Eccezione di difetto di giurisdizione e abuso del processo.

Eccezione di difetto di giurisdizione e abuso
del processo.
di Mattia Caputo
Nota a Cass. Civ., SS.UU., Sentenza n. 21260 del 20/10/2016, Pres.
G.Canzio, Rel. A. Giusti.
Sommario 1. La giurisdizione tra giudice naturale precostituito per
legge e abuso del processo. 2. La quaestio iuris...dictionis al vaglio
delle Sezioni Unite. 3. La risposta delle Sezioni Unite con la sentenza
n. 21260/16. 4.1. Osservazioni a margine: le Sezioni Unite mettono il
sigillo sul declino del tradizionale modo di intendere la giurisdizione.
4.2. Osservazioni a margine: la strada per l’Adunanza Plenaria è
segnata?
1. La giurisdizione tra giudice naturale precostituito per
legge e abuso del processo.
La giurisdizione costituisce espressione del potere giurisdizionale dello
Stato, che si affianca a quello legislativo ed esecutivo secondo l’ormai
consolidato principio di separazione dei poteri1.
La giurisdizione è l’applicazione della norma astratta e generale al caso
concreto da parte di un soggetto terzo ed imparziale, e rappresenta la
parte di potere affidata ad un giudice nei rapporti con un giudice diverso.
In virtù della sua centralità nell’ordinamento, la giurisdizione è
pacificamente considerata quale “presupposto processuale di esistenza del
processo” la cui sussistenza, pertanto, va accertata per prima dal giudice2,
anche d’ufficio.
La Costituzione riserva alla giurisdizione molteplici norme, che rivelano
la necessità di osservarla sotto un doppio angolo visuale.
Da una parte, infatti, la giurisdizione viene intesa quale manifestazione di
sovranità dello Stato sui cittadini 3 cui, dunque, spetta il monopolio
esclusivo nella definizione delle controversie4.
L’origine del principio di separazione dei poteri si deve al MONTESQUIEU, che ne “L'esprit des lois” del
1748, onda la sua teoria sull'idea che "Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non
trova limiti (...). Perché non si possa abusare del potere occorre che (...) il potere arresti il potere".
2 La giurisdizione rientra, infatti, tra le questioni pregiudiziali di rito.
3 Così V.CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, UTET, Torino, 2003, p. 80.
4 Tuttavia questa concezione della giurisdizione quale appannaggio esclusivo dello Stato è stata negli ultimi
anni messa in crisi per la scarsezza della risorsa giustizia, portando il legislatore ad implementare gli
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Dall’altra parte, invece, la giurisdizione va qualificata come porzione di
potere giurisdizionale attribuito ad un determinato plesso giurisdizionale
nei confronti di un altro5 e, dunque, rileva in termini di limiti esterni alla
potestas iudicandi dei giudici appartenenti ad un certo ordine.
Costituiscono espressione del primo modo d’intendere la giurisdizione gli
articoli 24, 25, comma 1, e 111 della Costituzione.
Il monopolio statuale della funzione giurisdizionale, infatti, consente ai
cittadini di esercitare il loro diritto inviolabile di difesa e, come tale, è
strumentale alla tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi.
In questo senso, dunque, la giurisdizione rappresenta il luogo naturale in
cui viene azionato il fondamentale diritto di difesa, che si concretizza
nella possibilità di adire il giudice munito di giurisdizione perché questi
somministri le tutele richieste, risolvendo al contempo la controversia e,
così, riaffermando anche la forza della legge sui cittadini che l’abbiano
violata.
Naturale corollario della giurisdizione quale prerogativa esclusiva dello
Stato e, dunque, garanzia irrinunciabile per i consociati, sta nella
guarentigia del giudice naturale precostituito per legge.
Vale a dire che affinché il giudice sia realmente terzo ed imparziale
rispetto alle cause che dovrà decidere, egli non solo non può essere scelto
dalle parti, ma va individuato in base a criteri predeterminati in modo
rigido e rigoroso dalla legge, come tali inviolabili.
In questo modo il principio costituzionale del giudice naturale
precostituito per legge si salda in un’ideale linea di continuità con i
principi sanciti dall’articolo 111 della Costituzione, assicurandone la
realizzazione, ed in particolare con quello della terzietà ed imparzialità
dell’organo giudicante. La suddetta norma, inoltre, sancisce anche i
fondamentali principi processuali del “giusto processo” 6 , della parità
delle armi7, della terzietà ed imparzialità dell’organo giudicante, nonché
della ragionevole durata del processo.
strumenti deflattivi del contenzioso e gli ADR (“aAternative Dispute Resolution”), volti a favorire la
definizione stragiudiziale delle controversie. Si pensi, ad esempio, alla mediazione obbligatoria di cui alla l.
98/13 che si atteggia quale condizione di procedibilità per una serie di controversie, nonché alla
negoziazione assistita, introdotta con il d.l. 132/14, poi convertita con l. 162/14.
5 C.MANDRIOLI, Diritto processuale civile, Vol. I, Giappichelli Editore, Torino, 2011, pp. 195 e ss.
6 Il suddetto principio ha assunto ormai portata sovranazionale grazie all’articolo 6 della CEDU ed è in
continua espansione, tant’è che oggi ci si interroga circa la possibilità che esso possa essere applicato anche
all’interno del procedimento amministrativo, sub specie di “giusto procedimento”.
7 In relazione al principio di parità delle armi l’Adunanza Plenaria del C.d.S., n. 9 del 25/2/14 sui rapporti tra
ricorso incidentale paralizzante e ricorso principale ha così stabilito: “l’Adunanza Plenaria non intende
discostarsi dalla nozione (e dai presupposti giustificativi), del principio di “parità delle armi” che si è andata
affermando nella giurisprudenza costituzionale ed europea relativamente all’applicazione dei principi del
giusto processo enucleabili dall’art. 6 della Cedu, secondo cui <<l’esigenza della parità delle armi comporta
l’obbligo di offrire ad ogni parte una ragionevole possibilità di presentare il suo caso, in condizioni che non
comportino un sostanziale svantaggio rispetto alla controparte>> (cfr. da ultimo Corte cost., 26 gennaio 2012,
n. 15)Del resto a risultati analoghi è pervenuta la giurisprudenza costituzionale quando ha affrontato il tema
del principio della parità delle parti – sancito dall’art. 111, co. 2, Cost. e richiamato dall’art. 2 c.p.a. – nel
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Il secondo significato di giurisdizione, invece, pur muovendo dall’idea
che quest’ultima spetti esclusivamente allo Stato, guarda a tale funzione
nella prospettiva della distribuzione del potere di conoscere e decidere le
controversie tra i diversi plessi giurisdizionali presenti nel nostro paese.
Infatti, la Costituzione del 1948, come si desume dal combinato disposto
degli articoli 103 e 113 della Carta Costituzionale, non ha optato per un
sistema di giurisdizione monista, affidata ad un solo ordine di giudici.
La scelta dei padri costituenti è stata invece quella di un sistema dualista,
in cui le controversie sono distribuite tra giudice ordinario e giudice
amministrativo, a seconda che si azionino in giudizio diritti soggettivi o
interessi legittimi, fatte salve le ipotesi di giurisdizione esclusiva del g.a.8.
Anzi, a ben vedere, il sistema di giustizia italiano può essere definito
pluralista, atteso che l’articolo 103 della Costituzione prevede anche la
giurisdizione di giudici speciali quali Corte dei Conti ed i Tribunali
Militari, nelle specifiche materie ad essi assegnate.
L’esistenza di una pluralità di giudici o, meglio, di giurisdizioni,
comporta la necessità di individuare in modo chiaro, netto e preciso i
limiti che ognuna di queste incontra nei confronti delle altre: in altri
termini, occorre perimetrare quale sia la porzione di potere
giurisdizionale che spetta ad ogni ordine di giudici.
In questo modo la giurisdizione intesa come limite esterno che incontra
ogni plesso giurisdizionale finisce per saldarsi con la garanzia
fondamentale del giudice naturale precostituito per legge.
