i poteri dell`amministrazione finanziaria di

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI
SASSARI
FACOLTA’ DI ECONOMIA
TESI DI LAUREA IN DIRITTO TRIBUTARIO
I POTERI DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA DI SINDACARE IL
MERITO DELLE SCELTE IMPRENDITORIALI NELLE IMPOSTE
DIRETTE
Relatore:
Chiar.mo Prof. Valerio Ficari
Candidato
Emanuele Dacrema
Matr. 20/000117
ANNO ACCADEMICO 2001/2002
I
POTERI
DELL’AMMINISTRAZIONE
FINANZIARIA
DI
SINDACARE IL MERITO DELLE SCELTE IMPRENDITORIALI
NELLE IMPOSTE DIRETTE
Sommario......................................................................................................................I
Introduzione ..........................................................................................................….V
PARTE PRIMA
CAPITOLO I
L’ELUSIONE FISCALE :
CONCETTI GENERALI
§1) Premessa ...............................................................................................................1
§2) L’elusione fiscale nella dottrina e nella giurisprudenza italiana. .....…….......3
§3) L’elusione fiscale in altri ordinamenti. Cenni .…......................……................8
§4) L’elusione fiscale tra evasione e legittimo risparmio d’imposta. ...................10
CAPITOLO II
LE ORIGINI DELL’ELUSIONE
§1) Premessa .............................................................................................................20
§2) La pressione fiscale come indicatore della convenienza alla elusione (ed
all’evasione) delle imposte .................................................................................21
§3) La struttura dell’ordinamento tributario italiano...........................................25
§4) Fisco e contribuenti: un rapporto difficile ................................................…...36
§5) Conclusioni..........................................................................................................39
PARTE
SECONDA
CAPITOLO I
CONTRASTARE L’ELUSIONE FISCALE
§1) Una precisazione di metodo ..............................................................................44
§2) Gli strumenti di contrasto del fenomeno elusivo.
Premessa........................................................................................................45
§3) Le reazioni del legislatore alle pratiche elusive.
La correzione delle imperfezioni normative ...........................…….................46
I
§4) L’interpretazione in funzione antielusiva.
Premessa........................................................................................................48
§4.1) L’interpretazione della norma tributaria
Generalità............................................................................................48
§4.2) L’interpretazione e l’elusione: l’interpretazione funzionale,
l’integrazione e l’analogia .................................................................55
§5) L’evoluzione della normativa antielusione in Italia. Dal dibattito
sull’introduzione di una norma antielusiva generale all’articolo 37-bis del
DPR 600/73 ……………………….....................................................................66
§6) Le norme antielusione analitiche.
Il transfer pricing. Generalità e rinvio ..........................…................................78
§7) Le norme antielusive “settoriali”.
Premessa..............................................................................................................87
§7.1) L’art. 10 della L. 29/12/1990, n° 408 ................…….........................88
§7.2) L’articolo 37-bis del DPR 600/73 ....................…..............................92
§7.3) Generalità dell’art. 37-bis DPR 600/73 e rapporti con l’art. 10 l.
408/90 ...................…………………………………………………...95
1) Il “disegno” elusivo: cenni e rinvio ................…..............105
2)
Il
requisito
dell’assenza
di
valide
ragioni
economiche:cenni e rinvio …………………………………….........108
§8) Le reazioni dell’Amministrazione finanziaria alle pratiche elusive
Premessa............................................................................................................114
§9) Il contrasto all’elusione da parte dell’Amministrazione finanziaria prima
della correzione delle imperfezioni normative
Premessa.........................................…...............................................................115
§10) L’articolo 37, III° comma del DPR 600/73, l’interposizione fittizia, uso (ed
abuso) come strumento antielusivo. Il caso del dividend washing ...............116
Conclusioni.....................................................................................135
§11) segue, il transfer pricing. L’operato dell’Amministrazione finanziaria di
fronte a fattispecie di Transfer pricing cosiddetto ‘interno’.
Premessa............................................................................................................137
§11.1) Gli strumenti di contrasto utilizzati dall’Amministrazione
finanziaria.………………………………………….....................138
§11.2) Il difetto del requisito dell’inerenza ...................................…......143
1) A proposito di inerenza: le cosiddette spese di regia.
Un caso esaminato dalla Cassazione .......................144
II
§11.3) Le soluzioni proposte dalla circolare 53 del 26/02/1999 per
contrastare il transfer pricing interno ...............….........................151
1) L’art. 39, I°comma, lett. d) del DPR 600/73 ...........151
2) L’art. 37, III° comma DPR 600/73 ..........................154
§11.4) Qualificazione dell’operazione come negozio misto di vendita e
donazione (o assegnazione ai soci) ...…..............…........................155
§11.5) Conclusioni .....................................................................................161
CAPITOLO II
AUTONOMIA
NEGOZIALE
DELLE
PARTI,
POTERI
DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA DI PORVI DELLE
LIMITAZIONI ATTRAVERSO LA QUALIFICAZIONE DEI NEGOZI
GIURIDICI AI FINI TRIBUTARI E DI SINDACARE SULLA
ECONOMICITÀ DI TALUNE SCELTE IMPRENDITORIALI
§1) La qualificazione dei negozi giuridici ai fini fiscali.
Premessa............................................................................................................165
§2) Autonomia privata e libertà di iniziativa economica.
Generalità..........................................................................................................167
§3) L’ampiezza dei criteri civilistici di interpretazione dei negozi giuridici tra
privati e la loro limitata applicabilità ai fini tributari.
Premessa ...........................................................................................................171
§3.1) Rapporti tra qualificazione ‘civilistica’ e fiscale delle attività dei
privati................................................................................................171
§3.2) Qualificazione e riqualificazione negoziale: differenze concettuali e
relativi poteri dell’Amministrazione finanziaria ..........................174
§3.3) L’interpretazione del contratto nel diritto civile.
Diversità delle finalità e dell’ambito all’interno del quale si muove
l’analoga attività in sede tributaria e limiti alla qualificazione
negoziale ...........................................…………………………........179
§3.4) Il collegamento negoziale come strumento elusivo e i poteri
interpretativi del Fisco come mezzo per contrastarlo ..................183
§4) La qualificazione “amministrativa” del presupposto: aspetti critici di un
potere limitativo dell’autonomia negoziale delle parti.
Il caso del lease-back .....................................……….......................................190
§5) Il (presunto) potere dell’Amministrazione finanziaria di giudicare
l’economicità delle scelte imprenditoriali.
Premessa............................................................................................................204
III
§6) segue, il concetto di inerenza. La sua dimensione qualitativa. ...........…......207
1) Ancora sull’inerenza: la deducibilità delle sanzioni e
più in generale dei costi connessi ad attività illecite .213
§7) segue, il difetto di inerenza. La sua eventuale dimensione quantitativa:
pareri contrastanti in dottrina e giurisprudenza circa la sindacabilità della
congruità di alcune spese e sulla legittimità del ricorso allo strumento
dell’accertamento induttivo di fronte ad un comportamento ‘antieconomico’
del contribuente.
Il caso dei compensi agli amministratori........................…............................221
1) I pareri (contrastanti) della giurisprudenza ….……223
2) Il caso dei compensi agli amministratori …………..227
3) Antieconomicità e accertamento induttivo …………233
Conclusioni ………………………………………………………….…246
BIBLIOGRAFIA ……………………………………………………...254
IV
INTRODUZIONE
Quando ho iniziato a frequentare il corso di Diritto tributario,
ho avuto l’immediata percezione che la mia esperienza professionale
maturata nell’Amministrazione finanziaria, con mansioni di
accertatore e verificatore, fosse più carente di quanto potessi pensare
dal punto di vista prettamente giuridico. In altre parole, mi sembrava
quasi che esistessero due tipi diversi di ordinamenti tributari, dei
quali, quello vigente per gli uffici fiscali, differente rispetto a quello
che mi si stava chiarendo a seguito delle lezioni e delle ulteriori
letture di dottrina e giurisprudenza su specifici argomenti.
È stata questa la principale motivazione che mi ha spinto alla
scelta della materia e dell’argomento trattato nel presente lavoro.
Chiaramente intendevo approfondire la fase dell’accertamento, e
l’elusione tributaria mi è immediatamente parsa la più interessante,
dopodiché la scelta di studiare i poteri dell’Amministrazione
finanziaria per contrastarla mi è parsa consequenziale.
Il passo successivo è stato quello di restringere ulteriormente
il campo di indagine, ancora troppo vasto. Si è optato per l’esame
delle strumentalizzazioni attuabili grazie alle particolari libertà di cui
gode il privato, allorché, nell’ambito della propria attività di
impresa, valuti le diverse modalità di concreto esercizio della stessa.
In altri termini, si è scelto di esaminare, all’interno di un argomento
generale dai limiti già di per sé sfumati, una sua specifica forma i cui
confini tra liceità ed illiceità sono ancora più evanescenti, a motivo
della presenza di principi giuridici a tutela della libertà di impresa
che rendono arduo il tentativo di accertare con certezza la natura
elusiva o meno del comportamento prescelto. La tutela che
l’ordinamento offre alla libera scelta degli strumenti giuridici
V
utilizzabili per la disposizione dei propri diritti ed affari, implica
necessariamente l’esclusione che il potere amministrativo possa
porvi delle restrizioni, se queste non sono disposte da apposite
norme di legge (art. 41 Cost.). La circostanza ulteriore della
presenza, nel campo dell’imposizione, del principio costituzionale
della riserva di legge (art. 23 Cost.), che come vedremo comporta
l’impossibilità
di
sottoporre
a
tassazione
fattispecie
non
esplicitamente previste, ancorché espressive di altro principio
costituzionale che al contrario ne sancirebbe l’imponibilità, e cioè la
capacità contributiva (art. 53 Cost.), pone degli ostacoli spesso
insormontabili dall’organo amministrativo chiamato al controllo
dell’esatto adempimento dei doveri di contribuzione alle pubbliche
spese.
Si viene così a creare una sorta di equilibrio assolutamente
instabile, venendo in contatto diritti e doveri, principi e prerogative
di difficile definizione ed i cui confini talvolta si sovrappongono.
Fino a quale punto la libertà di iniziativa economica e l’autonomia
negoziale sono legittimamente invocabili dal contribuente e,
specularmente, fino a quale punto il dovere di contribuire alle spese
statali in ragione della propria capacità contributiva, ed il
perseguimento di quegli obiettivi sanciti dalla Costituzione ai quali il
primo
è
strumentale,
giustificano
la
possibilità
che
l’Amministrazione finanziaria superi tali barriere?
La dottrina si è spesso interrogata sulla possibilità di far
prevalere, nell’imposizione di una fattispecie, la sostanza sulla
forma, interpretando il o i negozi giuridici in ragione del risultato
economico da essi effettivamente conseguito, subendo le censure di
coloro che, in tale comportamento, vedevano la lesione della riserva
di legge immanente in materia di prestazioni imposte. Si riteneva
VI
insomma che spettasse al legislatore il compito di predisporre
appositi strumenti di contrasto nei confronti di fattispecie elusive
positivamente individuate. La prevalenza di tale impostazione, ha
contribuito ad inibire altresì la introduzione di una norma antielusiva
generale, che fra l’altro sarebbe stato necessario corredare di una
discrezionalità amministrativa ritenuta inaccettabile in campo
tributario.
Quindi, in seguito ad una breve disamina riassuntiva delle più
autorevoli posizioni sulla definizione generale del fenomeno e dopo
aver affrontato, in modo assolutamente generale, alcune disposizioni
antielusive
specificamente
predisposte
dal
legislatore
successivamente all’affermarsi di alcune vistose pratiche elusive,
l’attenzione
sarà
indirizzata
inizialmente
verso
i
tentativi
dell’Amministrazione finanziaria di contrastare tali comportamenti
prima dell’intervento legislativo, per poi definitivamente incentrarsi
sulle elusioni attuate attraverso l’abuso degli strumenti negoziali e
del principio della rilevanza, pressoché assoluta, dei corrispettivi
pattuiti, per analizzare i poteri dei quali il Fisco può legittimamente
disporre per contrastarli, allorché si trovi al di fuori del campo di
operatività di quelle norme antielusive precedentemente citate.
Ci si interrogherà sui possibili esiti dello scontro fra
considerazioni di fatto, basate sulla logica ed il buon senso, e
relative disposizioni legislative che ne inibiscono la prevalenza in
funzione impositiva, si darà conto di come gli uffici abbiano talvolta
tentato di contrastare evidenti abusi, avvalendosi spesso però in
modo maldestro di strumenti predisposti per altri fini, e di quali si
ritiene al contrario possano essere legittimamente utilizzabili,
chiarendo che l’autonomia negoziale e la insindacabilità delle scelte
imprenditoriali, non possono essere intese in un senso talmente
VII
assoluto e tassativo da inibire completamente l’azione degli organi
deputati alla tutela delle ragioni erariali, ma occorrendo altresì che i
poteri discrezionali dell’Amministrazione finanziaria, non vadano
oltre, sconfinando in un ‘giustizialismo’ altrettanto inaccettabile,
preferendosi cioè, alla possibile perdita di certezza del diritto,
l’accettazione di elementi di iniquità nella distribuzione del carico
tributario tra i consociati.
A conclusione di questa introduzione, mi pare assolutamente
conferente agli obiettivi della presente ricerca, citare le testuali
splendide parole di Luigi Einaudi, tratte dal suo “ Miti e paradossi
della giustizia tributaria1”:
“Accanto ai cercatori della giustizia, fondata su principii
razionali, della giustizia applicabile con formule sicure, vi sono,
ugualmente importuni, i cercatori della verità. La lotta tributaria è
descritta come una lotta della verità contro la bugia, della
schiettezza contro la frode. Ed è lotta santa, se condotta da uomini
di buon senso, invidiosa e distruttrice se guidata da fanatici persuasi
di possedere la chiave della verità assoluta.”.
1
Edito da Einaudi, Torino, 1959, pagina 172.
VIII
CAPITOLO I
L’ELUSIONE FISCALE:
CONCETTI GENERALI
§1) Premessa
Cercare di dare una definizione dell’elusione fiscale non è un
compito agevole ed essa non potrebbe neppure essere esaustiva, a
causa delle diverse angolazioni e prospettive di osservazione
possibili. In effetti molte delle definizioni proposte hanno come
denominatore comune il fatto di nascere dallo studio di concrete
fattispecie sulle quali si discute della natura elusiva o meno, per poi
giungere in maniera indiretta ad una definizione generale che risente
così necessariamente della propria origine1.
Il concetto di elusione fiscale, più che nel sistema di diritto
positivo, sembra affondare le proprie radici in campo etico-sociale, e
più precisamente nell’ambito del naturale conflitto di interessi (e di
posizioni giuridiche) esistente tra contribuente (libertà di iniziativa
economica e contrattuale) e fisco (finalità di assicurare il massimo
gettito fiscale possibile), e della connessa esigenza erariale di
contare su risorse certe nell’ammontare, contro l’esigenza dei
contribuenti di poter conoscere con esattezza l’entità del sacrificio
economico che si richiede loro.
Molte delle definizioni elaborate, hanno studiato il fenomeno
evidenziandone similitudini e differenze rispetto a concetti e principi
1
Non solo, talvolta un tale ragionamento deduttivo non porta ad un risultato corretto a
causa della struttura della legislazione tributaria, orientata verso la elencazione delle
fattispecie imponibili.
1
per lo più di derivazione tipicamente civilistica, cercando in questo
modo di ricondurlo ad essi per poter così utilizzare i rimedi già
approntati dall’ordinamento (simulazione e nullità del negozio in
frode alla legge su tutti).
Infine, sebbene una definizione legislativa del fenomeno non
sia mai stata data, si può arrivare, con ragionamento “a contrario”, a
desumere i caratteri del comportamento elusivo, come inteso dal
legislatore, partendo dalla disposizione antielusiva di cui all’art. 37
bis del DPR 600/73.
Dalla lettura del 1° comma è possibile infatti enucleare gli
elementi fondamentali dell’elusione :
1. l’assenza di valide ragioni economiche ( intesa nel
senso
di una apprezzabilità economico-gestionale,
come
esplicitamente
enunciato
nella
relazione
ministeriale al D. Lgs. 358/97 );
2. l’intento di aggirare un obbligo o un divieto
dell’ordinamento ( superando in tal modo il precedente
concetto di fraudolenza2, che tanti problemi di natura
interpretativa ed applicativa aveva causato );
3. lo scopo di ottenere un’indebita riduzione del carico
tributario.
2
Art. 10 L. 408/90.
2
§2) L’elusione
fiscale
nella
dottrina
e
nella
giurisprudenza italiana.
Il fenomeno dell’elusione non è recente, né rappresenta una
prerogativa dell’ordinamento tributario, rinvenendosi anche in altri
settori dell’ordinamento.
L’elusione fiscale “...è un fenomeno antico, verosimilmente
coevo alle forme di prelievo più primitive, ...(le cui radici affondano)
... in ideali di giustizia e di uguaglianza anche non del tutto trascritti
nelle leggi dello Stato. (Per tale via, l’elusione fiscale si
identificherebbe) ... con vere e proprie aree di privilegi riservate a
talune classi economico-sociali, rappresentate, queste ultime dai
titolari di redditi di impresa, di lavoro autonomo, di capitale, di
terreni e fabbricati3.
Dalla presenza di tali aree di privilegi, deriverebbero non
pochi effetti negativi a carico di certe categorie di contribuenti, per
così dire “taglieggiate” , tra le quali possono annoverarsi per
esempio, i titolari di redditi di lavoro dipendente, di piccoli
patrimoni, di pensione”.
L’elusione in campo tributario per lungo tempo non è stata
considerata un problema rilevante4 dal legislatore, almeno fino a
quando, a partire dagli anni ’70, hanno cominciato ad essere evidenti
le conseguenze ad essa connesse, non solo e non tanto per la perdita
di gettito, ma soprattutto per l’effetto distorsivo sulla allocazione
delle risorse e sull’efficacia delle politiche fiscali. Nella
3
Tabellini : L’elusione fiscale, Giuffrè, 1988.
4
Questa è l’impressione che l’atteggiamento del legislatore ha dato per lungo tempo. Lo
studio dei modi per contenerla è divenuto, anche in chiave politica, di estrema attualità e
concretezza a partire dalla seconda metà degli anni 80.
3
distribuzione del carico tributario, i proclami costituzionali
dell’uguaglianza, della solidarietà e della capacità contributiva,
diventano lettera morta, e in un sistema che sembra premiare i furbi
non può certamente nascere e prendere corpo quella educazione
civica e morale, che al di là degli obblighi e delle enunciazioni di
principio, garantiscono lo spontaneo ed esatto assolvimento dei
tributi, avvertito come un dovere al quale non è moralmente
accettato sottrarsi, e che costituisce a mio avviso il primo e più
importante strumento di contrasto non solo dell’elusione, ma anche
dell’evasione delle imposte.
Il vivace dibattito dottrinale5, ha portato a diversi risultati in
termini di definizione del fenomeno, cause e strumenti di contrasto,
ma c’è una conclusione univoca cui è giunta la dottrina pressoché
unanime, e cioè che l’elusione, ancorché deprecabile e da cercare di
contrastarsi attraverso l’interpretazione, è perfettamente lecita
almeno fino a quando non viene introdotta nell’ordinamento una
norma specificamente antielusiva6.
5
Il fenomeno è sempre stato, infatti, all’attenzione della dottrina, vds. Arena, Elusione
dell’imposta e perequazione tributaria, in “Riv. della G. di F.” 1954; Antonini,
Equivalenza di fattispecie tributaria ed elusione di imposta, in “Dir. e prat. Trib.”
1966; Morello, Frode alla legge Milano 1969; Gonzales Garcia, La cosiddetta evasione
fiscale legittima, in “Riv. di dir. Fin. e sc. delle fin. 1974; Lovisolo, Evasione ed
elusione tributaria nei rapporti internazionali, in “Dir. e prat. Trib. 1985; Tremonti,
Autonomia contrattuale e normativa tributaria : il problema dell’elusione tributaria, in
“Riv. di dir. fin. e sc. delle fin. 1986 pag. 369 e ss; Cipollina, L’elusione fiscale, in
“Riv. di dir. fin. e sc. delle fin. 1988, pagg. 122 e ss.; Gallo, Brevi spunti in tema di
elusione e frode alla legge nel reddito di impresa, in “Rass. Trib.” I/1989, pagg. 11 e
ss. per citarne solo alcuni.
6
Cfr. Tesauro: “Istituzioni di diritto tributario” Vol. 1 Parte generale settima edizione,
pag. 219; Lupi: Elusione fiscale, modifiche normative e prime sviste interpretative. In
Rass. Trib. n. 3/95 pag. 409 e ss. Critica di E. Grassi L’elusione tra la certezza del
diritto e le ragioni dell’economia in Il fisco n. 31/95 pag 7625. E’ altresì contrario alla
teorizzazione del “carattere di legalità delle elusioni” U. Morello, “Frode alla legge”,
op. cit.;Le definizioni proposte dai vari ed autorevoli studiosi, rispecchiano
l’impostazione di fondo da essi attribuita al fenomeno in esame, ad esempio, il Falsitta,
“Manuale di diritto tributario”, Cedam, Padova, 1995, pagg. 178, 181-182, ritiene che
si tratti di operazioni caratterizzate “i) dalla anormalità della concatenazione di atti
4
Molto più rare sono le pronunce giurisprudenziali nelle quali
sia rinvenibile una definizione positiva dell’elusione. Uno dei primi
esempi di definizione del fenomeno, non esplicita ma dalla quale
possono desumersi i suoi aspetti principali tra cui anzitutto la sua
incontestabile liceità, è la sentenza del Tribunale di Roma n. 3906
del 25/01/1988, nella quale si legge testualmente che “nessuna
norma ... vieta al contribuente di continuare a realizzare gli
interessi economici o risultati economici sufficientemente fungibili
con quelli oggetto di imposizione, ma rivestiti di forme giuridiche
diverse da quelle espressamente previste dal legislatore tributario,
che gli consentono anche di sfruttare eventuali ‘smagliature’
nell’ordinamento positivo ovvero di fare leva su norme che
accordano trattamenti fiscali preferenziali a specifiche operazioni
economiche.”.
escogitata per raggiungere un dato risultato economico rispetto a quelli solitamente
adottati dagli operatori che versano nelle medesime esigenze; ii) dall’assenza, dietro la
scelta di tale concatenazione, di alcuna plausibile ragione che non sia esclusivamente
quella di conseguire per il suo tramite un certo vantaggio; iii) dalla circostanza che
detto vantaggio sia ottenuto aggirando una determinata regola tributaria normalmente
adottabile e non sia quindi qualificabile come fisiologico o comunque coerente col
sistema”. L’accento viene quindi posto sul risultato economico, paventando
implicitamente la possibilità di un approccio sostanzialistico, non a caso l’Autore
richiama in merito l’orientamento della “ Scuola di Pavia”, basato sulla cosiddetta “
interpretazione funzionale ”. Il Fantozzi sostiene che l’elusione si concretizzi in un
comportamento attivo “ voluto,
non vietato dall’ordinamento e consistente
nell’impiego abnorme di un istituto consentito, al fine del risparmio d’imposta“.
