La crisi della politica e le porte del caos

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La crisi della politica e le porte del caos
La crisi della politica e le porte del caosdi Federico Nicolaci del 08/05/2017
L’epoca che permea l’attuale società ha da tempo smarrito il significato di un termine
lungamente sviscerato: quello della politica. Se attuiamo un’attenta analisi, possiamo iniziare
con l’affermare che “Respolitica” è il calco latino del greco “ta politikà”, che letteralmente
significa “le cose che attengono alla polis (città)”. La politica è essenzialmente l’ambito in cui
ne va del governo della città.
Ma come ci insegnano i padri della politica occidentale – i greci, naturalmente -, governare la
polis è la tecnica più alta, più difficile e più delicata in cui possa declinarsi il fare dell’uomo –
quella in cui molto si decide del suo destino: la prosperità o la miseria, la cultura o
l’ignoranza, la libertà o la schiavitù, la felicità o l’infelicità di popoli interi o, più precisamente,
di quelle comunità di uomini che, variamente organizzate nel corso dei secoli, corrispondono
oggi alle nazioni, più o meno unite, del mondo.
La politica è così la suprema delle arti. Essa definisce infatti il perimetro, l’orizzonte e il
contesto immediato in cui si dispiega e si svolge il vivere degli uomini.
Per questo è stata definita, sempre dagli antichi, come “arte regia”: chi governa è colui che
guida per l’alto mare aperto della storia quel vascello che è la Città, la comunità, lo Stato.
Immensa è la responsabilità del compito, e grande dovrebbe essere la saggezza del
nocchiere: a differenza di quanto avviene nelle altre arti, infatti, colui al quale la tecnica
politica si rivolge e risponde non è soltanto il singolo individuo, ma la comunità, presente e
futura, in quanto tale.
Questa consapevolezza, che ci riporta alla vertigine della politica in grande stile, è tuttavia
proprio ciò che sembra essere venuto progressivamente a mancare all’azione e alla
riflessione politica negli ultimi decenni.
Si è smarrita o dimenticata la res – la “cosa” e insieme la “causa” (die Sache, per dirla con
Weber) – che dovrebbe animare l’agire di chi si dedica alle “questioni politiche”. Si è perso di
vista il senso più intimo del governare come ambito delle decisioni che riguardano il bene
degli uomini che abitano lo spazio della polis.
Soprattutto, la politica stessa sembra aver rinunciato, in un folle gesto di auto-rinuncia, alla
convinzione di poter e dover mantenere il comando della Nave, affidando ad altri – spesso
espressione d’interessi particolari ed estemporanei – il compito di determinare la Rotta.
L’azione politica ha così perso unitarietà e coerenza, oltre che lucidità e lungimiranza,
disarticolandosi e disperdendosi in miriadi di unità decisionali acefale e autoreferenziali,
ognuna delle quali invoca – di volta in volta – l’assolutezza e la necessità del proprio punto di
vista particolare (idiotès) spacciandolo per universale, spesso avendo i mezzi e le risorse per
farlo con successo.
La storia degli ultimi trent’anni è tutta racchiusa in questa evaporazione della politica. Il
risultato
è
stato
catastrofico:
un’azione
politica
senza
strategia
né
memoria,
un’interpretazione settoriale degli eventi, una miopia tecnicistica diventata suprema forma di
saggezza, la rimozione e la dimenticanza del senso supremo dell’azione politica – il
benessere della collettività – hanno riaperto le porte della Città alla figure inquietanti del
disordine, della miseria e del conflitto. Eppure non siamo reduci dalle distruzioni di alcuna
guerra (almeno in questa parte del mondo), né di qualche cataclisma naturale. Il presente
che viviamo e che attraversiamo è l’immagine più impietosa del fallimento della politica degli
ultimi trent’anni.
Da questa palude possiamo e dobbiamo uscire con uno sforzo collettivo. L’idea da cui nasce
questa iniziativa editoriale, ad opera di un gruppo di trentenni, è quella di contribuire al
faticoso quanto indispensabile compito di recuperare un’interpretazione coerente degli eventi
e una visione più profonda della decisione politica.
