l’opposizione della famiglia, soprattutto
della madre. Dopo la morte di
quest’ultima, studia canto prima
a Rovigo, poi a Padova. Il suo
debutto risale al 1927, con la
commedia musicale Nina, non
far la stupida. L’anno successivo esordisce nella lirica a Montagnana. Nel 1933 vince il Primo Concorso di Bel Canto, tenutosi a Firenze, su 385 concorrenti, ed ottiene un’audizione al
Teatro alla Scala. L’esito è positivo, ma il maestro Fabbroni, allora direttore artistico del teatro
milanese, trova la sua voce an-
cora immatura e la invita a tornare
qualche anno più tardi.
Due anni dopo viene messa sotto contratto alla Scala, ma a condizioni impossibili. La Simionato
accetta, ma viene destinata unicamente a ruoli minori, sembra perché non sostenuta dal regime fascista, così che la sua carriera stenta a
decollare. Solo nel 1947 giunge finalmente il suo primo ruolo da protagonista: Mignon, alla Scala, che
le varrà un articolo elogiativo di
Eugenio Gara: Laurea a Giulietta.
Da quel momento la sua carriera
prende una svolta, e Giulietta sale
sui palcoscenici di tutto il mondo.
Una voce molto estesa e notevoli qualità drammatiche la rendono
adatta a un gran numero di ruoli
(Carmen, Giovanna di Seymour,
Leonora, Isabella, Cenerentola,
Rosina, Azucena, Eboli, Preziosilla, Ulrica, Mrs Quickly, Amneris,
Adalgisa, Santuzza, Principessa di
Bouillon, La zia principessa).
Importante è stato anche il suo
ruolo nella riscoperta di partiture
del passato, che rischiavano di cadere nell’oblio: Gli Orazi e i Curiazi di Domenico Cimarosa, Gli
Ugonotti di Meyerbeer, Il Conte
Ory e il Tancredi di Rossini.
È stata la più grande amica e
collega di Maria Callas: memorabile rimane il loro duetto del 1957
alla Scala in Anna Bolena di Donizetti, in cui le due cantanti vestirono i ruoli di Anna e Giovanna. Altrettanto rilevante è la sua Adalgisa
nella Norma di Vincenzo Bellini,
che interpretò accanto alla Callas
dal 1950 al 1965.
Nel 1966, dà l’addio al palcoscenico nella piccola parte di Servilia della Clemenza di Tito, alla Piccola Scala e si ritira a vita privata
dopo il matrimonio con il noto clinico Cesare Frugoni.
Dopo il ritiro dalle scene, la Simionato è stata attiva come insegnante e talent-scout.
Con la Callas a Parigi nella “Norma” come Adalgisa (1965). La
Simionato,che aveva un buonissimo carattere era molto amata dai
suoi colleghi. La Callas la riteneva la sua unica amica
Giovani cantanti rovinati da cattivi insegnanti
Interprete della principessa di Bouillon in “Adriana Lecouvreur”. Mezzosoprano dalla voce di straordinaria limpidezza potenza e agilità rimarrà nella storia come una delle massime cantanti liriche in assoluto
rinchiuso sotto stretta sorveglianza ai piani superiori, non tarderà a
riconoscere la voce della madre e
a rispondere, fischiando il motivo
che gli è familiare.
Anche nella sequenza dell’ambasciata, la canzone esce dalla serie di pertinenza per avviare
una relazione mentale. Essa non
abbandona il valore di simbolo
dei legami familiari, in particolare di sigillo della profonda affinità tra madre e figlio. La situazione
disperata però le fa assumere, in
modo preponderante, le caratteristiche della smarcatura. Il brano
si trasforma nel più efficace strumento d’azione, sia per il prigioniero che per il suo liberatore.
“Que sera, sera”
Nella sequenza, Hitchcock
non si fa sfuggire l’occasione per
proporre un’ultima, incisiva figura audiovisiva di labirinto. Egli la
crea per mezzo delle inquadratu-
In un’intervista di Adriano
Bassi di qualche anno fa Giulietta Simionato si era confessata.