Similmente, ma in modo più completo, il Lupi, “Manuale professionale di diritto
tributario”, Ipsoa II ed. 1999, pagg. 71 e ss, che considera elusivo il “ comportamento
del contribuente sottilmente diretto a costituirsi, strumentalizzando le imperfezioni
normative, un regime giuridico di favore fatto in casa, senza inganni e frodi, ma con
artificiosità e capziosità squisitamente giuridiche “. Ponendo l’accento sull’assenza di
inganni e frodi, sull’uso malizioso che viene fatto delle norme e sulla loro
imperfezione, viene enfatizzata la liceità del comportamento, ed il fatto che la
responsabilità maggiore risiede nella insoddisfacente redazione delle norme le quali,
costituendo le “ regole del gioco ” predisposte dal legislatore, non possono essere da
quest’ultimo buttate all’aria, violandole, non appena si rende conto che “ l’altro
giocatore “ ne ha evitato l’applicazione senza violarle. Per la verità nel pensiero del
Lupi si rinviene un atteggiamento fortemente critico non solo nei confronti del
legislatore chiamato a predisporre dette regole, ma anche dell’Amministrazione
Finanziaria, che deve farle rispettare, senza dimenticarsi di osservarle a sua volta.
5
Nelle poche significative sentenze delle Commissioni
tributarie nelle quali è stata data una definizione del fenomeno,
seppur incidentalmente, i giudici non si sono comunque discostati di
molto dalla più volte citata dottrina7. Recentemente la Commissione
Regionale di Torino, sez. X, nella sentenza del 23/09/1998, n. 167,
ha definito l’elusione come “...quel comportamento del contribuente
volto a sottrarsi scaltramente ad un obbligo d’imposta – idem a
lucrare benefici, deduzioni non spettanti – pur nel rispetto formale
delle leggi e che si concretizza nello sfruttare le possibili scappatoie
7
Sebbene non sia molto autorevole trattandosi di una sentenza di una commissione di
I° grado, la sentenza n° 239 della Commissione tributaria di Milano del 04/05/1996 è
significativa per il modo in cui definisce esplicitamente il concetto, “ Per elusione si
intende l’attività posta in essere dal contribuente mediante la realizzazione di una
fattispecie che, sotto il profilo del risultato economico, è equivalente a quella “
normalmente attuabile” , ma con il pregio di consentire l’ottenimento di un vantaggio
fiscale che con quest’ultima non verrebbe concretato”. La commissione individua
quindi gli elementi della fattispecie elusiva (in relazione ad una controversia
riguardante l’applicabilità dell’art. 10 L. 408/90) nell’utilizzo di uno strumento
giuridico “ anormale ”, ma non per ciò solo illecito, nell’assenza di valide ragioni
economiche, nello scopo prevalente o esclusivo, di ottenere un vantaggio fiscale (scopo
elusivo) e nell’animo fraudolento. Ancora più esplicita nel riconoscere la liceità
dell’elusione, in carenza di una qualsiasi norma antielusiva di portata almeno settoriale,
era stata la più risalente sentenza della stessa Commissione tributaria del 06 gennaio
1981, la quale, motivando la decisione su una controversia relativa ad una operazione
di fusione con una società avente perdite riportabili, che costituivano la sua unica
“qualità”, aveva affermato che “...le motivazioni imprenditoriali delle fusioni sono del
tutto indifferenti quanto alle conseguenze fiscali della fusione stessa; e lo sono quindi
anche quando fossero motivazioni non economicamente convenienti o di pura elusione
delle imposte (non di evasione di imposte, ma di elusione, cioè di mera scelta di
fattispecie alternative che consentono di percorrere la via meno onerosa per il
contribuente) ”. L’approccio della commissione è di tipo formalistico, rispondente alla
duplice e al tempo stesso connessa esigenza di assicurare un elevato grado di certezza
del diritto e ribadire la preminenza del principio di libertà negoziale. Essa ha però
trascurato completamente qualsiasi considerazione sulla funzione solidaristica e di
partecipazione alle spese pubbliche, che la nostra Costituzione assegna all’imposizione
tributaria. Non contesto la decisione per la riconosciuta legalità del comportamento,
ineccepibile data la mancanza di una norma antielusiva applicabile al caso, ma per la
circostanza di non aver, neppure implicitamente, sottolineato la inadeguatezza della
normativa vigente. Ha perso cioè l’occasione per fare una critica costruttiva nei
confronti del legislatore stimolandolo affinché dotasse l’ordinamento di strumenti
legislativi idonei a contrastare pratiche inattaccabili legalmente, ma che costituiscono
una palese distorsione di fondamentali precetti costituzionali, limitandosi, al contrario a
dare una definizione del fenomeno come mera scelta tra alternative previste
dall’ordinamento.
6
offerte dalle disposizioni fiscali, dalla vaghezza delle norme, dalle
insufficienze di tecnica legislativa.”
A tutta evidenza non viene aggiunto nulla di nuovo alle
definizioni già proposte, a parte il fatto che, nel seguito della
motivazione, la sentenza in oggetto prende una piega alquanto
bizzarra, arrivando ad ipotizzare l’esistenza nell’ordinamento
giuridico, di una clausola generale antielusiva la quale trarrebbe
spunto
dalla
parificazione
del
comportamento
elusivo
al
comportamento contrario al buon costume, in quanto “... depaupera
le possibilità di finanziamento del sistema sociale e/o scarica
iniquamente sui consociati che non possono avvalersi di espedienti
altrettanto elusivi ultronea parte del carico generale della spesa e
pertanto viola i principi del buon costume” per tale via il contratto
concluso per un simile fine sarebbe nullo secondo le ordinarie regole
civilistiche (art. 1343 c.c.), e tale nullità, rilevabile altresì d’ufficio
ex art. 1421, travolgerebbe anche l’aspetto fiscale dello stesso.
L’insegnamento che dalla sentenza possiamo trarre è esclusivamente
quello che spesso le argomentazioni giurisprudenziali percorrono
strade impervie nel tentativo, velleitario, di supplire alla mancanza
di una norma antielusiva espressa, ovvero di “salvare” una
altrettanto ardita interpretazione dell’Amministrazione finanziaria,
piegando però in tal modo la certezza del diritto alle esigenze di
gettito.
Dalle più recenti pronunce della Suprema Corte di
Cassazione, è possibile estrapolare l’approccio giurisprudenziale di
fondo, il quale, prestando sempre la dovuta attenzione ai pericoli
insiti nell’attribuzione all’Amministrazione finanziaria di un potere
discrezionale travalicante le sue effettive capacità di gestione, ha più
volte collegato l’elusione fiscale a comportamenti del contribuente
7
contrari ai più elementari dettami economici che governano (rectius
dovrebbero governare) la gestione dell’impresa8. In effetti si tratta
per lo più di pronunce relative all’applicabilità o meno della
disposizione antielusiva di cui all’art. 37-bis del DPR 600/73,
soprattutto per quanto riguarda la valutazione di esistenza delle
“valide ragioni economiche” che, richiedendo un giudizio da parte
dell’Amministrazione finanziaria, implicano l’ulteriore problema di
definire i confini entro i quali la stessa possa sindacare
sull’economicità delle scelte imprenditoriali, argomento sul quale si
ritornerà nel prosieguo.
§3)
L’elusione fiscale in altri ordinamenti. Cenni.
Se dare una definizione di elusione in un dato ordinamento,
crea qualche problema, ancora peggiore è la situazione allorché si
cerchi di darne una valida in campo internazionale.
La corretta individuazione del fenomeno infatti dipende
dall’atteggiamento che ciascun ordinamento ha nei confronti
dell’erosione del gettito dovuta all’elusione, soprattutto nei termini
dell’adozione o meno di una clausola generale antielusione9,
congiuntamente alla variabile rappresentata dal collocamento di
quest’ultima in ordinamenti common law ovvero civil law.
8
Cfr. Cass. civ., Sez. V, 9 febbraio 2001, n. 1821, “... la regola alla quale si ispira
chiunque svolga una attività economica è quella di ridurre i costi, a parità di altre
condizioni. Pertanto, in presenza di un comportamento che sfugga a questo parametro
di buon senso ed in assenza di una sua diversa giustificazione razionale, è legittimo il
fondato sospetto che la incongruenza sia soltanto apparente e che dietro di essa si celi
una diversa realtà .”.
9
Perciò preferisco dare conto delle diverse definizioni “estere” dell’elusione, in sede di
esame delle differenze tra evasione ed elusione, ovvero nella disamina delle diverse
impostazioni relativamente alla normativa antielusione.
8
L’esempio lampante è rappresentato dalla circostanza che in
alcuni paesi, un comportamento che garantisca un risparmio
d’imposta calpestando lo spirito, la ratio della norma, equivale già a
violarla. L’intento di eludere la norma fiscale, accompagnato da un
anormale utilizzo (abuso) di forme giuridiche di per sé lecite, è
ritenuto illegittimo dagli ordinamenti di Paesi come Portogallo,
Germania, Austria, Francia, Olanda, e Stati Uniti.
Definire univocamente il fenomeno e contrastarne gli effetti
nelle operazioni transnazionali diviene così una utopia, costituendo
queste ultime il terreno più fertile ove l’elusione può crescere e
svilupparsi.
In ambito europeo sarà decisivo l’esito del processo di
armonizzazione comunitaria, mentre a livello internazionale la
trasparenza e lo scambio di informazioni in condizioni di
reciprocità, giocheranno un ruolo fondamentale anche per problemi
di più ampio respiro come quelli del riciclaggio di denaro
proveniente da attività illecite, e/o destinato a fini di terrorismo
internazionale10.
10
Proprio gli sviluppi dei tristemente noti accadimenti dell’11 settembre 2001, hanno
fatto comprendere quanto sia improcrastinabile l’esigenza di combattere la segretezza
finanziaria che alcuni stati ancora garantiscono. Certo occorre una forza politica non
indifferente, perché gli interessi sono forti e le lobbies interne hanno un notevole peso,
occorre inoltre un consenso unanime dei paesi maggiormente sviluppati, i quali
adottino delle ritorsioni finanziarie nei confronti degli stati che non forniscono le
informazioni richieste, implicitamente appoggiando i criminali.
9
§4) L’elusione fiscale tra evasione e legittimo risparmio
d’imposta.
Alla conclusione della liceità dell’elusione (salvo norma
antielusiva contraria), non si è certo giunti senza contrasti e
distinguo, il primo significativo input in questa direzione è stato
sicuramente il dibattito incentrato sulle differenze tra l’elusione e
l’evasione vera e propria, condizione imprescindibile per poter
affermare la liceità del comportamento elusivo.
Ed in questo contesto, fondamentali per tutti gli autori che in
seguito si sono occupati del problema, sono le teorie di
Blumenstein11 ed Hensel12.
11
Blumenstein: Sistema di diritto delle imposte, trad. it. a cura di F. Forte, Milano
1954, pagg. 25 e ss. si ha elusione d’imposta, allorquando “attraverso un determinato
procedimento intenzionale fino dal principio, venga posto in essere un patto che non
integri i presupposti per l’imposizione oppure attenui la grossezza dell’imposta dovuta;
in ciò l’elusione differisce dall’evasione d’imposta, per la quale esiste il fatto che è
fondamento dell’imposizione, ma la sua esatta valutazione da parte degli organi
amministrativi viene impedita mediante un comportamento illegale del
contribuente”.Secondo l’Autore, l’essenza dell’elusione si caratterizzerebbe, attraverso
tre elementi concettualmente essenziali, uno soggettivo, uno oggettivo ed uno relativo
all’effetto. Dal punto di vista soggettivo deve risultare l’intento di conseguire un
risparmio d’imposta per il tramite della avvenuta configurazione del fatto, la quale non
si sarebbe verificata in quella maniera, se non si fosse cercato di ottenere, mediante di
essa, una attenuazione del carico fiscale. Tuttavia poiché non esiste alcun obbligo
dell’individuo di salvaguardare, nella sua attività economica, innanzitutto l’interesse
fiscale e l’impiego delle forme previste, la presunzione non è giustificata quando si può
riconoscere un altro motivo per il comportamento in questione, in altre parole, non può
censurarsi il comportamento che risponda ad esigenze prima di tutto aziendali e solo
secondariamente, direi quasi incidentalmente, di risparmio fiscale. Sotto il profilo
oggettivo fa parte della elusione dell’imposta la anormalità dei procedimenti scelti o
della configurazione considerata, da mettere in relazione alle circostanze di fatto e
dell’eventuale esistenza di ragioni per discostarsi dalla via normale. Occorre prestare la
dovuta attenzione al concetto di anormalità la cui accezione non deve essere
considerata quale atipicità, rara riscontrabilità nella pratica dell’uomo d’affari medio,
stante la portata del principio sancito nell’articolo 1322 del c.c., bensì individuarlo
nella deviazione da una funzione istituzionale prestabilita del negozio per la quale esso
è riconosciuto e tutelato dall’ordinamento. Sotto il profilo degli effetti, il procedimento
considerato, diverso da quello “normale”, deve permettere un “vantaggio fiscale che,
proprio con quest’ultimo (procedimento), non verrebbe concretato, e dunque un
risparmio di imposta non previsto o consentito, neppure implicitamente, dal legislatore.
Questi elementi non devono essere presunti, ma bisogna che siano appurati d’ufficio
10
Il punto di partenza è rappresentato indubbiamente dal fatto
che i concetti di evasione fiscale e di elusione, sono sicuramente
riconducibili ad unità per quanto concerne le finalità della condotta
dell’evasore/elusore, il quale tende ad ottenere un risparmio di
imposta. Tale comportamento è assolutamente coerente con il
principio economico delle scelte razionali. Ad un identico scopo non
corrisponde però unità di modi, ed è infatti nel campo applicativo
che le differenze, anche se talvolta sottili, assumono rilevanza.
Sotto questa ottica, una prima netta distinzione dell’elusione
dall’evasione, già riconoscibile nelle definizioni riportate in nota, è
data dall’importante circostanza che, mentre nell’evasione il fatto
generatore, espressivo di capacità contributiva e cioè la fattispecie
imponibile, si è verificata, ed il soggetto passivo si limita ad
occultarla ed a non eseguire correttamente gli adempimenti ad essa
nel caso singolo, così che sia consentita al contribuente la prova contraria od ostativa a
tale presunzione. L’evasione invece, viene individuata nel fatto che “una prestazione di
imposta viene sottratta all’ente pubblico da parte di una persona obbligata alla
prestazione”. Dunque il fatto che è fondamento dell’imposizione esiste, ma la sua esatta
valutazione da parte degli organi amministrativi viene impedita mediante un
comportamento illegale del contribuente, tendente per tale via ad un risparmio
d’imposta illecito.
12
Hensel : Diritto tributario, Milano, 1956, pagg. 110 e ss. il quale nota che
l’imposizione legislativa è sempre subordinata alla realizzazione della fattispecie
legale. L’Autore infatti, dopo aver rilevato che il legislatore persegue lo scopo di non
lasciare sorgere determinati avvenimenti economici senza che nello stesso tempo nasca
un diritto d’imposta, afferma che la norma che regola la fattispecie cerca di
circoscrivere queste situazioni nella loro tipica configurazione di diritto o di fatto. Non
di rado, tuttavia, esiste una discrepanza tra la fattispecie economica, considerata dal
legislatore da colpire, e la fattispecie d’imposta identificata nelle norme giuridiche; in
particolare la fattispecie economica può realizzarsi per altra via ed il risultato
economico può essere raggiunto in un modo diverso da quello che il legislatore ha
supposto nella redazione della legge tributaria. Così, l’Autore distingue tra elusione e
frode fiscale: “In questo ultimo caso (frode fiscale) si tratta di un inadempimento
colpevole della pretesa tributaria già validamente sorta attraverso la realizzazione
della fattispecie, mentre nell’elusione si impedisce il sorgere della pretesa tributaria,
evitando la fattispecie legale”.
11
connessi13 con ciò violando le relative norme, nell’elusione viene
evitata la concretizzazione stessa della fattispecie legale, facendone
sorgere in sua vece una che dal punto di vista economico consente di
soddisfare una esigenza analoga (ad esempio disporre di un dato
bene indipendentemente dal titolo giuridico, proprietà o diritto di
godimento) ottenendo, con una valutazione complessiva, un
risparmio in termini di imposta, senza che tale “agevolazione” fosse
stata prevista o voluta dal legislatore, e tutto ciò avviene sfruttando i
difetti strutturali del sistema14 ovvero strumentalizzando la pluralità
degli strumenti giuridici che consentono il raggiungimento
dell’analogo risultato (economico). Anzi è proprio la circostanza che
sia lo stesso legislatore a prevedere diversi strumenti dotati della
medesima dignità giuridica che rende particolarmente difficoltosa la
distinzione del lecito dall’illecito, dell’uso dall’abuso.
Da ciò si evince chiaramente che l’evasione fiscale,
costituendo una diretta violazione della norma impositiva, rende
assolutamente legittima l’immediata reazione dell’ordinamento,
mentre nel caso dell’elusione deve concludersi per la liceità di un
comportamento che tende ad un risultato analogo15, ma con un
aggiramento, sostanzialmente lecito, delle norme fiscali16.
13
Lovisolo, L’evasione e l’elusione tributaria, in Dir. e prat. Trib. 1984/I pagine 1287 e
seguenti : ...l’evasione consiste in qualsiasi fatto commissivo od omissivo, del soggetto
passivo dell’imposizione che, avendo posto in essere il presupposto del tributo, si
sottrae in tutto o in parte ai connessi obblighi previsti dalla legge.
14
Questo conferma che l’evasione può investire sia questioni di diritto che (soprattutto)
di fatto, mentre l’elusione è essenzialmente una questione di diritto.
15
Sempre, nel senso degli effetti economici desiderati, e comunque in base ad una
valutazione complessiva che tenga conto, da una parte dell’eventuale minor beneficio
economico imputabile alla scelta di uno strumento “anormale”, e dall’altra del
risparmio d’imposta in tal modo ottenibile.
16
Su posizioni molto simili nell’individuare la linea di discrimine tra i due fenomeni,
confronta : Tesauro : “ Istituzioni di diritto tributario “, vol I parte generale IV ed.,
12
Nell’elusione quindi l’agente manifesta al Fisco i fatti,
ricostruendoli in modo da sfuggire all’imposizione, operando extra
legem; nell’evasione, invece, manifesta una realtà diversa da quella
in concreto verificatasi, operando contra legem17.
Un simile approccio, unitamente alla formulazione delle
norme antielusive “settoriali18” introdotte negli anni ’90, ci permette
inoltre di sottolineare un aspetto importante dell’elusione, la quale
sempre più si verifica in seguito ad un disegno elusivo, piuttosto che
ad un singolo atto. E questo aspetto diviene rilevante quando si deve
decidere sulla liceità o meno di un dato comportamento. In taluni
casi infatti, solo una visione complessiva può evidenziare la perfetta
liceità di una operazione complessa posta in essere, benché per
ipotesi, il primo atto negoziale formalmente autonomo fosse da
considerare illecito per difetto di valide ragioni economiche.
Motivazioni queste ultime che si sono palesate solo in conseguenza
degli ulteriori negozi19. Ed è vero anche il contrario, negozi
singolarmente leciti possono fare parte di un disegno criminoso20.
Utet, Torino 1995, pag 48 nota 5; Falsitta, : “Manuale .. op.cit.; Lupi, “ Diritto... op.
cit.; Fantozzi, “Diritto tributario”, UTET 1991.
17
Nell’esperienza francese, la distinzione veniva così riassunta :
• evasione, atto contra legem, è una violazione prevista e punita dalla legge,
consistente sia nel rilasciare volontariamente false dichiarazioni, sia nell’attuare,
sempre volontariamente, dissimulazioni materiali o giuridiche, nell’intento di
diminuire l’imposta dovuta o di beneficiare di vantaggi fiscali indotti;
• elusione, atto extra legem, consistente nell’uso effettivo da parte del contribuente di
uno strumento tecnico giuridico, atto o fatto, in grado di consentire, al contribuente
stesso, di porre in essere una fattispecie non tassata o tassata meno.
Robbez-Masson in Dictionnaire encyclopédique des Finances Publiques.
18
Per norme antielusive “settoriali“ si intenderanno convenzionalmente, nel presente
lavoro, gli artt. 10 della legge 408/90 e 37-bis del DPR 600/73, per la loro caratteristica
di essere applicabili ad una pluralità di fattispecie e non ad una sola come avviene per
quelle che definiamo coerentemente “analitiche”, ma il cui ambito è comunque limitato
ai casi tassativamente previsti, in ciò differenziandosi da una disposizione “generale”.
19
Ad esempio,l’acquisto di una società in cui ci sono utili, seguito dalla distribuzione
di questi utili e dalla successiva svalutazione della partecipazione non è una procedura
13
Non si deve però cadere nel malinteso di considerare elusiva
ogni forma di concatenazione di operazioni, essendo rilevante in tali
casi, la preordinazione del progetto elusivo, valutata a priori, nel
senso che quando si è attuata la prima operazione, doveva essere già
stata decisa anche la successiva. Con ciò escludendo che
l’Amministrazione finanziaria possa effettuare una valutazione a
posteriori, ricollegando fatti successivi che al limite potevano non
essere previsti o prevedibili, al compimento dei primi.
Una volta fatta questa importante distinzione, si è giunti ad
identificare diverse forme attraverso le quali si può giungere
all’attenuazione del carico tributario senza violare alcuna norma
impositiva.
Qualsiasi studio economico finalizzato all’esame delle scelte
di un qualunque operatore economico, parte necessariamente dal
dogma del comportamento razionale ed efficiente, intendendosi per
esso quello tendente ad indirizzare la propria attività sulla base di
scelte che ottimizzino la produttività degli investimenti effettuati,
massimizzando i vantaggi e minimizzando i costi. Ponendo l’obbligo
tributario tra i costi (al quale tra l’altro non corrisponde alcun
vantaggio direttamente percepibile), è naturale ipotizzare un
comportamento del contribuente, tendente ad ottenere il massimo
risparmio d’imposta possibile.
elusiva, ma fisiologica, perché altrimenti ci sarebbe una doppia imposizione degli utili
societari : una volta sotto forma di utili della partecipata, e una seconda volta sotto
forma di plusvalenza sulla cessione delle partecipazioni, realizzata da chi le cedette al
soggetto che effettua la svalutazione.
20
Ad esempio, la scissione di alcuni beni può essere finalizzata alla creazione di una
“società contenitore”, ispirata allo scopo di trasformare le plusvalenze su beni in
plusvalenze su partecipazioni, magari tassate con l’imposta sostitutiva. In tal caso, il
risparmio d’imposta si manifesta non già con la scissione, ma con la successiva vendita
delle partecipazioni. Altri significativi esempi verranno trattati in seguito, in sede di
esposizione del caso dei “contratti a gradini”.
14
E’ sostanzialmente questo il motivo di fondo che impone di
considerare lecito il risparmio d’imposta almeno fino a quando lo
stesso non incontri una esplicita preclusione legislativa21.
Talvolta è lo stesso legislatore che, nel quadro complessivo di
politica economica, utilizza la leva fiscale per indirizzare le risorse
produttive verso quegli impieghi ritenuti maggiormente meritevoli in
quanto tendenti a soddisfare bisogni primari, ovvero ad attuare quei
numerosi principi che in una Costituzione22 programmatica quale è
la nostra, ne costituiscono l’asse portante.
Abbiamo così la rimozione del presupposto del tributo, intesa
come autolimitazione della propria sfera di azione, ed il cui esempio
estremo può essere rappresentato dalla decisione di non lavorare per
non produrre reddito tassabile, o non consumare per non pagare
imposte sui consumi. Si tratta di reazioni senz’altro legittime, anche
se contrarie alle finalità di una politica fiscale razionale che deve
tendere allo sviluppo dell’economia e dei consumi nell’interesse
della collettività di modo che la ricchezza complessiva del sistema
cresca a vantaggio di tutti.