Con maggiore impegno esplicativo, può dirsi che la legge, ed in
particolare la Costituzione in primis e la legge ordinaria poi, individuano
i criteri di assegnazione delle controversie ai diversi ordini di giudici
presenti nel panorama italiano, di talché il giudice naturale precostituito
per legge non è solo quello predeterminato, ma anche quello munito di
giurisdizione.
Il limite esterno, dunque, assicura che a decidere la causa instaurata sia il
giudice naturale precostituito in base alla legge e, dunque, che le parti
non possano in alcun modo derogare o violare tali regole fondamentali.
Tuttavia individuare quale sia il giudice munito di giurisdizione è
questione tutt’altro che semplice, specie per chi intenda instaurare una
processo amministrativo: si è ammessa la presenza di “legittime dissimmetrie” fra le parti del processo purché
sorrette da una ragionevole giustificazione (cfr. Corte cost., 9 aprile 2009, n. 109)”.
8 Come rilevato dalle storiche sentenze 204/04 e 191/06 della Corte Costituzionale il legislatore non ha
però una libertà incondizionata nel devolvere le controversie alla giurisdizione esclusiva del g.a., , dal
momento che l’art. 103, co. 1, Cost., si riferisce a “particolari materie”. Pertanto è illegittimo il criterio
massivo e generico di devoluzione al g.a. di “blocchi di materie”, dal momento che la legge può si devolvere
controversie in via esclusiva al g.a., purché però vi siano due condizioni: la prima è che venga coinvolta una
p.a. che agisca in veste di autorità, tale che, in assenza della giurisdizione esclusiva, vi sarebbe comunque la
giurisdizione generale di legittimità. La seconda, invece, è che vi sia un inestricabile intreccio tra diritti
soggettivi ed interessi legittimi.
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controversia. In questo senso, allora, si coglie la sentenza n. 77 del 20079
con cui il Giudice delle leggi ha evidenziato che il riparto di giurisdizione
deve assicurare una tutela maggiore per i cittadini, non potendo mai
costituire un vulnus per gli stessi, dando ingresso così alla translatio
iudicii, poi prontamente recepita dal neonato c.p.a. all’articolo 11.
Le enormi difficoltà connesse alla corretta individuazione del giudice
munito di giurisdizione sono scongiurate, però, da una disciplina
normativa particolarmente minuziosa.
Ed in particolare, l’articolo 111, comma 7, della Costituzione, sancisce il
principio generale per cui è sempre ammesso il ricorso per Cassazione
(solo) per motivi di giurisdizione avverso le decisioni del Consiglio di
Stato e della Corte dei Conti.
Il ricorso straordinario per Cassazione, dunque, costituisce il rimedio
successivo e postumo affinché la controversia venga decisa dal giudice
effettivamente fornito del presupposto processuale della giurisdizione,
allorché la controversia sia stata decisa da un giudice che ne è sfornito.
In questo caso la decisione in merito alla giurisdizione spetta alle Sezioni
Unite della Corte di Cassazione Civile, che svolgono così la funzione di
“giudice regolatore della giurisdizione”, conferendo al contempo certezza
ai cittadini che intendano intraprendere le vie giudiziarie.
L’importanza nevralgica della giurisdizione è poi confermata anche dal
c.d. “regolamento preventivo di giurisdizione” di cui all’articolo 41 del
cpc.
Si tratta di uno strumento, appunto, preventivo, volto ad evitare che si
proceda davanti ad un giudice sfornito di giurisdizione e si debba poi
procedere alla cassazione della sentenza da parte della Suprema Corte.
Il regolamento preventivo ha dunque una prevalente funzione di
economia processuale, e non costituisce un mezzo di impugnazione,
perché non interviene su una decisione resa da altro giudice, ma
semplicemente rimette il potere di decidere sulla questione di
giurisdizione alla Corte suprema.
In questo senso il regolamento preventivo risolve conflitti “virtuali” tra
giudici appartenenti ad ordini diversi, mentre il ricorso per Cassazione
compone conflitti “reali”, laddove vi sia stata cioè già una pronuncia,
appunto, sulla giurisdizione.
La preoccupazione sottesa al rispetto dei limiti esterni della giurisdizione
e, dunque, del principio del giudice naturale precostituito per legge, si
evince del resto anche dagli articoli 37 del cpc e 9 del cpa.
Sulla base di queste argomentazioni la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), nella
parte in cui non prevede che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice
privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito
davanti al giudice munito di giurisdizione.
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La prima norma, infatti, letteralmente attribuisce al giudice civile il
potere di rilevare d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, il difetto
della propria giurisdizione.
L’art. 9 del c.p.a., invece, prevede testualmente il potere di rilievo
officioso della carenza di giurisdizione del g.a. solo in primo grado.
Il legislatore, dunque, cerca in ogni modo, sia in via preventiva che
postuma, di assicurare che la controversia venga decisa dal giudice che è
per legge titolare della potestas udicandi, predisponendo dei rimedi ad
hoc.
Occorre però dare atto di una recente tendenza degli ultimi anni, che
svilisce il ruolo della giurisdizione, sacrificandola sull’altare in nome del
principio di giustizia superiore della buona fede oggettiva e della
solidarietà sociale ex art. 2 della Costituzione10.
Ed in particolare, l’avvento della buona fede oggettiva in aura di
solidarietà sociale, unita alla necessità di assicurare il principio della
ragionevole durata del processo, hanno portato la giurisprudenza a svilire
progressivamente il tradizionale modo di intendere il concetto di
“giurisdizione”.
Attraverso il controverso strumento dell’abuso del processo 11 , dunque,
viene meno la centralità della giurisdizione quale potere di decidere la
controversia da parte del giudice cui effettivamente spetta tale potere.
L’abuso del processo, naturale precipitato dell’abuso del diritto in capo
processuale, costituisce l’esercizio alterato o deviante del diritto d’azione
processuale rispetto alle ragioni per cui esso è stato attribuito dalla legge.
In nome dell’abuso del processo, dapprima i giudici amministrativi, e poi
quelli ordinari, hanno cominciato a ritenere inammissibile l’appello per
difetto di giurisdizione del giudice amministrativo proposto dal
ricorrente, soccombente nel merito, che abbia radicato in primo grado la
giurisdizione del g.a. mediante la proposizione del ricorso.
Ciò perché un siffatto comportamento si porrebbe in contrasto col canone
fondamentale della buona fede oggettiva, nonché del principio di
autoresponsabilità, fotografato nel brocardo “venire contra factum
proprium”.
Tale principio è stato valorizzato da Cass. Civ., Sez. III, n. 20106 del 18/9/09 relativamente al noto “caso
Renault” ed all’esercizio abusivo del diritto potestativo del recesso ad nutum. In tempi più recenti, poi, la
buona fede oggettiva ha assunto un’importanza tale da portare la giurisprudenza - dapprima con
l’ordinanza 77 del 2014 della Corte Costituzionale e poi con la pronuncia 9140/16 delle SS.UU. Civili – a
ritenere che esso sia in grado di manipolare finanche il contenuto del regolamento contrattuale, onde
realizzare irrinunciabili esigenze solidaristiche.
L’abuso del processo fa il suo ingresso nel processo civile con l'epocale sentenza n. 23726/0711 delle
Sezioni Unite, con qui queste, ritornando sui propri passi, ripudiarono la tesi della frazionabilità del credito
unitario vantato dal creditore in una pluralità di giudizi, per accogliere la soluzione dell'impossibilità della
parcellizzazione del credito. Nel processo amministrativo, invece, l’abuso del processo ha acquisito diritto di
cittadinanza con la sentenza 3/11 dell’Adunanza Plenaria che, plasmando la pregiudiziale amministrativa
circa i rapporti tra azione di annullamento e risarcitoria, ha ammesso il sindacato del g.a. sulle scelte
processuali del ricorrente.
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Attraverso l’interpretazione, propugnata specie in giustizia
amministrativa 12 , dell’inammissibilità dell’auto-eccezione del difetto di
giurisdizione, ovvero dell’inesistenza del “diritto ad avere torto”, la
controversia può finire, di fatto, per essere decisa da un giudice privo di
giurisdizione.