“Non ho avuto nessun esempio o stimolo dalla famiglia, anzi
i miei genitori ed in particolare la
mamma, di origine sarda, non desideravano assolutamente che diventassi una cantante. Il destino,
invece, ha voluto diversamente.
L’idea del canto è partita dalle
suore del collegio dove studiai,
le quali, sentendomi cantare, scoprirono la mia innata vocalità e
quindi fecero di tutto per convincere la mia famiglia a farmi
studiare musica. Dopo la morte
di mia madre, papà cedette alle
continue insistenze delle suore
ed io, senza rendermi conto dell’importanza della scelta, iniziai
questa esperienza.
Debuttai nel 1927, con la
commedia musicale ‘Nina non
far la stupida’; ma quegli anni,
per me, erano ancora di preparazione. Studiavo a Padova prima con il maestro Locatello e
poi con Palumbo, maestro di
coro. Nel 1933 si tenne a Firenze il Primo Concorso Italiano di
canto ed io volevo assolutamente
parteciparvi, anche se il maestro
Palumbo mi diceva che senza
raccomandazione era tutto inutile. Al Concorso eravamo in 385
e rimanemmo solo in 18, di cui 3
mezzosoprano ed io fui la vincitrice. Il maestro Serafin, che faceva parte della giuria, mi racco-
re di scale e corridoi del palazzo che vengono attraversati dalla
voce Jo per raggiungere la stanza
in cui è segregato il piccolo Hank
(inqq. 12-17). Se di solito, in un
costrutto audiovisivo, spetta al
suono vettorializzare l’immagine,
in questo caso ci troviamo di fronte a un’inversione, con la serie visiva che idealmente guida l’elemento sonoro verso la sua meta.
Intanto, il motivo dell’ineluttabilità del destino, terzo aspetto
mandò al maestro Fabbroni, allora Direttore artistico della Scala,
per un’audizione che ottenni, anche se mi dissero che per la Scala
ero ancora immatura e che avrei
dovuto ripresentarmi dopo due
anni. Così feci; dopo un intenso studio con il mio primo maestro, fui accettata nell’organico
del Teatro scaligero. Il contratto
aveva delle condizioni impossibili, che io però accettai sino a
dopo la guerra, poi nel 1947 mi
affidarono il ruolo di protagonista nella ‘Mignon’ che creò il primo successo.
Interessante l’approccio molto personale della cantante nella
creazione dei vari ruoli.”...lo studio dei miei personaggi è sempre
stato molto individuale, nel senso
che non ho mai chiesto consigli a
nessuno. Era tutta una mia preparazione mentale, unita nel caso di
personaggi storici allo studio dell’epoca, dei costumi e della figura che dovevo interpretare. “
A proposito dei giovani cantanti aveva dichiarato: “ Non è
vero che tra le nuove voci non
ce ne siano di belle, il fatto è che
quelle interessanti vengono rovinate da un insegnamento sbagliato. Oggi esistono prevalentemente voci tremule ed anche ciò non
so bene da cosa dipenda, se dalla
scuola, dal diaframma, dalle corde vocali o da altro.
Non credo che si possa insegnare a cantare. E’ un dono
del tema centrale del film, appare
ormai completamente sviluppato
dal racconto, quando la canzone risuona per la seconda volta.
Apparentemente
contraddittorio rispetto agli altri due, esso si
pone in realtà come loro coronamento: nel labirinto delle possibilità, il destino sceglie la via da far
seguire e l’interferenza può essere
una delle sue logiche. Nel semplice ritornello della canzone, suggerisce acutamente Pomerance, è
Giulietta Simionato (a destra),
con Renata Tebaldi
di natura. Ciò che invece si può
trasmettere ad un allievo è l’educazione al canto, l’impostazione
della voce, l’ atteggiamento. Proprio per motivi esclusivamente
naturali, oggi le voci sono piccole, ci sono mezzosoprano e tenori
che non riescono a reggere certe
opere che per questa ragione non
vengono rappresentate”.
