il senso del bello

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IL SENSO DEL BELLO
La bellezza è l'insieme delle qualità percepite tramite i cinque sensi, che suscitano sensazioni
piacevoli che attribuiamo a concetti, oggetti, animali o persone nell'universo osservato, che si
sente istantaneamente durante l'esperienza, che si sviluppa spontaneamente e tende a collegarsi
ad un contenuto emozionale positivo.
Nel suo senso più profondo, la bellezza genera un senso di riflessione benevola sul significato
della propria esistenza dentro il mondo naturale.
Bellezza oggettiva e bellezza soggettiva
La bellezza oggettiva è la bellezza definita come un insieme di qualità rispondenti a dei canoni. La
bellezza oggettiva è funzione del tempo ed alla propria cultura, poiché tali canoni cambiano nel
tempo ma restano validi per il periodo indicato.
La bellezza soggettiva invece dipendente dal proprio gusto personale. E’ un rapporto tra oggetti e
natura, che suscita nell'osservatore un senso di attrazione, affezione, piacere e benessere.
L’importanza dell’osservatore
Concepire una bellezza indipendente da un qualche osservatore che stia lì per goderla, equivale a
pensare ad un dipinto bellissimo dimenticato in una cassaforte da decenni. Oppure pensare ad un
fiore che cresce in mezzo ad una foresta invalicabile da umani ed animali.
Dunque, senza un osservatore la bellezza non esisterebbe poiché è l’uomo stesso che attribuisce
valore ed importanza alle cose, grandi o piccole che siano.
Bellezza, Natura e Mito
Un tempo, nell’antichità, gli uomini vivevano in pieno contatto con la natura, anzi dipendevano da
essa, in quanto la loro sopravvivenza era dettata dall’andamento delle coltivazioni, dei raccolti,
della caccia e successivamente anche dagli allevamenti di bestiame. Si intuisce quanta importanza
avessero tutti gli elementi ed i fenomeni naturali (il sole, la pioggia, la luce, le stelle, ma anche la
salute, la nascita, la morte e la malattia). In un’epoca in cui la scienza non esisteva ancora (così
come la biologia, la chimica e la tecnologia), l’uomo alle proprie domande esistenziali, cercava e
trovava risposte dentro la Natura. Egli osservava il mondo intorno a sé per leggere e cogliere
tracce e segnali affinché potesse dare un senso agli accadimenti delle cose.
L’essere umano inizia a tramandare la propria conoscenza attraverso i racconti di storie. Nasce il
Mito (derivante dal greco Mithos che significa “racconto”), una narrazione investita di sacralità
relativa alle origini del Mondo. Una verità profonda volta a dare significati e spiegazioni, oltre ai
fenomeni naturali, anche sull’esistenza dell’uomo del cosmo.
I poeti-cantori, ispirati dagli dei (collegati alla Natura; “Zeus” Dio del Cielo, “Elios” Dio del sole,
“Diana” Dea della caccia, “Poseidone” Dio del mare, “Efesto” Dio del fuoco..) , raccontano la verità
attraverso il mito. Le parole del poeta sono ritenute belle poiché vere, in quanto le Muse donano al
loro messaggero la capacità di guardare oltre l’apparenza sensibile per scorgere la verità
originaria.
Nella poesia greca delle origini, la bellezza è considerata un valore assoluto, spesso legato alle
azioni degli eroi, i quali sono ricoperti da un manto di alone divino che li rende splendenti agli occhi
umani.
Il Mito di Persefone e Demetra
Un giorno Persefone, figlia di Demetra Dea della fertilità e di Zeus, mentre coglieva dei
fiori con altre compagne si allontanò dal gruppo e all'improvviso la terra si aprì e dal
profondo degli abissi apparve Ade, dio dell'oltretomba e signore dei morti che la rapiva
perché da tempo innamorato di lei.
Il rapimento si era compiuto grazie al volere di Zeus che aveva dato il suo consenso ad
Ade per compiere la violenta azione amorosa.
Demetra, accortasi che Persefone era scomparsa, per nove giorni corse per tutto il
mondo alla ricerca della figlia sino alle più remote regioni della terra. Ma per quanto
cercasse, non riusciva ne a trovarla, ne ad avere notizie del suo rapimento.
