IL SENSO DEL BELLO La bellezza è l'insieme delle qualità percepite tramite i cinque sensi, che suscitano sensazioni piacevoli che attribuiamo a concetti, oggetti, animali o persone nell'universo osservato, che si sente istantaneamente durante l'esperienza, che si sviluppa spontaneamente e tende a collegarsi ad un contenuto emozionale positivo. Nel suo senso più profondo, la bellezza genera un senso di riflessione benevola sul significato della propria esistenza dentro il mondo naturale. Bellezza oggettiva e bellezza soggettiva La bellezza oggettiva è la bellezza definita come un insieme di qualità rispondenti a dei canoni. La bellezza oggettiva è funzione del tempo ed alla propria cultura, poiché tali canoni cambiano nel tempo ma restano validi per il periodo indicato. La bellezza soggettiva invece dipendente dal proprio gusto personale. E’ un rapporto tra oggetti e natura, che suscita nell'osservatore un senso di attrazione, affezione, piacere e benessere. L’importanza dell’osservatore Concepire una bellezza indipendente da un qualche osservatore che stia lì per goderla, equivale a pensare ad un dipinto bellissimo dimenticato in una cassaforte da decenni. Oppure pensare ad un fiore che cresce in mezzo ad una foresta invalicabile da umani ed animali. Dunque, senza un osservatore la bellezza non esisterebbe poiché è l’uomo stesso che attribuisce valore ed importanza alle cose, grandi o piccole che siano. Bellezza, Natura e Mito Un tempo, nell’antichità, gli uomini vivevano in pieno contatto con la natura, anzi dipendevano da essa, in quanto la loro sopravvivenza era dettata dall’andamento delle coltivazioni, dei raccolti, della caccia e successivamente anche dagli allevamenti di bestiame. Si intuisce quanta importanza avessero tutti gli elementi ed i fenomeni naturali (il sole, la pioggia, la luce, le stelle, ma anche la salute, la nascita, la morte e la malattia). In un’epoca in cui la scienza non esisteva ancora (così come la biologia, la chimica e la tecnologia), l’uomo alle proprie domande esistenziali, cercava e trovava risposte dentro la Natura. Egli osservava il mondo intorno a sé per leggere e cogliere tracce e segnali affinché potesse dare un senso agli accadimenti delle cose. L’essere umano inizia a tramandare la propria conoscenza attraverso i racconti di storie. Nasce il Mito (derivante dal greco Mithos che significa “racconto”), una narrazione investita di sacralità relativa alle origini del Mondo. Una verità profonda volta a dare significati e spiegazioni, oltre ai fenomeni naturali, anche sull’esistenza dell’uomo del cosmo. I poeti-cantori, ispirati dagli dei (collegati alla Natura; “Zeus” Dio del Cielo, “Elios” Dio del sole, “Diana” Dea della caccia, “Poseidone” Dio del mare, “Efesto” Dio del fuoco..) , raccontano la verità attraverso il mito. Le parole del poeta sono ritenute belle poiché vere, in quanto le Muse donano al loro messaggero la capacità di guardare oltre l’apparenza sensibile per scorgere la verità originaria. Nella poesia greca delle origini, la bellezza è considerata un valore assoluto, spesso legato alle azioni degli eroi, i quali sono ricoperti da un manto di alone divino che li rende splendenti agli occhi umani. Il Mito di Persefone e Demetra Un giorno Persefone, figlia di Demetra Dea della fertilità e di Zeus, mentre coglieva dei fiori con altre compagne si allontanò dal gruppo e all'improvviso la terra si aprì e dal profondo degli abissi apparve Ade, dio dell'oltretomba e signore dei morti che la rapiva perché da tempo innamorato di lei. Il rapimento si era compiuto grazie al volere di Zeus che aveva dato il suo consenso ad Ade per compiere la violenta azione amorosa. Demetra, accortasi che Persefone era scomparsa, per nove giorni corse per tutto il