Riguardo la moda o dell’uso
di reinserire nella partitura quelle parti che l’autore stesso aveva
sottolineato: “Io sono una tradizionalista e quindi credo che si
debba continuare come la tradizione ci ha insegnato e questo
non vuol dire che non ci si debba evolvere, tutt’altro, ma ciò va
fatto senza intaccare lo spirito del
melodramma, che non si può rimodernare”.
contenuta una chiave interpretativa di tale aspetto. Se nella camera d’albergo di Marrakech “Que
sera, sera” sembrava dire che non
si può sapere in anticipo ciò che
deve succedere, finché non sarà
successo, nell’esecuzione all’ambasciata, alla luce degli avvenimenti del film, “Que sera sera”,
letto senza la virgola, ci ammonisce sull’ineluttabilità del destino,
che farà sicuramente accadere ciò
che vuole che accada.
8 musica
Mercoledì, 30 giugno 2010
MUSICA LEGGERA La Pantera di Goro e l’Aquila di Ligonchio
Fasti e destini di due miti
della canzone italiana
P
er “arrivare” bisogna combattere; chi mira in alto ha
da vedersela con i suoi simili, “assetati” di vittoria. Si, sembra proprio si stia parlando di un
campo di battaglia, di una giungla
dove il pericolo è sempre in agguato. In realtà è nient’altro che
l’approccio al mondo della musica leggera, delle mitiche veterane della canzone italiana che da
buon principio si sono viste affibbiare soprannomi “animaleschi”:
Mina, detta la Tigre di Cremona,
Milva, soprannominata la Pantera
di Goro, Iva Zanicchi, ribattezzata
l’Aquila di Ligonchio; è questo il
“tris zoologico” delle cantanti che
hanno fatto la storia della musica
italiana dagli anni 60 in poi e che
col tempo si sono cimentate anche in altri generi artistici e non.
E dopo di loro Orietta Berti, detta l’Usignolo di Cavriago, e le più
giovani Nada, il Pulcino del Gabbro, per la giovane età che aveva
al suo esordio, Alice, la Cerbiatta
di Forlì, dati i suoi grandi occhi.
Iva Zanicchi, soprannominata anche l’Aquila di Ligonchio
(Ligonchio/Reggio Emilia, 18
gennaio 1940), è una delle poche cantanti italiane la cui fama
ha varcato i confini italiani. Il suo
esordio ufficiale avviene nel 1961
con un festival per dilettanti nel
quale si classifica prima. Nel 1962
il Festival di Castrocaro: non vince per una laringite, ma la sua voce
“nera” colpisce i discografici della
nuova etichetta Ri-Fi, che le fanno
sottoscrivere un contratto. Nel frattempo sposa Tonino Ansoldi, figlio
del proprietario della Ri-Fi e si trova
così ad essere una degli artisti di punta di un’importante casa discografica. Nel 1964 incide la sua prima canzone di successo “Come ti vorrei”. Il
1967 si apre con la vittoria al Festival di Sanremo con “Non pensare a
me” con Claudio Villa, nel 1969 altra vittoria sanremese con “Zingara”
in coppia con Bobby Solo. Nel 1970
conquista il terzo posto insieme all’autore polese Sergio Endrigo, con
“L’arca di Noè”, uno dei primi brani “ermetici” della storia musicale
italiana. In seguito la consacrazione con ”Un fiume amaro”, di Mikis
Theodorakis,nel 1971 “La riva bianca, la riva nera”, un inno pacifista
che diviene uno dei suoi più celebri
cavalli di battaglia e vende circa tre
milioni di copie nel mondo. Tra tour
al Madison Square Garden di New
York, tappe negli Stati Uniti ed in
Canada, concerti all’Olympia di Parigi, un servizio su “Playboy”, che
propone un’inedita Zanicchi in versione sexy, arrivano gli anni 80 e la
sua avventura televisiva come conduttrice e interattenitrice.