In una rinnovata concezione della giurisdizione, dunque, questa non viene
più intesa solo come una funzione dello Stato moderno diretta
all'attuazione del diritto nel caso concreto, ma anche, e soprattutto, come
servizio pubblico diretto alla composizione delle controversie secondo
giustizia.
Naturale conseguenza di quest’approccio ermeneutico è che la risposta di
giustizia al bisogno di tutela diventa una variabile dipendente dalla
necessità di assicurare l'efficienza del sistema giudiziario nel suo
complesso, così attuando il principio di proporzionalità anche in ambito
processuale.
L’abuso del processo, quindi, assurge a rango di strumento in grado di
consentire una lettura sinergica del singolo e quella dell'insieme dei
processi: in un’ottica di “governance giudiziaria” sempre più dilagante,
allora, censurando singole iniziative a livello “microgiudiziario”, i giudici
finiscono per rimediare, sul piano “macrogiudiziario”, alle disfunzioni di
un sistema ormai sempre più inefficiente per molteplici fattori.
È stato osservato acutamente13, allora, che attraverso il prisma dell’abuso
del processo la Magistratura fronteggia una crisi emergenziale del sistema
della giustizia – ordinaria ed amministrativa -, con “un sistema di
“legittima difesa” contro l'esorbitanza della domanda di giustizia”.
Una tale soluzione pretoria, però, se certifica inequivocabilmente
l’ingresso del “diritto giurisprudenziale” tra le fonti del diritto14, palesa
anche in modo inequivocabile i precari e difficili rapporti tra legge e
giudice.
I giudici, infatti, attraverso l’abuso del processo e la clausola generale
della buona fede, finiscono di fatto per dichiarare inammissibili gravami
proposti per motivi di giurisdizione15, sanzionando sul piano della validità
In questa scia si collocano, tra le tante, C.d.S., Sez. VI, n. 1537 del 10/3/11; C.d.S., Sez. V, n. 656 del 7/6/12;
C.d.S., Sez. IV, n. 5484 del 7/11/15, C.d.S., Sez. VI, n. 856 del 29/2/16).
13 Così S.BECCARINI, “Giudizio amministrativo e abuso del processo” in Diritto Processuale Amministrativo,
fasc. 4, 2015, pp. 1203 e ss.
14 Di “giurisprudenza normativa” parla a chiare lettere Cass. Civ., SS.UU., n. 25767 del 22/12/15 in relazione
alla legittimazione del concepito a domandare il risarcimento del danno da malformazioni congenite. Più di
recente, poi, si pensi ai due protocolli, si ispirano ai principi della massima sinteticità e chiarezza degli atti
difensivi e ad una effettiva comprensione del loro contenuto essenziale predisposti dai gruppi di lavoro
paritetici, composti da consiglieri della Suprema Corte e del CNF.
15 In questo modo l’abuso del processo si risolve in un controllo di meritevolezza della domanda da parte
del giudice attraverso il viatico della clausola generale della buona fede oggettiva. Il controllo sull’interesse
ad agire si carica così di un vaglio di meritevolezza sull’iniziativa processuale intrapresa, con un sindacato
del giudice sugli atti processuali analogo a quello che l’art. 1322, co. 2, c.c. prevede per gli atti negoziali. In
questo senso di veda C.d.S., Sez. V, l’ordinanza n. 5255 del 23/10/14, secondo cui le condizioni dell'azione
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la violazione di regole comportamentali, con un’interpretazione praeter
legem16.
Infatti, l’articolo 88 del cpc, nel prevedere che le parti e i loro difensori
hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità fissa una
regola di condotta, la cui violazione dovrebbe comportare conseguenze
soltanto in punto di spese ai sensi degli artt. 91, 92, e 96 cpc.
Considerare inammissibile un appello perché espressione di una condotta
abusiva, vuol dire intaccare la validità di un atto, potenzialmente
vulnerando il diritto inviolabile di difesa ex art. 24 della Costituzione, in
assenza di una norma che lo preveda.
Questo recente trend giurisprudenziale pare allora espressione di
un’autentica “politica” giurisprudenziale della Cassazione che, seppure
non sempre percepita nella sua portata rivoluzionaria, finisce per
impoverire il contenuto precettivo dell'art. 25 Cost., nella parte in cui
prevede la garanzia del giudice naturale, sostanzialmente facendo
diventare tale garanzia parte del principio secondo il quale il giudice deve
essere “terzo ed imparziale”, poiché l'idea di fondo è che una decisione,
quanto più rapida possibile, ci sia, a prescindere dal giudice che la rende .
Ciò che conta, allora, non è più quale giudice decida, ma che decida un
giudice terzo ed imparziale17.
2. La quaestio iuris...dictionis al vaglio delle Sezioni Unite.
La complessità della tematica relativa alle conseguenze derivanti dalla
proposizione dell’appello per motivi di giurisdizione da parte del
ricorrente che, avendo proposto in primo grado ricorso innanzi al giudice
amministrativo, sia risultato poi soccombente, ha portato di recente ad
una rimessione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Ciò si è reso necessario per l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali
di segno diverso, specie in giustizia ordinaria ed amministrativa, nonché
per assicurare le indefettibili esigenze di certezza legate a doppio filo
all’esatta individuazione del giudice che i cittadini devono adire, nonché
delle implicazioni derivanti dalle loro strategie processuali.
assolvono una funzione di filtro in chiave deflattiva delle domande proposte al giudice, fino ad assumere
l'aspetto di un controllo di meritevolezza dell'interesse sostanziale in gioco, alla luce dei valori costituzionali
e internazionali rilevanti, veicolati dalle clausole generali fondamentali sancite dagli articoli 24 e 111 della
Costituzione.
16 Di questo avviso sono, tra i tanti, G.TROPEA, “Spigolature in tema di abuso del processo” in Diritto
processuale Amministrativo, fasc. 4, 2015, pp. 1262 e ss. e G.VERDE “Abuso del processo e giurisdizione” in
Diritto processuale Amministrativo, fasc. 3, 2015, pp. 1138 e ss.
17 Tale soluzione è alla base anche di Cass. Civ., SS.UU., n. 24824 del 9 Dicembre 2015, secondo cui in caso di
compresenza in un unico rapporto di profili appartenenti alla giurisdizione del g.o. e del g.a., occorre
adottare il criterio della prevalenza e riconoscere la giurisdizione al giudice che, nel caso specifico, ha la
giurisdizione sulla parte prevalente delle controversie. In questo modo si dà ingresso ad una deroga alla
giurisdizione per motivi di connessione, con conseguente attribuzione della controversia ad un giudice che è
privo di giurisdizione.
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A conferma della difficoltà del tema su cui le SS.UU. sono state chiamate
a pronunciarsi, queste con ordinanza del 29/2/16 hanno chiesto al proprio
Massimario una relazione di approfondimento sulla questione, nonché
una relazione sullo stato dell’arte sulla problematica al Consiglio di Stato,
che ha prontamente predisposto un’articolata ed analitica relazione18.
È interessante innanzitutto notare come le Sezioni Unite si siano
pronunciate non su una semplice quaestio iuris, come di solito accade,
bensì su una vera e propria quaestio iurisdictionis, che le ha chiamate in
causa nella duplice veste di Giudice regolatore della giurisdizione e di
Giudice della nomofilachia, come tale preposto ad assicurare
l’applicazione certa ed uniforme del diritto nel nostro ordinamento.
Ed in particolare, questione sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite è la
seguente: “se la parte che abbia incardinato la causa presso un plesso
giurisdizionale (nella specie, dinanzi al giudice amministrativo),
risultando poi soccombente nel merito, possa appellare sostenendo che il
giudice avrebbe dovuto rilevare il proprio difetto di giurisdizione, e
ricercare così, attraverso la sostituzione di una sentenza sfavorevole nel
merito con una sentenza sfavorevole in punto di rito”.
Sul punto un primo orientamento, accolto per lo più in giustizia
amministrativa 19 dopo il varo del c.p.a., ritiene che non può trovare
accoglimento il motivo di impugnazione con cui la parte ricorrente abbia
messo in discussione la giurisdizione del TAR da essa stessa adito, per
ribaltare l’esito negativo nel merito del giudizio.