mondo alla ricerca della figlia sino alle più remote regioni della terra. Ma per quanto cercasse, non riusciva ne a trovarla, ne ad avere notizie del suo rapimento. All'alba del decimo giorno venne in suo aiuto Ecate, che aveva udito le urla disperate della fanciulla mentre veniva rapita ma non aveva fatto in tempo a vedere il volto del rapitore e suggerì pertanto a Demetra di chiedere a Elios, il Sole. E così fu. Elios disse a Demetra che a rapire la figlia era stato Ade. Inutile descrivere la rabbia e l'angoscia di Demetra, tradita dalla sua stessa famiglia di olimpici. Demetra abbandonò l'Olimpo e per vendicarsi, decise che la terra non avrebbe più dato frutti ai mortali così la razza umana si sarebbe estinta nella carestia. In questo modo gli dei non avrebbero più potuto ricevere i sacrifici votivi degli uomini di cui erano tanto orgogliosi. Si mise quindi la dea a vagare per il mondo per cercare di soffocare la sua disperazione, sorda ai lamenti degli dei e dei mortali che già assaporavano l'amaro gusto della carestia. Il suo pellegrinaggio la portò a Eleusi, in Attica, sotto le spoglie di una vecchia, dove regnava il re Celeo con la sua sposa Metanira. Demetra fu accolta benevolmente nella loro casa e divenne la nutrice del figlio del re, Demofonte. Col tempo Demetra si affezionò al fanciullo che faceva crescere come un dio, nutrendolo, all'insaputa dei genitori, con la divina ambrosia, il nettare degli dei. Attraverso Demofonte la dea riusciva in questo modo a saziare il suo istinto materno, soffocando il dolore per la perduta figlia. Decise anche di donare a Demofonte l'immortalità e di renderlo pertanto simile a un dio ma, mentre era intenta a compiere i riti necessari, fu scoperta da Metanira, la madre di Demofonte. A quel punto Demetra, abbandonò le vesti di vecchia e si manifestò in tutta la sua divinità. Delusa dai mortali che non avevano gradito il dono che voleva fare a Demofonte, si rifugiò presso sulla sommità del monte Callicoro. Il dolore per la scomparsa della figlia, adesso che non c'era più Demofonte a distrarla, ricominciò a farsi sentire più forte che mai e a nulla valevano le suppliche dei mortali che nel frattempo venivano decimanti dalla carestia. Alla fine Zeus, costretto a cedere alle suppliche dei mortali e degli stessi dei, inviò Ermes, il messaggero degli dei, nell'oltretomba da Ade, per ordinargli di rendere Persefone alla madre. Ade, inaspettatamente, non recriminò alla decisione di Zeus ma anzi esortò Persefone a fare ritorno dalla madre. L'inganno era in agguato. Infatti Ade, prima che la sua dolce sposa salisse sul cocchio di Ermes, fece mangiare a Persefone un seme di melograno, compiendo in questo modo il prodigio che le avrebbe impedito di rimanere per sempre nel regno della luce. Grande fu la commozione di Demetra quando rivide la figlia e in quello stesso istante, la terrà ritornò fertile e il mondo riprese a godere dei suoi doni. Solo più tardi Demetra scoprì l'inganno teso da Ade: avendo Persefone mangiato il seme di melograno nel regno dei morti, era costretta a farvi ritorno, ogni anno, per un lungo periodo. Questo infatti era il volere di Zeus. Fu così allora che Demetra decretò che nei sei mesi che Persefone fosse stata nel regno dei morti, nel mondo sarebbe calato il freddo e la natura si sarebbe addormentata, dando origine all'autunno e all'inverno, mentre nei restanti sei mesi la terra sarebbe rifiorita, dando origine alla primavera e all'estate. GITA AL RIFUGIO TERZ’ALPE, CANZO Diario di bordo Dal centro di Canzo si raggiunge a piedi la località Fonte Gayum (circa Km 1,5, 20-30 minuti). Da qui partono due percorsi che si ricongiungono davanti alla Terz'Alpe: a sinistra La Via delle Alpi e a destra il Sentiero Geologico… Si decide di