Per questo abbiamo voluto chiamare questo spazio di analisi e riflessione Respolitica. La
politica, infatti, non è solo la “cosa pubblica” (res publica), come forse in modo troppo
semplicistico si suole ricordare, ma anche ed essenzialmente l’arte di (saper) condurre, che
poi è l’etimo del greco kubernao, da cui l’italiano governo, l’inglese govern, il francese
gouvernement…
Per sapere in quale direzione è meglio dirigere la Nave, occorre tuttavia capire dove siamo e
come ci siamo arrivati, anche a costo di mettere radicalmente in discussione le nostre
certezze e le nostre “idee politiche”: ovvero quei dogmi consolidati e quelle verità di comodo
con cui abbiamo convissuto per anni senza troppo attardarci sul problema della loro effettiva
consistenza.
Ecco perché a nostro avviso è assolutamente necessario recuperare una “prospettiva
politica” su tutte le grandi questioni del nostro presente: dalla crisi dell’euro ai fenomeni
migratori; dal futuro dell’integrazione europea alla definizione delle direttrici fondamentali
della politica estera; dalle questioni monetarie ai problemi connessi ai processi di
globalizzazione e di mobilità dei fattori produttivi.
Una prospettiva, questa, che sappia rimettere al centro dell’azione politica il benessere della
comunità, e non parametri tecno-metafisici imposti da incomprensibili “vincoli esterni” in
nome di altrettanti vuoti e, come la storia recente si è purtroppo incaricata di dimostrare,
fallimentari dogmi politici, forzosamente applicati anche a costo di sacrificare interi popoli
sull’altare di una presunta “necessità storica”. Per riformare la politica occorre, prima di
tutto, ripensare a fondo il senso dell’azione politica – e si tratta di un esercizio che non può
essere più rimandato, se non aggravando le già spaventose contraddizioni e difficoltà.
Questa intenzione definisce la linea editoriale di Respolitica: una linea che, è bene precisarlo,
non si accoda ad alcun partito né corrente politica, anche se naturalmente rivendica una
visione politica, precisa e coerente: una prospettiva che, in ultima istanza, trova nel tanto
vituperato – e altrettanto frainteso – concetto di interesse nazionale il fuoco prospettico delle
sue analisi e dei suoi contributi.
“Perché interesse nazionale?”, si chiederà interdetto e forse infastidito più di un lettore.
Perché interesse nazionale non è sinonimo di quel “sano egoismo” invocato nel 1915 da
Salandra – una forma di opportunismo politico e dilettantistica improvvisazione che tanti
danni ha arrecato alla credibilità della nostra azione diplomatica e all’immagine stessa
dell’Italia -, quanto piuttosto la traduzione moderna di un concetto vecchio quanto la politica:
l’idea, cioè, che governare sia lo sforzo che una comunità di uomini compie (in modo
possibilmente collettivo e democratico) per giungere a deliberare nel modo più corretto
intorno a ciò che è meglio per il benessere della comunità stessa, tenendo presente il
contesto concreto delle relazioni storiche con le altre comunità politiche e il bene
fondamentale del sistema internazionale.
Questo fa il “politico”. Tutto il resto, ancorché chiamato in senso lato politica, è catastrofica
ignoranza o bieco interesse particolare, che come tale cade fuori dall’ambito del governare
nel senso più alto del termine. Certo, per i sacerdoti del “liberalismo” – il piccone ideologico
con cui è stato screditato pezzo dopo pezzo il concetto stesso di politica – ogni platea è
buona per inneggiare alla “de-politicizzazione” come panacea di tutti i mali, accusando di
“nazionalismo” (quando non di fascismo) chiunque osi timidamente ricordare che la politica è
per definizione quella praxis in virtù della quale una comunità di uomini ha cura del proprio
destino. È vero, l’eccesso di politica, la totale politicizzazione, soffoca le società e le conduce
nel baratro del totalitarismo: questo è fuori causa. Ma è sorprendente come gli apologeti del
tramonto della politica omettano di aggiungere, probabilmente per ignoranza, quello che i
filosofi occidentali vanno spiegando da almeno due millenni, ovvero che senza politica e
autentico governo dei fenomeni non c’è libertà, ma solo anarchia, caos e miseria.
Note:
_Su gentile concessione del giornale culturale “Respolitica”.
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