All'alba del decimo giorno venne in suo aiuto Ecate, che aveva udito le urla disperate
della fanciulla mentre veniva rapita ma non aveva fatto in tempo a vedere il volto del
rapitore e suggerì pertanto a Demetra di chiedere a Elios, il Sole. E così fu. Elios disse a
Demetra che a rapire la figlia era stato Ade.
Inutile descrivere la rabbia e l'angoscia di Demetra, tradita dalla sua stessa famiglia di
olimpici. Demetra abbandonò l'Olimpo e per vendicarsi, decise che la terra non avrebbe
più dato frutti ai mortali così la razza umana si sarebbe estinta nella carestia. In questo
modo gli dei non avrebbero più potuto ricevere i sacrifici votivi degli uomini di cui
erano tanto orgogliosi.
Si mise quindi la dea a vagare per il mondo per cercare di soffocare la sua disperazione,
sorda ai lamenti degli dei e dei mortali che già assaporavano l'amaro gusto della
carestia.
Il suo pellegrinaggio la portò a Eleusi, in Attica, sotto le spoglie di una vecchia, dove
regnava il re Celeo con la sua sposa Metanira. Demetra fu accolta benevolmente nella
loro casa e divenne la nutrice del figlio del re, Demofonte.
Col tempo Demetra si affezionò al fanciullo che faceva crescere come un dio,
nutrendolo, all'insaputa dei genitori, con la divina ambrosia, il nettare degli dei.
Attraverso Demofonte la dea riusciva in questo modo a saziare il suo istinto materno,
soffocando il dolore per la perduta figlia. Decise anche di donare a Demofonte
l'immortalità e di renderlo pertanto simile a un dio ma, mentre era intenta a compiere i
riti necessari, fu scoperta da Metanira, la madre di Demofonte. A quel punto Demetra,
abbandonò le vesti di vecchia e si manifestò in tutta la sua divinità.
Delusa dai mortali che non avevano gradito il dono che voleva fare a Demofonte, si
rifugiò presso sulla sommità del monte Callicoro.
Il dolore per la scomparsa della figlia, adesso che non c'era più Demofonte a distrarla,
ricominciò a farsi sentire più forte che mai e a nulla valevano le suppliche dei mortali
che nel frattempo venivano decimanti dalla carestia.
Alla fine Zeus, costretto a cedere alle suppliche dei mortali e degli stessi dei, inviò Ermes,
il messaggero degli dei, nell'oltretomba da Ade, per ordinargli di rendere Persefone alla
madre. Ade, inaspettatamente, non recriminò alla decisione di Zeus ma anzi esortò
Persefone a fare ritorno dalla madre. L'inganno era in agguato. Infatti Ade, prima che la
sua dolce sposa salisse sul cocchio di Ermes, fece mangiare a Persefone un seme di
melograno, compiendo in questo modo il prodigio che le avrebbe impedito di rimanere
per sempre nel regno della luce.
Grande fu la commozione di Demetra quando rivide la figlia e in quello stesso istante, la
terrà ritornò fertile e il mondo riprese a godere dei suoi doni.
Solo più tardi Demetra scoprì l'inganno teso da Ade: avendo Persefone mangiato il seme
di melograno nel regno dei morti, era costretta a farvi ritorno, ogni anno, per un lungo
periodo. Questo infatti era il volere di Zeus.
Fu così allora che Demetra decretò che nei sei mesi che Persefone fosse stata nel regno
dei morti, nel mondo sarebbe calato il freddo e la natura si sarebbe addormentata,
dando origine all'autunno e all'inverno, mentre nei restanti sei mesi la terra sarebbe
rifiorita, dando origine alla primavera e all'estate.
