Intervento di N. Pisauri al convegno - IBC Emilia

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Nazzareno Pisauri
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Archivi e voci d’autorità
Metodologie ed esperienze a confronto
per i beni archivistici, librari e storico-artistici
Bologna, 3 ottobre 2000
Nazzareno Pisauri
Vi ringrazio per avere aderito a questo incontro che, almeno per quello che mi
riguarda, costituisce una tappa importante rispetto a cose che ci siamo detti anche
nel passato cercando di aprire un dialogo tra le nostre diverse tradizioni
professionali. Ma è una sorta di percorso nuovo quello che avviamo oggi ed è
importante che lo si avvii con questo tavolo di lavoro seminariale, di confronto sulle
cose. Nel passato è capitato spesso alla Soprintendenza per i beni librari e
documentari della Regione Emilia-Romagna di affrontare questi temi, però
l'abbiamo sempre fatto in termini poco organici o in maniera episodica. Anzi da quei
tentativi erano spesso venuti più malintesi che intese o consensi a una certa
impostazione del lavoro, perché questa è una materia fortemente dominata da
ragioni storiche e anche da certi groppi ideologici che tutti, ognuno per la sua parte,
ci portiamo dietro. Quando dico tutti, dico i bibliotecari, i museologi e gli archivisti
che costituiscono le tre squadre professionali in corsa per questo tipo di torneo, e
mi pare utile oggi ragionare del perché fino a qualche anno fa quando si ipotizzava
un tavolo, un incontro, una ricerca comune tra i tre settori ci si scontrava e si faceva
fatica a parlare e a tenere unito questo tavolo e perché invece oggi siamo giunti con
estrema semplicità ad affrontare questi nuovi percorsi.
Penso che convenga intanto ragionare di questo, altrimenti rischiamo di incappare
facilmente in qualche altra buca di quelle che cammini non facili come questo
trovano disseminate sul sentiero. A mio avviso pesava prima un retaggio storico
negativo su questa possibilità di dialogo, ed era un po' il portato di ciò che avevano
sedimentato la nostra cultura e i nostri processi di identificazione: io sono
archivista, io sono bibliotecario, io sono museologo o storico dell'arte. Questi
processi riposavano su vecchi statuti che per semplicità indicherei con tre
sostantivi: godimento, verità, informazione. Così lo storico dell'arte e il museologo
erano condizionati dal plot del godimento, l’archivista dall’incubo della verità, il
bibliotecario dal mito dell’informazione. L’impianto ottocentesco della visione
dell'arte era fondato non, come oggi si dice con una parola volgare, sul consumo,
ma da una parola traslata nobilmente dal primo significato pur assai fisico: il
godimento. Il godimento dell'arte comportava che il mediatore tra il pubblico e l'arte,
l'arte con la maiuscola, naturalmente, l'arte dell’ideologia tedesca, doveva solo
renderne possibile la contemplazione. Altro non si doveva fare che esporre
quest'arte, esporla in modo tale che il pubblico potesse appunto trarne godimento:
questo termine per altro figura ancora nella nostra legislazione che il recente Testo
unico sui beni culturali non ha in sostanza modificato.
Gli archivisti seguono una tradizione diversa, segnata anche da fatti strutturali per i
quali c'è voluto molto tempo prima che nel nostro paese potessimo considerare i
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beni archivistici come beni culturali a pieno titolo. A lungo i nostri archivisti sono
stati soggiogati da un altro ideogramma, quello della verità: il documento d'archivio
va studiato e certificato quale testimone dei processi istituzionali e dell’attività delle
magistrature. E dunque, corollario di questo è che l'archivista individua, prova e
attesta la veridicità, l'autenticità di questi documenti rispetto alla volontà di
magistrature, organismi di governo o comunque soggetti che sono intervenuti nella
vita sociale e pubblica. Il fatto che la giurisdizione degli archivi sia rimasta in capo al
dicastero di polizia fino al 1975, in Italia, legittima poi ogni sospetto sulla
imparzialità di quella verità che i nostri archivisti si sono trovati a dover tutelare fino
a qualche decennio fa. Per le biblioteche, infine, il processo è stato molto più lungo,
molto più intricato. Tralasciando i fasti del Rinascimento e dell’Illuminismo, diciamo
che dalla seconda parte del secolo ventesimo, per quello che ci riguarda, e dalla
seconda parte del secolo precedente, per quello che riguarda la tradizione
anglosassone, la parola d'ordine è stata informazione. Missione suprema del
bibliotecario è quella dell’accesso all’informazione, informazione gratuita da
garantire a tutti i cittadini. Ma oggi che l’informazione trascorre l’intero pianeta con il
sistema di comunicazione – mondo, anche il mestiere del bibliotecario è entrato in
crisi.