Il contribuente può altresì opporsi al (rectius evitare il)
pagamento dei tributi attraverso la cosiddetta economia di scelta,
consistente nella scelta, di fronte a più alternative previste
dall’ordinamento, di quella che, a parità o quasi di risultato,
comporta il minor sacrificio tributario. Diventa in questo modo
arduo considerare illecito il comportamento del contribuente che
adotta una data forma societaria perché più conveniente fiscalmente,
21
La tesi della legittimità del comportamento elusivo viene fatta risalire al principio
della riserva di legge, da parte di chi ritiene che vi sia un rapporto di assoluta
dipendenza tra detto principio e la legislazione millimetrica di identificazione delle
fattispecie imponibili.
22
Vds senza pretesa di completezza gli artt 3, 4, 9, 31, 32, 33, 34, 36, 38, 41, 44, 45 e
47 della Costituzione.
15
oppure che scelga di investire in titoli che garantiscono rendimenti
esenti, ovvero che localizzi i propri stabilimenti in località
assoggettate
ad
un
favorevole
trattamento
fiscale,
come
generalmente avviene in Italia nel Mezzogiorno. Infatti, se l’utilizzo
dello strumento (forma societaria) è, di per sé, legittimo, non potrà
certo essere il suo uso abnorme a determinarne l’illiceità, ancorché
“l’anomalia” derivi proprio dal risparmio d’imposta realizzato.
Una terza forma di resistenza del contribuente di fronte alla
pretesa tributaria viene quindi identificata nella elusione tributaria
vera e propria. Essa, come già detto, viene ricondotta al
comportamento di chi, distrae le norme tributarie dalla loro
originaria funzione costituzionale di far partecipare tutti alle spese
pubbliche
in
ragione
della
propria
capacità
contributiva,
asservendole al proprio fine esclusivo o predominante di ottenere un
vantaggio fiscale23 non voluto dal legislatore, sfruttando le
asimmetrie impositive presenti nel sistema24 e le imperfezioni delle
norme stesse. Gli esempi di un siffatto comportamento sono
molteplici e facilmente identificabili, proprio perché l’elusione, a
differenza dell’evasione, è attuata in modo assolutamente palese,
non si ricorre cioè ad affermare il falso o nascondere fatti veri.
Questa (corretta) impostazione permette di spiegare ad
esempio la proliferazione (ante legge 408/90) delle fusioni per
incorporazione nelle quali l’incorporante si avvantaggiava della
23
Che può concretizzarsi anche nel riuscire a rientrare in un regime particolare di
esenzione o nell’ottenere una agevolazione oltre lo spirito della norma come “intesa”
dal legislatore.
24
Lupi: L’elusione come strumentalizzazione delle regole fiscali in Rass. Trib. 2/1994
pag. 225.
16
deducibilità delle perdite della incorporata, senza possibilità di
essere censurata dall’Amministrazione finanziaria25. E’ stato proprio
il proliferare di questo “insano” commercio delle cosiddette bare
fiscali, insieme alla impotenza dell’Amministrazione finanziaria a
combatterlo, che ha indotto il legislatore ad introdurre una normativa
appositamente congegnata26.
La
dottrina
più
recente
ha
affinato
la
distinzione
evasione/elusione proponendo la dicotomia evasione/legittimo
risparmio d’imposta27 (in tal modo accentuando esplicitamente la
liceità del fenomeno) e individuando all’interno di quest’ultimo, il
risparmio fisiologico d’imposta, e la elusione fiscale legittima28.
25
E talvolta burlandosi di essa, come quando il consiglio di amministrazione di una
banca illustrò analiticamente nella propria relazione, le finalità elusive di una certa
operazione, irritando non poco l’allora Ministro delle Finanze che di lì a poco appoggiò
l’approvazione della prima norma espressamente antielusiva, l’art. 10 della legge
408/90. Giova al riguardo ricordare la già citata (nota 7) decisione di merito della
Commissione tributaria di I° di Milano del 6 gennaio 1981 che, proprio in relazione ad
una operazione di questo genere ne ha esplicitamente affermato la liceità ancorché
posta in essere al solo fine di eludere le imposte.
26
Vds la formulazione dell’art. 123 Tuir dopo le modifiche di cui al D.Lgs. 358/97.
27
Lupi, ancora prima dell’introduzione dell’art. 37-bis DPR 600/73, scriveva in Rass.
Trib. 4/97: “ ...quando il sistema consente due alternative aventi pari dignità
normativa, non elude chi sceglie la più conveniente: finché il sistema contiene due
strade maestre, il contribuente che segue quella fiscalmente meno onerosa non elude
l’altra. L’elusione nasce solo quando, di fronte ad una o più strade maestre, il
contribuente si costruisce una scorciatoia utilizzando frammenti di un sistema
normativo che spesso è in pezzi. Non è elusore chi profitta di un trattamento
strutturalmente più vantaggioso, ma lo è chi, strumentalizzando le regole e le loro
imperfezioni, si costruisce un trattamento privilegiato fatto in casa. Trattamento
privilegiato che contrasta con indicazioni di segno contrario presenti nel sistema, con
una sorta di divieti impliciti.”
28
A. Garcea “Il legittimo risparmio d’imposta” pag 66 e ss. al quale si rimanda anche
per una rassegna di casi materiali di legittimo risparmio d’imposta. Tra le figure che,
seppur non propriamente pertinenti ai fini della nostra indagine, consentono di
evitare/ridurre il carico tributario, possiamo, per dovere di completezza, ricordare
quella della traslazione dell’imposta. Essa si realizza quando, il soggetto passivo
destinatario dell’obbligo tributario, riesce a trasferire ad altri l’incidenza dell’imposta
attraverso una negoziazione pattizia tra debitore d’imposta e terzo, pur rimanendo il
soggetto passivo responsabile personalmente degli obblighi tributari a lui spettanti
davanti al Fisco. Si tratta di un fenomeno che, o si colloca in un momento successivo
ad un esatto adempimento dell’obbligazione tributaria e dipendente dalla forza
17
Giova da ultimo precisare che le definizioni date dalla dottrina
dell’elusione fiscale sono sempre pesantemente influenzate dalla
economica e contrattuale, oppure, quando è oggetto di specifica previsione normativa,
rientra nei meccanismi giuridici della stessa imposta. Pertanto essa riguarda
principalmente la scienza delle finanze. In dottrina si usa distinguere due tipi di
traslazioni, la prima è detta “economica” od “occulta” ed è relativa a quei casi in cui il
valore finale del negozio è calcolato aumentando il valore del bene oggetto dello stesso,
di un importo a titolo di reintegrazione dell’imposta che il soggetto passivo, rimanendo
l’obbligato (principale o perfino unico) davanti al Fisco, dovrà pagare. Pensiamo ai
contratti dei calciatori professionisti, i quali negoziano il proprio ingaggio “al netto”,
trasferendo l’onere sulla società. La seconda tipologia di traslazione è quella detta
“giuridica” o “trasparente”, e si verifica nel caso in cui il “quid pluris”, rappresentato
dal carico tributario, viene evidenziato in modo esplicito con apposite clausole del
negozio e faccia quindi espresso riferimento alle imposte da pagare da parte del
soggetto obbligato in base alla normativa tributaria. Sulla libertà contrattuale delle parti
di porre a carico dell’una o dell’altra il sostenimento dell’onere fiscale, mediante
traslazione “occulta” come sopra definita, la dottrina è pressoché concorde nel ritenerla
lecita e connaturata alla struttura del mercato concorrenziale. Sulla traslazione giuridica
invece vi è ancora grande contrasto di opinioni sia in dottrina che in giurisprudenza,
specialmente con riferimento all’articolo 60 del DPR 634/72, trasfuso senza alcuna
modifica sostanziale nell’art. 62 del DPR 131/86 in materia di imposta di registro, sul
quale diffusamente vedasi Bisignano, La nullità dei patti di traslazione delle imposte,
in Il fisco n. 35/01 pag. 11563. Le maggiori perplessità espresse da alcuna parte della
dottrina, sono di natura costituzionale in ordine alla presunta lesione dei principi di
uguaglianza, art. 3, e di capacità contributiva, art. 53. Peraltro, la Corte Costituzionale
si è più volte espressa in modo chiaramente contrario a tale supposta illegittimità, in
una serie di sentenze che hanno dato un valido contributo allo studio del principio di
capacità contributiva, vedasi: C. Cost. 06/07/1972 n. 120; C.Cost. 10/11/1982 n. 178;
C. Cost. 08/02/1984 n. 25; C. Cost. 19/03/1985 n. 67; C. Cost. 19/03/1985 n. 68; C.
Cost. 19/04/1985 n. 112, in Boll. Trib. 1985 pag 1680; C. Cost. 05/02/1996 n. 26 in
Riv. di dir. Trib. 1996/II pag. 341; C. Cost. 20/04/1989 ord. n. 219, in Riv. di dir. trib.
1995/II, pag. 801; C. Cost. 04/05/1995 n. 143, in Riv. di dir. trib. 1995/II, pag. 470; e
l’ordinanza di remissione della Corte di Cassazione n. 690 del 06/04/1983, in Boll. trib.
1984, pag. 4750. In senso favorevole alla traslazione delle imposte si è espressa anche
la Cassazione, sez I civ, 05/05/1992 n. 5308; Cass. S.U. 18/12/1985, n. 6445, a cui è
seguita la Ris. Min. n. 617 del 13/08/1988; Trib. Roma, sez I 14/12/1978, sent. n.
12039; Falsitta, “Spunti in tema di capacità contributiva e di accollo convenzionale
delle imposte”, in Riv. di dir. trib. 1985, I, pag. 128. In senso contrario: Cass.
22/08/1981, n. 4974 sez lav.; 05/01/1981, n. 5, sez civ.; 06/04/1983, n. 690;
20/11/1992, n. 6037; Cass. S.U. 23/04/1987 n. 3935. A tal proposito l’obbligo di rivalsa
ex art. 18 DPR 633/72 in materia di IVA:1) Il soggetto che effettua la cessione di beni
o la prestazione di servizi imponibile deve addebitare la relativa imposta, a titolo di
rivalsa, al cessionario o committente.2) omissis.3) omissis.4) E’ nullo ogni patto
contrario alle disposizioni dei commi precedenti. Il divieto di trasferimento
dell’imposta di cui all’art. 27 del DPR 643/72 in materia di INVIM: “E’ nullo qualsiasi
patto diretto a trasferire ad altri l’onere dell’imposta” che ai sensi dell’articolo 4 dello
stesso decreto, “è dovuta dall’alienante a titolo oneroso o dall’acquirente a titolo
gratuito”. Meno chiaro è l’articolo 62 del DPR 26/04/1986 n° 131 in materia di
registro (vds Bisignano “La nullità ... op. cit.): “I patti contrari alle disposizioni del
presente testo unico, compresi quelli che pongono l’imposta e le eventuali sanzioni a
carico della parte inadempiente, sono nulli anche fra le parti”.
18
normativa vigente all’epoca. Infatti gli interventi normativi in chiave
specificamente antielusiva, spostando i confini di liceità dei risparmi
di imposta29, hanno costretto a nuove interpretazioni del fenomeno,
facendo
talvolta
cadere
intere
costruzioni
di
dottrina
e
giurisprudenza, affermatesi proprio a causa dei vuoti normativi
presenti nella legislazione tributaria, quegli stessi vuoti che hanno
generato e alimentato l’elusione30.
29
“…la linea di demarcazione fra il lecito risparmio d’imposta e la elusione, non è
fissa e determinata, ma tende anzi a spostarsi per l’effetto combinato di due fattori:
l’impostazione accolta dall’interprete e il grado di evoluzione raggiunto
dall’ordinamento giuridico.” Così S. Cipollina, nel suo lavoro “L’elusione fiscale”, op.
cit., pagg. 125 e ss..
30
Vedasi al riguardo, Lupi, Elusione e legittimo risparmio d’imposta nella nuova
normativa, in Rass. Trib. 5/1997, pagg. 1099 e ss. all’indomani dell’approvazione del
Dlgs 358/97.
19
CAPITOLO II
LE ORIGINI DELL’ELUSIONE
§1) Premessa
Una volta accettata una definizione dell’elusione che ponga in
primo piano l’uso di espedienti formalmente legittimi, senza false
rappresentazioni della realtà, ma con scappatoie squisitamente
giuridiche, manovrando accortamente tra le varie disposizioni
legislative, in modo da conseguire in maniera anormale un risultato
economico equivalente, il quale però, proprio a causa dell’utilizzo di
uno strumento giuridico diverso da quello tipizzato dal legislatore,
finisce per rispettare la lettera ma non la ratio della norma, diviene
consequenziale iniziare la ricerca delle possibili cause del fenomeno,
partendo dall’interno, esaminando cioè la struttura dell’ordinamento
tributario, con particolare riferimento all’atteggiamento del legislatore
e dell’Amministrazione finanziaria di fronte al diffondersi di pratiche
elusive.
La storia dei sistemi tributari moderni, negli ultimi decenni, è
contrassegnata da due fenomeni che costituiscono senza ombra di
dubbio le motivazioni di fondo dell’aumento della propensione non
solo all’elusione, ma anche all’evasione fiscale.
Mi riferisco alla crescita della pressione fiscale e alla crescente
complessità delle norme fiscali e dell’ordinamento tributario nella sua
interezza considerato.
20
La prima agisce sulla convenienza ad eludere (ed evadere), la
seconda invece determina il grado di difficoltà di attuazione del
disegno elusivo/evasivo.
Chiaramente quanto maggiore è il carico tributario tanto più
conveniente sarà tentare di evitarne l’integrale sostenimento tenuto
conto, se si utilizza “l’arma” dell’elusione, della “bontà” della propria
interpretazione, ovvero qualora si opti per l’utilizzo di sistemi illeciti
(evasione), delle possibilità di essere scoperti, eventualità questa che a
sua volta dipende dalla efficienza dell’Amministrazione Finanziaria in
termini di rapporto tra il numero dei controlli e quello dei
contribuenti, e di affidabilità dei controlli stessi, rappresentata dalla
percentuale di soccombenza in giudizio dell’Amministrazione
finanziaria.
§2) La pressione fiscale come indicatore della
convenienza alla elusione (ed all’evasione) delle imposte.
Venendo ai dati relativi alla pressione fiscale, la situazione,
per quanto riguarda le imprese italiane, è davvero sconfortante31,
esse infatti scontano da tempo, uno dei livelli più alti di imposizione
societaria, sia con riferimento alle aliquote nominali, sia a quelle
effettive.
Nel 1996, la legislazione italiana prevedeva, all’interno della
Unione Europea, una delle più elevate aliquote d’imposta sui redditi
societari (cfr tavola 1).
31
Usa aggettivi ben più coloriti il Falsitta nel capitolo intitolato “ La persecuzione
fiscale delle imprese “, nel suo “ Per un fisco civile “ op. cit..
21
Tavola 1
Aliquote
Aliquote
Aliquote
legali
legali
legali
1991
1994
1996
Austria
39
34
34
Belgio
39
40,17
40,17
Danimarca
38
34
34
40,2
28
28
34
33,33
36,67
Paese
Finlandia
Francia
Germania
56,5 (44,3 54,9 (42,6)
56 (42)
sugli utili
distribuiti)
Grecia
46
35
35
Irlanda
43
40
38
Italia
47,8
52,2
53,2
Lussemburgo
39,4
39,4
39,4
35
35
35
39,6
39,6
38,8
34
33
33
Spagna
35,3
35,3
35,3
Svezia
30
28
28
39,8
37,5
37,6
Paesi Bassi
Portogallo
Regno Unito
Media UE
Fonte : Banca d’Italia
22
23
Questi dati32, ancorché risalenti33, evidenziano chiaramente
che, nel nostro paese, la convenienza a sottrarsi in vario modo, lecito
32
Occorrerebbe inoltre, a mio avviso, rapportare tali dati alla qualità e quantità di beni e
servizi ottenuti/ottenibili, a fronte di tale imposizione. Per questa via il risultato sarebbe
indubbiamente peggiore.
33
Ma che, purtroppo, non sono variati in modo significativo.
24
o no, all’imposizione è comunque sempre molto elevata34,
soprattutto
ove
si
consideri
la
cronica
deficienza
dell’Amministrazione finanziaria nel contrastare tali pratiche.
§3)
La
struttura dell’ordinamento tributario
italiano.
E’ stato già chiarito il ruolo dell’elusione all’interno del
sistema tributario, come quella modalità di esercizio della propria
libertà di scelta, variamente configurata (acquistare o prendere in
locazione, consumare o no un dato bene od un suo succedaneo,
stipulare un unico contratto ovvero più contratti collegati ecc.)
mediante la quale si viene a risparmiare in termini di imposta, e che
tale condotta è, in linea di principio, lecita. La possibilità di eludere
è connaturata alla stessa esistenza di regole, e queste regole non
sono altro che l’insieme delle norme, sostanziali e non, che
costituiscono l’ordinamento tributario. Appare quindi chiaro che il
grado di difficoltà di porre in essere un tale comportamento dipende
anche dalla qualità e quantità delle citate regole35.
34
A voler tacere delle ulteriori implicazioni negative, infatti, un’elevata pressione
fiscale può incidere negativamente sui grandi “stabilizzatori automatici” delle variabili
macroeconomiche rallentando il loro aggiustamento. Vi sono poi le ripercussioni socioeconomiche della “concorrenza fiscale” tra Paesi (e Governi), fenomeno in espansione
in una economia sempre più globalizzata e delocalizzata, e già da tempo all’attenzione
degli organismi comunitari, vedasi il ‘Rapporto Ruding’, risultato del lavoro svolto dal
Comitato istituito nel dicembre 1990 dalla Commissione CEE e presieduto da Onno
Ruding, ove sono evidenziate le principali differenze nelle legislazioni fiscali degli
Stati membri che costituiscono elementi generatori di distorsioni nella concorrenza. Dai
dati pubblicati in esso, si apprende che il 48% di un campione di 8.000 imprese
insediate in 17 Paesi di cui 12 Stati membri, ha dichiarato di prendere decisioni sulle
modalità di insediamento di un’unità di produzione, in base ai fattori fiscali; nel caso di
un centro di ricerca la percentuale è del 41% e di una società finanziaria del 78%.
35
Cfr. S. Cipollina “La legge civile e la legge fiscale, il problema dell’elusione
fiscale”. Cedam 1992, pagg. 125 e ss. ove si approfondisce la connessione esistente tra
la struttura normativa e l’elusione fiscale.
25
Non è questa certamente la sede per elencare pregi e difetti
della nostra legislazione in materia tributaria, mi limiterò pertanto ad
una disamina delle principali (a parere di chi scrive) caratteristiche
del sistema delle imposte che si pongono in relazione di causa ad
effetto nei confronti dell’elusione. Non posso comunque esimermi
dal
dare
una
veloce
rassegna
storica
dell’evoluzione
dell’ordinamento tributario italiano.
Volendo tralasciare gli albori della imposizione in Italia,
passando direttamente al periodo successivo all’entrata in vigore
dell’attuale Carta Costituzionale, si osserva, nel nostro ordinamento
come in quello di tutti i paesi interessati (sin dal diciannovesimo
secolo) dagli effetti della rivoluzione francese e della diffusione dei
principi dell’illuminismo, ad una decisa tendenza verso la
predeterminazione di regole che assicurassero ai cittadini una
adeguata conoscenza (rectius conoscibilità) delle conseguenze delle
proprie azioni, e quindi dei comportamenti consentiti e di quelli
vietati.
Questo principio generale di civiltà, imprescindibile in ogni
stato di diritto, venne ritenuto giustamente fondamentale anche nel
campo dell’imposizione fiscale, nel quale vi era inoltre l’ulteriore
esigenza di assicurare che il soggetto attivo, essendo parte integrante
dell’esecutivo e dotato di poteri anche molto penetranti nei confronti
della sfera patrimoniale dei singoli, non abusasse di questa sua
posizione, e la discrezionalità non sconfinasse nell’arbitrio36. Per
questo si ritenne necessario riprendere, nell’articolo 23 della
Costituzione del 1947, quel principio di legalità già consacrato
36
Non reputandosi sufficiente allo scopo il solo principio di imparzialità di cui
all’articolo 97 della Costituzione.
26
nell’articolo 30 dello Statuto Albertino37, adattandolo alla nuova
forma repubblicana dello Stato italiano.
Le incertezze sull’ambito di operatività della riserva di legge38
soprattutto, per ciò che qui interessa maggiormente, in relazione al
maggiore o minore ambito entro il quale è possibile delegificare, con
orientamenti non sempre univoci della stessa Corte Costituzionale39,
hanno finito con il “confondere” il processo di delegificazione
stesso, nonostante la riconosciuta relatività della riserva di legge40.
Infatti, da una parte la norma che doveva solo impedire al potere
esecutivo di invadere le competenze del potere legislativo
(attraverso il riconoscimento della sola discrezionalità tecnica41), ha
37
“Nessun tributo può essere imposto o riscosso se non è stato consentito dalle camere
e sanzionato dal Re” espressione del principio classico delle democrazie liberali :
“nullum tributum sine lege” che negli stati parlamentari si esprime “no taxation without
representation”.
38
Non è questa la sede adatta per una analisi dettagliata del problema, si rimanda
pertanto a Bartholini : Il principio di legalità in materia delle imposte, Padova 1957; L.
Antonini: Riserva di legge e prestazioni patrimoniali imposte: la problematica
parabola dell’antico istituto, in Giurisprudenza costituzionale 1996, 1674; M.A.
Grippa Salvetti: Riserva di legge e delegificazione nell’ordinamento tributario, Milano
1998; A. Cerri: Problemi generali della riserva di legge, in Giur. Cost. 1968, 2234; L.
Carlassare: Legge (riserva di), in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XVIII, Roma,
1990; De Sena, Esposito, Ficari, Fransoni, Rossi, Vantaggio: Casi e materiali di diritto
tributario, Cedam 1997; L. Perrone : Appunti sulle garanzie costituzionali in materia
tributaria, in Riv. di dir. Trib. 1997, I, pagg. 577 e ss.
39
Cfr. Corte Cost. sent. 129/69 e sent. 236/94.
40
L’atto normativo deve comunque fissare presupposti, soggetti passivi, aliquote
(minima e massima almeno) e criteri per la determinazione dell’imponibile in modo da
delimitare la discrezionalità dell’organo amministrativo a discrezionalità tecnica.
41
La discrezionalità tecnica, secondo una risalente dottrina, sarebbe ipotizzabile nel
caso in cui, dopo aver accertato i presupposti sulla base di criteri tecnici e scientifici, la
Pubblica Amministrazione goda anche della discrezionalità amministrativa, potendo
valutare l’opportunità ed il contenuto dell’atto da emanare; più recentemente invece, la
dottrina (Sandulli) ritiene che la discrezionalità tecnica si ha solo nell’ipotesi in cui la
valutazione dei presupposti avvenga in base a criteri tecnici ma non anche nel caso in
cui a tale apprezzamento consegua un potere discrezionale circa il contenuto e
l’emanazione dell’atto. Viene allora giustamente da chiedersi dove stia in ciò la
discrezionalità, e se non sia invece più corretto parlare di accertamento tecnico quando
i criteri tecnici si riducano all’applicazione di esatte norme matematiche. In sostanza,
27
provocato anche l’effetto opposto, e ciò che potrebbe essere
efficacemente disciplinato con regolamenti (ex art. 17 legge 400/88),
continua in molti casi ad essere previsto da norme di legge,
ovviamente meno flessibili dei primi.
Dall’altra, laddove
si
è
effettivamente
verificato
un
depotenziamento della riserva di legge (soprattutto negli ultimi anni
e nell’ordinamento degli enti locali territoriali), la rivalutazione della
fonte regolamentare aumenta lo stato di confusione in cui si trova il
contribuente, non fosse altro perché la moltiplicazione delle fonti
normative provoca un aumento esponenziale delle norme ed una
correlativa maggiore difficoltà di riconduzione delle fattispecie
economiche verificatesi alle fattispecie legali previste. Con ciò non
intendo assolutamente criticare il mezzo regolamentare, bensì
evidenziarne il maldestro utilizzo che fino ad ora se ne è fatto.