Ciò perché l’auto-eccezione del difetto di giurisdizione si pone in
contrasto col divieto di venire contra factum proprium, cioè di tenere un
comportamento contraddittorio rispetto alla propria precedente condotta
processuale, in spregio del principio di autoresponsabilità e con la regola
di correttezza e buona fede di cui all’art. 1175 c.c.
Di talché l’impugnativa proposta dal ricorrente che abbia adito il g.a. in
primo grado e sia poi risultato soccombente nel merito, si risolverebbe in
un autentico abuso del processo, “arreca un irragionevole sacrificio alla
controparte, costretta a difendersi nell’ambito di un giudizio da
incardinare innanzi al nuovo giudice in ipotesi provvisto di giurisdizione,
adito secondo le regole in tema di translatio iudicii dettate dall’art. 11
c.p.a.”.
Un siffatto sacrificio non trova adeguata giustificazione nell’interesse
della parte: questa, infatti, potrebbe ben difendersi nel merito in sede di
appello, al fine di ribaltare la statuizione gravata piuttosto che ripudiare
detto giudice in un’ottica opportunistica e strumentale circa le maggiori o
È possibile leggere la relazione su https://www.giustiziaamministrativa.it/cdsintra/cdsintra/index.html
Così C.d.S., Sez. VI, n. 1537 del 10/3/11; C.d.S., Sez. V, n. 656 del 7/6/12; C.d.S., Sez. IV, n. 5484 del
7/11/15, C.d.S., Sez. VI, n. 856 del 29/2/16.
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minori chances di esito favorevole a seconda del giudice chiamato a
definire la controversia.
L’abiura della giurisdizione adita ab origine si tradurrebbe, secondo
l’orientamento negativo, in un prolungamento dei tempi della definizione
del giudizio per ragioni meramente opportunistiche e strumentali.
Peraltro ammettere l’auto-eccezione in appello vorrebbe dire riconoscere
alla parte soccombente nel merito la possibilità per questi di ricusare ex
post il giudice – rectius: la giurisdizione - in base all’esito della
controversia.
Di opposto avviso si presenta invece la giurisprudenza delle Sezioni
Unite Civili 20 quale organo regolatore della giurisdizione, favorevole
all’ammissibilità dell’impugnazione per motivi di giurisdizione anche da
parte di chi, avendo adito il g.a., contesti poi la giurisdizione in secondo
grado.
Secondo quest’impostazione pretoria l’unico limite all’auto-eccezione del
difetto di giurisdizione in sede di gravame consiste nella formazione del
giudicato, implicito o esplicito, sul punto.
La soluzione favorevole poggia su una serie di argomenti.
Il primo è che il ricorrente che abbia radicato la giurisdizione del g.a. in
primo grado mediante la proposizione del ricorso ben può in linea
generale rinnegarla mediante appello e in Cassazione, purché ciò avvenga
“in funzione di un interesse correlato alla posizione di merito”.
Il pentimento del ricorrente in ordine alla giurisdizione adita, dunque, è
giustificato allorché sia funzionale ad ottenere una statuizione favorevole
nel merito.
L’idea di fondo che anima la soluzione possibilista delle SS.UU. sta nel
fatto che l’impugnazione per motivi di rito può comportare una
diminuzione della soccombenza dell’appellante: l’eventuale accoglimento
dell’appello, infatti, comporta il significativo risultato di permettere
all’istante di proporre nuovamente la domanda ad un giudice di un altro
plesso giurisdizionale.
In altri termini, l’appellante che proponga l’auto-eccezione del difetto di
giurisdizione non agirebbe in maniera strumentale e distorta, bensì
sorretto da un autentico interesse ad impugnare, consistente nella
translatio iudicii.
In secondo luogo l’esercizio del “diritto ad avere torto” 21 è stato
dichiarato ammissibile perché esiste un interesse, di natura oggettiva,
In questo senso Cass. Civ., SS.UU., n. 26129 del 27/12/10; Cass. Civ., SS.UU., m. 8097 del 29/3/11; Cass.
Civ., SS.UU., n. 16391 del 27/7/11; Cass. Civ., SS.UU., n. 1006 del 20/1/14; Cass. Civ., SS.UU., n. 11022 del
20/5/14; Cass. Civ., SS.UU., n. 11916 del 28/5/14.
21 L’autoimpugnativa sul capo relativo alla giurisdizione è stata definita come “diritto ad avere torto” perché
attraverso essa l’appellante mira a vedersi riconosciuto di aver errato nella scelta del giudice adito in primo
grado.
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sottostante all’universalità della legittimazione a proporre ricorso per
regolamento preventivo di giurisdizione ex art. 41 cpc.
Vale a dire che poiché normalmente non esistono limiti soggettivi in
ordine alla possibilità di proporre regolamento preventivo di
giurisdizione, che ha una funzione analoga alle impugnazioni per motivi
di giurisdizione, allora nessuna preclusione di sorta può essere ravvisata
per l’auto-eccezione del difetto di giurisdizione.
Si è altresì rilevato che la disciplina della giurisdizione rientra
nell’”ordine pubblico processuale”, come tale indisponibile per i privati.
Tuttavia la natura oscillante ed incoerente del comportamento
processuale serbato dalla parte che, dopo aver adito il g.a., e soccombente
nel merito, ne contesti la giurisdizione in appello, può comunque
integrare abuso del processo ex art. 111 Cost.
La sanzione da comminare per un siffatto tipo di condotta, però, secondo
la giurisprudenza delle SS.UU., non è la pronuncia di rito
d’inammissibilità del gravame, bensì la condanna alle spese per
violazione del dovere dii lealtà e probità ex art. 88 c.p.c.
In tempi più recenti, però, in seno alle Sezioni Unite22 è emerso un altro
orientamento, secondo cui l’ammissibilità dell’autoimpugnativa per
difetto di giurisdizione in appello è ammissibile, ma condizionata alla
giustificazione da parte dell’appellante.
In altri termini si tratta di una soluzione più rigorosa, che considera
ammissibile l’appello solo qualora l’istante motivi il perché dell’esercizio
dello jus poenitendi: ciò, ad esempio, può avvenire laddove
l’impugnazione derivi da eventuali eccezioni sollevate dalla parte
resistente, oppure per la complessità della materia del contendere, o
ancora per l'incertezza giurisprudenziale in ordine al giudice munito di
giurisdizione23.
L’indirizzo ermeneutico in esame, dunque, mediano, propugna una
valutazione casistica, in concreto, circa le ragioni giustificative del
ripensamento dell’appellante sulla giurisdizione: se il ripensamento è
giustificato, il ricorso è ammissibile, se non è giustificato, è
inammissibile.
Tre, dunque, erano le tesi sul campo con cui le SS.UU. del 2016 si sono
dovute confrontare.
La prima, prevalente in giustizia amministrativa, che sanziona con
l’inammissibilità. l’appello proposto per motivi di giurisdizione sollevato
dal ricorrente che in primo grado abbia adito il g.a.
Di questo avviso è Cass. Civ., SS.UU., n. 13940 del 19/6/14.
La rilevanza dei mutamenti giurisprudenziali e dell’incertezza interpretativa giustifica secondo Cass. Civ.,
SS.UU., n. 15144 dell’11/7/11, l’inoperatività delle preclusioni rispetto all’esercizio del diritto di azione e
difesa in caso di overruling interpretativo repentino ed imprevedibile circa le norme processuali.
22
23
10
La seconda, largamente condivisa dalle Sezioni Unite, che considera
ammissibile detto appello, ma considera un siffatto comportamento
processuale, connotato da incoerenza e contraddittorietà, stigmatizzabile
mediante il governo delle spese.
La terza, intermedia e minoritaria presso il Giudice regolatore della
giurisdizione, che distingue a seconda dei casi, senza apriorismi di sorta.
3. La risposta delle Sezioni Unite con la sentenza n.
21260/16.
Le Sezioni Unite Civili sono state così chiamate a pronunciarsi sulla
questione, quanto mai attuale e controversa, della sorte del gravame
proposto per motivi di giurisdizione da parte del ricorrente che in primo
grado abbia “scelto” il giudice di cui poi intende disconoscere la
giurisdizione.
Le Sezioni Unite hanno dato vita ad un ripensamento dei loro
orientamenti tradizionali, accogliendo la tesi più rigorosa
dell’inammissibilità.