GITA AL RIFUGIO TERZ’ALPE, CANZO
Diario di bordo
Dal centro di Canzo si raggiunge a piedi la località Fonte Gayum (circa Km
1,5, 20-30 minuti). Da qui partono due percorsi che si ricongiungono davanti
alla Terz'Alpe: a sinistra La Via delle Alpi e a destra il Sentiero Geologico…
Si decide di girare a destra, inizia il cammino…
Ci avviamo su fondo acciottolato in
leggerissima salita, con il bosco alla
La via prosegue senza fine
Lungi dall’uscio dal quale parte
Ora la Via è fuggita avanti
Devo inseguirla ad ogni costo
Rincorrendola con piedi alati
Sin all’incrocio con una più larga
Dove si uniscono piste e sentieri
E poi dove andrò? Nessuno lo sa
(J.R.R. Tolkien)
sinistra e una siepe alla destra. Il
torrente ci accompagnerà per buona
parte del cammino, a volte da un lato
e a volte dall'altro; infatti saranno ben
otto i ponti e ponticelli su cui passeremo.
Accanto
ad
particolari
durante
le
alcune
rocce
provenienti
epoche
da
passate,
e
massi
lontano
alcuni
pannelli ne spiegano le caratteristiche.
Più avanti troviamo due case e poco
dopo una stanga che chiude l’accesso ai
veicoli. Sulla destra c'è un cartellone
con una cartina della zona.
Con
un
ponte attraversiamo il torrente e continuiamo
nel bosco. Su un grosso masso vediamo il
segnavia a bandierina con il n. 2.
Ora il bosco è più fitto.
La pendenza aumenta e poco più avanti un
sentierino scende al torrente dove un cartello
indica da quella parte il "Parco massi erratici".
Dopo
continui
saliscendi,
proseguiamo incontrando lungo
il sentiero diverse panchine, come a voler dire
quanto il bosco sia accogliente seppur fitto e
silenzioso.
Una fantastica piscina naturale ci sorprende
con i suoi colori intensi di diverse tonalità di
blu.
Finalmente dopo più di un’ora di cammino
risaliamo una serie di ripidi gradini di legno,
e girando a sinistra. scorgiamo dei prati recintati, con due asinelli che
pascolano e davanti a noi la Terz’Alpe ed i Corni di Canzo.
Terz'Alpe è un’accogliente rifugio di proprietà dell’Azienda Regionale delle
Foreste gestito da una famiglia. Il rifugio è circondato da prati e vegetazione
boschiva, proprio ai piedi degli imponenti Corni di Canzo. Immerso in una
tangibile atmosfera di magia, nel cuore del Triangolo Lariano, negli stessi
luoghi permeati di energia "pulita" prediletti dalle antichissime popolazioni
celtiche che vi stanziavano millenni or sono.
Ci accomodiamo sulle panchine e tavoli di legno ed ognuno provvede a saziare
la propria fame con quanto si è portato da casa come pranzo al sacco.
Mentre mangiamo ad attirare la nostra attenzione è una simpatica capretta
bianca!
Riprendiamo
il
nostro
cammino
denominato la “Via degli spiriti”.
decidendo
di
percorrere
un
sentiero
Inutile dire il fascino ed il mistero di tale luogo costernato da strane statue
scolpite nel legno, che richiamano le più antiche forme tribali unite a figure
fantastiche dall’atmosfera alquanto fiabesca.
Mistero, rito e fiaba si intrecciano in un bizzarro sentiero.
La via degli spiriti ci porta direttamente presso Prim’Alpe, la vista si allarga
dinnanzi ad una distesa verde, la struttura del rifugio ed un suggestivo cerchio
di panchine di pietra dislocate interno ad un braciere. Ci sediamo tutti di
fronte ad un ipotetico fuoco e mentre ci riposiamo, ci lasciamo trasportare
dentro la storia di Demetra e Persefone.
Concludiamo la nostra avventura ritornando verso Canzo per riprendere il
treno che ci riporterà nelle nostre relative abitazioni.
NARCISO
La storia che andiamo a narrare è la più conosciuta della mitologia greca e sono tante
le sue versioni. Noi prendiamo spunto da quanto ci narra Ovidio nelle Metamorfosi per
narrare le vicende di questo giovane la cui bellezza, pari a quella di un dio, fu la causa
della sua stessa rovina.