girare a destra, inizia il cammino… Ci avviamo su fondo acciottolato in leggerissima salita, con il bosco alla La via prosegue senza fine Lungi dall’uscio dal quale parte Ora la Via è fuggita avanti Devo inseguirla ad ogni costo Rincorrendola con piedi alati Sin all’incrocio con una più larga Dove si uniscono piste e sentieri E poi dove andrò? Nessuno lo sa (J.R.R. Tolkien) sinistra e una siepe alla destra. Il torrente ci accompagnerà per buona parte del cammino, a volte da un lato e a volte dall'altro; infatti saranno ben otto i ponti e ponticelli su cui passeremo. Accanto ad particolari durante le alcune rocce provenienti epoche da passate, e massi lontano alcuni pannelli ne spiegano le caratteristiche. Più avanti troviamo due case e poco dopo una stanga che chiude l’accesso ai veicoli. Sulla destra c'è un cartellone con una cartina della zona. Con un ponte attraversiamo il torrente e continuiamo nel bosco. Su un grosso masso vediamo il segnavia a bandierina con il n. 2. Ora il bosco è più fitto. La pendenza aumenta e poco più avanti un sentierino scende al torrente dove un cartello indica da quella parte il "Parco massi erratici". Dopo continui saliscendi, proseguiamo incontrando lungo il sentiero diverse panchine, come a voler dire quanto il bosco sia accogliente seppur fitto e silenzioso. Una fantastica piscina naturale ci sorprende con i suoi colori intensi di diverse tonalità di blu. Finalmente dopo più di un’ora di cammino risaliamo una serie di ripidi gradini di legno, e girando a sinistra. scorgiamo dei prati recintati, con due asinelli che pascolano e davanti a noi la Terz’Alpe ed i Corni di Canzo. Terz'Alpe è un’accogliente rifugio di proprietà dell’Azienda Regionale delle Foreste gestito da una famiglia. Il rifugio è circondato da prati e vegetazione boschiva, proprio ai piedi degli imponenti Corni di Canzo. Immerso in una tangibile atmosfera di magia, nel cuore del Triangolo Lariano, negli stessi luoghi permeati di energia "pulita" prediletti dalle antichissime popolazioni celtiche che vi stanziavano millenni or sono. Ci accomodiamo sulle panchine e tavoli di legno ed ognuno provvede a saziare la propria fame con quanto si è portato da casa come pranzo al sacco. Mentre mangiamo ad attirare la nostra attenzione è una simpatica capretta bianca! Riprendiamo il nostro cammino denominato la “Via degli spiriti”. decidendo di percorrere un sentiero Inutile dire il fascino ed il mistero di tale luogo costernato da strane statue scolpite nel legno, che richiamano le più antiche forme tribali unite a figure fantastiche dall’atmosfera alquanto fiabesca. Mistero, rito e fiaba si intrecciano in un bizzarro sentiero. La via degli spiriti ci porta direttamente presso Prim’Alpe, la vista si allarga dinnanzi ad una distesa verde, la struttura del rifugio ed un suggestivo cerchio di panchine di pietra dislocate interno ad un braciere. Ci sediamo tutti di fronte ad un ipotetico fuoco e mentre ci riposiamo, ci lasciamo trasportare dentro la storia di Demetra e Persefone. Concludiamo la nostra avventura ritornando verso Canzo per riprendere il treno che ci riporterà nelle nostre relative abitazioni. NARCISO La storia che andiamo a narrare è la più conosciuta della mitologia greca e sono tante le sue versioni. Noi prendiamo spunto da quanto ci narra Ovidio nelle Metamorfosi per narrare le vicende di questo giovane la cui bellezza, pari a quella di un dio, fu la causa della sua stessa rovina. Il fanciullo di cui parliamo si chiama Narciso ed era figlio della ninfa Liriope e del fiume Cefiso(1) che, innamorato della ninfa, la avvolse nelle sue onde e nelle sue correnti, possedendola. Da questa unione nacque un bambino di indescrivibile bellezza Giulio Carpioni, Liriope presenta Narciso a Tiresia (XVII secolo), Musée des Beaux Arts et d’Archéologie, Besancon (Francia) e grazia. La madre, poiché voleva conoscere il destino del proprio figlio, si recò dall’indovino Tiresia per sapere il suo futuro. Era questo il più grande fra tutti gli indovini che la sorte aveva reso cieco perché aveva osato porre i suoi occhi sulle nudità della dea guerriera Atena che, dopo averlo punito per la sua audacia rendendolo cieco, gli fece dono del vaticinio Tiresia dopo aver ascoltato le richieste di Liriope le disse che suo figlio avrebbe avuto una lunga vita se non avesse mai conosciuto se stesso. Liriope, che non comprese la profezia dell'indovino, andò via e con il passare degli anni dimenticò quanto gli era stato profetizzato. Gli anni passarono veloci e Narciso cresceva forte e di una bellezza tanto dolce e raffinata che tutte le persone che lo rimiravano, fossero esse uomini o donne, si innamoravano di lui anche se Narciso rifuggiva ogni attenzione amorosa. Si racconta della sua insensibilità e vanità tanto che un giorno regalò una spada ad Aminio, un suo acceso spasimante, perché si suicidasse e Aminio tanto era grande il suo amore per Narciso, si trafisse il cuore sulla soglia della sua casa. La sorte volle che la storia di Narciso si incrociasse con quella della ninfa Eco, incontro nefasto che fu la rovina di entrambi i giovani. Si narra che la sposa di Zeus, Era, la cui gelosia era nota a tutti gli dei e a tutti i mortali, era sempre alla ricerca dei tradimenti del marito e sfortuna volle che un giorno si rese conto che la compagnia e le continue chiacchiere della ninfa Eco, altro non erano che un modo per tenerla a bada e distrarla per favorire gli amori di Zeus dando il tempo alle sue concubine di mettersi in salvo. Grande fu la sua rabbia quando apprese la verità e la sua ira si manifestò in tutta la sua potenza: rese Eco destinata a ripetere per sempre solo le ultime parole dei discorsi che le si rivolgevano. Un giorno mentre Narciso era intento a vagare nei boschi e a tendere reti tra gli alberi per catturare i cervi, lo vide la bella Eco che, non potendo rivolgergli la parola, si limitò a rimirare la sua bellezza, estasiata da tanta grazia. Per diverso tempo lo seguì da lontano senza farsi scorgere e Narciso, intento a rincorrere i cervi, né si accorse di lei né si accorse che si era allontanato dai compagni e aveva smarrito il sentiero. Iniziò Narciso a chiamare a gran voce, chiedendo aiuto non sapendo dove andare. A quel punto Eco decise di mostrarsi a Narciso rispondendo al suo richiamo di aiuto e si presentò protendendo verso di lui le sue braccia offrendosi teneramente come un dono d'amore e con il cuore traboccante di teneri pensieri. John William Waterhouse, Eco e Narciso (1903), Walker Art Gallery, Liverpool (Inghilterra) Ma ancora una volta la reazione di Narciso fu spietata: alla vista di questa ninfa che si offriva a lui fuggì inorridito tanto che la povera Eco avvilita e vergognandosi, scappò via dolente. Si nascose nel folto del bosco e cominciò a vivere in solitudine con un solo pensiero nella mente: la sua passione per Narciso e questo pensiero era ogni giorno sempre più struggente che si dimenticò anche di vivere e il suo corpo deperì rapidamente fino a scomparire e a lasciare di lei solo la voce. Da allora la sua presenza si manifesta solo sotto forma di voce, la voce di Eco, che continua a ripetere le ultime parole che gli sono state rivolte. Jan Cossiers, Narciso alla fonte (1636-1638), olio su tela (97 x 93 cm) , Museo del Prado, Madrid (Spagna) Gli dei vollero allora punire Narcisco per la sua freddezza e insensibilità e mandarono Nemesi, dea della vendetta, che fece si che mentre si trovava presso una fonte e si chinava per bere un sorso d'acqua, nel vedere