Punto di partenza di un révirement giurisprudenziale che è probabilmente
destinato a costituire un precedente decisivo, è la sentenza resa dalle
Sezioni Unite Civili, n. 24883 del 9/10/08, con cui queste hanno
sostanzialmente riscritto l’articolo 37 del c.p.c.
In quell’occasione, infatti, le Sezioni Unite interpretarono la suddetta
norma, che sancisce letteralmente che il g.o. può rilevare d’ufficio il
difetto di giurisdizione in ogni stato e grado del processo, nel senso che il
rilievo officioso non è ammesso oltre il primo grado di giudizio.
In assenza di un apposito gravame proposto da una delle parti avverso il
capo della sentenza che ha deciso sulla giurisdizione, infatti, si forma il
giudicato implicito sulla giurisdizione, che cristallizza e rende
irretrattabile la statuizione sul punto.
Tale soluzione, fortemente avversata dalla dottrina poiché comporta un
sovvertimento dei rapporti tra giudice e legge24, si spiega perché, quando
il giudice decide la controversia nel merito, si è implicitamente
pronunciato anche sulla giurisdizione, che precede logicamente lo
scrutinio della fondatezza o infondatezza della domanda.
Peraltro, secondo le SS.UU. Civili del 2008 quest’interpretazione dell’art.
37 del c.p.c. si rende necessaria per assicurare la ragionevole durata del
processo, altrimenti frustrata dalla possibilità che venga disconosciuta la
giurisdizione anche dopo il secondo grado di giudizio.
In assenza di appello sul capo inerente alla giurisdizione, che è dotato di
una propria autonomia, si forma dunque il giudicato implicito, che
24
L’articolo 101 della Costituzione stabilisce che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
11
impedisce al giudice di rilevare ex officio la carenza del proprio potere
giurisdizionale rispetto alla controversia decisa.
L’interpretazione offerta dalle Sezioni Unite n. 24883/08 in ordine all’art.
37 del c.p.c. è poi diventata “diritto vivente”, per cui questa norma vive
oggi nel mondo giuridico così come interpretata dalla Suprema Corte e
non per quello che è il suo tenore letterale.
Il principio ipostatizzato dalle SS.UU. Civili del 2008 è stato poi recepito
anche dal legislatore delegato che, nell’adottare il c.p.a. (d.lgs. 104/10)
all’articolo 9 ammette il rilievo d’ufficio del difetto di giurisdizione da
parte del g.a. solo in primo grado. Diversamente, in appello il difetto di
giurisdizione del g.a. non é più suscettibile di essere rilevato
officiosamente, ma solo per effetto uno specifico motivo di gravame
avverso il capo della sentenza impugnata che, implicitamente o
esplicitamente, abbia deciso sulla giurisdizione.
Disciplina identica a quella contenuta nell'art. 9 del c.p.a. è stata poi di
recente recepita dall’articolo 15 del d.lgs. 174/16, “Codice della giustizia
contabile”.
Le Sezioni Unite hanno quindi evidenziato come la giurisprudenza
sull’art. 37 c.p.c. e la littera legis degli art. 9 c.p.a. e 15 c.g.c. qualifichino
come “capo” la statuizione sulla giurisdizione contenuta nella sentenza di
primo grado che decide la causa.
Il “capo”, quale parte autonoma della sentenza, anche laddove riguardi la
giurisdizione, è suscettibile di passare in giudicato, interno ed esterno,
implicito ed esplicito.
Poiché anche quello sulla giurisdizione costituisce tecnicamente un
“capo” della sentenza, allora anch’esso può comportare la soccombenza
nel rito di una parte rispetto alla questione di giurisdizione, del tutto
autonoma e diversa rispetto alla soccombenza sul merito.
Alla luce di questo iter cronologico ed argomentativo, le SS.UU. Civili
con la sentenza n. 21260 del 2016 hanno stabilito che in caso di sentenza
di rigetto nel merito della domanda attorea non è ravvisabile una
soccombenza dell’attore anche sul capo che abbia statuito sulla
giurisdizione.
L’autonomia tra “capi” della sentenza relativi al rito (giurisdizione) ed al
merito, comporta che il ricorrente che in primo grado abbia adito il
giudice appartenente ad una certa giurisdizione, ancorché soccombente
nel merito, é però vittorioso relativamente al capo sulla giurisdizione.
Vale a dire che il ricorrente ha avuto ragione, soddisfazione sul “capo”
relativo alla giurisdizione, mentre ha avuto torto su quello attinente al
merito della sua pretesa.
Pertanto l’attore non è legittimato a contestare il capo sulla giurisdizione
e la potestas iudicandi, dal momento che la statuizione sul plesso
giurisdizionale adito è per lui di segno positivo, favorevole.
12
Quindi l'appellante voleva che la controversia fosse decisa dal giudice
appartenente ad un certo plesso giurisdizionale, ed é stato proprio quel
giudice a deciderla.
Per le SS.UU. Civili la soccombenza nel merito, quindi, non può essere
trasferita sul (e utilizzata per censurare il) diverso capo costituito dalla
definizione endoprocessuale della questione di giurisdizione, trattandosi
di aspetto non destinato, per sua natura, a differenza di ciò che avviene
con riguardo ad altre questioni pregiudiziali di rito, a condizionare
l’efficacia e l’utilità della decisione adottata.
La sentenza n. 21260 del 2016 della Suprema Corte nella sua funzione di
giudice regolatore della giurisdizione, valorizza la soccombenza
dell’appellante quale presupposto processuale indefettibile25 per proporre
appello avverso un capo della sentenza, compreso quello sulla
giurisdizione.
In base alle logiche della soccombenza, allora, l'attore/ricorrente che
abbia avuto una pronuncia sfavorevole nel merito da parte del giudice che
aveva adito in primo grado, è soccombente rispetto al capo della sentenza
che decide merito, ma non rispetto a quello che decide sulla giurisdizione.
Dunque questi potrà impugnare il capo attinente al merito, che gli è
sfavorevole, ma non quello sulla giurisdizione, che gli è favorevole.
Diversamente, invece, il convenuto/resistente che sia vittorioso nel
merito, potrà impugnare il capo inerente alla giurisdizione, rispetto al
quale risulta soccombente,
Come rilevato dalle SS.UU. Civili con la pronuncia del 20 Ottobre del
2016, normalmente il vincitore pratico della controversia – attore o
convenuto che sia - non avrà interesse ad impugnare per primo il capo
sulla giurisdizione.
Per la parte che risulti vittoriosa nel merito, infatti, é più utile la
conservazione della pronuncia, piuttosto che il trasferimento della
controversia ad altro plesso giurisdizionale.
Può però accadere che, per effetto dell’impugnativa principale sul merito
da parte del soccombente pratico, il vincitore pratico abbia interesse a
proporre appello incidentale 26 sul capo relativo alla giurisdizione,
condizionato27 all’accoglimento dell’appello principale.
È soccombente colui che ha ottenuto dalla sentenza una tutela inferiore rispetto alle richieste formulate
nelle conclusioni. Secondo la giurisprudenza dominante la soccombenza condiziona la sussistenza
dell’interesse ad impugnare.
26 L’art. 343 c.p.c. stabilisce: “l'appello incidentale [si propone, a pena di decadenza, nella comparsa di
risposta, all'atto della costituzione in cancelleria ai sensi dell'articolo 166.
Se l'interesse a proporre l'appello incidentale sorge dalla impugnazione proposta da altra parte che non sia
l'appellante principale, tale appello si propone nella prima udienza successiva alla proposizione
dell'impugnazione stessa
27 L’appello condizionato si caratterizza per il fatto che l’appellante subordina i propri motivi di gravame
all’accoglimento di quelli proposti dall’appellante in via principale, cioè per il caso in cui dovesse
sostanzialmente risultare soccombente in appello.
25
13
Le Sezioni Unite si sono poi preoccupate di sgombrare il campo da
possibili contestazioni derivanti dalla soluzione accolta.