Il fanciullo di cui parliamo si chiama Narciso ed era figlio della ninfa Liriope e del
fiume Cefiso(1) che, innamorato della ninfa, la avvolse nelle sue onde e nelle sue
correnti, possedendola. Da questa unione nacque un bambino di indescrivibile bellezza
Giulio Carpioni, Liriope presenta Narciso a Tiresia (XVII secolo), Musée des Beaux Arts et d’Archéologie,
Besancon (Francia)
e grazia. La madre, poiché voleva conoscere il destino del proprio figlio, si recò
dall’indovino Tiresia per sapere il suo futuro. Era questo il più grande fra tutti gli
indovini che la sorte aveva reso cieco perché aveva osato porre i suoi occhi sulle nudità
della dea guerriera Atena che, dopo averlo punito per la sua audacia rendendolo cieco,
gli fece dono del vaticinio Tiresia dopo aver ascoltato le richieste di Liriope le disse che
suo figlio avrebbe avuto una lunga vita se non avesse mai conosciuto se stesso. Liriope,
che non comprese la profezia dell'indovino, andò via e con il passare degli anni
dimenticò quanto gli era stato profetizzato.
Gli anni passarono veloci e Narciso cresceva forte e di una bellezza tanto dolce e
raffinata che tutte le persone che lo rimiravano, fossero esse uomini o donne, si
innamoravano di lui anche se Narciso rifuggiva ogni attenzione amorosa. Si racconta
della sua insensibilità e vanità tanto che un giorno regalò una spada ad Aminio, un suo
acceso spasimante, perché si suicidasse e Aminio tanto era grande il suo amore per
Narciso, si trafisse il cuore sulla soglia della sua casa.
La sorte volle che la storia di Narciso si incrociasse con quella della ninfa Eco, incontro
nefasto che fu la rovina di entrambi i giovani.
Si narra che la sposa di Zeus, Era, la cui gelosia era nota a tutti gli dei e a tutti i mortali,
era sempre alla ricerca dei tradimenti del marito e sfortuna volle che un giorno si rese
conto che la compagnia e le continue chiacchiere della ninfa Eco, altro non erano che
un modo per tenerla a bada e distrarla per favorire gli amori di Zeus dando il tempo
alle sue concubine di mettersi in salvo. Grande fu la sua rabbia quando apprese la
verità e la sua ira si manifestò in tutta la sua potenza: rese Eco destinata a ripetere per
sempre solo le ultime parole dei discorsi che le si rivolgevano.
Un giorno mentre Narciso era intento a vagare nei boschi e a tendere reti tra gli alberi
per catturare i cervi, lo vide la bella Eco che, non potendo rivolgergli la parola, si limitò
a rimirare la sua bellezza, estasiata da tanta grazia. Per diverso tempo lo seguì da
lontano senza farsi scorgere e Narciso, intento a rincorrere i cervi, né si accorse di lei
né si accorse che si era allontanato dai compagni e aveva smarrito il sentiero. Iniziò
Narciso a chiamare a gran voce, chiedendo aiuto non sapendo dove andare. A quel
punto Eco decise di mostrarsi a Narciso rispondendo al suo richiamo di aiuto e si
presentò protendendo verso di lui le sue braccia offrendosi teneramente come un dono
d'amore e con il cuore traboccante di teneri pensieri.
John William Waterhouse, Eco e Narciso (1903), Walker Art Gallery, Liverpool (Inghilterra)
Ma ancora una volta la reazione di Narciso fu spietata: alla vista di questa ninfa che si
offriva a lui fuggì inorridito tanto che la povera Eco avvilita e vergognandosi, scappò
via dolente. Si nascose nel folto del bosco e cominciò a vivere in solitudine con un solo
pensiero nella mente: la sua passione per Narciso e questo pensiero era ogni giorno
sempre più struggente che si dimenticò anche di vivere e il suo corpo deperì
rapidamente fino a scomparire e a lasciare di lei solo la voce. Da allora la sua presenza
si manifesta solo sotto forma di voce, la voce di Eco, che continua a ripetere le ultime
parole che gli sono state rivolte.
Jan Cossiers, Narciso alla fonte (1636-1638),
olio su tela (97 x 93 cm) , Museo del Prado,
Madrid (Spagna)
Gli dei vollero allora punire Narcisco per la sua freddezza e insensibilità e mandarono
Nemesi, dea della vendetta, che fece si che mentre si trovava presso una fonte e si
chinava per bere un sorso d'acqua, nel vedere la sua immagine riflessa
immediatamente il suo cuore iniziò a palpitare e a struggersi d'amore per quel volto
così bello, tenero e sorridente.