Le conseguenze di una tale concezione sono state aggravate,
nel corso degli anni, da una impostazione del legislatore tributario
sempre più orientata verso una legislazione casistica, venendosi ad
innescare un circolo vizioso, che ha favorito una gemmazione di
leggi tributarie42 le quali, se da una parte rispondono all’esigenza di
assicurare una “base legislativa” ad ogni prestazione imposta,
dall’altra hanno reso l’ordinamento tributario quel coacervo di
regole legislative che, nel (vano) tentativo di prevedere qualsiasi
situazione rilevante ai fini fiscali, ha implicitamente abilitato i
soggetti passivi a ritenere irrilevanti fiscalmente le fattispecie non
previste, garantendone in un certo senso l’immunità da successive
come rileva il Guarino, la discrezionalità tecnica, nella valutazione giuridica, deve
considerarsi attività vincolata e non discrezionale.
42
Vds Tremonti-Vitaletti, “Le cento tasse degli italiani”, Falsitta, “Per un fisco .. “ op.
cit. capitolo III, “Il flagello della legificazione tributaria, la semplificazione e la
codificazione “.
28
contestazioni. Il legislatore fiscale ha infatti adottato, (in maniera
maggiormente marcata a partire dall’emanazione dell’attuale Testo
unico delle imposte sui redditi approvato con DPR 917/86), la
tecnica delle norme a “fattispecie esclusive”43, intendendosi con ciò
un passaggio, nella tecnica legislativa, dalle formule sintetiche, che
individuano le categorie tassabili per via concettuale, ad una
previsione per casi e sottocasi, e cioè la soggezione ad imposta di
tutte e sole le fattispecie previste come imponibili, senza possibilità
di integrazione analogica ex articolo 12 delle Disposizioni
preliminari44, senza cioè possibilità di aggiunte, neppure se si tratta
43
Si pensi che nel Testo unico del 1877, venivano elencate le fonti dei redditi tassabili
(l’imposta era quella di ricchezza mobile), ma il concetto di reddito (mobiliare) non
veniva definito. Nel successivo Testo unico del 1958, non vi erano cambiamenti radicali
del concetto di reddito, affermandosi che il reddito di ricchezza mobile derivava da
capitale o da lavoro o dal concorso di capitale e lavoro ovvero da qualsiasi altra fonte.
Anche nel Testo unico del 1973 la formulazione dell’articolo 1 appare più l’enunciazione
di un principio, infatti: “presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il
possesso di redditi, in denaro o in natura, continuativi od occasionali, provenienti da
qualsiasi fonte”. Sostanziale appare quindi la differente formulazione dell’articolo 1
dell’attuale Testo unico, per il quale il presupposto si identifica nel “possesso di redditi in
denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6”. Non è stata inoltre
riprodotta la disposizione di cui all’art. 80 del Dpr 597/73, che assoggettava a tassazione
“ogni altro reddito non espressamente considerato”. Benché per taluni all’interno della
categoria dei “redditi diversi” la prevista imponibilità dei redditi derivanti dalle
“obbligazioni di fare, non fare o permettere” avrebbe nell’attuale normativa, funzione
sostanzialmente analoga. Ma il problema che sta alla radice, è la qualificazione di
“reddito”, infatti, analogamente a quanto avveniva in vigenza dei precedenti ordinamenti
delle imposte sui redditi, né la legge delega per la Riforma Tributaria (legge 9 ottobre
1971 n° 825) né le norme delegate hanno fornito una definizione di reddito, in quanto è
risultato estremamente arduo codificare un concetto che è proprio della scienza
economica. Altro problema rilevante è il concetto di “possesso”. Questo, almeno
considerando il contenuto della relazione ministeriale all’art. 1 del DPR 597 del 1973,
ove era precisato che “più che alla titolarità giuridica dei redditi, la norma intende
riferirsi alla loro materiale disponibilità da parte del soggetto d’imposta” non deve
essere pertanto inteso nell’accezione civilistica di cui all’art 1140 del c.c., vale a dire
come situazione di fatto o sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente
all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale, bensì come mera disponibilità del
reddito stesso, vale a dire come effettiva possibilità di fruire del reddito anche senza
averne la titolarità giuridica.
44
Sulla possibile applicabilità, nell’interpretazione delle norme tributarie, dell’analogia
legis, problema che riguarda soprattutto la qualificazione o meno delle stesse tra le norme
eccezionali di cui all’articolo 14 delle Disposizioni preliminari al codice civile (che
esclude l’applicabilità dell’analogia), non vi è, in dottrina un orientamento univoco e
consolidato, mentre la giurisprudenza appare maggiormente coesa nel ritenerle tali.
29
di un fatto che esprime altrettanta o maggiore capacità contributiva
di un altro considerato tassabile. Il principio ispiratore forse, era
proprio quello di assicurare la certezza del diritto, limitando l’attività
dell’interprete e del giudice a meccanico sillogismo, in tal modo
però distaccandosi nettamente dalla realtà.
Un’altra chiave di lettura dell’eccessiva produzione legislativa
potrebbe essere quella che il legislatore, di fronte ad un fenomeno
evasivo ed elusivo di proporzioni oramai imbarazzanti, abbia
preferito la soluzione più facile, ma meno efficace ed efficiente45,
delle “leggi tampone” e dei condoni e concordati vari, piuttosto che
affrontare il problema alle sue radici, cioè rifondare da una parte
l’intero sistema impositivo e dall’altra una Amministrazione
finanziaria che da decenni versa in condizioni di assoluta
inefficienza, razionalizzando entrambi. Sembra quindi che il
legislatore abbia preferito la soluzione della legificazione46, ossia la
massiccia fabbricazione di leggi a getto continuo, con invenzioni di
presunzioni
legali
talvolta
anche
assolute47,
equiparazioni
antielusive, divieti di deducibilità di costi, coefficientazione nella
determinazione del reddito di impresa e di lavoro autonomo,
decadenze, preclusioni ecc, soluzione che nel breve periodo “paga”
Contrari, per violazione della riserva di legge, A.D. Giannini, I concetti fondamentali del
diritto tributario, Torino, 1956 e A. Berliri, Principi di diritto tributario, vol. I Milano
1952, Tarello, “L’interpretazione della legge”, Milano 1980, pagg. 351 e seguenti,
Tesauro, “Istituzioni ...”, op. cit. pagg. 42 e ss., Fantozzi, “Diritto ...”, op. cit. pagg. 182 e
ss, A. Lovisolo, L’evasione e l’elusione op. cit., al quale si rimanda anche per le
indicazioni bibliografiche. In particolare sull’interpretazione della norma tributaria di
agevolazione, (Cass. sent. nn. 1832/1974 e 179/1971 ), V. Ficari in Casi e materiali ... op.
cit. pag. 177.
45
Soprattutto in un’ottica di lungo periodo.
46
Cfr. Tremonti, “Scienza e tecnica della legislazione” in Riv. di sc. delle fin. e dir.
Fin., 1992/I pag. 51.
47
Sovente bocciate dalla Corte Costituzionale, cfr. C.Cost. 15/07/1976, n. 200;
25/03/1980, n. 42; 25/02/1999, n. 41.
30
di più in termini politici48, ma che nel lungo periodo49 è destinata ad
accrescere l’incertezza, e anche la diffidenza verso il fisco.
Lo scopo dell’approccio “casistico” è quello di prevedere e
tipizzare tutte le situazioni suscettibili di apprezzamento in termini
di capacità contributiva, e dunque a contenuto economico, ma la
sfera delle relazioni economiche è caratterizzata da una veloce
espansione e da una ancora più rapida trasformazione50. Le attività
produttive e gli stessi fattori della produzione sono stati e sono
ancora interessati da un rapido processo di delocalizzazione e
dematerializzazione che hanno fatto cadere dei “punti fermi” sui
quali la legge tributaria faceva affidamento per il collegamento fatto
economico/fattispecie giuridica/fattispecie fiscale; (anche) a tal fine
nuovi strumenti negoziali vengono approntati, usufruendo di quella
libertà negoziale prevista dall’art. 1322 c.c.51 che costituisce
l’estrinsecazione del principio di libertà di iniziativa economica di
cui all’art. 41 della Costituzione, rapporti che vengono talvolta
48
Dare concreta attuazione ad una vera riforma dell’apparato fiscale, necessita di un
coraggio ed una forza politica non comunemente presenti nella maggior parte dei
governi degli ultimi decenni, in quanto si tratta necessariamente di interventi che
confliggono con gli interessi di categorie numerose e protette, dai semplici (ma
numerosi) impiegati, agli alti burocrati strettamente legati al potere politico (basti
pensare alle vere e proprie ‘epurazioni’, legalizzate con lo spoil system, attuate ad ogni
cambio di legislatura.
49
Soprattutto quando comincia a consolidarsi un orientamento contrario della
giurisprudenza.
50
Talvolta proprio per motivi elusivi, rendendo così ancora più evidente la continua
rincorsa legislatore/elusore nella quale il primo è destinato cronicamente
all’inseguimento. Al riguardo appaiono conferenti le osservazioni di due studiosi
americani, S.A. Gutkin e D. Beck, i quali nell’introdurre un loro lavoro sull’elusione ed
evasione delle imposte scrissero: “Non appena una legge tributaria viene emanata si
evidenziano in essa delle lacune. I contribuenti le sfruttano. Vengono allora adottati
nuovi provvedimenti che aprono nuove smagliature, che a loro volta inducono alla
redazione di ulteriore materiale legislativo, e così via in una spirale infinita...”.
51
Che riconosce alle parti la libertà di determinare il contenuto del contratto (nei limiti
imposti dalla legge), e anche di concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi
una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela.
31
scomposti in più negozi collegati fra loro creando ampi spazi
all’elusione e connessi problemi interpretativi non più risolvibili con
gli ordinari criteri ermeneutici previsti dagli articoli 1362 e seguenti
del c.c.52. Un significativo esempio di difficoltà del legislatore
tributario a stare al passo con il mondo dell’economia reale è ben
rappresentato dal problema della tassazione del commercio via
internet53, che negli USA54 si è scelto di risolvere, o meglio differire,
con una moratoria fiscale temporanea (recentemente prorogata),
problema che ha rimesso in discussione, in tutti gli ordinamenti
52
L’argomento dell’autonomia negoziale, dell’interpretazione dei contratti ai fini
civilistici e del potere dell’Amministrazione finanziaria di riqualificarli ai fini fiscali,
sarà approfondito nella parte ad essa dedicata del presente lavoro.
53
Per chi volesse approfondire l’argomento vedasi: Comunicazione al Parlamento
europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni
“Un’iniziativa europea in materia di commercio elettronico” COM (97) 0157 del
15/04/1997; la Relazione sulla stessa, della Commissione per i problemi economici e
monetari e la politica industriale, relatrice: on. Erika Mann 04/05/1998 tutte reperibili sul
sito: http://www.ispo.cec.be./Ecommerce; Il sole 24 ore: 06/12/1999, “E-commerce:
incertezze sul prelievo”; 13/12/1999, “Internet e imposte: è l’e-commerce il nemico
numero 1“; 20/12/1999 “L’Ocse si adegua all’e-commerce”; 27/03/2000 “ Il fisco mette
in regola l’e-commerce”; 27/03/2000, “Iva: regimi delle operazioni sul web”;
18/04/2000 “Resta ancora in attesa di istruzioni il trattamento dell’Iva per i “beni
virtuali””; 18/04/2000“Il fisco aggiusta il tiro sull’e-commerce”;18/04/2000 “La
concorrenza sleale cresce in rete”. “Internet. Ipotesi di tassazione del reddito
transnazionale e virtualità del cyber(tax)planning” in Il fisco 30/97, pag 8504. “World
Wide Web. Problemi fiscali legati all’uso commerciale di internet” Il fisco 30/97, pag
8514; “Internet. Sfide e opportunità del commercio elettronico nelle iniziative della
Commissione europea” Il fisco 9/98, pag 3139; “Problematiche Iva relative all’acquisto
di un software via Internet o via modem” Il fisco 6/99, pag 1759; “Siti Web. Imprese
virtuali o effettive?” Il fisco 14/99, pag 4827; “Bit tax, ultima frontiera nella società
dell’informazione?” Il fisco 16/99, pag 5514; vedasi inoltre la “Proposta di direttiva del
Parlamento europeo e del consiglio relativa a taluni aspetti giuridici del commercio
elettronico nel mercato interno” del 18/11/1998 COM(1998) 586 def., la successiva
“Relazione” della Commissione giuridica e per i diritti dei cittadini, relatrice on. Christine
Margaret Oddy del 23/04/1999; la “Relazione della Commissione al Consiglio e al
Parlamento europeo” del 28/01/2000 COM(2000) 28 def.. Infine, all’indirizzo:
http://www.cestec.org è consultabile. tra l’altro, il documento del 21/04/2000: “Gli
aspetti fiscali del commercio elettronico” a cura del Centro Europeo di Studi Tributari e
sull’Electronic Commerce.
54
Da ricordare che la Costituzione americana esenta dall’imposizione le vendite per
corrispondenza cui le vendite via internet sono attualmente assimilate.
32
giuridici dei paesi maggiormente sviluppati, aspetti tributari oramai
consolidati come quelli inerenti la territorialità delle operazioni.
Si è innestata così una spirale perversa: le innumerevoli leggi
fiscali devono tra loro coordinarsi, cosa che non sempre riesce
possibile, anche a causa della mancata abrogazione esplicita delle
vecchie norme, aggrovigliando ancora di più la giungla legislativa55;
il legislatore adotta delle tecniche di produzione normativa assai
discutibili, come testimoniato dall’abuso dello strumento dei Decreti
legge, con i conseguenti problemi nei molti casi in cui gli stessi non
vengono
convertiti56,
pratica
prima
avvallata
dalla
Corte
Costituzionale57, e successivamente (finalmente) censurata dalla
55
Per rendere l’idea del fenomeno, si reputa utile riportare a titolo esemplificativo
alcuni dati commentati da A. Cherchi, in La stagione delle deleghe, su Il sole 24 Ore
del 19 gennaio 1998 : “durante l’attuale legislatura ( XIII, dal 9 maggio 1996,), dei
274 provvedimenti approvati dal Parlamento, solo 46 contengono abrogazioni esplicite
di vecchie leggi (in 10 casi è prevista la cancellazione completa della normativa),
mentre sono 14 i provvedimenti che contengono formule di abrogazione generica, tali
da far decadere le vecchie disposizioni incompatibili con le nuove. Né miglior risultato
ha ottenuto il Governo con i decreti legislativi: dei 28 emanati, solo 10 contengono
abrogazioni mirate (di cui quattro per cancellare un intero provvedimento), mentre
altri quattro decreti prevedono abrogazioni indirette”. Per quanto riguarda i decreti
legge “ a fronte di 308 sinora approvati... ne sono stati abrogati interamente solo 17 e
parzialmente 80”.
56
Si è trattato di una vera e propria escalation, infatti, tra il 1° gennaio 1972 ed il 30
maggio 1984 ( meno di 12 anni e mezzo ) sono stati presentati nel complesso 609
Decreti-legge, dei quali 105 in materia tributaria. Di questi ultimi, 66 convertiti con
modifiche, 20 senza modifiche, 15 sono decaduti, due sono stati respinti e due erano
pendenti ( dati tratti da A. Berliri, Ancora sulle cause della mancanza di certezza nel
diritto tributario, Giur. Imp. 1984 ). Nel periodo 1° giugno 1984, 20 ottobre 1992, in
meno di 8 anni e mezzo, il numero dei decreti legge contenenti disposizioni di natura
tributaria si porta a 255, dei quali, 83 convertiti con modifiche, 14 convertiti senza
modifiche e 148 non convertiti ( dati tratti da V. Uckmar, L’incertezza nel diritto
tributario, in La certezza del diritto. Un valore da ritrovare, Milano 1993 ). Nel
periodo aprile 1992, aprile 1994, ne sono presentati 490, convertiti 119, decaduti 363 (
e reiterati 328 ), respinti 8. Dall’aprile 1994 al maggio 1996, presentati 734, convertiti
121, decaduti 603 ( e reiterati 589 ), respinti 10. Dal 6 maggio 1996, presentati 340,
convertiti 87, decaduti 247 ( e reiterati 162 ), respinti 6 (da Il sole 24 Ore del 27 aprile
1998 su dati del Servizio studi della Camera dei Deputati).
57
Si vedano le sentenze della Consulta nn 173 del 15/05/87, 243 del 6/7/87, e 1033 del
15/11/88 nelle quali il principio espresso era quello per cui “ le censure di legittimità
costituzionale concernenti l’asserita mancanza dei presupposti della decretazione
d’urgenza” dovessero considerarsi “sanate” per effetto dell’avvenuta conversione in
33
stessa per la violazione dell’art. 77 Cost.58. Altra tecnica assai
discutibile e foriera di difficoltà interpretative è quella del rinvio,
con l’indicazione (numerica) dei riferimenti ad altra norma,
rendendo arduo il compito dell’interprete che si perde nei meandri
dei riferimenti normativi. L’intera intelaiatura dell’ordinamento
tributario è soggetta a continui mutamenti, perché, alla inevitabile
alternanza politica, si aggiungono da una parte le esigenze di cassa, e
dall’altra i continui aggiustamenti delle citate “fattispecie esclusive”
derivanti dall’emersione di pratiche elusive consentite dalla lacunosa
stesura della norma originaria, ed anche a causa dell’utilizzo di
termini talvolta ambigui od oscuri. La fisiologica instabilità del
diritto tributario si è accentuata per effetto dell’incremento delle
norme comunitarie, anche di formazione giurisprudenziale, in
materia tributaria.
E’ stato spesso utilizzato il mezzo delle leggi interpretative59,
con il secondo fine di modificare (in pejus) il regime giuridico delle
fattispecie con efficacia ex tunc60, in quei casi nei quali
legge. In questo modo la Corte Costituzionale ha eluso il proprio dovere di sindacare i
presupposti della decretazione d’urgenza.
58
Sentenza n. 29 del 27 gennaio 1995 nella quale la Corte inverte di 180 gradi la
precedente opinione interrompendo la suddetta pratica, che sviliva il principio della
separazione del potere politico/amministrativo da quello legislativo, basilare in una
democrazia parlamentare. Vedasi il paragrafo III°.1 “Primi passi verso il tramonto
dell’abusivismo governativo nella decretazione d’urgenza”, in G. Falsitta, “Per un
fisco ...” op. cit. Giuffrè 1996.
59
Molto spesso abusandone per ottenere effetti retroattivi a danno dei contribuenti e del
requisito di attualità che la capacità contributiva deve necessariamente possedere. Sulle
diverse tesi in ordine alla reale natura delle leggi interpretative vds da ultimo, G. Carli,
Il legislatore interprete, Milano, 1997
60
Dall’ipotesi della introduzione di una nuova forma impositiva in relazione a
presupposti verificatisi prima della pubblicazione della legge, a quella della proroga dei
termini di accertamento già scaduti, a quella infine di modifica dei criteri di
determinazione dell’imponibile in tributi di durata allorquando il periodo di imposta
non si è ancora concluso. Cito due esempi: l’art. 11, comma 9 della l. 413/91, avvallato
dalla giurisprudenza adducendo la oggettiva prevedibilità dell’imponibilità, vedasi la
34
l’orientamento giurisprudenziale si era consolidato su posizioni
“scomode”61, contribuendo così alla incertezza del diritto ed a quella
percezione di scorrettezza del legislatore tributario da parte dei
contribuenti, che tanto contribuisce a rendere il rapporto tra soggetto
attivo e soggetti passivi, improntato sulla diffidenza reciproca.
A parere di chi scrive inoltre, il sistema tributario italiano
perseguirebbe troppi obiettivi, e ciò mi pare possa essere desunto
dall’eccessivo numero di regimi speciali, particolari, agevolativi,
sentenza C.Cost. n 10056 del 1/8/2000, che pare aver messo fine alla questione più
volte oggetto di giudizi presso le Commissioni di merito; e più recentemente l’art. 1 del
DL 669/96. Sui profili di incostituzionalità di quest’ultima novella, vedasi Marongiu,
“Dubbi di legittimità costituzionale sulla nuova disciplina fiscale degli ammortamenti
finanziari dei beni gratuitamente devolvibili”,in Dir. e prat. Trib., 2000, I, pag. 3 e ss.
Per la tesi della oggettiva prevedibilità si vedano le sentenze della Corte Costituzionale
11 aprile 1969 n 75, in Dir. e prat. Trib., 1969, II pagg. 349 e ss.; sent. n 315 del 20
luglio 1994, in Il fisco n 30/94 pagg. 7235 e ss. sent. n 14 del 19 gennaio 1995, in Il
fisco n 8/95, pag 1824. Per il connesso aspetto relativo alla presunta lesione dell’art. 53
della Cost. vedasi : Corte Costituzionale, sent. 27 luglio 1982, n 143, in Giur. Cost.,
1982, I, pagg. 1256 e ss.; ordinanza n 365, del 29 dicembre 1983, in Il fisco n. 5/84,
pag. 662; ordinanza n 342 del 13 dicembre 1985, in De Mita , “Fisco e Costituzione”,
Milano 1996, pagg. 343 e ss.; ordinanza n 263 del 13 luglio 1987, in De Mita “Fisco e
...”op. cit. pagg. 642 e ss; ordinanza n. 542 del 17 dicembre 1987, in De Mita “Fisco e
...” op cit. . Decisamente contrario alla tesi della prevedibilità, e con argomentazioni a
mio avviso estremamente convincenti, si veda, G. Falsitta, “Per un fisco...”, op. cit.
paragrafo II°.1 intitolato (ironicamente) “L’illegittimità costituzionale delle norme
retroattive imprevedibili, la civiltà del diritto e il contribuente Nostradamus”. Cfr
anche G. Spaziani Testa nel commento all’ordinanza di remissione alla Corte
Costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 11 commi 5, 6, 7, 8
e 9 della l. 413/91, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione. Comm. I° di
Treviso, sez. II del 01/07/1994.
61
Mascherando in pratica il carattere innovativo della norma mediante l’utilizzo
“strumentale” di espressioni quali “ l’articolo xy va interpretato nel senso che..” od
altre sostanzialmente equivalenti. Emblematica è stata la vicenda relativa alla natura del
termine di cui all’art. 36-bis del DPR 600/73, essendosi consolidato l’orientamento
sfavorevole all’erario, di perentorietà del termine in questione, con (da ultime) le
sentenze della Corte di Cassazione n. 7088 del 29/07/97, in Il fisco n 32/97, pag. 9524;
e n. 12442 del 9/12/97, in Il fisco n. 11/98 pag. 3637; a distanza di pochi giorni da
questa ultima sentenza, con l’articolo 28 della legge 449/97, la norma veniva
interpretata (autenticamente e quindi retroattivamente) nel senso dell’ordinatorietà del
termine citato.Altri esempi : articolo 21 l. 133/1999 in relazione all’art. 38 comma 2
D.Lgs. 546/92 ed ordinanza della Corte di Cassazione n 1004 del 3 luglio 1999, in
“Corriere tributario” 2000, pagg. 1685 e ss., oggetto inoltre di giudizio innanzi la
Corte Costituzionale che ne ha dichiarato la illegittimità costituzionale, proprio nella
parte in cui dispone l’efficacia retroattiva, sent. n. 525, del 15/11/2000 in “Rass. Trib.”,
6/2000, pagg. 1889 e ss.. Si veda anche la recente sentenza della Suprema Corte, n. 267
del 10/01/2001
35
forfetari ecc. che contribuiscono non poco a complicare il sistema
nel suo complesso.