Esse hanno infatti precisato che la soluzione dell’inammissibilità
dell’appello proposto dall’attore soccombente nel merito, ma non nel rito,
per il caso in cui la sentenza di primo grado sia stata pronunciata da un
giudice privo di giurisdizione, non si pone in frizione con la garanzia del
giudice naturale precostituito per legge ex art. 25, co. 1, Cost., né
tantomeno in contrasto con il principio di ordine pubblico processuale
che vieta deroghe al riparto di giurisdizione.
Secondo le SS.UU., infatti, il valore costituzionale del giudice
precostituito per legge è presidiato è garantito dall’obbligo del giudice di
procedere d’ufficio in primo grado alla verifica della potestas iudicandi.
Il principio di cui all'art. 25, co. 1, Cost., va però bilanciato con quello
dell’ordine e della speditezza del processo.
Inoltre, le Sezioni Unite richiamano quanto osservato dalla dottrina,
ovvero che il corretto riparto di giurisdizione, ancorché espressione di
interesse superindividuale, “non esprime più un valore processuale
assolutamente imperativo, da garantire...a pena di veder nascere una
sentenza inutiliter data...”.
Né coglie nel segno, per le Sezioni Unite, l’obiezione circa la disarmonia
sistematica che deriverebbe tra la preclusione all’auto-eccezione del
difetto di giurisdizione, censurata con l’inammissibilità per il caso in cui
sia stata proposta dal ricorrente/attore che abbia incardinato in primo
grado la giurisdizione di cui poi si duole appello, e disciplina del
regolamento preventivo di giurisdizione.
Rispetto a quest’ultimo, infatti, in base all’art. 41 c.p.c. – cui rinviano gli
art. 10 c.p.a. e 16 c.g.c. - “ciascuna parte” può adire le Sezioni Unite della
Corte di Cassazione.
La diversità di disciplina tra appello per motivi di giurisdizione e
regolamento preventivo di giurisdizione è giustificata secondo le Sezioni
Unite dalla diversità funzionale dei suddetti rimedi.
Da un lato sta l’appello per difetto di giurisdizione, che è proposto
dall’attore dopo la decisione del giudice sul merito, che costituisce un
rimedio impugnatorio, successivo ed a carattere endoprocessuale.
Dall'altro lato vi é invece il regolamento preventivo di giurisdizione, che
precede ogni statuizione sul merito, che non è un rimedio impugnatorio e
dà vita ad una pronuncia di portata panprocessuale.
Il regolamento preventivo rinviene la sua ratio nella posizione
istituzionale della Corte di Cassazione, nella forza esterna e vincolante
della sua pronuncia e sui significativi effetti che essa genera sul principio
della ragionevole durata del processo, poiché consente di evitare di adire
giudici privi di giurisdizione e, dunque, di incorrere in inutili lungaggini
processuali.
14
L’auto-eccezione del difetto di giurisdizione in appello da parte del
ricorrente vittorioso sul capo della giurisdizione, invece, dev’essere
preclusa perché l’ordinamento processuale non consente all’attore, una
volta che la causa sia stata definita nel merito, la contraddittorietà rispetto
all’originaria scelta di giurisdizione e gli impedisce, attraverso
l’inammissibilità del motivo di giurisdizione sollevato col gravame, di
conseguire l’utilità discendente dal ripensamento secundum litis.
Questa nuova soluzione, preclusiva, secondo le Sezioni Unite è quella
maggiormente in linea “con la considerazione della giurisdizione come
risorsa a disposizione della collettività, che proprio per tale ragione
dev’essere impiegata in maniera razionale, sì da preservare la possibilità
di consentirne l’utilizzo anche alle parti nelle altre cause pendenti e agli
utenti che in futuro indirizzeranno le loro controversie alla cognizione
del giudice statale”.
4.1. Osservazioni a margine: le Sezioni Unite mettono il sigillo sul
declino del tradizionale modo di intendere la giurisdizione.
La sentenza 21260 del 2016 è destinata a rappresentare, con ogni
probabilità, un precedente dal peso specifico enorme per i giudici ordinari
e speciali (amministrativi e contabili) che dovranno confrontarsi da ora in
poi con appelli proposti per motivi di giurisdizione dall’attore/ricorrente
che abbia proposto la sua domanda davanti al giudice di cui contesta la
giurisdizione successivamente ad una pronuncia per lui sfavorevole nel
merito.
E ciò non solo perché si tratta di un pronunciamento delle Sezioni Unite,
ovvero del giudice che svolge le funzioni nomofilattica e di regolazione
del riparto di giurisdizione, ma anche e soprattutto perché la sentenza che
si annota costituisce un altro tassello di un mosaico più ampio, di una big
picture, cominciata con la sentenza n. 24883/08 delle Sezioni Unite
Civili, che si rivela ormai in tutta la sua portata dirompente.
Il sistema giurisdizionale, infatti, attraverso l’interpretazione delle norme
offerta dalla giurisprudenza, sia amministrativa ma, soprattutto, delle
Sezioni Unite per il ruolo peculiare che istituzionalmente esse ricoprono
nel sistema della giustizia italiana, ha ormai intrapreso definitivamente
una nuova direzione, il cui percorso pare ormai inesorabile.
L’assunto di fondo di questo rinnovato modo di intendere la giurisdizione
da parte dei giudici, neppure troppo taciuto, è che ciò che conta è che vi
sia una decisione resa da un soggetto terzo ed imparziale, nel minor
tempo possibile, anche se questo non è quello deputato a decidere in base
a quanto disposto dalla Costituzione (artt. 24-103) e dalla legge.
L’importante è che vi sia un giudice.
Non importa, invece, quale sia questo giudice.
15
In questo modo sembra ormai sbiadire fino a scomparire il tradizionale
modo di intendere la giurisdizione, di cui restano soltanto i caratteri della
statualità, di terzietà ed imparzialità dell’organo giudicante, nonché il
principio della ragionevole durata del processo.
Le attuali tendenze giurisprudenziali in tema di giurisdizione hanno così
progressivamente impoverito di contenuto precettivo l’art. 25, co. 1,
Cost., riducendolo, nella parte in cui prevede la garanzia del giudice
naturale, ad un esangue significato, per cui il giudice deve essere solo
terzo ed imparziale.
Infatti, sembra ormai tramontata definitivamente l’idea della
giurisdizione intesa come limite esterno che ogni plesso giurisdizionale
incontra nei rapporti con gli altri plessi, e del giudice naturale
precostituito per legge come quello effettivamente titolare della potestats
iudicandi su determinate controversie.
L’attività interpretativa della giurisprudenza, infatti, prima mediante la
ragionevole durata del processo, poi con l’abuso del processo e, oggi con
il criterio della soccombenza, ha di fatto rimodellato il concetto di
“giurisdizione”, che viene così significativamente ridimensionato sotto il
profilo qualitativo.
In nome della rinnovata concezione della giustizia quale “risorsa scarsa”
o “non inesauribile” 28 , infatti, viene così sacrificata quella che è la
peculiare preparazione tecnica e competenza del giudice cui la
Costituzione, ancor prima della legge, devolve determinate controversie.
Con maggiore impegno esplicativo, non pare privo di rilievo che a
decidere una causa rientrante nella giurisdizione del giudice
amministrativo sia il giudice ordinario e viceversa, attesa la diversità di
formazione e competenze dei giudici appartenenti ai due ordini
giurisdizionali.
In questo modo, allora, smarrisce ulteriormente di senso l’esistenza di
una pluralità di giurisdizioni nel nostro ordinamento, atteso che è la
giurisprudenza stessa a considerarle, nei fatti, tra loro fungibili.
Peraltro con la soluzione accolta dalle SS.UU. appare vulnerato anche il
principio del giudice naturale precostituito per legge che, in quanto
inviolabile, non dovrebbe mai essere disponibile per le parti.
Infatti, escludendo che il ricorrente/attore che abbia incardinato la causa
innanzi ad un certo plesso giurisdizionale possa poi contestare in appello
il difetto di giurisdizione del giudice adito, si finisce di fatto per rimettere
alle parti, e non già alla legge, l'individuazione del giudice munito di
giurisdizione.