Iva Zanicchi si cimenta anche
come scrittrice: nel 2001 pubblica
il libro autobiografico “Polenta di
castagne” e nel 2005 il romanzo “I
prati di Sara”. L’aquila di Ligonchio
non disdegna nemmono la carriera
politica: si candida alle elezioni europee, nel 2008 si insedia al Parlamento europeo e diviene l’europarlamentare italiana più assenteista (45
% di assenze!). Detiene, però, anche
altri “primati”: è la donna nella storia della canzone italiana che ha vinto più edizioni del Festival di Sanremo, ben 3; è stata la prima cantante
italiana ad attraversare l’Unione Sovietica in tour (1981), ad aver tenuto un concerto di musica leggera nel
Teatro Regio di Parma (1973), ad
aver tenuto un concerto al Madison
Square Garden di New York (1973),
ad aver cantato le canzoni di Charles
Aznavour.
Maria Ilva Biolcati, detta Milva e
ribattezzata la Pantera di Goro (nata
a Goro/Ferrara, 17 luglio 1939), viene lanciata come l’anti-Mina al Festival di Sanremo nel 1961. Ha all’attivo 15 partecipazioni al Festival
della canzone italiana, diversi piazzamenti ma nessuna vittoria. Vince,
invece, nel 1971 la Gondola d’oro
con la canzone “La filanda” (cover
di Amalia Rodriguez), che rimane la
sua canzone più venduta.
Ben presto varca i confini italiani: dopo i trionfi all’Olympia di Parigi negli anni 60, porta al successo in
lingua italiana molte canzoni di Edith Piaf e tra queste la celebre “Milord”; risale a quegli anni la pluridecennale collaborazione con Giorgio
Strehler a teatro, con il quale approfondirà il repertorio di Bertolt Bre-
La Pantera rossa
cht, diventandone una delle migliori
interpreti in tutto il mondo. Ma non
disdegna la televisione italiana, partecipa a numerosi spettacoli, si immerge sempre più in produzioni teatrali. Personaggio poliedrico, passa dalla canzone leggera alle opere
liriche, dal teatro leggero a quello
impegnato (è famosissima come
Jenny dei Pirati nell’allestimento
de “L’Opera da tre soldi”,1973) e
qualche incursione nel cinema (“La
bellezza di Ippolita” con Gina Lollobrigida).
Il teatro le dà soddisfazioni importanti, soprattutto in Germania,
dove gode ancor oggi di grandissima popolarità. Nel 2006 è stata invitata dal Berliner Ensemble per il
Brecht-Fest nel 50° della morte di
Brecht ed ha ricevuto dal presidente tedesco Horst Köhler l’importante
onorificenza di Ufficiale dell’Ordine
al Merito della Repubblica Federale
di Germania; nel 2008 è stata insignita dal Presidente della Repubblica Italiana del titolo onorifico di
Commendatore; nel novembre del
2009 a Parigi ha ricevuto l’onorificenza francese di Cavaliere della Legione d’Onore.
Il mese scorso la Pantera di Goro
è stata ricoverata per non meglio
precisati improvvisi problemi di salute durante le prove del nuovo lavoro, la fabula in musica “La Variante
di Luneburg”, prevista nell’ambito del Festival Internazionale della
Cultura a Bergamo. Secondo voci
che circolano, pare che Milva la
Rossa rossa non potrà tornare in scena prima di autunno. Il direttore artistico del Festival intende realizzare appositamente per Milva un fuori programma del Festival, nel mese
di ottobre. Con i migliori auguri di
pronta guarigione.
Ardea Stanišić
Ottimo saggio del Coro giovanile «Josip Kaplan»
Slancio, musicalità, impegno
La grintosa Iva Zanicchi
AFORISMI AFORISMI AFORISMI
FRANZ LISZT
WOLFANG AMADEUS
“Noi dobbiamo riconosce- MOZART
re due categorie di artisti, cioè
“Tre cose sono necessarie
quelli che producono e quel- per un buon pianista: la testa, il
li che interpretano, e convenire cuore e le dita.” Biografia
che non passa fra essi che questa
differenza materiale.”