la sua immagine riflessa immediatamente il suo cuore iniziò a palpitare e a struggersi d'amore per quel volto così bello, tenero e sorridente. Racconta Ovidio (Metamorfosi III, 420 e segg.): "Contempla gli occhi che sembrano stelle, contempla le chiome degne di Bacco e di Apollo, e le guance levigate, le labbra scarlatte, il collo d'avorio, il candore del volto soffuso di rossore ... Oh quanti inutili baci diede alla fonte ingannatrice! ... Ignorava cosa fosse quel che vedeva, ma ardeva per quell'immagine Non consapevole che aveva di fronte se stesso, ammirava quell'immagine e mandava baci e tenere carezze e immergeva le braccia nell'acqua per sfiorare quel soave volto ma l'immagine scompariva non appena la toccava. Rimase a lungo Narciso presso la fonte cercando di afferrare quel riflesso senza accorgersi che i giorni scorrevano inesorabili, dimenticandosi di mangiare e di bere sostenuto solo dal pensiero che quel malefico sortilegio che faceva si che quell'immagine gli sfuggisse, sparisse per sempre(4). Alla fine morì Narciso, presso la fonte che gli aveva regalato l'amore anelando Caravaggio, Narciso, olio su tela (112 cm × 92 cm), Galleria Nazionale d'Arte Antica - Palazzo Barberini, Roma (Italia) un abbraccio dalla sua stessa immagine. Quando le Naiadi e le Driadi andarono a prendere il suo corpo per collocarlo sulla pira funebre si narra che al suo posto fu trovato uno splendido fiore bianco che da lui prese il nome di Narciso. Narra Ovidio (Metamorfosi III 420 e segg.): "Languì a lungo d'amore non toccando più cibo né bevanda. A poco a poco la passione lo consumò, e un giorno vicino alla fonte ... reclinò sull'erba la testa sfinita, e la morte chiuse i suoi occhi che furono folli d'amore per sé. ... Piansero le Driadi, ed Eco rispose alle grida dolenti. Già avevano preparato il rogo, le fiaccole, la bara, ma il suo corpo non c'era più: trovarono dove prima giaceva, un fiore dal cuore di croco recinto di candide foglie". Si racconta anche che Narciso, quando attraversò lo Stige per entrare nell’Oltretomba, si sia affacciato nelle acque del fiume, sempre sperando di vedersi riflesso. Ma non riuscì a scorgere nulla, dal momento che lo Stige era il fiume dei morti, e perciò torbido, fangoso, privo di qualsiasi riflesso. Ebbene, Narciso ne fu contento: “Vuol dire che solo io sono morto” mormorò “e che tu non sei morto ancora! Vivi sempre lassù, sul monte Elicona, in quella fonte di acqua limpida, nel bosco dei miei sogni!”. In qualunque modo sia morto Narciso è certo che questo mito è arrivato sino a giorni nostri. Pittori, musicisti, scrittori, psicologici, continuano a trarre ispirazione dalla storia di questo giovane. Era superbo? Era egocentrico? Era egoista? Era ingenuo? Era un’adolescente che attraverso il suo riflesso impara a conoscere sé stesso? Ognuno ne dia l'interpretazione che ritiene più consona… TITONE Titone era un giovane dalla straordinaria bellezza. Un giorno, Eos, la dea dell'Aurora, lo vide e si innamorò del suo volto. Così Eos rapì Titone e lo portò in Etiopia ma la dea non era felice, Titone, nonostante la rigogliosa bellezza, era comunque destinato a morire, mentre lei possedeva l'immortalità. Eos, allora, chiese aiuto a Zeus affinché esaudisse un suo desiderio: donare l'immortalità al suo amato. Zeus acconsentì ed esaudì il suo desiderio. La dolce Aurora, però, pensò solo in un secondo momento che non aveva avuto l'accortezza di tenere lontana la rovinosa vecchiaia. Titone, quindi, viveva, certo, ma invecchiava giorno dopo giorno, anno dopo anno. Il suo vigoroso corpo si rattrappiva, la sua voce soave si incupiva, il bel ragazzo si trasformava pian piano in un uomo maturo, in un anziano piacente, in un vecchio cadente, un moribondo senza speranza di pace. Ed