Le due sentenze gemelle della Cass. Civ., SS.UU., nn. 26242 e 26243 del12/12/14 hanno sancito la
rilevabilità d’ufficio della nullità da parte del giudice anche in caso di impugnative negoziali anche, tra gli
altri, sulla base dell’argomento della necessità di addivenire ad una definizione definitiva, una volta per
tutte, della controversia, specie tenuto conto della “non inesauribilità della risorsa giustizia”.
28
16
Una giurisdizione, si potrebbe dire allora, “convenzionale” e basata sulla
fiducia delle parti.
Come rilevato da acuta dottrina29 , infatti, se l’attore o il ricorrente ha
scelto un giudice e l’altra parte non si è opposta tempestivamente, si
realizza una situazione di “comune fiducia” nell’imparzialità e terzietà
del giudice, tale che successivi ripensamenti dell’una o dell’altra parte
sarebbero automaticamente irrilevanti ed inammissibili, in quanto frutto
di tattiche dilatorie e, per ciò solo, abusive.
Esemplificando: il ricorrente ricorre ad un giudice per una controversia
che spetta invece al giudice appartenente ad un altro plesso
giurisdizionale, il giudice non rileva d'ufficio la carenza della
giurisdizione e la parte resistente non la eccepisce.
Il giudice privo di giurisdizione decide la controversia nel merito,
rigettando la domanda del ricorrente che, in quanto vittorioso sul capo
relativo alla giurisdizione, non può proporre appello, che verrebbe
dichiarato inammissibile. Il resistente, per contro, non avrà alcun
interesse a contestare il difetto di giurisdizione che, dunque, si radica
definitivamente col passaggio in giudicato del capo ad essa relativo, col
risultato che la giurisdizione, pur assente, é stata di fatto individuata dal
comportamento processuale delle parti.
Ma la pronuncia che si commenta presenta ulteriori criticità, che meritano
di essere vagliate, seppur brevemente.
Nell’impianto argomentativo, infatti, si rinvengono altri aspetti poco
convincenti.
Infatti, se certamente la sentenza n. 21260/16 è da salutare con favore
nell’aver evitato di richiamare la figura controversa dell’abuso del
processo, non sembra comunque esente da critiche rispetto al criterio
della soccombenza.
Proprio in base alla condizione dell'impugnazione della soccombenza,
infatti, la pronuncia de qua giunge alla conclusione che va considerata
inammissibile l’auto-eccezione del difetto di giurisdizione sollevata
dall’attore che abbia adito in primo grado il giudice di cui in seguito
deduce la carenza di giurisdizione, dal momento che, rispetto al relativo
capo della sentenza, egli sarebbe vittorioso.
La soluzione, che appare formalmente e tecnicamente ineccepibile, cela
in realtà una confusione concettuale, allorquando sovrappone l’interesse
all’impugnazione con la legittimazione all'impugnazione, così di fatto
facendoli coincidere.
Al contrario, come rilevato dalla più attenta dottrina, l'interesse
all'impugnazione è requisito dotato di piena autonomia rispetto alla
G.VERDE “Abuso del processo e giurisdizione” in Diritto processuale Amministrativo, fasc. 3, 2015, pp. 1138
e ss.
29
17
legittimazione ad impugnare 30 : mentre l'interesse all'impugnazione è,
difatti, lo svolgimento dell'interesse ad agire, la legittimazione ad
impugnare inerisce, invece, al diverso tema delle parti processuali in
appello.
Di talché non è assolutamente da escludere che, in concreto, l’appellante
che sollevi l’auto-eccezione del difetto di giurisdizione abbia non solo un
interesse ad impugnare, ma sia anche a ciò legittimato, atteso che
l’eventuale accoglimento del suo gravame potrebbe consentirgli di poter
proporre nuovamente la domanda davanti ad un giudice appartenente ad
un plesso giurisdizionale diverso, cancellando così la precedente
pronuncia sfavorevole nel merito.
Ritenere inammissibile a priori tale appello, come hanno stabilito le
Sezioni Unite con la pronuncia n. 21260/16, potrebbe risultare una
soluzione oltremodo rigida, che non tiene conto delle possibili dinamiche
e sviluppi che in concreto possono verificarsi.
È ben possibile, infatti, che ad esempio il ricorrente abbia errato
nell’adire un determinato plesso giurisdizionale – anche tenuto conto
della frequente incertezza, anche giurisprudenziale, che caratterizza
l'esatta perimetrazione dei rapporti tra le varie giurisdizioni – e,
successivamente, intenda impugnare il capo sulla giurisdizione, anche
perché soccombente nel merito.
In questo caso, dunque, potrebbe apparire più corretta una valutazione
caso per caso, che tenga nel debito conto l’eventuale sussistenza di una
giustificazione che legittimi la parte processuale che abbia adito in primo
grado un certo plesso giurisdizionale ad esercitare il jus poenitendi circa
la giurisdizione in secondo grado.
Ma vi e di più.
A ben vedere, infatti, la soluzione accolta dalle SS.UU. potrebbe porsi in
frizione col principio di parità delle armi, sancito dall’articolo 111 della
Costituzione e, a livello sovranazionale, dall’articolo 6 della CEDU.
Sia la parte resistente, cioè la p.a., sia il controinteressato, si trovano a
beneficiare di una ben più comoda posizione processuale rispetto
all’attore/ricorrente: essi, infatti, possono scegliere fra eccepire in primo
grado il difetto di giurisdizione, ovvero riservarsi l'esercizio di tale
facoltà, ai sensi dell'art. 9 c.p.a., nell'ambito del giudizio d'appello,
impugnando per questo motivo la sentenza di primo grado che abbia
definito il giudizio, in tutto o in parte, in modo ad essi sfavorevole31.
Ne consegue una evidente alterazione del principio della parità delle parti
nel processo, poiché si permette così alla parte che non abbia eccepito il
Così E.LO PRESTI, La contestazione in appello della giurisdizione incardinata in primo grado integra abuso
del processo? In Foro Amm., CDS, fasc. 7-8, pp. 2011 e ss.
31 Di questo avviso è F.DINELLI, La questione di giurisdizione fra il divieto di abuso del diritto e il principio
della parità delle parti nel processo, in Foro Amm., CDS, fasc. 7-8, 2012, pp. 1998.
30
18
difetto di giurisdizione in primo grado, e che così abbia implicitamente
accettato la scelta operata dal ricorrente, di porre tale eccezione ad
oggetto di uno specifico motivo di appello.
Al contrario tale potere di impugnare per i profili attinenti alla
giurisdizione é totalmente precluso al ricorrente/attore, a prescindere da
quali siano le ragioni per cui abbia ab initio adito un certo plesso
giurisdizionale, con evidente sperequazione tra i poteri di iniziativa
processuale delle varie parti processuali.
La vittima sacrificale di una decisione dalla portata applicativa
potenzialmente enorme, e destinata ad ogni modo a far discutere, non può
che essere la giurisdizione come tradizionalmente conosciuta, in nome
della “considerazione della giurisdizione come risorsa a disposizione
della collettività, che proprio per tale ragione dev’essere impiegata in
maniera razionale, sì da preservare la possibilità di consentirne l’utilizzo
anche alle parti nelle altre cause pendenti e agli utenti che in futuro
indirizzeranno le loro controversie alla cognizione del giudice statale”.
Ancorché non destituita di fondamento, l’argomentazione della scarsità
della risorsa della giustizia non convince.
Le Sezioni Unite, infatti, trattano la risorsa-giustizia come un bene
esauribile, da salvaguardare per gli altri utenti e per le generazioni future,
quasi come l’ambiente che, però, è realmente suscettibile di essere
danneggiato e pregiudicato in modo irreversibile, di talchè altri individui,
oggi o in futuro, non possano più fruirne.
Ad ogni modo la scarsità della risorsa giustizia o la sua “non
inesauribilità” non sembra un argomento in grado di giustificare il
superamento e l’obliterazione dei limiti esterni della giurisdizione, dei
criteri di riparto sanciti dalla Costituzione e dalla legge e, per converso, la
guarentigia per i cittadini del giudice naturale precostituito per legge.
La soluzione preferibile, che le Sezioni Unite Civili avrebbero potuto
agevolmente seguire, sarebbe stata allora quella di accogliere la tesi
tradizionale invalsa nella loro precedente giurisprudenza, ovvero quella
dell'ammissibilità dell'auto-eccezione del difetto di giurisdizione.