Infine, come se non bastassero i difetti attribuibili al
legislatore, la stessa Amministrazione finanziaria, introduce talvolta
elementi di incertezza con le sue circolari, le quali, benché siano
destinate ad essere vincolanti per i soli uffici periferici, in virtù del
vincolo di subordinazione gerarchica cui sono soggetti questi ultimi,
sono inevitabilmente percepite (erroneamente) dai contribuenti alla
stregua di una interpretazione autentica, ingenerando un affidamento
spesso tradito a posteriori, in seguito all’emanazione di successive
circolari di indirizzo contrario62.
§4) Fisco e contribuenti: un rapporto difficile.
Come reagisce il contribuente di fronte ad una situazione
come quella appena descritta ?
La risposta è abbastanza semplice ed immediata, si sentirà
vessato, non solo e non tanto per quanto si trova a dover pagare, ma
62
Sul valore giuridico delle circolari ed interpretazioni ministeriali, e sulle possibilità
che l’affidamento del contribuente sia tutelato mediante l’operatività delle “obiettive
condizioni di incertezza” quale causa di inapplicabilità delle sanzioni, si rimanda a
Lupi, “Manuale professionale di ...”, op. cit., pag 53 e ss.;F. Benatti : Principio di
buona fede e obbligazione tributaria, in Boll. Trib., 1986, pagg. 947 ss.; G. A. Micheli,
Corso di diritto tributario UTET 1992, pag. 59 e ss.; M. Bertolissi, Le circolari
interpretative dell’Amministrazione finanziaria, in Rass. Trib. I/1987, pag. 435; G.
Falsitta, Rilevanza delle circolari interpretative e tutela del contribuente, in “Studi in
onore di E. Allorio”, II, Milano, 1989, pag. 1819; Russo, Manuale di diritto tributario,
Giuffrè 1999, pag. 97 e ss; Falsitta, Manuale di diritto ... op. cit., pagg. 176 e ss . La più
recente giurisprudenza della Cassazione, sez. trib. (sentenza n° 2133 del 14/02/2002) ha
avuto modo di chiarire quanto segue : “Le circolari ministeriali in materia tributaria
non costituiscono fonte di diritti ed obblighi, per cui, qualora il contribuente si sia
conformato ad un'interpretazione erronea fornita dall'amministrazione in una
circolare (successivamente modificata), e' esclusa soltanto l'irrogazione delle
relative sanzioni, in base al principio di tutela dell'affidamento (come ora
espressamente sancito dall'art. 10, comma secondo, della legge 27 luglio 2000, n.
212, c.d. statuto del contribuente)”. Si veda inoltre Cass. Sez. trib. N° 14619 del
08/06/2001; C.Cost., N° 416 del 04/11/1999; Cass. Ord. 01/03/2000; C.Cost. N° 229
del 07/06/1999; C.Cost. N° 586 del 28/12/1990.
36
soprattutto per quella che è la percezione di ciò che riceve come
contropartita nel momento in cui si trova ad avere la necessità di
utilizzare un qualsiasi servizio pubblico trovandosi così di fronte a
strutture fatiscenti, personale spesso scortese e poco preparato e
tempi di attesa biblici, che non di rado (soprattutto trattandosi di
salute) inducono alla decisione di rivolgersi al settore privato per
avere (a pagamento ovviamente) un servizio che si ha così
l’impressione di aver pagato due volte.
E’ andata per questa via consolidandosi l’idea che la spesa
pubblica sia in larghissima parte caratterizzata da un’enorme spreco
di denaro, che venga utilizzata per scopi politici (leggasi voto di
scambio), che gli impiegati pubblici siano troppi e non siano altro
che una categoria di fannulloni incapaci. Che sia o no un luogo
comune, deve riconoscersi un fondamento di verità, e ciò che più
importa è che un sentimento come quello appena descritto è radicato
e generalizzato al punto da rendere truffaldino il rapporto
Fisco/contribuenti, minando alla base quel rapporto di fiducia
indispensabile in un sistema basato sull’autodeterminazione delle
imposte.
L’elevata pressione fiscale determina un atteggiamento
generale di comprensione nei confronti di chi si sottrae al pagamento
di quanto dovuto, non c’è quella riprovazione nei loro confronti che
sarebbe lecito aspettarsi (in un paese civile). Chi non ha assistito a
scene nelle quali è lo stesso cliente che per un sentimento di
solidarietà/complicità, esorta il commerciante a “non fare lo
scontrino”? Salvo poi essere il primo a lamentarsi dell’imposizione
37
fiscale troppo alta, senza rendersi conto di trovarsi a pagare anche
per quelle somme che ha contribuito lui stesso a fare evadere63 .
Da un atteggiamento di comprensione si passa addirittura ad
uno di profonda ammirazione nei confronti di chi riesce a sottrarsi al
pagamento delle imposte e tasse sfruttando le imperfezioni delle
norme, ideando delle architetture contrattuali elaborate e geniali, in
una parola, eludendo.
Anche la complessità dell’intero sistema impositivo, ha
portato ad una percezione di costante precarietà, nel senso che il
contribuente non si sente mai completamente in regola, il che
giustifica, secondo quest’ordine di idee l’elusione/evasione perché,
rendendo fisiologica la sensazione di irregolarità e di paura nei
confronti di eventuali accertamenti e controlli, si tenterà almeno di
guadagnarci qualcosa, considerando anche la remota possibilità di
subire effettivamente un controllo fiscale.
La via dell’evasione sarà intrapresa soprattutto dalle piccole e
medie imprese, artigiani e piccoli commercianti che, trovandosi ad
intraprendere affari con soggetti consumatori finali (business to
consumer), sfruttano la carenza di interesse di questi ultimi alla
certificazione fiscale del corrispettivo pagato, talvolta, allettandoli
con una riduzione di prezzo64.
Le imprese di maggiori dimensioni, o comunque chi si trova
ad operare con altri operatori economici (business to business),
tendono ad utilizzare maggiormente lo strumento elusivo, anche
63
Con questo non intendo ridurre il problema dell’elusione/evasione delle imposte ad
una questione di “scontrini”, ma evidenziare l’atteggiamento mentale che si ha nei
confronti dell’intero rapporto di imposta, basato sulla sfiducia reciproca legittimando
(quasi) le scorrette reazioni di entrambe le parti.
64
Tipico il caso dei dentisti, e, più recentemente, delle imprese di lavori edili, a seguito
dell’introduzione della detrazione del 36% (prima 41%) sui lavori di ristrutturazione
edilizia.
38
perché questo richiede l’assistenza e consulenza di tributaristi esperti
e preparati che raramente le piccole imprese possono permettersi.
In conclusione si deve constatare la quasi inesistente cultura
del sacrificio fiscale inteso come presupposto indispensabile per
l’attuazione del principio di solidarietà nel concorso alle spese
necessarie per l’attuazione degli obiettivi indicati nella Suprema
Legge, e la responsabilità maggiore ancorché non esclusiva, di
questa carenza non può che essere attribuita ai pubblici poteri.
§5) Conclusioni
Riassumendo quanto esposto in questi primi due capitoli,
possiamo evidenziare che l’essenza dell’elusione può in prima
battuta essere identificata nel (precario) rapporto di equilibrio
esistente tra i due principali fondamenti costituzionali in materia
tributaria, la riserva di legge e la capacità contributiva.
Questi ultimi si trovano talvolta in conflitto, allorquando
venga posta in essere una fattispecie che, dal punto di vista
economico costituisce una espressione di capacità contributiva, ma
che, dal punto di vista strettamente giuridico non è esplicitamente
prevista come tassabile da alcuna norma impositiva, atteso che il
principio della riserva di legge importa la tipicità ed esclusività delle
fattispecie impositive. Si viene così a creare una sorta di attrito,
testimoniato dalle diverse posizioni della dottrina, da cui si
originano le diverse impostazioni di fondo che caratterizzano lo
studio dell’elusione fiscale.
Abbiamo infatti da una parte coloro i quali, difendono
strenuamente la riserva di legge e la connessa certezza del diritto, e
dall’altra chi vorrebbe far prevalere un approccio maggiormente
39
basato sulla sostanza economica degli accadimenti, in stretto
ossequio del principio di capacità contributiva e del connesso
principio di solidarietà. Questi ultimi hanno cioè interpretato
l’articolo 53 quale limite al libero svolgimento dell’autonomia
privata, così ritenendo il precetto costituzionale direttamente
applicabile e pertanto invocabile davanti a comportamenti ritenuti
elusivi65.
A parere dello scrivente, occorre ricordare la funzione che
ciascuno dei cennati principi ha all’interno dell’ordinamento. La
capacità contributiva, come la migliore giurisprudenza costituzionale
ci insegna, deve essere intesa quale parametro di riferimento,
garanzia per il privato cittadino e limite per il legislatore il quale,
osservando il principio di legalità, deve individuare con legge i fatti
e gli atti ritenuti espressivi di capacità contributiva per assoggettarli
a tassazione66. Questo non deve però necessariamente condurre ad
una esasperazione della ricerca e codificazione di ogni minimo fatto
che si intende assoggettare a tassazione, come può ben testimoniare
l’esperienza di un paese certamente attento ai diritti ed alle libertà
personali come gli Stati Uniti, nel cui ordinamento tributario,
ispirato anch’esso al principio di legalità, gli elementi base della
imposizione sui redditi sono compresi in poche disposizioni a
65
Si tratta fondamentalmente degli autori, della dottrina minoritaria, che ritengono
l’articolo 53 quella “norma imperativa” (tributaria), la cui violazione determinerebbe la
nullità del negozio per frode alla legge ex art. 1344 c.c., come il Gallo in “Brevi spunti
in tema di ...” op. cit.
66
Di questa opinione è anche Moschetti in “La capacità contributiva” Padova 1993,
pagg. 15 e ss, il quale sottolinea che il principio di capacità contributiva deve
necessariamente raccordarsi a quello della riserva di legge, nel senso di escludere che
ogni manifestazione di capacità contributiva sia assoggettabile ad imposta, ma solo
quelle che si sono concretizzate in un atto legislativo.
40
carattere fondamentale67, e la norma che individua il presupposto
dell’imposta68 è seguita da una elencazione a titolo esplicitamente
esemplificativo.
Relativamente al complessivo impianto dell’ordinamento
tributario, il panorama delineato non appare certamente dei più
confortanti, ciononostante, a conclusione di questo apocalittico
quadro, v’è comunque da riconoscere un rinnovato vigore delle
correnti di pensiero più garantiste. Dopo anni di gestazione ha infatti
visto finalmente la luce lo Statuto dei diritti del contribuente69, il
quale, approvato con la legge70 212/2000, contiene delle importanti
67
G.Zizzo, “ Riflessioni in tema di tecnica legislativa e norma tributaria ” in Rass.
Trib. 1988 pag. 183.
68
Sezione 61.
69
Il primo progetto fu presentato nel settembre 1990 alla Camera, poi ripresentato nel
1992, la versione attuale è stata progettata in Parlamento nel 1996 per essere approvata
nell’agosto del 2000, nel pieno di una serie di riforme ed innovazioni (anche tecniche,
come il debutto, con successo, della trasmissione telematica, della dichiarazione
unificata, delle compensazioni ecc.), che hanno sicuramente messo in luce un
complessivo ripensamento del rapporto Fisco-contribuenti, anche se talvolta si ha
l’impressione che “troppa carne sia stata messa sul fuoco...”.
70
La scelta di non utilizzare lo strumento ben più vincolante della Legge costituzionale,
è stato criticato da chi si attendeva un maggior coraggio politico, in considerazione del
fatto che, applicandosi allo Statuto gli ordinari criteri relativi alla successione delle
leggi nel tempo, una successiva disposizione incompatibile prevarrebbe sulla prima. Da
una attenta lettura della legge, si può però collocare questa tra le leggi cosiddette
(auto)“rinforzate”, infatti l’articolo 1 comma 1, richiede che le deroghe e le modifiche
di quanto da essa disposto, debbano essere necessariamente espresse. Inoltre esso reca
perlopiù dei principi generali dell’ordinamento tributario, e le disposizioni in essa
contenute sono emanate “in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione”.
Quanto sopra, unitamente alla previsione dell’obbligo degli enti territoriali di
provvedere all’adeguamento dei rispettivi ordinamenti ai principi medesimi, ci
permette di collocare lo Statuto in una posizione sovraordinata rispetto alla legge
ordinaria. La caratteristica di fissità, (già nota nel diritto tributario, art. 1 comma 2
della legge 4 gennaio 1929 n° 4) delle disposizioni in questione vuole in sostanza
impedire che i relativi principi generali vengano violati, anche in forma implicita, da
leggi e leggine; inoltre la modifica o deroga espressa non è mai ammessa con leggi
aventi carattere speciale ( limitate cioè a materie o soggetti particolari ). Secondo E. De
Mita, Statuto del contribuente, generico eppure utile, in Il sole 24 Ore del 16 marzo
1999, “si tratta di principi che dovrebbero trovare applicazione comunque, anche
senza particolari disposizioni di legge. Ad ogni modo, ben vengano disposizioni che nel
loro insieme, sia pure nella loro portata limitata, sembrano rappresentare un grosso
mutamento di prospettiva... questo statuto può essere considerato un contenitore che
41
enunciazioni di principio che hanno di mira molti dei difetti
dell’ordinamento appena esposti71. Ancora non è possibile valutarne
appieno l’efficacia e l’impatto, anche a livello psicologico, in quanto
si stanno lentamente adeguando le previgenti disposizioni contrarie
ai suddetti principi, ma la Suprema Corte di Cassazione72 ha già
avuto modo di rimarcare l’importante funzione dello Statuto
all’interno dell’ordinamento tributario, sentenziando che, “Le
disposizioni
dello
Statuto
costituiscono
principi
generali
dell’ordinamento tributario, tendenti ad attuare gli artt. 3, 23, 53 e
97 della Costituzione, ed assumono... un inequivocabile valore
interpretativo”. Lo Statuto diventa quindi uno strumento che “deve
aiutare l’interprete a ricavare dalle norme il senso che le renda
compatibili con i principi costituzionali”. Sicuramente rilevante, e
già operativo, è l’istituto dell’interpello generalizzato di cui al V°
comma dell’articolo 11 dello Statuto.
Tra le fondamenta del nuovo “edificio” deve essere incluso
un effettivo recupero di immagine, che consenta di riportare il
rapporto Fisco/contribuenti, da posizioni di scontro, sfiducia ed
assoluta incomunicabilità dovuta all’utilizzo di linguaggi diversi ed
incompatibili, verso i binari di una fattiva reciproca collaborazione.
con il tempo potrebbe diventare la tanto sospirata legge generale sull’applicazione
delle imposte e sui principi sostanziali sui quali fondarle”.G. Falcone: “Il valore dello
Statuto del contribuente”, in Il fisco 36/2000, pag. 11038.
71
E’ comunque importante rimarcare che una legge è un buon segno ed un buon inizio,
ma per poter risolvere (rectius attenuare) i gravi problemi che abbiamo velocemente
rassegnato, occorre un intervento su più fronti. Ridurre la spesa pubblica
razionalizzandola è un obiettivo primario che, unitamente ad un allargamento della
cerchia dei soggetti passivi potrebbe consentire una riduzione del carico fiscale e quindi
della stessa convenienza ad evadere/eludere.
72
Sentenze della sez. tributaria nn. 4760 del 30/03/01 e 5931 del 21/04/01. Cfr. G.
Bernoni : Sentenze della Cassazione e Statuto del contribuente. In Il fisco n. 28/2001
pag 9508. Cass. sez. trib. N° 14588 del 26/01/2001; Comm. trib. reg. Umbria, N° 728
del 29/11/2000; Comm. trib. prov. Ravenna N° 129 del 28/11/2001.
42
E’ sicuramente da apprezzare l’accresciuto ricorso, in varie fasi
procedimentali, al contraddittorio tra le parti, ed in generale ad una
impostazione di fondo tendente alla ricerca del dialogo. Anche dal
punto di vista sanzionatorio alcuni netti miglioramenti sono stati
fatti, dalla diminuzione dell’entità dei minimi edittali relativi alle
violazioni sostanziali73 alla non punibilità per le violazioni
“meramente
formali”.
Più
in
generale,
è
apprezzabile
l’impostazione dell’impianto sanzionatorio74, sui binari del diritto
penale, dalla previsione del principio del favor rei75 a quello della
personalizzazione della pena ecc..
La semplificazione tributaria è l’altro improcrastinabile
settore di intervento, in quanto oltre a facilitare lo spontaneo
adempimento, agevola altresì l’attività di controllo76. Occorre infine
procedere
ad
una
rifondazione
dell’intero
apparato
dell’Amministrazione Finanziaria, partendo da un adeguato
programma di gestione delle risorse umane che fino ad ora ha
costituito, a mio sommesso avviso, uno dei problemi principali del
settore77.
73
74
Decreti legislativi 471 e 473 del 18 dicembre 1997.
Decreto legislativo 472 del 18 dicembre 1997.
75
Decretando finalmente la fine dell’odioso istituto dell’ultrattività prevista nella legge
n. 4 del 7 gennaio 1929.
76
Quello che preoccupa maggiormente è il fatto che quanto appena detto è diventato
ormai una banalità che abbiamo sentito e sentiamo ad ogni cambio di governo, e
questo potrebbe rendere difficile la percezione che un vero cambiamento stia
effettivamente avvenendo.
77
Sarebbe ora di finirla con le progressioni di carriera determinate in larga misura
dall’anzianità di servizio e cominciare a dare maggiore risalto alla preparazione
giuridica, evitando di porre sullo stesso piano una laurea in filosofia con una in
giurisprudenza o in economia, come ancora avviene. La recente istituzione delle
Agenzie Fiscali, aldilà delle modifiche di forma, non ha ancora dato prova di essere
quella riforma che molti impiegati delusi come il sottoscritto si aspettavano, ma questa
forse è l’ulteriore prova che è proprio la volontà politica di avere un’apparato fiscale
efficace ed efficiente a mancare.
43
PARTE SECONDA
CONTRASTARE L’ELUSIONE FISCALE
Capitolo I
§1)Una precisazione di metodo
In questa parte di lavoro si darà conto sinteticamente di come
il legislatore abbia tentato di contrastare l’elusione fiscale,
privilegiando la correzione delle norme ‘strumentalizzate’, ovvero
introducendone alcune dirette a colpire fattispecie specifiche,
descrivendo sinteticamente alcune disposizioni. Il discorso
principale riguarderà invece i tentativi fatti dall’Amministrazione
finanziaria di combattere le medesime ‘strumentalizzazioni’, nelle
more dell’intervento legislativo, ovvero, successivamente ad esso,
di come essa abbia tentato talvolta di estenderne la portata fino a
desumere da queste dei principi di tipo generale che la dotassero di
un penetrante potere di ingerenza sull’attività dei privati, cioè
travalicando il principio dell’autonomia negoziale ed entrando nel
merito delle scelte imprenditoriali sindacando l’economicità delle
stesse.
44
§2) Gli strumenti di contrasto del fenomeno elusivo.
Premessa
Come già in precedenza rilevato, il fenomeno elusivo ha
cominciato ad essere considerato dal legislatore tributario foriero di
iniquità economiche e sociali, allorché ha raggiunto livelli non più
sostenibili in termini di distorsione dei più importanti principi sui
quali la natura e la entità dell’imposizione si fondano. Mi riferisco
ovviamente ai principi costituzionali più facilmente riconducibili
all’imposizione
fiscale
ed
all’attività
della
Pubblica
Amministrazione in generale (artt. 3, 23, 53 e 97 Cost.), ma anche a
quei principi costituzionali per i quali la leva fiscale funge da
mezzo per agevolarne l’attuazione concreta (att. 4, 9, 31, 32, 33, 34,
36, 38, 41, 44, 45 e 47 Cost.).
Così, il dibattito parlamentare circa i possibili modi di
contrastare i fenomeni di sottrazione agli obblighi fiscali, ha
cominciato a tenere in considerazione non più solamente l’evasione,
ma anche l’elusione.
Di fronte alla diffusione delle pratiche elusive, il dibattito
principale ha riguardato soprattutto l’opportunità di introdurre o
meno una norma antielusiva di carattere generale, secondo
l’approccio seguito in altri paesi, Germania in testa, ovvero norme
che andassero a colpire singole fattispecie elusive, oppure ancora
evitare gli abusi e le strumentalizzazioni attraverso la correzione
delle imperfezioni normative che li consentivano.
45
§3) Le reazioni del legislatore alle pratiche elusive:
la correzione delle imperfezioni normative
Nel primo capitolo ho cercato di riassumere brevemente le
varie definizioni di elusione fiscale, proposte dai più autorevoli
studiosi del diritto tributario. L’obiettivo non era ovviamente quello
di individuare la definizione “perfetta”, o “vera” che dir si voglia,
bensì quello di fornire delle motivazioni sostenibili, a suffragio
della tesi oramai consolidata, della liceità di questo particolare ed
ingegnoso espediente per “mascherare” capacità contributiva,
evitando di porre in essere atti o fatti legalmente individuati ed
assunti a presupposto di imposta, sfruttando le imperfezioni delle
norme, gli spazi interstiziali tra ciò che il diritto positivo individua
come imponibile e ciò che gli si avvicina in termini di effetti
economici, ma non in termini di qualificazione giuridica, o
perlomeno non abbastanza da essere in esso ricompreso. Detto
questo, potrebbe sembrare più che logico che la prima cosa da fare
per contrastare questa erosione di gettito sia la semplice correzione
delle stesse norme che l’hanno consentita78.
Le norme correttive però, intervenendo ad elusione compiuta,
tendono ad evitare che la strumentalizzazione si ripeta, colpendo un
fenomeno con dei sintomi già evidenti. In ciò sta la differenza
fondamentale con le norme antielusione vere e proprie di portata
più o meno ampia, le quali invece, lasciando invariata la
legislazione, comprese le norme strumentalizzate, attribuiscono
all’Amministrazione finanziaria la possibilità di disconoscerne i
78
In tal senso E. Grassi, “L’elusione tra la certezza del diritto e le ragioni …”. op. cit..
46
naturali effetti fiscali ogniqualvolta se ne verifichino i presupposti
di applicabilità, anch’essi legislativamente definiti79.
Emerge quindi con chiarezza il limite più evidente di un
siffatto approccio, evidenziato sin da subito dalla più attenta
dottrina, ovvero la circostanza che l’efficacia di questa metodologia
è condizionata dal tempo necessario perché il legislatore prenda
coscienza della possibile, ma molto più spesso già verificatasi,
elusione ed approntare le correzioni del caso. Aggiungasi che il più
delle volte il primo “segnalatore” delle possibilità elusive di una
norma è rappresentato dalle contestazioni dell’Amministrazione
finanziaria in sede di accertamento80, e successivamente la tesi di
quest’ultima passa al vaglio dei vari gradi della giustizia tributaria.
In conclusione, accade di frequente che solo il consolidarsi di
un orientamento contrario all’amministrazione spinge il legislatore
a prendere i provvedimenti del caso. Può dunque agevolmente
comprendersi la serietà della critica. Avviene infatti che la norma
venga corretta, ma quando una parte ingente di perdita di gettito si è
già verificata, come può agevolmente rammentarci il caso delle
cosiddette “società di comodo”, con la correzione della norma che
permetteva l’abuso81, avvenuta quando ormai numerose operazioni
aventi
tale
scopo
avevano
già
sottratto
ingenti
capitali
all’imposizione; ovvero l’utilizzo dello strumento dell’usucapione
per acquistare la proprietà di un bene immobile o di un diritto reale
di godimento sullo stesso, per eludere l’imposta di registro gravante
79
Cfr. Lupi, “ Modifiche normative ... “ op. cit., pagg. 409 e ss.