in verità, fino a quando egli restò giovane, Eos godette il suo amore presso le correnti dell'Oceano, ma quando vide i primi solchi sulla pelle, scavati dal tempo, lo lasciò e lo rinchiuse in una cella sotterranea. Non ne poteva sopportare più la vista nè l'odore: il vecchio Titone, oltre ad essersi raggrinzito, emanava anche una terribile puzza di cadavere. La morte tanto temuta diveniva per lui una meta agognata e in eterno differita. Inutilmente cercò, infatti, di mettere fine ai suoi giorni, ma ovviamente non ci fu nulla da fare:si era procurato tutto il male possibile, ferito, morso da serpenti ed ustionato, ma la morte non lo porto via con se. Titone però, restava ancora un problema per Aurora che, infine, lo trasformò in una cicala, elogio vivente ad una vita breve e gaudente. ORFEO Orfeo, il più famoso poeta e musicista che la storia abbia mai avuto, che non aveva eguali tra uomini e dei era figlio di Apollo e della musa Calliope. Il Dio Apollo un giorno gli donò una lira e le muse gli insegnarono a usarla e divenne talmente abile che lo stesso Seneca narra: "Alla musica dolce di Orfeo, cessava il fragore del rapido torrente, e l'acqua fugace, obliosa di proseguire il cammino, perdeva il suo impeto ... Le selve inerti si movevano conducendo sugli alberi gli uccelli; o se qualcuno di questi volava, commuovendosi nell'ascoltare il dolce canto, perdeva le forze e cadeva ... Le Driadi, uscendo dalle loro querce, si affrettavano verso il cantore, e perfino le belve accorrevano dalle loro tane al melodioso canto (...)". Acquistò una tale padronanza dello strumento che aggiunse anche altre due corde portando a nove il loro numero per avere una melodia più soave. Come prima grande impresa Orfeo partecipò alla spedizioni degli Argonauti(1) e quando la nave Argo giunse in prossimità dell'isola delle Sirene, fu grazie a Orfeo e alla sua cetra che gli argonauti riuscirono a non cedere alle insidie nascoste nel canto delle sirene.(ma questo lo vedremo in seguito…) Ogni creature amava Orfeo ed era incantata dalla sua musica e dalla sua poesia ma Orfeo aveva occhi solo per una donna: Euridice, figlia di Nereo e di Doride che divenne sua sposa. Il destino però non aveva previsto per loro un amore duraturo infatti un giorno la bellezza di Euridice fece ardere il cuore di Aristeo che si innamorò di lei e cercò di sedurla. La fanciulla per sfuggire alle sue insistenze si mise a correre ma ebbe la sfortuna di calpestare un serpente nascosto nell'erba che la morsicò, provocandone la morte istantanea. Narra Pindemonte (Epistole: "A Giovani Pozzo"): "Tra l'alta erba non vide orrido serpe che del candido piè morte le impresse." Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la propria vita senza la sua sposa decise di scendere nell'Ade per cercare di strapparla dal regno dei morti. Convinse con la sua musica Caronte a traghettarlo sull'altra riva dello Stige; il cane Cerbero e i giudici dei morti a farlo passare e nonostante fosse circondato da anime dannate che tentavano in tutti i modi di ghermirlo, riuscì a giungere alla presenza di Ade e Persefone. Una volta giunto al loro cospetto, Orfeo iniziò a suonare e a cantare la sua disperazione e solitudine e le sue melodie erano così piene di dolore e di disperazione che gli stessi signori degli inferi si commossero; le Erinni piansero; la ruota di Issione si fermò e i perfidi avvoltoi che divoravano il fegato di Tizio non ebbero il coraggio di continuare nel loro macabro compito. Anche Tantalo dimenticò la sua sete e per la prima volta nell'oltretomba si conobbe la pietà come narra Ovidio nelle Metamorfosi (X, 41-63). Fu così che fu concesso a Orfeo di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione che durante il viaggio verso la terra