Racconta Ovidio (Metamorfosi III, 420 e segg.):
"Contempla gli occhi che sembrano stelle, contempla le chiome degne di Bacco e di
Apollo, e le guance levigate, le labbra scarlatte, il collo d'avorio, il candore del volto
soffuso di rossore ... Oh quanti inutili baci diede alla fonte ingannatrice! ... Ignorava
cosa fosse quel che vedeva, ma ardeva per quell'immagine
Non consapevole che aveva di fronte se
stesso,
ammirava
quell'immagine
e
mandava baci e tenere carezze e
immergeva le braccia nell'acqua per
sfiorare quel soave volto ma l'immagine
scompariva non appena la toccava.
Rimase a lungo Narciso presso la fonte
cercando di afferrare quel riflesso senza
accorgersi che i giorni scorrevano
inesorabili, dimenticandosi di mangiare
e di bere sostenuto solo dal pensiero che
quel malefico sortilegio che faceva si che
quell'immagine gli sfuggisse, sparisse per
sempre(4).
Alla fine morì Narciso, presso la fonte
che gli aveva regalato l'amore anelando
Caravaggio, Narciso, olio su tela (112
cm × 92 cm), Galleria Nazionale d'Arte
Antica - Palazzo Barberini, Roma
(Italia)
un abbraccio dalla sua stessa immagine.
Quando le Naiadi e le Driadi andarono a
prendere il suo corpo per collocarlo sulla
pira funebre si narra che al suo posto fu
trovato uno splendido fiore bianco che
da lui prese il nome di Narciso.
Narra Ovidio (Metamorfosi III 420 e
segg.):
"Languì a lungo d'amore non toccando
più cibo né bevanda. A poco a poco la
passione lo consumò, e un giorno vicino
alla fonte ... reclinò sull'erba la testa
sfinita, e la morte chiuse i suoi occhi che
furono folli d'amore per sé. ... Piansero le
Driadi, ed Eco rispose alle grida dolenti.
Già avevano preparato il rogo, le fiaccole,
la bara, ma il suo corpo non c'era più:
trovarono dove prima giaceva, un fiore
dal cuore di croco recinto di candide
foglie".
Si racconta anche che Narciso, quando attraversò lo Stige per entrare nell’Oltretomba,
si sia affacciato nelle acque del fiume, sempre sperando di vedersi riflesso. Ma non
riuscì a scorgere nulla, dal momento che lo Stige era il fiume dei morti, e perciò
torbido, fangoso, privo di qualsiasi riflesso. Ebbene, Narciso ne fu contento: “Vuol dire
che solo io sono morto” mormorò “e che tu non sei morto ancora! Vivi sempre lassù, sul
monte Elicona, in quella fonte di acqua limpida, nel bosco dei miei sogni!”.
In qualunque modo sia morto Narciso è certo che questo mito è arrivato sino a giorni
nostri. Pittori, musicisti, scrittori, psicologici, continuano a trarre ispirazione dalla
storia di questo giovane. Era superbo? Era egocentrico? Era egoista? Era ingenuo? Era
un’adolescente che attraverso il suo riflesso impara a conoscere sé stesso? Ognuno ne
dia l'interpretazione che ritiene più consona…
TITONE
Titone era un giovane dalla straordinaria bellezza. Un giorno, Eos, la dea dell'Aurora, lo
vide e si innamorò del suo volto. Così Eos rapì Titone e lo portò in Etiopia ma la dea non era
felice, Titone, nonostante la rigogliosa bellezza, era comunque destinato a morire, mentre
lei possedeva l'immortalità. Eos, allora, chiese aiuto a Zeus affinché esaudisse un suo
desiderio: donare l'immortalità al suo amato. Zeus acconsentì ed esaudì il suo desiderio. La
dolce Aurora, però, pensò solo in un secondo momento che non aveva avuto l'accortezza di
tenere lontana la rovinosa vecchiaia. Titone, quindi, viveva, certo, ma invecchiava giorno
dopo giorno, anno dopo anno. Il suo vigoroso corpo si rattrappiva, la sua voce soave si
incupiva, il bel ragazzo si trasformava pian piano in un uomo maturo, in un anziano
piacente, in un vecchio cadente, un moribondo senza speranza di pace. Ed in verità, fino a
quando egli restò giovane, Eos godette il suo amore presso le correnti dell'Oceano, ma
quando vide i primi solchi sulla pelle, scavati dal tempo, lo lasciò e lo rinchiuse in una cella
sotterranea. Non ne poteva sopportare più la vista nè l'odore: il vecchio Titone, oltre ad
essersi raggrinzito, emanava anche una terribile puzza di cadavere. La morte tanto temuta
diveniva per lui una meta agognata e in eterno differita. Inutilmente cercò, infatti, di
mettere fine ai suoi giorni, ma ovviamente non ci fu nulla da fare:si era procurato tutto il
male possibile, ferito, morso da serpenti ed ustionato, ma la morte non lo porto via con se.