80
Accertamenti che il più delle volte rincorrono i lunghi termini di prescrizione,
notificati quindi a distanza di anni dalla commissione del fatto.
81
Avvenuta definitivamente con la legge finanziaria per il 1995, L. n° 724 del
23/12/1994.
47
sugli acquisti a titolo oneroso, lacuna colmata con la modifica
normativa avvenuta ad opera del DL 2 marzo 1989, n. 69, ovvero
infine come testimoniato dalle vicende del dividend washing, sul
quale si tornerà ampiamente nel prosieguo.
Una ulteriore fonte di critiche è rappresentata dalla possibilità
che un simile approccio si accompagni a degli effetti collaterali
ancora più pericolosi. Difatti, la spasmodica ricerca di una
perfezione testuale irraggiungibile, implica necessariamente che
appena un possibile spiraglio elusivo dovesse intravedersi, la norma
dovrebbe essere nuovamente corretta. Il rischio, per nulla remoto, è
chiaramente quello di amplificare la già eccessiva instabilità
dell’ordinamento, soggetto in questo modo a modifiche a getto
continuo, a fronte della possibilità che nonostante la correzione,
restino comunque aperte delle strade all’elusione82.
Una possibile alternativa è rappresentata dalla previsione di
fattispecie assimilate o surrogatorie, che riconducano situazioni per
così dire equivalenti, dal punto di vista della potenzialità economica
manifestata, a quelle esplicitamente previste come imponibili83.
In questa direzione era l’Hensel84 il quale affermava appunto
che il mezzo più ovvio per opporsi alla premeditata non
effettuazione della fattispecie considerata dal legislatore come
tipica, è la creazione di fattispecie surrogatorie di imposizione; tale
mezzo, tuttavia, si dimostra insufficiente a combattere l’elusione,
82
Anzi talvolta aprendone di nuove. Cfr. Lupi, Diritto tributario, op. cit. pag. 123, il
quale evidenzia l’ulteriore e connesso pericolo della possibilità che vengano ad essere
pregiudicate anche situazioni estranee all’elusione e meritevoli di tutela.
83
Sono ad esempio quelle norme che limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o
altre posizioni altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario. Cfr. art. 14, comma 7bis Tuir, di cui, ampiamente, più avanti, argomentando del dividend washing.
84
Hensel : Diritto tributario, Giuffré, 1956.
48
trattandosi di una soluzione che forzatamente è destinata ad
inseguire il problema senza mai risolverlo definitivamente.
§4) L’interpretazione in funzione antielusiva.
Premessa
La consapevolezza dell’assenza di adeguati strumenti
normativi finalizzati al contrasto delle strumentalizzazioni delle
regole fiscali attuate a fini elusivi, ha portato parte della dottrina85 ad
affermare la possibilità di utilizzare allo scopo l’interpretazione della
norma tributaria.
§4.1) L’interpretazione della norma tributaria.
Generalità.
Nell’interpretazione della norma tributaria si è ormai
consolidata l’opinione che ritiene che essa debba sottostare anzitutto
alle ordinarie regole ermeneutiche86 e quindi alle indicazioni fornite
dall’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile87. Il punto
di partenza è infatti l’interpretazione letterale della norma, con
particolare riguardo all’analisi semantica dei termini utilizzati ed alla
85
Cfr. Tabellini, “L’elusione fiscale”, op. cit., Tesauro, “Istituzioni di diritto
tributario”, op. cit., pagg. 120 e ss.. Contro, Morello, “Frode alla legge”, op. cit..
86
Così, tra gli altri, Micheli, Legge (diritto tributario), in Eci. Dir., XXIII° vol.,
Milano,1973. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Torino 1987, pag. 26.
87
I° comma :”Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che
quello fatto proprio delle parole secondo la connessione di esse, e della intenzione del
legislatore” .
49
sintassi del testo, tenendo altresì conto del luogo e del tempo in cui il
legislatore ha posto la norma.
Soffermandoci brevemente sull’analisi del significato delle
parole, occorre rilevare che accade non di rado che il legislatore
utilizzi dei termini la cui origine è esterna al diritto tributario e che,
schematicamente possiamo distinguere in tecnici e volgari. I primi
possono essere a loro volta suddivisi a seconda che si tratti di
termini giuridici, soprattutto mutuati dal diritto civile e commerciale,
e non giuridici, tra i quali prevalgono quelli di derivazione
economica e aziendale. I termini volgari, sono semplicemente quelli
cd “di uso comune88”. Talvolta avviene che uno stesso termine abbia
significati differenti, uno “tecnico” ed uno di “uso comune”. È
intuitivo che in casi del genere, il significato tecnico sia quello
inteso dal legislatore, e pertanto prevarrà su quello volgare89.
Possono essere considerate superate le arcaiche teorie le quali
ritenevano che, nel dubbio, la norma tributaria andasse interpretata a
favore del fisco “in dubio pro fisco” ovvero del contribuente“in
dubio contra fiscum”.
Altrettanto dicasi per altre due correnti ermeneutiche, quella
“autonomistica90” e quella “antiautonomistica91”. Secondo il primo
88
Si potrebbe obiettare che un termine, ancorché di provenienza “volgare”, per il solo
fatto di essere utilizzato dal legislatore, dovrebbe assurgere a termine “tecnico”.
89
Ad esempio, l’espressione “lavoratore autonomo” ha, nell’uso comune, un significato
tale da ricomprendere in pratica tutti coloro che non sono lavoratori dipendenti, e
quindi molto più ampio di quanto invece sia nelle leggi tributarie. Non ci sono in ogni
caso dubbi sulla prevalenza del secondo sul primo.
90
Tra i più autorevoli sostenitori di tale tesi, detta anche ‘sincretica’, Griziotti,
“L’autonomia del diritto finanziario rispetto al diritto civile nella legge del prestito
redimibile e dell’imposta straordinaria immobiliare”, in Riv. di dir. fin. e sc. delle fin.,
1938,II, pag. 241; Vanoni, “Natura e interpretazione delle leggi tributarie”, riprodotto
in “Opere giuridiche”, Milano, 1961, pag. 133.
50
indirizzo, i termini utilizzati nella redazione delle norme di diritto
tributario godrebbero di una sorta di autonomia, tale per cui il
significato da attribuire loro non dipenderebbe assolutamente da
quello del settore giuridico di provenienza. All’interno di questa
corrente di pensiero, merita una menzione a parte la teoria cosiddetta
“della interpretazione funzionale” della scuola di Pavia, punto di
riferimento determinante per le successive dottrine che si sono
ispirate al principio della prevalenza della sostanza sulla forma, nelle
diverse accezioni proposte92.
L’indirizzo “antiautonomistico”, al contrario, asseriva la
prevalenza del significato originario per tutti quei termini usati in
diritto tributario e provenienti da altri settori dell’ordinamento,
presupponendo cioè una sorta di subordinazione del diritto tributario
al diritto civile.
Personalmente ritengo che, come spesso avviene, posizioni
estreme, nell’una come nell’altra direzione, conducano a risultati
fuorvianti93. In quei (numerosi) casi in cui vengono usati termini
mutuati da altre branche del diritto occorre pertanto considerare
anzitutto il contesto tributaristico all’interno del quale detti termini
sono utilizzati94, in tal modo superando il pregiudizio secondo cui
una parola mantiene lo stesso significato a prescindere dal contesto
in cui è utilizzata, rendendosi altresì superflua la necessità di
91
Detta anche “tesi tradizionalista”, tra i cui sostenitori segnalo, Uckmar, “Principi per
l’applicazione delle tasse di registro”, in Dir. e prat. trib., 1937, pag. 388; Berliri,
“Corso istituzionale di diritto tributario”, I, Milano, 1985, pagg. 39 e ss..
92
E sulla quale si ritornerà in seguito.
93
Così anche Batistoni-Ferrara, “Lezioni di diritto tributario”, Giappichelli, Torino
1993, pag. 44.
94
Giova al riguardo precisare che l’importanza del contesto tributario ove i termini
sono utilizzati, permea l’intera attività esegetica..
51
teorizzare una qualche “autonomia del diritto tributario” ogni
qualvolta si riscontri una differente accezione, in una norma fiscale,
di un termine ad esempio civilistico. Né d’altro canto ha senso
parlare di assoluta subordinazione del diritto tributario al diritto
civile.
A queste stesse conclusioni è giunta la dottrina, italiana95 e
non96 e, con qualche differenza, la giurisprudenza Costituzionale97.
Quest’ultima ha evidenziato una maggiore propensione verso una
interpretazione
aderente
al
diritto
civile98,
(la
legittimità
costituzionale delle deroghe e in generale degli scostamenti dagli
istituti di diritto civile vengono valutati dalla Corte in ordine ai limiti
della ragionevolezza e dei validi motivi99). Si è, con tale scelta,
cercato di tutelare la certezza del diritto e la stabilità
dell’ordinamento, con chiari fini garantisti. Anche la dottrina,
nonostante sia meno interessata a questi obiettivi di tutela ed abbia
rilevato in modo più evidente la relatività di una tale subordinazione,
riconosce al significato civilistico un ruolo di primissimo piano
quale spunto, comunque non insuperabile, dell’interpretazione della
norma tributaria.
Altre volte non ci si pone neppure il problema della esistenza
di significati esterni al diritto tributario, quand’anche giuridici. Ciò
avviene quando è il legislatore stesso, che inserisce direttamente nel
95
S. Cipollina : “La legge civile ....” op. cit..
96
Relativamente all’ordinamento tedesco, L. Osterloh, “Il diritto tributario e il diritto
privato”, in “Trattato di diritto tributario, Padova, 1994, I, pagg. 113 e ss.
97
E. De Mita : “Fisco e Costituzione”, I e II, Milano 1984 e 1993.
98
C.Cost , 65/1986, 67/1985, 226/1984, 68/1985.
99
E. De Mita : “Fisco e Costituzione”, I e II, Milano 1984, pagg. 10 e ss. e 1993, pagg.
8 e ss. in particolare le sentenze 42/1980, 87/1986 e 115/1986.
52
corpo normativo le cd “formule definitorie”, mediante le quali
esplicita il significato da attribuire ad un dato termine, vincolando ad
esso l’interprete.
Una volta analizzato “... (il) senso ... fatto palese dal
significato proprio delle parole secondo la connessione di esse...”, il
passo successivo consiste nel valutare l’aderenza del significato così
ottenuto con quella che l’art. 12 chiama “intenzione del
legislatore100”, da intendersi non come intenzione soggettiva dello
stesso, “quanto la mens della norma in sé, assunta ormai come
entità oggettiva nell’ordinamento e suscettibile di vita propria ed
autonoma, sensibile alle vicende delle altre norme dell’ordinamento
che con essa si combinano e su di essa incidono”101 .
Di fronte ad una data interpretazione, assume notevole
importanza la valutazione della sua (eventuale) portata vincolante.
Allo scopo, occorre tenere conto del soggetto da cui essa
proviene102, potendosi distinguere una interpretazione dottrinale,
proveniente dagli studiosi della materia, autorevole ma non per
questo
vincolante;
ufficiale,
proveniente
dalla
stessa
Amministrazione finanziaria e vincolante solo all’interno della
propria struttura organizzativa, secondo gli ordinari rapporti di
subordinazione gerarchica, ben potendo questa interpretare in
seguito la stessa norma in modo diametralmente opposto, non
restando altro da fare, al contribuente che si sia uniformato al primo
orientamento, che invocare la non applicabilità delle sanzioni ex art.
100
Indicata in dottrina solitamente “mens legis” o “voluntas legis” ovvero “ratio
legis”.
101
Così il Fantozzi in “Diritto tributario”,op. cit. pag. 371.
102
Per approfondimenti sull’interpretazione dipendente dai soggetti da cui proviene, si
rimanda a Lupi, Diritto tributario, op. cit. pagg. 126 e ss. e Manuale professionale di
diritto tributario, op. cit. pagg. 63 e ss..
53
6 del D.Lgs. 472/97 per il ricorrere delle obiettive condizioni di
incertezza103; c’è poi quella giurisprudenziale, la quale, in aderenza
al principio generale dell’efficacia del giudicato solo inter partes, a
sua volta diretta conseguenze dell’essere, il nostro, un ordinamento
civil law, non è vincolante per gli interpreti successivi104; abbiamo
infine la interpretazione autentica, proveniente dallo stesso
legislatore ed avente l’obiettivo di meglio chiarire una disposizione
precedente; essa ha efficacia erga omnes, ma ciò che più rileva, è la
sua valenza retroattiva. Si tratta di uno strumento del quale il
legislatore ha fatto talvolta un uso improprio, soprattutto nel
passato105, quale utile espediente per introdurre norme impositive
nuove a tutti gli effetti, con efficacia retroattiva, eludendo il
principio di attualità che la capacità contributiva deve possedere,
interpretando correttamente l’art. 53 della Costituzione106.
103
Vds nota 62 Parte I^, pag. 36, paragrafo 3). In soccorso del contribuente, e
dell’interprete in generale, è la procedura dell’interpello. Mi riferisco all’interpello ( cd
generalizzato ) previsto dallo Statuto dei diritti del contribuente, avendo questo portata
vincolante nei confronti della successiva attività accertatrice, contrariamente a quanto
avviene nel caso dell’interpello ex art. 21 della L. 413/91, .
104
Al riguardo ritengo utile precisare che quanto detto riguarda solo la vincolatività in
senso stretto, e non implica automaticamente che una “giurisprudenza consolidata” o
“costante” non abbia alcun peso. Vi sono poi delle interpretazioni ad efficacia
vincolante, seppur limitata al caso concreto esaminato, come le sentenze con le quali la
Cassazione cassa una sentenza con rinvio, indicando appunto i criteri ai quali i giudici
(di merito) del rinvio debbono uniformarsi.
105
E, si spera, abbandonato, molto dipende dalla concreta ed effettiva attuazione degli
artt. 1 II° comma e 3 della L. n° 212 del 27/07/2000.
106
Si vedano le sentenze : C.Cost. n 75 del 11/04/69; C.Cost. n 315 del 20/07/94;
C.Cost. n 14 del 19/01/95; Cass. sez 5 n 12442 del 09/12/97; Cass. sez 5 n 7088 del
29/07/97; Cass. sez 5 n 1004 del 03/07/1999; C.Cost. n 525 del 15/11/2000; Cass. sez
trib n 267 del 10/01/2001.
54
§4.2)
L’interpretazione
l’interpretazione
e
funzionale,
l’elusione:
l’integrazione
e
l’analogia.
Le
due
all’interpretazione
contrapposte
della
correnti
norma
di
tributaria
pensiero
relative
(autonomistica
ed
antiautonomistica), erano spinte da due visioni diametralmente
opposte e che influenzavano in maniera determinante il loro
atteggiarsi nei confronti dell’elusione e del modo di contrastarla.
Infatti, per la prima (autonomistica), la qualificazione tributaria della
fattispecie deve avvenire sulla base della sostanza economica
dell’affare, indipendentemente dalla veste giuridica degli atti e/o
fatti posti in essere, garantendo per tale via, anzitutto che un fatto
espressivo di capacità contributiva fosse assoggettato a tassazione,
esaltando così, nell’attività interpretativa, la ricerca della ratio del
tributo.
Il riferimento normativo, addotto come prova dell’esistenza di
un tale principio nel nostro ordinamento, era l’art. 8 della legge di
registro del 1923 ( ora art. 20 T.U. 131/86)107.
107
Regio Decreto
che approva il testo unico delle leggi sulle tasse di registro
20 maggio 1897
(Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del regno il 10 luglio 1897, n° 150)
(Omissis.)
Legge 13 settembre 1874, n° 2076, art. 6
Art. 6
Le tasse sono applicate secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti o dei
trasferimenti, quando risulti che non vi corrisponda il titolo e la forma apparente.
Quando un atto che per la sua natura e per i suoi effetti risulti soggetto a tassa
proporzionale o graduale, non si trovi esplicitamente contemplato dalla tariffa, sarà
gravato con la tassa dell’articolo di tariffa che più si accosterà alla natura ed agli effetti
dell’atto stesso.
55
L’esigenza
perseguita
invece
dall’approccio
“antiautonomistico” è, al contrario, quella ben nota della certezza del
diritto, che preferisce poter contare su precisi riferimenti formali a
maggior tutela dell’interesse del contribuente ad essere posto al
riparo da pretese tributarie non previste esplicitamente.
Entrambe le teorie, estremizzate, hanno dei rilevanti risvolti
nella qualificazione elusiva o meno di una data fattispecie e quindi
nel modo di contrastarla. All’interno della corrente autonomistica, la
più rappresentativa in tal senso è senza dubbio la teoria della
“interpretazione funzionale” delle leggi tributarie sostanziali,
sviluppatasi nell’ambito della scuola pavese a cura del Griziotti.
Essa
riteneva,
nella
sua
formulazione
più
radicale,
che
l’interpretazione delle norme tributarie si dovesse adeguare alla
“causa impositionis“ desumibile avuto riguardo ai profili politici,
Regio Decreto 30 dicembre 1923, n° 3269
(Omissis.)
Art. 4
Le tasse di registro sono progressive, proporzionali, graduali o fisse. La tassa
progressiva si applica ai trasferimenti di beni a titolo gratuito. La tassa proporzionale si
applica alle trasmissioni a titolo oneroso di proprietà, di usufrutto, uso e godimento di
beni immobili, o di qualsiasi altro diritto reale, ed agli atti che contengono obbligazione o
liberazione di somme o prestazioni..
La tassa graduale si applica agli atti i quali non contengono obbligazione o
liberazione, ma semplice dichiarazione o attribuzione di valori o di diritti senza che ne
operino la trasmissione.
La tassa fissa si applica a tutti gli atti che possono servire di titolo o documento
legale.
(Omissis.)
Art. 8
Le tasse sono applicate secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti o dei
trasferimenti, se anche non vii corrisponda il titolo o la forma apparente.
Un atto che, per la sua natura e per i suoi effetti, secondo le norme stabilite
nell’art. 4, risulti soggetto a tassa progressiva, proporzionale o graduale, ma non si trovi
nominativamente indicato nella tariffa, è soggetto alla tassa stabilita dalla tariffa per l’atto
col quale per la sua natura e per i suoi effetti ha maggiore analogia.
D.P.R. 26/04/1986 n° 131, art. 20 : Interpretazione degli atti
L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti
presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente.
56
giuridici, economici e tecnici del fatto. Emblematica al riguardo
l’osservazione dello stesso Griziotti, secondo il quale “la legge non
può essere rigidamente limitata entro i confini della sua formula,
quale fu intesa da chi la elaborò”, ma deve essere interpretata
tenendo conto della dinamica economica. Ciò che essa propugnava
era dunque una interpretazione flessibile, la quale, legittimando
l’interprete ad effettuare una indagine sulla funzione (soprattutto
economica e sociale) della prestazione imposta, gli consentiva di
cogliere la sostanza economica prescindendo dalla sua veste
giuridica apparente, rivelandosi così, agli occhi della dottrina che in
tale teoria si riconosceva, uno strumento direttamente applicabile
ogniqualvolta il soggetto passivo adottasse, strumentalizzando il
principio dell’autonomia negoziale, una forma giuridica diversa da
quella espressamente prevista come imponibile, per raggiungere un
risultato
economicamente
equivalente,
limitando
o
perfino
sottraendosi al carico fiscale.
L’idea della “causa impositionis“, secondo la quale gli
studiosi della scuola di Pavia ritenevano che fosse compito del
giudice la verifica dell’esistenza di quella correlazione tra il
presupposto del tributo e la capacità contributiva (per il Griziotti la
causa impositionis appunto) che il legislatore ha posto a fondamento
della norma tributaria108, è indubbiamente quella che ha prestato
maggiormente il fianco alle critiche della dottrina avversa, la quale
ha avuto modo di evidenziare che un siffatto approccio era in palese
contrasto con il principio della riserva di legge ex art. 23 Cost.. In tal
108
G. Falsitta : “Osservazioni sulla nascita e lo sviluppo scientifico del diritto tributario
in Italia”, in “L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano”, atti del convegno “I
settanta anni di ‘Diritto e pratica tributaria’” (Genova 2-3 luglio 1999), coordinati da
Victor Uckmar, Cedam, Padova, 2000.
57
senso, e molto esplicitamente, il Giannini109, “Quest’apprezzamento
della
capacità
contributiva110,
quale
giustificazione
dell’imposizione, è già stato fatto dal legislatore, bene o male poco
importa, con l’istituzione delle varie imposte e con la precisa
determinazione dei relativi presupposti; e se costituisce, per ciò, la
ragione della norma legislativa, da cui scaturisce il debito
d’imposta, non può poi rivivere come elemento essenziale del debito
stesso111.”.
Appartengono sempre all’area dei sostenitori delle teorie
“sostanzialistiche”, anche coloro i quali sostengono l’efficacia dello
strumento interpretativo per scongiurare le possibilità di eludere le
norme impositive112, attribuendo all’interprete il potere di
riqualificare opportunamente i comportamenti elusivi113.
Le obiezioni ad una tale impostazione sono molteplici,
anzitutto occorre tenere conto della riserva di legge ex art. 23 Cost.,
109
Questi aveva aderito alla tesi della scuola di Pavia per quanto riguardava il principio
di tassazione in base agli effetti economici commentando l’art. 8 della legge di registro,
“Ma la disposizione in esame, quando dichiara che le tasse sono applicate secondo ‘gli
effetti degli atti o dei trasferimenti’, prevede anche una terza ipotesi, quella, cioè in cui
il risultato economico conseguito mediante l’adozione d’una data forma giuridica è
quello stesso che normalmente si ricollega ad una forma diversa, la quale appunto è
stata prevista dal legislatore tributario come produttiva di quel risultato. Appare giusto
che, in questo caso, l’imposta debba essere stabilita, non per il negozio giuridico
prescelto dalle parti, ma per il negozio previsto dalla legge come produttivo del
risultato che si è effettivamente raggiunto.” Ma con la precisazione che “S’intende che
nell’applicazione di questo criterio occorre adoperare la massima circospezione, per
evitare di sostituire il proprio apprezzamento soggettivo alla norma posta dal
legislatore.”A.D. Giannini, Istituzioni”, 1951, Milano, Giuffrè, pagg. 124 e 125.
110
L’originario concetto di causa impositionis fu corretto in quello di capacità
contributiva a seguito dell’entrata in vigore dell’attuale Costituzione.
111
A. D. Giannini : “ Istituzioni”, v. ed. aggiornata, 1951, Milano, Giuffrè, pagg. 62 e
63. Così scrivendo, la posizione dell’Autore di cui alla nota si discosta da quella
estremistica del Griziotti.
112
A. Fantozzi, “Diritto tributario”, op. cit. pagg. 122 e 178.
113
Così Tabellini, “L’elusione fiscale”, op. cit.; Tesauro “Istituzioni ...”, op. cit. pagg.
120 e ss.
58
la quale, ancorché ne sia stata riconosciuta la relatività114, e quindi la
possibilità che la legge definisca dei “confini” entro i quali il
Governo, nell’ambito della sua potestà normativa secondaria115
possa muoversi, non gli consente sicuramente di “creare diritto”, né
materia imponibile, tanto meno vale ad attribuire tali poteri
all’Amministrazione finanziaria.