la precedesse e non si voltasse a guardarla fino a quando non fossero giunti alla luce del sole Narra Ovidio nelle Metamorfosi (X, 41-63). "(...) Nè la regale sposa, nè colui che governa l'abisso opposero rifiuto all'infelice che li pregava e richiamarono Euridice. Costei che si trovava tra le ombre dei morti da poco tempo, si avanzò, camminando a passo lento per causa della ferita. Il tracio Orfeo la riebbe,a patto che non si voltasse indietro a guardarla prima di essere uscito dalla valle infernale (...)" Orfeo, presa così per mano la sua sposa iniziò il suo cammino verso la luce. Durante il viaggio, un sospetto cominciò a farsi strada nella sua mente pensando di condurre per mano un'ombra e non Euridice. Dimenticando così la promessa fatta si voltò a guardarla ma nello stesso istante in cui i suoi occhi si posarono sul suo volto Euridice svanì, e Orfeo assistette impotente alla sua morte per la seconda volta. GLI ARGONAUTI Gli Argonauti furono un gruppo di cinquantadue famosi eroi greci che, sotto la guida di Giasone, diedero vita ad una delle più note e affascinanti narrazioni della mitologia greca: l'avventuroso viaggio a bordo della nave Argo che li condusse nelle ostili terre della Colchide, alla conquista del Vello d'Oro. Giasone era figlio di Alcimeda e di Esone, re di Iolco. Ancora piccolo venne affidato al saggio centauro Chirone per fuggire dalle persecuzioni dello zio Pelia determinato a usurpare il trono al fratello. Divenuto adulto Giasone si recò dallo zio per rivendicare il trono che gli spettava di diritto, ma questo richiese in cambio il magico Vello d’Oro. Allora Giasone, ambizioso e determinato, radunò i più famosi eroi greci e partì alla conquista del magico manto. - L’isola di Lemno (…) Eracle rimane nella regione Misia (in Turchia) per salvare il suo amico Ila caduto in un lago (…) Sulle rive del Mar Mamara Gli Argonauti incontrano Amico (…) Dopo numerose avventure la spedizione riuscì a raggiungere la terra di Colchide. Re Eeta decise di condegnare il Vello d’Oro all'uomo unicamente se egli fosse riuscito a superare due impossibili prove: dapprima avrebbe dovuto aggiogare all'aratro due feroci tori dagli zoccoli di bronzo e dalle narici fiammeggianti e in seguito avrebbe dovuto tracciare quattro solchi nel terreno chiamato Campo di Marte e seminarci dei denti di drago. Medea, figlia di Eeta ed esperta conoscitrice delle arti magiche, aiutò Giasone, di cui si innamorò per opera di Afrodite, nel compimento delle fatiche. Nonostante il superamento delle prove Eeta si rifiutò di cedere il Vello, allora Giasone, senpre con l’aiuto di Medea, addormentò il drago messo a guardia del Vello e impadronitosene ripartì in direzione di Iolco. Pelia, incredulo, ci rifiutò di cedere il trono. Con uno stratagemma Giasone uccise lo zio e prese il posto che gli spettava di diritto. ARTE E BELLEZZA Perché si fa arte? Si fa arte per fare emergere le proprie emozioni. L’obbiettivo dell’arte è colpire una persona. (Tommy) Per fare passare qualche messaggio. (Alex) L’obbiettivo dell’arte è quello di esprimere bellezza. (Andrea F.) Qualsiasi cosa influenzi ed esprima il nostro stato d’animo, realizzando opere con dettagli tranquilli. (Andrea R.) Per comunicare qualcosa. (Bryan) Esprimere la propria idea. (Christian) Un artista compone le sue opere perché non gli bastano le parole per esprimere i suoi sentimenti. (Fabio) L’artista crea le sue opere per la sua passione. (Hui) L’artista viene spinto dalla sua immaginazione, dalla sua creatività e anche dalla sua esperienza ad effettuare delle opere. (Luca V.) Per togliere lo stress e per stupire le persone. (Anonimo) Comunicare al mondo emozioni,sentimenti,disagi. Io potrei essere un artista nella disciplina dell’arte marziale. (Kostian)