Titone però, restava ancora un problema per Aurora che, infine, lo trasformò in una cicala,
elogio vivente ad una vita breve e gaudente.
ORFEO
Orfeo, il più famoso poeta e musicista che la storia abbia mai avuto, che non aveva
eguali tra uomini e dei era figlio di Apollo e della musa Calliope.
Il Dio Apollo un giorno gli donò una lira e le muse gli insegnarono a usarla e divenne
talmente abile che lo stesso Seneca narra: "Alla musica dolce di Orfeo, cessava il fragore
del rapido torrente, e l'acqua fugace, obliosa di proseguire il cammino, perdeva il suo
impeto ... Le selve inerti si movevano conducendo sugli alberi gli uccelli; o se qualcuno di
questi volava, commuovendosi nell'ascoltare il dolce canto, perdeva le forze e cadeva ...
Le Driadi, uscendo dalle loro querce, si affrettavano verso il cantore, e perfino le belve
accorrevano dalle loro tane al melodioso canto (...)".
Acquistò una tale padronanza dello strumento che aggiunse anche altre due corde
portando a nove il loro numero per avere una melodia più soave.
Come prima grande impresa Orfeo partecipò alla spedizioni degli Argonauti(1) e quando
la nave Argo giunse in prossimità dell'isola delle Sirene, fu grazie a Orfeo e alla sua cetra
che gli argonauti riuscirono a non cedere alle insidie nascoste nel canto delle sirene.(ma
questo lo vedremo in seguito…)
Ogni creature amava Orfeo ed era incantata dalla sua musica e dalla sua poesia ma
Orfeo aveva occhi solo per una donna: Euridice, figlia di Nereo e di Doride che divenne
sua sposa. Il destino però non aveva previsto per loro un amore duraturo infatti un
giorno la bellezza di Euridice fece ardere il cuore di Aristeo che si innamorò di lei e
cercò di sedurla. La fanciulla per sfuggire alle sue insistenze si mise a correre ma ebbe la
sfortuna di calpestare un serpente nascosto nell'erba che la morsicò, provocandone la
morte istantanea.
Narra Pindemonte (Epistole: "A Giovani Pozzo"): "Tra l'alta erba non vide orrido serpe che
del candido piè morte le impresse."
Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la propria vita senza la sua
sposa decise di scendere nell'Ade per cercare di strapparla dal regno dei morti. Convinse
con la sua musica Caronte a traghettarlo sull'altra riva dello Stige; il cane Cerbero e i
giudici dei morti a farlo passare e nonostante fosse circondato da anime dannate che
tentavano in tutti i modi di ghermirlo, riuscì a giungere alla presenza di Ade e Persefone.
Una volta giunto al loro cospetto, Orfeo iniziò a suonare e a cantare la sua disperazione e
solitudine e le sue melodie erano così piene di dolore e di disperazione che gli stessi
signori degli inferi si commossero; le Erinni piansero; la ruota di Issione si fermò e i
perfidi avvoltoi che divoravano il fegato di Tizio non ebbero il coraggio di continuare nel
loro macabro compito. Anche Tantalo dimenticò la sua sete e per la prima volta
nell'oltretomba si conobbe la pietà come narra Ovidio nelle Metamorfosi (X, 41-63).