Per lungo tempo si è continuato a discutere sulla possibilità di
estendere l’ambito di applicazione dell’articolo 8 della legge di
registro del 1923 (ora art. 20 Dpr 131/1986) fino al punto di
ricavarne un potere generalizzato di interpretazione degli atti/fatti,
basato sulla sostanza economica del risultato ottenuto per mezzo di
questi, travalicandone la forma giuridica (il c.d. nomen juris) del
negozio prescelto dalle parti. Si è cercato per tale via di contrastare
alcune fattispecie, indubbiamente elusive, ma che risultavano
inattaccabili dalle norme antielusive, analitiche o “settoriali”,
presenti nell’ordinamento, ritenendo tali comportamenti lesivi del
principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., e di quelli
di solidarietà e parità di trattamento a quest’ultimo ricollegabili,
ristabilendo un certo equilibrio, almeno nelle intenzioni, tra capacità
contributiva ed imposizione, ma sollevando nel contempo numerosi
interrogativi sui fondamenti giuridici di un siffatto comportamento.
La tesi di cui sopra appare oggi non più utilizzabile essendosi
formato un orientamento pressoché univoco sulla affermazione della
114
È ormai dominante l’opinione che la riserva di legge sia rispettata quando sono
sufficientemente predeterminati/predeterminabili i soggetti passivi, la base imponibile e
il limite minimo e massimo all’interno del quale individuare l’aliquota applicabile.
115
Non gli uffici accertatori, infatti solo con i regolamenti governativi può essere
assicurata una sufficiente uniformità di trattamento.
59
limitatezza del principio esposto alla sola imposta di registro116, con
l’ulteriore precisazione che la disposizione che autorizza l’interprete
ad effettuare una indagine sulla intrinseca natura e sugli effetti degli
atti, si riferisce comunque agli effetti giuridici e non economici117
degli stessi.
Blumenstein, nel trattare dei c.d. metodi di interpretazione del
diritto delle imposte, pone un particolare accento sui rapporti con il
diritto civile, in relazione proprio alla elusione delle imposte.
L’Autore,
pur
riconoscendo
la
rilevanza
del
metodo
di
interpretazione secondo il criterio della realtà economica, dominante
116
A. Uckmar :Principi per l’applicazione delle ..., op. cit.; L. V. Berleri,
Interpretazione ed integrazione delle leggi tributarie,in Riv. di dir. fin., 1942, pagg. 16
e 28; Antonini: Evasione ed elusione d’imposta (Gli atti simulati e le imposte di
registro e delle successioni). In Giur. It. 1959, IV, pag. 97; A. Berliri: Le leggi di
registro,Milano, 1960, pagg. 141 e 161.
117
La scuola di Pavia, in contrasto con l’opinione dominante affermava invece che la
norma si riferiva agli effetti economici. Griziotti, Il principio della realtà economica
negli artt. 8 e 68 della legge di registro. Riv. di dir. fin. e sc. delle fin., 1939, II, 202, e
“Il potere finanziario e il diritto finanziario nello studio autonomo delle finanze
pubbliche, in Riv. di dir. fin. e sc. delle fin., I, pagg. 134 e 138; Vanoni, in “Natura ed
interpretazione delle leggi tributarie, op. cit., I, Milano, pagg. 210 e ss. e 246. Caleffi,
“Manca la volontà politica di eliminare le distorsioni tributarie, in Il Sole 24 ore,
21/06/1987, pag. 19. Jarach in “Principi per l’applicazione delle tasse di registro”, nel
1937 scriveva che le imposte di registro “... si devono applicare secondo la loro natura
ed i loro effetti economici, a seconda del loro valore. Due atti economici
sostanzialmente identici, se pur rivestono forme civilistiche diverse, per il principio di
uguaglianza devono essere sottoposti ad identici tributi”.A questi ribatté efficacemente
Uckmar in “La legge di registro”, pagg. 194 e ss. “... è vero proprio il contrario: le
imposte di registro non colpiscono l’atto economico, ma il negozio giuridico: due
negozi giuridici diversi, anche se producono sostanzialmente identici effetti economici,
possono scontare aliquote diverse.”. E ancora: “...la legge e le tabelle allegate
contemplano negozi giuridici, e non atti economici, e (che) le aliquote variano a
seconda della forma nel negozio giuridico, indipendentemente dagli effetti
economici;... La dottrina e la giurisprudenza prevalenti, concordemente ritengono che
le parti sono libere di scegliere, per raggiungere gli effetti voluti, la forma del negozio
giuridico che loro più conviene, e l’ufficio tassatore non può pretendere l’aliquota
gravante un contratto, se le parti ne hanno posto in essere un altro, quand’anche i due
negozi producano gli stessi effetti economici.... Se fosse vero che l’imposta di registro
colpisce gli effetti economici anziché quelli giuridici, la tariffa allegata alla legge
sarebbe composta di tre o quattro voci, perché tanti sono gli effetti economici delle
convenzioni, mentre gli allegati alla legge contengono una dettagliata elencazione di
convenzioni, per ciascuna delle quali fissano una determinata aliquota.”
60
nel diritto delle imposte tedesco, ritiene lo stesso in antinomia con il
principio della eguaglianza giuridica , che richiede a sua volta una
considerazione attenta dei presupposti di fatto nei singoli casi
diversamente configurati. Partendo infatti dalla considerazione che il
diritto fiscale collega il sorgere dell’obbligazione tributaria al
verificarsi di determinati presupposti di fatto, Blumenstein ritiene
che per impedire la possibilità dell’elusione e stroncarne l’effetto
economico-finanziario e sociale, il legislatore debba introdurre delle
fattispecie supplementari, le quali si riferiscono all’oggetto
dell’imposta nel senso che a quello propriamente indicato si
affiancano o si sostituiscono altre situazione o eventi, che
conducono alla stessa imposizione dell’altra.
Poiché una tale procedura riesce al massimo a limitare le
elusioni, mai ad escluderle del tutto, l’Autore ritiene necessario
combattere l’elusione delle imposte attraverso adeguate misure
dirette, presenti solo in alcune imposte; in base a dette norme i
negozi giuridici, conclusi per evitare maliziosamente in casi concreti
la soggezione al potere di imposizione o la prestazione d’imposta,
non hanno alcuna efficacia per il diritto delle imposte.
Il rapporto esistente tra interpretazione ed elusione fiscale è
stato efficacemente e molto sinteticamente individuato dal Lupi, per
il quale “....l’elusione nasce laddove finisce l’interpretazione118.”.
L’Autore intendeva porre in evidenza la circostanza, determinante ai
fini della nostra indagine, che l’interpretazione può operare prima
che il disegno elusivo si concretizzi, nel senso che, una data
118
Lupi, Elusione fiscale: modifiche normative e ..., op. cit., pag. 411. O, con
argomentazione “a contrario”, ma di identico significato, lo stesso Autore in Diritto
tributario, Giuffrè, 1999, pag. 122: “Il problema dell’elusione nasce quando il
comportamento del privato non può essere contrastato in via interpretativa.
61
interpretazione della norma impositiva119 può precludere le
possibilità che la stessa sia aggirata120, ma che, se ciò non dovesse
rivelarsi possibile, dovrebbe concludersi per la liceità del
comportamento posto in essere121.
Particolarmente dibattuta è anche la questione dell’analogia
nel diritto tributario; in generale essa è un’espressione del principio
di uguaglianza di trattamento, che è alla base di tutto l’ordinamento
giuridico: i casi simili devono essere regolati da norme simili122.
Essa cioè riguarda la possibilità data all’interprete, nei casi in cui
l’interpretazione secondo gli ordinari criteri non sia sufficiente, di
integrare la lacuna così formatasi, mediante l’applicazione di norme
che regolano casi simili o materie analoghe ovvero, qualora i dubbi
persistano, secondo i principi dell’ordinamento (art. 12 II° c. disp.
prel. Cod. civ.). Una legge, infatti, per quanto ottimamente redatta,
119
Comunque aderente ai dettami ermeneutici sopra ricordati.
120
Prevalendo sulla interpretazione che consente tale aggiramento, implicitamente
riconosciuta scorretta.
121
Almeno fino a quando nel sistema manca una norma/clausola/principio antielusivo
di carattere generale. Così Lupi, Elusione fiscale : modifiche normative.... op. cit., 411,
quando afferma :” ... la norma non si può stiracchiare oltre certi limiti, e l’interprete
non può riscrivere le regole...una interpretazione in chiave antielusiva può spesso
impedire che l’elusione si verifichi, ma, una volta che si sia verificata, non serve ad
eliminarla. Quando, nonostante gli spazi interpretativi, il disegno elusivo è
inattaccabile, il giudice deve arrendersi...”.
122
L’Amministrazione finanziaria concorda con tale affermazione, cfr. da ultimo la Ris.
Min. n. 7 del 10/01/2002, (reperita in “documentazione tributaria” sul sito
http://www.finanze.it/), nella quale, dopo aver affermato in questi stessi termini il
principio, ha negato il ricorso all’analogia nel caso sottoposto al suo parere preventivo
ex art 11 della 212/2000. L’istante, rilevata l’assenza, fra le disposizioni del D.Lgs.
124/93 e del D.Lgs 47/2000, di una specifica disciplina che regolasse la retrodatazione
ai fini fiscali degli atti di concentrazione o fusione tra fondi pensione, nella soluzione
interpretativa riteneva che di fatto, l’operazione descritta realizzasse una sorta di
fusione per incorporazione, ritenendo pertanto applicabile, per analogia, il comma 7
dell’art. 123 Tuir.La risposta negativa è stata motivata dalla rilevata differenza
strutturale delle due ipotesi e quindi della incompatibilità degli elementi dei due istituti
che si pretende di regolare con la medesima disposizione. In altri termini è stata
accertata la differente ratio della normativa dalla quale si vuole mutuare la disciplina,
rispetto alla fattispecie prospettata facendone da ciò derivare l’impossibilità del
procedimento analogico.
62
non può mai contemplare tutti i casi che si verificano nella pratica,
ovvero, come spesso avviene, è l’evoluzione dei rapporti fra privati
che, nel suo incessante evolversi, presenta nuove situazioni che non
sono espressamente contemplate dalla legge. Eppure il sistema
giuridico è completo.
L’utilizzabilità di questo strumento strettamente connesso
all’uso dell’interpretazione come strumento di contrasto all’elusione,
è stata richiamata dai sostenitori di quest’ultima tesi, scontrandosi
però, oltre che con le critiche esposte in precedenza, con censure
specifiche riguardanti il particolare strumento. Il problema deve
essere affrontato distinguendo le varie tipologie di norme facenti
parte dell’ordinamento tributario123. Infatti, per quelle impositrici124,
la possibilità di travalicare quelli che sono i confini segnati dalla
lettera della norma, pare doversi escludere a priori, sia che la si veda
come contrastante con la riserva di legge125, o con la struttura “a
fattispecie esclusive126” delle stesse norme, ovvero infine e più
precisamente, con il fatto che, partendo dal presupposto che il
123
Tralasciando, per dovere di sintesi, quelle processuali e procedurali per le quali
l’analogia è sicuramente possibile.
124
Stesso dicasi per le norme che stabiliscono agevolazioni ed esenzioni.
125
Cfr. A.D. Giannini, “Istituzioni di diritto tributario”, 1968, pag 44. L’Autore reputa
comunque possibile l’interpretazione estensiva della norma tributaria, affermando che
con essa “... non si sottopone al tributo una situazione di fatto non prevista dalla legge,
ma semplicemente si applica l’imposta a situazioni già comprese nel reale contenuto
della norma, sebbene la inesattezza o improprietà delle espressioni adoperate possano
fare apparire il contrario.”. Favorevoli invece all’uso dell’interpretazione analogica,
Griziotti, in numerosi scritti, tra i quali, “Questioni metodologiche per l’applicazione
dello speciale diritto di licenza all’importazione delle navi mercantili”, in Riv. di dir.
fin. e sc. delle fin., 1941, I, pagg. 199 e ss., “La trasformazione finanziaria della tassa
per l’occupazione di aree pubbliche e l’interpretazione autonoma e funzionale del
diritto finanziario”, in Riv. di dir. fin. e sc. delle fin., 1942, II, pagg. 138 e ss..
126
Cfr. M.S. Giannini, “L’analogia giuridica”, in Jus, 1941, pagg. 516 e ss.
63
ricorso all’analogia è possibile (ove consentito127) in presenza di
lacune, può affermarsi che il legislatore, se non ha previsto un fatto
come tassabile128, ancorché agli occhi dell’interprete esso esprima
uguale o perfino maggiore capacità contributiva di un altro fatto
invece imponibile, ciò equivale ad una valutazione di indifferenza
del primo, e non evidenzia la presenza di alcuna lacuna da colmare.
Tutto ciò in ossequio a quello che per alcuni autori costituirebbe un
dogma, cioè il principio di completezza, secondo il quale le norme
impositrici sono poste dal legislatore con l’intento di indicare con
completezza oggetti e soggetti tassabili, escludendo la tassazione di
soggetti od oggetti non espressamente contemplati. Per tali norme
cioè, non è ipotizzabile alcuna lacuna e quindi il ricorso
all’analogia129. È infatti compito esclusivo del legislatore la
valutazione (ideologica, politica e sociale) dell’oggetto e dei
destinatari di una norma impositrice, e se questa “esenzione”, non
era effettivamente stata voluta da questi, si renderà eventualmente
necessaria una modifica legislativa. Può al più ritenersi possibile
che, accertata l’imponibilità di una fattispecie, ma residuando dei
dubbi sulle modalità di calcolo dell’imposta, si applichi l’analogia a
127
Art. 14 disp. prel. Cod. civ.
128
Od un soggetto passivo d’imposta.
129
Tesauro, Istituzioni... op. cit. pagg. 53 e 54 ove argutamente osserva, facendo un
parallelo tra norme tributarie e penali (per le quali l’esclusione dell’analogia è esplicita)
che “....quando è violata una norma tributaria impositrice..., risulta violata, al tempo
stesso, anche la norma che punisce l’evasione (con sanzione penale o amministrativa).
Perciò il divieto di analogia delle norme tributarie impositrici combacia con il divieto
di analogia delle corrispondenti norme sanzionatorie. Se così non fosse, ed
estendessimo analogicamente un’imposta a casi non previsti espressamente dalla legge
tributaria, dovremmo poi considerare non punibile l’evasione, non potendo
parallelamente estendere la norma punitiva”. Favorevole all’utilizzo del procedimento
analogico come regola di interpretazione, Tarello, “L’interpretazione della legge”, op.
cit., pagg. 351 e ss..
64
quest’ultima, ma la lacuna in questo caso è esclusivamente
tecnica130.
È stata anche tentata la via di far prevalere, in una ipotetica
‘competizione’ fra norme costituzionali, i principi di uguaglianza,
solidarietà e capacità contributiva su quello di riserva di legge, in
modo da consentire la soddisfazione dei primi anche a costo del
secondo, mediante appunto l’analogia e l’integrazione delle
fattispecie imponibili, ma una corretta lettura sistematica di tali
principi, porta alla conclusione che essi, congiuntamente alla riserva
di legge in funzione garantista, concorrono a modellare la cornice
costituzionale dell’intero diritto tributario.
In effetti, è proprio il considerare sullo stesso piano tali
principi che impone al legislatore un continuo lavoro di
ampliamento ed aggiornamento dei testi normativi, onde colmare
quelle lacune che, in un sistema così disegnato, necessariamente si
evidenziano, ora per l’affermarsi di nuove prassi negoziali, ora
proprio a causa delle manovre elusive attuate (evidentemente con
successo) dagli stessi contribuenti. Ma a questo punto, come ‘il cane
che si morde la coda’, dobbiamo altresì ricordare che questo
meccanismo è stato largamente ricondotto dagli studiosi del diritto
tributario, tra le principali cause di quell’‘ipertrofia normativa’ che
determina da una parte la perdita della prevedibilità dell’imposizione
a sua volta fondamento della certezza del diritto (tributario), e
dall’altra incrementa le possibilità stesse dell’elusione fiscale.
130
Così Lupi, Diritto tributario, op. cit. pagg. 115 e ss..
65
§5) L’evoluzione della normativa antielusione in
Italia. Dal dibattito sull’introduzione di una norma
antielusiva generale all’articolo 37-bis del DPR
600/73.
L’opportunità
o
meno
dell’introduzione
nel
nostro
ordinamento di una norma antielusiva di tipo generale non è stata
scartata a priori dal legislatore, al contrario, l’argomento è stato
oggetto di un vivace dibattito soprattutto intorno ai primissimi anni
’70, in occasione della riforma tributaria di quegli anni, e la sua
mancata adozione risponde ad un preciso orientamento di fondo.
Per inquadrare correttamente i termini della questione, pare
opportuno cercare di definire più compiutamente il concetto ed il
ruolo che una norma antielusiva a carattere generale dovrebbe
possedere. Ruolo primario, ed allo stesso tempo caratteristica
saliente, dovrebbe essere quella di riempire i “buchi”, gli interstizi
necessariamente presenti in una legislazione casistica. Essa pertanto
opererebbe prima che l’elusione si sia concretizzata, diversamente
dalla correzione delle imperfezioni normative e dalle clausole
antielusive analitiche131. Potrebbe configurarsi come una norma di
chiusura, come nell’ordinamento tributario tedesco132 o francese133.
131
Anche queste sono spesso la reazione a dei comportamenti elusivi non previsti
inizialmente, ma rilevati in fase di applicazione concreta della norma.
132
Paragrafo 42 della “Abgabeordnung”: “... la norma fiscale non può essere aggirata
mediante l’abuso della varietà delle forme giuridiche. In caso di abuso, la pretesa
fiscale sorge nello stesso modo in cui tale pretesa si realizza nel caso di una
configurazione giuridica corrispondente alla realtà economica.”.
133
Art. 64 del “Livre des procedures fiscales”: “ ...non possono essere opposti
all’Amministrazione fiscale gli atti che dissimulano l’effettiva portata di un contratto o
di una convenzione mediante clausole:
a) che conducono all’applicazione di un’imposta di registro o una tassa di
pubblicità fondiaria meno elevata, o
66
Eppure, proprio la struttura a “fattispecie esclusive” del nostro
sistema fiscale viene portato come fattore di incompatibilità con una
norma
di
tal
fatta,
affermando
infatti
che
la
certezza
dell’imposizione, garantita (almeno nelle intenzioni) da una
elencazione tassativa ed esaustiva delle situazioni considerate
fiscalmente rilevanti, sarebbe compromessa dalla presenza di una
norma antielusiva di portata generale che finirebbe in sostanza per
rimettere tutto nuovamente in discussione. Viceversa, la struttura
casistica delle norme impositive, richiederebbe essa stessa degli
interventi mirati, di fronte al presentarsi di fattispecie elusive.
E’ intorno a queste obiezioni che si è articolato il dibattito in
dottrina, che ha infine visto “soccombente” quella parte di essa che
propendeva per l’introduzione di una clausola generale134.
Favorevole era soprattutto Gallo, probabilmente per coerenza
rispetto alla sua posizione in ordine alla presunta esistenza
nell’ordinamento tributario italiano di un principio generale che, ove
riconosciuto, avrebbe potuto contrastare l’elusione. Egli è stato
infatti uno dei più tenaci sostenitori dell’applicabilità dell’art. 1344
del codice civile, e più in generale degli istituti civilistici dei quali ha
sempre enfatizzato la portata. Riteneva inoltre che in mancanza di
una norma antielusiva generale, l’autonomia negoziale di cui all’art.
b) che mascherino un conseguimento o un trasferimento di benefici o di ricavi, o
c) che consentano di evitare in tutto o in parte il pagamento delle imposte sulla
cifra d’affari corrispondente alle operazioni effettuate.
L’Amministrazione ha il diritto di restituire all’operazione controversa il suo effettivo
carattere”.
134
Favorevoli all’introduzione di una norma antielusiva generale, Gallo, Elusione senza
rischio: il fisco indifeso di fronte ad un fenomeno tutto italiano ”, in Dir. e prat. Trib.
1991/I, pag. 257 e ss.; Lupi, in Il fisco 31/95 pag 7625, Tabellini, Libertà negoziale ed
elusione d’imposta”, Padova 1995, pag 1. Contrario Trivoli “Contro l’introduzione di
una clausola generale antielusiva nell’ordinamento tributario vigente”, in Dir. e prat.
Trib. 1992/II pagg. 1337 e ss..
67
1322 del codice civile rendesse perfettamente lecita, oltre che ovvia,
l’elusione delle imposte, e che l’unico metodo efficace per
contrastarla non poteva che essere un rimedio di carattere generale
che “ricoprisse”, per così dire, la fattispecie economica al di là della
qualificazione negoziale costruita dai contribuenti e consentita
appunto dal 1322 c.c., evitando il gap temporale che si verifica
allorché il legislatore deve correggere le norme eluse o introdurre
una specifica disposizione antielusiva dopo che però l’elusione si è
verificata135.
Per la verità il Gallo riteneva efficace una combinazione dei
due strumenti, congegnati in modo da colpire con le norme
analitiche, le fattispecie più vistose e/o conosciute, lasciando alla
norma generale, il compito di colpire tutte le possibili evoluzioni del
fenomeno non ancora previste e/o prevedibili, funzionando come
una sorta di “coperta”. Contro una tale impostazione si schiera la
dottrina dominante, le cui argomentazioni in merito possono farsi
risalire, come detto in precedenza, alla struttura casistica, cioè
all’abbandono, da parte del legislatore, della tecnica legislativa “per
principi”, astenendosi dal formulare definizioni di carattere generale,
come si rileva esplicitamente nella relazione ministeriale che
accompagna la bozza di testo unico136, e sulla scarsa fiducia
135
Gallo : “ Elusione senza rischio: ... op. cit. pag. 257, in cui sottolinea la presenza in
altri ordinamenti, come quello tedesco e francese, di clausole generali. Per completezza
deve comunque aggiungersi che lo stesso Autore riconosceva la difficoltà di concreta
utilizzazione dello strumento della frode alla legge in campo tributario in quanto spesso
avrebbe condotto ad un effetto eccessivo quale appunto la integrale rimozione del
negozio posto in essere, e non solo dei vantaggi fiscali conseguiti.
136
Nella relazione ministeriale che accompagna la bozza di testo unico, commentario
all’articolo 1 dell’Irpef, si legge tra l’altro : “ Il fiscale, come l’esperienza dimostra, è
uno dei campi in cui massimamente deve tendersi alla certezza del diritto, anche ai fini
dell’auspicato miglioramento selettivo dell’azione amministrativa di accertamento. Da
ciò l’opportunità che il legislatore fiscale, quando il pericolo di perdita di gettito o
quello di aggravio per i contribuenti è marginale, abbia di mira soprattutto l’esigenza
di certezza del diritto. L’osservazione della normativa sulle imposte dirette e del suo
68
accordabile all’apparato dell’Amministrazione finanziaria137, tenuto
conto che una clausola generale ha come corollario l’attribuzione ad
essa di ampi poteri di disconoscimento degli effetti fiscali dei negozi
giuridici e quindi di qualificazione/riqualificazione degli stessi. La
spinta alla codificazione analitica di qualsiasi ipotesi valutata come
imponibile, spinge alla creazione di figure che nulla più hanno a che
fare con istituti o figure di cui al diritto civile138.