Nell’insieme siamo portatori dunque di tre visioni complessive della cultura e degli
strumenti della cultura che poco hanno in comune. A mio avviso è da qui che sono
sorte le difficoltà ad affrontare insieme negli anni passati le questioni metodologiche
più radicali e complessive, come oggi tentiamo invece di fare. Ora questo cambio di
atteggiamento evidentemente può avvenire non per un qualche avvicinamento tra
le diverse discipline storiche che si incrociano nel nostro lavoro quotidiano:
archivistica, museologia e biblioteconomia restano ben distinte nei nostri
ordinamenti accademici. Piuttosto il superamento di questi steccati può forse
avverarsi perché sono successi dei grandi fatti al di fuori delle nostre volontà e
capacità di incidere e ormai bibliotecari, o archivisti, o museologi e storici dell’arte
che crediamo ancora di essere, tutti siamo costretti a prendere atto del fatto che il
secolo che si è appena chiuso ha modificato radicalmente valore e significato
primario dei beni culturali su cui esercitiamo i nostri rispettivi mestieri. E’ avvenuto
che tutti questi oggetti, che ancora ci paiono così diversi, sono stati astretti ad un
comune denominatore, che prima era ben lontano dall’essere percepito da noi
stessi, poiché sono stati ormai triturati ai mulini della semiologia, dell’antropologia
culturale e della scienza delle comunicazioni. Così, nonché i libri e i giornali, anche
le bolle pontificie, Monna Lisa, la Venere di Milo, il torchio di Plinio, le terramare e i
cetacei fossili sono oggi indagati principalmente come supporti di informazioni
ulteriori rispetto a quelle rilevate dalle rispettive discipline tradizionali. Questa novità
era già emersa anche in maniera episodica, con lavori eccezionalmente importanti:
la storia del costume, la storia delle società, la storia delle religioni e delle pratiche
di culto e altre storie ancora, si sono talvolta avvantaggiate, ad esempio, dallo
studio analitico dell’arte figurativa del passato. Ma ormai pare proprio che la
principale funzione d’uso di quel patrimonio che prima veniva individuata nel
godimento dell’arte, rapporto con l’arte come manifestazione estetica, nel momento
in cui incomincia a prevalere la sfera della comunicazione-mondo, tenda a
coincidere in maniera sempre più univoca con l'essenza informativa di tutti gli altri
prodotti del lavoro e della cultura umana.
Sapevamo che tutto il pensiero, tutta l’attività e tutte le relazioni umane sono fatti
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culturali, come ci insegna l’antropologia, e altrettanto convincente è la teoria dei
segni da ogni oggetto promanati della semiologia, ma ciò che oggi viene
trasmutando queste affermazioni ontologiche in regole operative e
comportamentali, è la nuova tecnologia della comunicazione che determina ormai
inclusioni ed esclusioni, economia e valori: "Chi non c’è non è", suona il suo slogan
vincente. Ed è così. Nessun fatto, nessuna idea, nessuna persona potrà più
incidere sullo stato di cose presenti, sul senso comune e sulla stessa conoscenza
del mondo, se non accedendo ai tramiti della comunicazione-mondo.
Di fronte a tutto questo, come possiamo pensare, noi che da diversi versanti
cerchiamo di mediare e trasmettere la cultura dei secoli, di poter continuare a farlo
senza mettere in discussione strumenti, metodi e prassi dei nostri vecchi mestieri?
E’ noto, d’altra parte, che i più potenti motori messi a punto per le ricerche su
Internet sono stati prodotti con il concorso di migliaia di operatori di esperienza
analoga alla nostra: bibliotecari, archivisti, documentalisti, iconologi, compilatori di
thesauri e dizionari tematici.
Da questo punto di vista vien fatto d’osservare che è proprio la inevitabile babele di
Internet che finisce per convocare con ragioni nuove e sempre più cruciali proprio le
nostre professionalità. Ma è probabile che se non sapremo adeguarle a questa
nuova situazione il destino degli archivi, delle biblioteche e dei musei che
laboriosamente cerchiamo di conservare e promuovere, e lo stesso nostro destino
di operatori culturali d’antan, rischiano la delegittimazione e l’emarginazione.
Non è chi non veda, d’altra parte, come già in questi anni il nostro patrimonio
culturale sia considerato sempre meno come oggetto di studio e conoscenza e
sempre più sia convocato per usi strumentali e funzioni improprie. Letteratura, arte
e musica sono saccheggiate dalla pubblicità, i documenti d’archivio prede della
polemica politica, i reperti archeologici conferiti alla cultura new age. A tutto questo
noi non possiamo opporre che la nostra deontologia tradizionale, conservando
l’insieme del patrimonio culturale che abbiamo in consegna e rendendolo noto
attraverso i nuovi tramiti tecnologici. Ma questo comporta l’adozione di formati
descrittivi univoci, almeno per quanto riguarda le notizie anagrafiche di singoli
oggetti e serie. Ciò non vuol dire rinunciare alle specifiche modalità di connotazione
e contestualizzazione di tali oggetti, che sono e conviene restino diverse a seconda
della categoria cui appartengono. Ma tutti gli apparati che potremmo apporre a
ciascuno dei nostri quadri, dei nostri codici o dei nostri registri finirebbero per
restare lettera morta se non avremo predisposto intestazioni e parole-chiave capaci
di rendere reperibili nella rete i nostri tesori.
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