Fu così che fu concesso a Orfeo di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione
che durante il viaggio verso la terra la precedesse e non si voltasse a guardarla fino a
quando non fossero giunti alla luce del sole
Narra Ovidio nelle Metamorfosi (X, 41-63). "(...) Nè la regale sposa, nè colui che governa
l'abisso opposero rifiuto all'infelice che li pregava e richiamarono Euridice. Costei che si
trovava tra le ombre dei morti da poco tempo, si avanzò, camminando a passo lento per
causa della ferita. Il tracio Orfeo la riebbe,a patto che non si voltasse indietro a guardarla
prima di essere uscito dalla valle infernale (...)"
Orfeo, presa così per mano la sua sposa iniziò il suo cammino verso la luce.
Durante il viaggio, un sospetto cominciò a farsi strada nella sua mente pensando di
condurre per mano un'ombra e non Euridice. Dimenticando così la promessa fatta si
voltò a guardarla ma nello stesso istante in cui i suoi occhi si posarono sul suo volto
Euridice svanì, e Orfeo assistette impotente alla sua morte per la seconda volta.
GLI ARGONAUTI
Gli Argonauti furono un gruppo di cinquantadue famosi eroi greci che, sotto la guida di
Giasone, diedero vita ad una delle più note e affascinanti narrazioni della mitologia greca:
l'avventuroso viaggio a bordo della nave Argo che li condusse nelle ostili terre della
Colchide, alla conquista del Vello d'Oro.
Giasone era figlio di Alcimeda e di Esone, re di Iolco. Ancora piccolo venne affidato al
saggio centauro Chirone per fuggire dalle persecuzioni dello zio Pelia determinato a
usurpare il trono al fratello. Divenuto adulto Giasone si recò dallo zio per rivendicare il
trono che gli spettava di diritto, ma questo richiese in cambio il magico Vello d’Oro.
Allora Giasone, ambizioso e determinato, radunò i più famosi eroi greci e partì alla
conquista del magico manto.
-
L’isola di Lemno (…)
Eracle rimane nella regione Misia (in Turchia) per salvare il suo amico Ila caduto in un
lago (…)
Sulle rive del Mar Mamara Gli Argonauti incontrano Amico (…)
Dopo numerose avventure la spedizione riuscì a raggiungere la terra di Colchide. Re Eeta
decise di condegnare il Vello d’Oro all'uomo unicamente se egli fosse riuscito a superare
due impossibili prove: dapprima avrebbe dovuto aggiogare all'aratro due feroci tori dagli
zoccoli di bronzo e dalle narici fiammeggianti e in seguito avrebbe dovuto tracciare
quattro solchi nel terreno chiamato Campo di Marte e seminarci dei denti di drago.
Medea, figlia di Eeta ed esperta conoscitrice delle arti magiche, aiutò Giasone, di cui si
innamorò per opera di Afrodite, nel compimento delle fatiche. Nonostante il superamento
delle prove Eeta si rifiutò di cedere il Vello, allora Giasone, senpre con l’aiuto di Medea,
addormentò il drago messo a guardia del Vello e impadronitosene ripartì in direzione di
Iolco. Pelia, incredulo, ci rifiutò di cedere il trono. Con uno stratagemma Giasone uccise lo
zio e prese il posto che gli spettava di diritto.
ARTE E BELLEZZA
Perché si fa arte?
Si fa arte per fare emergere le proprie emozioni.
L’obbiettivo dell’arte è colpire una persona. (Tommy)
Per fare passare qualche messaggio. (Alex)
L’obbiettivo dell’arte è quello di esprimere bellezza. (Andrea F.)
Qualsiasi cosa influenzi ed esprima il nostro stato d’animo, realizzando opere con dettagli tranquilli.
(Andrea R.)
Per comunicare qualcosa. (Bryan)
Esprimere la propria idea. (Christian)
Un artista compone le sue opere perché non gli bastano le parole per esprimere i suoi sentimenti.
(Fabio)
L’artista crea le sue opere per la sua passione. (Hui)
L’artista viene spinto dalla sua immaginazione, dalla sua creatività e anche dalla sua esperienza ad
effettuare delle opere. (Luca V.)
Per togliere lo stress e per stupire le persone. (Anonimo)
Comunicare al mondo emozioni,sentimenti,disagi.
Io potrei essere un artista nella disciplina dell’arte marziale. (Kostian)
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