ERIK SATIE
Un vero musicista deve sotROBERT SCHUMANN
tomettersi alla sua Arte; ... deve
“Guardati dal suonare tra- porsi al disopra delle miserie
scuratamente. Ogni pezzo sia da umane;... deve trovarne il cote eseguito colla massima cura e raggio in se stesso,... solo in se
non mai monco o dimezzato.”
stesso.
A. BAZZINI
“Nel vero artista la sete di
conoscere e di apprendere non
cessa che con la vita. E uno dei
mezzi più efficaci per ampliare
la cerchia delle proprie cognizioni è quello di studiare i sommi compositori e di comprendere i grandi interpreti.”
GIUSEPPE VERDI
“Torniamo all’antico e sarà
un progresso..”
A. MARMONTEL
L’anima di un vero artista
deve esaltarsi davanti a tutto ciò
che è grande e bello, nell’ordine morale come nell’ordine fisico.”
W. SHAKESPEARE
“Val meglio di meritare il suffragio di un sol uomo di gusto,
che di suscitare, con mezzi indegni dell’arte, gli applausi di una
sala piena di spettatori volgari.”
FIUME – Ha offerto un’eccellente prova delle sue qualità musicali e canore il Coro giovanile
“Josip Kaplan“ diretto da Doris
Kovačić con il concerto di lunedì scorso alla Filodrammatica di
Fiume. Impegnativo e stilisticamente vario il nutrito programma
che comprendeva brani del grande Palestrina (“ Jesu! Rex admirabilis“), W. A. Mozart (“ Luci care,
luci belle“), S. Mokranjac (“Tebe
pojem“), T. Caplin (“Agnus Dei“),
J. Kaplan (“Dobrinj je bili grad“,
“Pejzaž“, “Gajardo”, “Dugo u
noć”, “Brazda“), una serie di spirituals (“Just a closer walk with
Thee”, “Ride the Charriot”); quindi, dei Gueen “Crazy little thing
called love”, e di D. Paich, J. Porcaro “Africa”.
L’esecuzione ha fatto emergere
la serietà d’approccio, l’unità d’intenti musicali, il buon equilibrio e
dosaggio delle singole voci come
pure nei loro rapporti d’insieme,
Il Coro giovanile “Josip Kaplan”
i pregevoli impasti timbrici come
pure l’affiatamento e la comprensione del carattere dei singoli brani, restituiti con freschezza e partecipazione. Guida autorevole ed
energica la direttrice Kovačić.
Voci soliste Valerija Jurasić, Veronika Kamenar e Maja Šajatović.
Il concerto ha segnato pure il
debutto del neonato Gruppo vo-
cale composto da dieci ragazzine (fino ai 14 anni d’età) che con
molto impegno e coinvolgimento
hanno eseguito lo spiritual “The
Storm is passing over”, e un brano di J. Kaplan. I giovani cantori degni della più alta lode per il
loro impegno sono stati applauditi
a lungo. Un pezzo fuori programma. (pvm)
Anno VI / n. 47 del 30 giugno 2010
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina
Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat
edizione: MUSICA [email protected]
Redattore esecutivo: Patrizia Venucci Merdžo / Impaginazione: Željka Kovačić
Collaboratori: Patrizia Chiepolo Mihočić e Ardea Stanišić
Foto: Archivio e Doris Kovačić
La pubblicazione del presente supplemento, sostenuta dall’Unione Italiana di Fiume / Capodistria e dall’Università Popolare di Trieste, viene supportata
dal Governo italiano all’interno del progetto EDITPIÙ in esecuzione della Convenzione MAE-UPT N° 1868 del 22 dicembre 8, Contratto 248a del 18/10/2006
con Novazione oggettiva del 7 luglio 2009