Secondo l'orientamento consolidato delle SS.UU. fino ad oggi, ancorché
l’autoeccezione del difetto di giurisdizione integri abuso del processo per
la condotta processuale contraddittoria e incoerente dell'appellante, la
sanzione non deve però essere quella dell’inammissibilità dell’appello sul
capo relativo alla giurisdizione, bensì la condanna alle spese per
violazione dell’articolo 88 del c.p.c., anche sub specie di lite temeraria ex
art. 96, co. 3, c.p.c.32
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 152 del 29/6/16 ha avallato la tesi della natura non risarcitoria
(o, comunque, non esclusivamente tale) e, più propriamente, sanzionatoria, con finalità deflattive, rispetto
all’articolo 96, comma 3, cpc per l’offesa arrecata alla giurisdizione, che deve manifestare e garantire la
32
19
La pronuncia 21260 del 2016, invece, pare a chi scrive eccessivamente
punitiva nei confronti dell’appellante che, dopo aver incardinato la
controversia davanti ad un determinato giudice, ne contesti la
giurisdizione in sede di gravame.
Anche in virtù del principio di proporzionalità33, che costituisce ormai
pacificamente un caposaldo del nostro ordinamento, la sanzione
dell’inammissibilità pare eccessiva rispetto alla gravità della condotta
dell’appellante che, peraltro, potrebbe anche non integrare in alcun modo
un uso deviante o distorto dello strumento processuale.
È indubbio, però, che dall’altra parte si colloca il valore, di non scarso
speso specifico, del corretto funzionamento della giustizia, a fronte di un
uso spesso smodato e disinvolto da parte dei cittadini, che adiscono
l’autorità giudiziaria senza freni di sorta, che è proprio la giurisprudenza
a dover frenare, nel silenzio del legislatore.
Le Sezioni Unite, in conclusione, sembrano aver privilegiato esigenze di
funzionamento della macchina giudiziaria, che da tempo versa in una
situazione di forte difficoltà, a discapito del pur fondamentale diritto
inviolabile di difesa dei singoli (art. 24 Cost.), nonché del principio di
parità delle armi (art. 111 Cost.) e del giudice naturale precostituito per
legge (art. 25, co. 1, Cost.).
Se si guardano i piatti della bilancia, però, i valori sacrificati sembrano
avere quantitativamente e qualitativamente un peso maggiore rispetto a
quello salvaguardato.
4.2. Osservazioni a margine: la strada per l’Adunanza
Plenaria è segnata?
Il disagio della giurisprudenza rispetto a soluzioni troppo rigide e
rigorose per l'attore o il ricorrente che abbia utilizzato in modo abusivo il
diritto di azione processuale, si riscontra anche in giustizia
amministrativa.
ragionevole durata di un giusto processo, in attuazione di un interesse di rango costituzionale intestato allo
Stato.
33 C.d.S., Sez. IV, n. 964 del 26/2/15 ha stabilito che il principio di proporzionalità impone
all’amministrazione di adottare un provvedimento non eccedente quanto è opportuno e necessario per
conseguire lo scopo prefissato.
Alla luce di tale principio, nel caso in cui l’azione amministrativa coinvolga interessi diversi, è doverosa
un’adeguata ponderazione delle contrapposte esigenze, al fine di trovare la soluzione che comporti il minor
sacrificio possibile: in questo senso, il principio in esame rileva quale elemento sintomatico della
correttezza dell’esercizio del potere discrezionale in relazione all’effettivo bilanciamento degli interessi.
Date tali premesse, la proporzionalità non deve essere considerata come un canone rigido ed
immodificabile, ma si configura quale regola che implica la flessibilità dell’azione amministrativa ed, in
ultima analisi, la rispondenza della stessa alla razionalità ed alla legalità.
La giurisprudenza amministrativa afferma che il principio di proporzionalità preclude all’amministrazione
l’adozione di atti restrittivi della sfera giuridica dei privati in modo non proporzionato all’interesse
pubblico.
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Ed in particolare, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione
Sicilia con l’ordinanza di rimessione n. 634 del 22 Ottobre 2015, ha
rimesso ai sensi dell’art. 99 del c.p.a. all’Adunanza Plenaria la quaestio
iuris relativa alla sorte dell’appello proposto per motivi di giurisdizione
avverso la sentenza rispetto al quale il ricorrente risulti soccombente nel
merito, ancorché sia stato proprio questi ad adire in primo grado il g.a.
Il C.G.A. per la Regione Sicilia, facendosi portatore di un orientamento
assolutamente isolato in giurisprudenza amministrativa, ritiene che nel
caso dell’auto-eccezione del difetto di giurisdizione l’appello sul capo
relativo alla giurisdizione non possa essere considerato inammissibile.
Le argomentazioni su cui poggia l’ordinanza di rimessione in esame sono
essenzialmente due.
La prima risiede nella circostanza che, secondo il C.G.A. per la Regione
Sicilia la buona fede oggettiva avrebbe un rilievo ed una portata soltanto
sostanziale, non trovando riscontro nelle norme di rito.
La seconda ragione ostativa all’inammissibilità dell’appello proposto in
via di auto-eccezione rispetto al difetto di giurisdizione sta nella netta
distinzione tra regole di condotta e validità, identificata dalla storica
sentenza delle Sezioni Unite Civili n. 26724 del 19 Dicembre 2007.
Orbene, poiché tale condotta può integrare abuso del processo per
violazione degli obblighi di cui all’articolo 88 c.p.c., 34 , che sancisce
regole comportamentali, non può in alcun condurre ad alcuna vicenda che
intacchi la validità dell’atto processuale di appello.
In altri termini l’appellante che, soccombente nel merito, impugni la
sentenza relativamente al capo sulla giurisdizione che egli stesso ha
radicato in primo grado, va sanzionato sul terreno delle spese,
eventualmente anche sub specie la condanna per lite temeraria ex art. 96
c.p.c.35.
Secondo il C.G.A. per la Regione Sicilia nessuna norma del c.p.a., né
tantomeno il principio generale della buona fede oggettiva, possono
legittimare il giudice amministrativo a disapplicare le norme processuali
che gli imporrebbero invece di vagliare la fondatezza dell'appello con cui
si solleva l'auto-eccezione del difetto di giurisdizione.
La soluzione prospettata dal C.G.A. per la Regione Sicilia sembra
condivisibile, specialmente perché maggiormente ossequiosa del
principio costituzionale di parità delle armi, non privando il ricorrente che
intenda appellare per motivi di giurisdizione della possibilità di vedere
Tale norma è applicabile anche al processo amministrativo in forza del rinvio esterno contenuto nell’art.
39 del c.p.a. alle disposizioni del codice di procedura civile.
35 In questi termini si pone anche Cass. Civ., Sez. Lavoro, Ord. n. 1251 del 25/1/16, che ha rimesso alle
Sezioni Unite Civili la questione relativa alla sorte delle domande proposte in caso di parcellizzazione del
credito, facendosi portatrice della tesi secondo cui queste sarebbero ammissibili, ma l’attore andrebbe
condannato in base al regime delle spese per la sua condotta abusiva.
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scrutinato il suo gravame da un altro giudice.
Inoltre, una siffatta interpretazione è più armonica con il principio di
proporzionalità, evitando sanzioni eccessive rispetto a condotte
processuali che oggettivamente non paiono meritevoli di una declaratoria
di inammissibilità, nonché perché evita il c.d. “abuso dell’abuso del
processo”, ovvero un uso troppo disinvolto della figura dell’abuso del
processo.
In attesa che l’Adunanza Plenaria si pronunci sul punto, sembra però
possibile già prevedere l’esito della decisione del Supremo Consesso di
Giustizia Amministrativa nella sua composizione allargata.
Infatti, dopo la sentenza delle Sezioni Unite Civili n. 21290 del 2016, con
cui queste hanno accolto la tesi rigorosa dell’inammissibilità dell’autoeccezione del difetto di giurisdizione, sposando l’orientamento già
prevalente in giustizia amministrativa, la strada per la Plenaria sembra
segnata.
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