Non è questa l’unica obiezione al riguardo che sia stata
sollevata nei dibattiti sul tema; la Commissione per lo studio della
riforma tributaria del 1971 si espresse negativamente sulla ipotesi di
evolversi nel tempo, mostra che l’individuazione delle fattispecie reddituali non ha
tanto obbedito, se non inizialmente, ad una concezione teorica unitaria del reddito,
quanto ad obiettivi via via avvertiti nella crescente complessità della vita e del traffico
economici (da ciò la presenza dei polivalenti appigli testuali sopraccennati). Si è così
progressivamente pervenuti, inoltre, ad una articolazione del complesso normativo
tanto ricca e dettagliata da attenuare l’importanza di una norma residuale, che
certamente era necessaria, invece, in presenza di una normativa sintetica e generica
come in passato. Conviene quindi non mantenere la disposizione residuale
dell’articolo 80, eliminando con essa una fonte di dubbi e controversie, e preoccuparsi
invece di arricchire ulteriormente l’elencazione dei cosiddetti “redditi diversi” non
rientranti in altre categorie, aggiungendovi – come si vedrà a suo luogo – tutte le
fattispecie che allo stato sono ipotizzabili anche sulla scorta dell’esperienza
amministrativa e giurisprudenziale. In questo modo, pur non potendo escludersi con
assoluta sicurezza l’eventualità pratica di fattispecie reddituali non considerate, il
rischi della perdita di materia imponibile diviene talmente limitato da poter essere
sacrificato all’obiettivo della certezza giuridica: tanto più che sarà sempre possibile
prevedere in via legislativa altre fattispecie se e quando se ne ravvisi la necessità. Ciò
detto risulta evidente che nella prospettiva della certezza del diritto conviene
modificare anche la disposizione definitoria del presupposto dell’imposta, di cui
all’art. 1: nel senso non di conformarla ad un concetto teorico unitario di reddito, alla
cui enunciazione legislativa conviene rinunciare, ma, al contrario, di sfrondarla da
specificazioni, come quelle relative al carattere di continuatività od occasionalità e
alla provenienza da qualsiasi fonte, che possano essere intese come indicative di una
nozione espansiva tale da giustificare se non addirittura imporre la ricerca, in sede
interpretativa, di redditi diversi da quelli espressamente considerati nel testo unico”.
137
Vedasi lo scritto di Gallo, “Elusione senza rischi:...”, op. cit., pagg. 257 e ss. e la
critica di Victor Uckmar, riportata in postilla.
138
Cfr. Trivoli: “Contro l’introduzione di una clausola generale antielusiva ...“, op. cit.,
pag. 1337.
69
introdurre una norma generale che, come definita dal Cosciani139
avrebbe “...consentito la ricerca del motivo determinante di un dato
negozio, allorché questo consegue il mutamento di una particolare
situazione giuridica, realizzando la totale o parziale inapplicabilità
di una determinata norma tributaria“. La Commissione ritenne
invece che, “affrontare il problema dell’evasione legale attraverso
una enunciazione di principio né facile né equa, è praticamente
impossibile, come dimostra l’esperienza di qualche altro Paese che
ha cercato di seguire questa strada“.
L’aspetto che più degli altri preoccupava era rappresentato dal
fatto che la norma generale avrebbe accresciuto in modo
esponenziale i poteri accertativi dell’Amministrazione finanziaria la
quale non veniva e non viene tuttora giudicata in grado di esercitare
senza arbitrio dei poteri così ampi e penetranti, in aggiunta alle alte
probabilità di una lesione, per tale via, della riserva di legge che
copre la definizione delle fattispecie imponibili. Si riaffermava così
la preminenza dell’intervento legislativo nella disciplina di contrasto
ai fenomeni elusivi, attraverso la predisposizione di norme analitiche
che colpiscono singole fattispecie elusive.
La dottrina favorevole alla norma generale si ripresentò con
vigore nei primi anni ’80, il Progetto di legge Reviglio n° 1507 del
1980, aveva di mira una delle fattispecie elusive più imbarazzanti
per quel periodo, a motivo dell’entità della perdita di gettito e della
tranquillità e naturalezza con la quale veniva attuata, e cioè
attraverso la costituzione di società di comodo, società costituite al
solo fine di beneficiare per via indiretta, di detrazioni che altrimenti
non sarebbero spettate. Il progetto non ebbe seguito, avversato da
139
Cosciani, Lo stato dei lavori della Commissione per lo studio della riforma
tributaria, Milano, 1964.
70
chi vi oppose l’esigenza del rispetto delle forme e le incertezze
applicative che avrebbero potuto condurre all’applicazione della
norma antielusiva anche a situazioni perfettamente legittime.
La proposta di legge 4 febbraio 1986140, n. 3461, presentata
dagli onorevoli Piro, Formica, Ruffolo, Colucci, Borgoglio, alla
Camera, conteneva una norma di portata generale la quale avrebbe
dato la possibilità agli uffici delle imposte dirette di ritenere ad essi
inopponibili, gli atti compiuti per ottenere un vantaggio fiscale,
salvaguardando gli effetti civilistici e così le esigenze di stabilità e
certezza dei traffici. Si trattava indubbiamente di un notevole passo
in avanti, che si scontrava però con i problemi di sempre. Era ormai
chiaro che una norma di portata così ampia, ha come presupposti
indefettibili per la sua corretta attuazione, una definizione positiva
dell’elusione fiscale141, un ordinamento tributario flessibile, cioè più
semplice e meno formalistico, un apparato amministrativo dotato di
funzionari aventi un elevato grado di preparazione giuridica ed
obiettività, caratteristiche purtroppo troppo poco diffuse in Italia.
Inoltre l’impostazione di fondo degli studi in materia, aveva assunto
come dogma irrinunciabile il principio dell’autonomia negoziale,
vista come una delle più grandi conquiste dei moderni ordinamenti
giuridici, per cui l’attribuzione ai singoli uffici periferici del potere
140
Si trattava di aggiungere un articolo 41-bis al DPR 600/73 :“Gli uffici delle imposte
dirette, in base ad autorizzazione motivata del competente Ispettorato compartimentale
delle imposte dirette, possono considerare irrilevanti, agli effetti della determinazione
del reddito complessivo, gli atti che hanno la loro causa esclusiva o principale nella
riduzione dell’onere tributario... (omissis)”.
141
Non hanno avuto molta fortuna i tentativi di elaborare e codificare in legge la
definizione di elusione fiscale. Un tentativo concreto in tal senso, unitamente
all’introduzione di una norma a carattere generale, esente dal pericolo di attribuire una
eccessiva discrezionalità agli uffici periferici del Ministero delle Finanze, attribuendo
alla potestà regolamentare di quest’ultimo il compito di fissare dei criteri cui gli uffici
devono attenersi in virtù della soggezione gerarchica, fu quello contenuto nell’art. 31
del disegno di legge n° 1301 del 5 agosto 1988 di cui nel prosieguo.
71
discrezionale di riqualificare i negozi ai fini fiscali, in aggiunta al
pericolo di avere orientamenti diversi e persino contrastanti
all’interno della stessa Amministrazione finanziaria avrebbe potuto
avere una valenza sostanzialmente definitoria, nell’ambito della
potestà amministrativa di accertamento, dei presupposti imponibili,
in violazione della riserva di legge. Fu inoltre criticata l’operatività
limitata al solo comparto delle imposte dirette, che rifletteva le
circostanze contingenti che hanno accompagnato la norma, la cui
necessità si era resa palese in seguito alla proliferazione della pratica
delle fusioni di società sane con società (bare) aventi, quale unica
“dote” appetibile, bilanci recanti perdite fiscalmente riportabili142.
Un successivo tentativo è rappresentato dal disegno di legge
del 5 agosto 1988, n. 1301, presentato dal Ministro delle Finanze
Colombo, di concerto con il Ministro del Bilancio e della
programmazione economica Fanfani, col Ministro del Tesoro Amato
e col Ministro dell’Industria Battaglia, che per primo tentò la
codificazione del fenomeno elusivo, definendolo nel comma 1
dell’articolo 31, nel modo che segue: “Si ha elusione del tributo
quando le parti pongono in essere uno o più atti giuridici tra loro
collegati al fine di rendere applicabile una disciplina tributaria più
favorevole di quella che specifiche norme impositive prevedono per
la tassazione dei medesimi risultati economici che si possono
ottenere con atti giuridici diversi da quelli posti in essere”.
142
A tale scopo venne approvato il 18 giugno 1986, il Decreto Legge n 277 che dispose
l’indeducibilità delle perdite eccedenti il patrimonio netto della società partecipante alla
fusione. Si trattò di una soluzione sostanzialmente compromissoria, in quanto il
Governo cadde dopo la presentazione del disegno di legge relativo alla normativa
antielusione generale e prima della sua discussione, per cui fu ritenuto preferibile
convertire il Decreto Legge. Vds. M. Trinco, “Analisi storico-critica dei progetti di
norma generale antielusione”, in Il fisco 22/91 pagg.3690 e ss..
72
La
relazione
governativa143
dichiarava
esplicitamente
l’intenzione di ritenere opportuno seguire la direzione intrapresa da
altri paesi europei.
Nonostante avesse il pregio di contenere alcuni concetti validi,
come il riferimento ad uno o più atti giuridici collegati, la
considerazione della finalità elusiva, prevalente od esclusiva, del
comportamento e la valutazione dei risultati economici144, la
143
“...il nostro ordinamento è uno dei pochi, tra quelli dei Paesi occidentali, a non avere
una disposizione di carattere generale che abbia una specifica finalità antielusiva. Ed
infatti nella Repubblica federale tedesca è stabilito che, allorquando costruzioni
giuridiche vengono utilizzate per evadere l’imposta, tali costruzioni devono essere
ignorate. Esiste abuso di diritto ogni volta che la costruzione giuridica non corrisponde
al fatto economico o comunque non è quella che i contraenti avrebbero scelto se non
avessero considerato l’elemento fiscale. In Francia, l’art. 1649-quinquies-b del codice
generale delle imposte prevede che gli atti che dissimulano la portata vera di un
contratto o di una convenzione per diminuire l’imposta, non sono opponibili
all’Amministrazione. L’onere della prova spetta a quest’ultima, salva l’ipotesi di ricorso
al Comitato consultivo speciale. Il suindicato art. 1649-quinquies-b trova larga
applicazione in caso di fusioni di società, di creazione di filiali, di cessioni di imprese ed
in materia di brevetti e prestiti senza interessi agli associati. Nel Regno Unito di Gran
Bretagna, pur non esistendo una norma specifica, il fenomeno dell’elusione d’imposta
viene contrastato in base al principio della prevalenza della sostanza sulla forma
nell’interpretazione della norma tributaria. In Australia le transazioni fatte per scopi non
commerciali e destinate alla fruizione dei benefici d’imposta o di agevolazioni fiscali,
previsti per altri casi da specifiche leggi, sono nulle e comportano sanzioni pecuniarie
pari al 200 per cento del beneficio d’imposta invocato o preteso. Al contribuente spetta
l’onere di provare che la transazione aveva scopo commerciale. In Austria, gli atti che
non comportano nessun cambiamento reale rispetto alle situazioni preesistenti ed hanno
il solo effetto di ridurre l’imposizione, devono essere considerati nulli
dall’Amministrazione fiscale. Quando il testo delle disposizioni suscita interpretazioni
divergenti o quando la forma giuridica dell’operazione è incompatibile con i suoi effetti
economici, l’Amministrazione fiscale è tenuta ad analizzare la sostanza dell’atto. Infine
negli Stati Uniti d’America vi è un’esplicita disciplina in materia di acquisizione di
partecipazioni di controllo in un’altra società. Se tale acquisizione ha per scopo
principale quello di chiedere l’applicazione di una deduzione o di altra agevolazione, o
comporta un diverso meccanismo di riporto delle perdite, le agevolazioni e deduzioni
non vengono concesse. Nel caso in cui una società si costituisca per far fruire agli
associati, con più del 10 per cento del capitale sociale, particolari agevolazioni fiscali,
esse vengono concesse solo se sarebbero comunque spettate.”
144
Non è stato da poco un tale riferimento egli effetti economici, trattandosi del primo
progetto di legge nel quale si enfatizza non più un principio di valutazione fondato
sull’analisi formale della fattispecie, bensì sull’effetto economico di essa. E’ significativo
il passaggio della Relazione al disegno di legge nel quale tra l’altro si legge che il
trattamento da riservare alle ipotesi di elusione “...(omissis) deve essere quello già
previsto dal legislatore ... (omissis) per fattispecie assimilabili sotto il profilo della
73
definizione fu giudicata (correttamente) insufficiente, anche se
avrebbe potuto, a mio avviso, costituire un punto di partenza da
tenere in considerazione; insufficiente è sicuramente lo stretto
collegamento con agli atti giuridici, ben potendosi ipotizzare
fattispecie elusive attuabili senza porne in essere alcuno145. Altro
problema ermeneutico fu sollevato in ordine all’espressione
“collegati”, e più precisamente intorno ai limiti fino ai quali due
negozi devono essere considerati collegati ai fini della norma in
oggetto146.
Per quanto riguarda l’aspetto prettamente procedurale,
l’articolo 31, commi 2 e 3 così recitava : “Con decreto del Ministro
delle Finanze, su conforme parere del Consiglio di Stato, sono
indicate le categorie di atti e le condizioni in presenza delle quali si
ha elusione del tributo.
Gli uffici applicano alle fattispecie indicate nel decreto
ministeriale di cui al secondo comma lo stesso trattamento
tributario previsto dalla disposizione elusa147”.
Una seconda
formulazione148 fu invece: “Il Ministro delle
Finanze, sulla base dei dati e degli elementi forniti dal Secit e dagli
uffici finanziari, sentito il Consiglio di Stato, indica con decreto da
sostanza economica”. Per chi volesse leggere l’intera relazione al disegno di legge n.
1301, Senato, può farlo in Boll. Trib. 1988 pagine 1332 e seguenti.
145
Ho già in precedenza ricordato, che in passato era possibile eludere l’imposta di
registro gravante sull’acquisto a titolo oneroso di beni immobili o di diritti reali di
godimento sui medesimi beni, acquistando gli stessi per usucapione. Tale pratica è stata
resa inefficace (rectius illecita), attraverso la parificazione fiscale dei diversi modi di
acquisto del diritto ad opera dell’articolo 23 del D.L. 2 marzo 1989 n. 69.
146
M. Trinco : “Analisi storico critica dei progetti… ”, op. cit..
147
Si tratta della versione approvata in Consiglio dei Ministri il 5 agosto 1988.
148
Versione trasferita alla Presidenza del Senato il 1° settembre 1988.
74
emanarsi annualmente, le categorie di atti e le condizioni in
presenza delle quali si ha elusione del tributo.
Gli uffici applicano alle fattispecie rispondenti al decreto
ministeriale di cui al secondo comma, ancorché verificatesi
anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge e
sempre che non sia maturata prescrizione o decadenza, lo stesso
trattamento tributario previsto per la norma elusa”.
Si intendeva in tal modo demandare al dicastero delle Finanze
il compito di elaborare una sorta di definizione del comportamento
elusivo in diretta relazione a categorie precise di atti e fatti. Lo scopo
della norma così congegnata era indubbiamente quello di evitare
comportamenti contrastanti nei diversi uffici periferici mediante una
uniformazione proveniente “dall’alto149”, ma le perplessità in ordine
alla eventuale lesione della riserva di legge, rimasero. Aggiungasi il
sostanziale irrigidimento della norma antielusiva che, per funzionare
efficacemente come norma generale deve essere dotata di una
flessibilità che una siffatta formulazione riduce fortemente a causa
soprattutto della mediazione di una pluralità di organi, addirittura
accresciuta nella seconda versione presentata in Senato. Giova da
ultimo sottolineare che l’intervento degli uffici periferici che, stando
al tenore del comma terzo, deve considerarsi meramente esecutivo,
diviene contraddittorio con la definizione stessa di elusione di cui al
precedente comma uno, infatti la suddetta definizione postula
l’individuazione di motivazioni imprenditoriali, e quindi una
valutazione caso per caso, in ordine alle finalità elusive
149
Si legge infatti nella relazione al disegno di legge : “ Al fine di garantire la massima
uniformità e legittimità del comportamento degli uffici impositori, di ridurre al minimo
il contenzioso in materia e di tutelare l’esigenza di certezza del diritto particolarmente
sentita nel campo tributario, sui è ritenuto preferibile che l’individuazione delle
categorie di negozi e delle condizioni in presenza delle quali si realizza l’elusione
d’imposta sia effettuata con decreto ministeriale previo parere del Consiglio di Stato.”
75
dell’operazione, che una regolamentazione ministeriale, generale per
definizione, e vincolante per espressa previsione, impedirebbe.
Il DL 69/1989, convertito con modificazioni nella legge n°
154 del 27 aprile 1989, non recepì la norma generale antielusione
prevista dall’articolo 31 del Ddl 1301/1988. L’articolo 30 dello
stesso decreto, aggiunse all’articolo 37 del DPR 600/73 il terzo
comma disciplinante l’ipotesi della interposizione soggettiva sulla
cui natura antielusiva sono stati da subito sollevati numerosi
interrogativi150.
Si pensò che fosse allora più opportuno lo strumento della
delegazione al Governo, per superare le critiche derivanti
dall’eccessivo peso del Ministero nel procedimento come sopra
descritto.
Nel progetto di legge delega n° 3705151, presentato dal
Governo l’8 maggio 1989, si riscontrano in effetti alcuni
150
E’ stata soprattutto l’Amministrazione Finanziaria a forzarne l’applicazione,
tentando, con risultati pessimi, di utilizzarla contro alcune specifiche pratiche ritenute
elusive, come il dividend washing, l’usufrutto su azioni e le società di comodo delle
quali si parlerà in seguito.
151
Art. 38 : 1. “ Il Governo è delegato ad emanare norme dirette a combattere l’elusione
tributaria in materia di imposte sui redditi, di imposta sul valore aggiunto, di imposta
sulle successioni e donazioni secondo i seguenti criteri e principi direttivi :
a) saranno considerati elusivi gli atti e i negozi giuridici, singoli o funzionalmente
collegati, posti in essere dai contribuenti al solo fine di eludere l’applicazione di
norme tributarie, ovvero al fine di conseguire una tassazione più favorevole di
quella che specifiche disposizioni impositive prevedono per atti e negozi diversi
ma che producono i medesimi risultati economici che i contribuenti intendono
perseguire;
b) saranno indicati gli atti e i negozi che, ferma restando la loro efficacia tra le
parti e nei confronti dei terzi, saranno considerati non opponibili
all’Amministrazione Finanziaria se i contribuenti li hanno posti in essere al solo
fine di eludere l’applicazione di norme tributarie. In tale caso sarà altresì
previsto l’onere per la stessa Amministrazione Finanziaria di provare, anche
sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che il predetto fine è
l’unico che i contribuenti intendevano perseguire; gli uffici procederanno
all’accertamento, sentito il competente Ispettorato compartimentale; (omissis)...;
c) sarà previsto che la disciplina recata da specifiche disposizioni impositive
concernenti le predette imposte si applica anche agli atti e negozi giuridici,
singoli o funzionalmente collegati, che i contribuenti pongono in essere al fine di
76
miglioramenti rispetto al disegno di legge precedente, ad esempio la
sua portata è ampliata anche all’IVA ed all’imposta sulle successioni
e donazioni, ma il riferimento “al solo fine di eludere l’applicazione
di norme tributarie”, escludendo qualsiasi graduazione delle finalità
concrete del comportamento tenuto e delle scelte effettuate, rendeva
di fatto facilmente “eludibile” la norma stessa, o comunque di
difficile applicazione.
Il successivo passaggio al Senato compromise definitivamente
la già precaria validità della disposizione, sia perché lasciò invariata
l’esclusività del fine elusivo, ma anche e soprattutto perché
riformulò in modo assolutamente errato la definizione dell’elusione.
Il Senato ritenne infatti elusivi i comportamenti diretti ad occultare il
presupposto, imputarlo ad altri soggetti, ovvero a dissimulare atti
sottoposti ad un regime impositivo più gravoso o a conseguire scopi
corrispondenti alla funzione economico-sociale di altri atti o negozi
fiscalmente più onerosi152. Ma dissimulare od occultare fanno più
propriamente parte della casistica e terminologia collegata al
fenomeno dell’evasione vera e propria, non certo dell’elusione.
Con il successivo disegno di legge presentato alla Camera in
data 29/09/1990, si abbandonarono i tentavi di introdurre una norma
a carattere generale, evidenziando un approccio verso una portata
conseguire una tassazione più favorevole di quella che le specifiche disposizioni
impositive prevedono per atti e negozi diversi ma produttivi dei medesimi
risultati economici che i contribuenti intendono perseguire.
2. Le disposizioni previste nel comma 1 saranno emanate...(omissis), con uno o più
decreti aventi valore di legge ordinaria, su proposta del Ministro delle Finanze, di
concerto con il Ministro del Tesoro...(omissis).
3. Il Servizio centrale degli ispettori tributari e gli ispettori compartimentali delle
imposte dirette e delle tasse, riferiscono al Ministro delle Finanze, con relazione da
presentarsi entro il mese di luglio di ciascun anno, dati ed elementi utili per la
predisposizione dei decreti di cui al comma due.”
152
S. Cipollina, La legge civile e la legge fiscale.... op. cit., pag. 245.
77
limitata ad alcune tipologie di operazioni, quelle di finanza
straordinaria di impresa, e che sfociò nell’approvazione dell’articolo
10 della legge 29 dicembre 1990, n° 408, prima norma antielusiva
“settoriale” in quanto può essere logicamente collocata a mezza via
tra una ipotetica norma generale e le disposizioni applicabili a
specifiche
singole
fattispecie.
Le
lacune
di
quest’ultima
disposizione, portarono alla sua sostituzione con l’articolo 37-bis del
DPR 600/73, introdotto dall’articolo 8 del Dlgs 358/97, simile nelle
intenzioni, ma dotato di maggiori possibilità di trovare concreta
applicazione153, stante la sua indubbia migliore formulazione.
§6) Le norme antielusione analitiche. Il transfer
pricing. Generalità e rinvio.
E’ stato già parzialmente anticipato come l’approccio italiano
nella lotta all’elusione fiscale abbia deluso i sostenitori di una norma
generale, preferendole la correzione delle imperfezioni normative
ovvero l’introduzione di norme le quali, specificamente applicabili a
singole manifestazioni di risparmi d’imposta altrimenti leciti
(ancorché disapprovati dal sistema), rispettano l’impostazione
casistica nell’individuazione delle fattispecie considerate rilevanti ai
fini fiscali, rispettando al tempo stesso la riserva di legge.
E’ stato altresì rilevato che il limite principale di un siffatto
approccio, risiede nel pericolo che la norma antielusiva (così come
quella risultante dalla correzione) venga a sua volta elusa, ovvero
che la proliferazione degli interventi legislativi in tale direzione,
finiscano con il contribuire ad accentuare la complessità e
153
Entrambe le disposizioni da ultimo citate saranno approfondite in seguito.
78
l’instabilità del sistema, caratteristiche queste annoverate tra le cause
della diffusione delle pratiche elusive. Ciò non toglie che possa
rivelarsi molto efficace, ove predisposta con chiarezza e semplicità.
Vi è infine da considerare che una norma antielusiva analitica,
deve comunque essere redatta in modo tale da essere collegata a
situazioni oggettive. Il più delle volte vengono fissati a tale scopo
dei parametri i quali, oltre ad essere per loro natura rigidi, spesso si
rivelano, nell’applicazione pratica, mal congegnati, finendo così per
rendere la norma, da un lato eccessivamente rigorosa, risultando
applicabile anche a situazioni perfettamente legittime ma che,
trattandosi di casi limite, ricadono comunque entro i confini segnati
dalla disposizione antielusiva154;
ovvero, al contrario, ben può
accadere che la fissazione di confini sempre più netti e tassativi,
finisca paradossalmente per stimolare e facilitare la ricerca di nuovi
espedienti elusivi essendo sufficiente collocarsi in una posizione
appena al di fuori dei (nuovi) confini così segnati, implicitamente
confermando la posizione di autorevole dottrina, la quale individua
una stretta forma di correlazione tra il fenomeno elusivo e la quantità
e qualità delle “regole fiscali155”.
Non resta che domandarsi quali siano stati i motivi che hanno
indotto il legislatore ad adottare questa strategia, riconducibili alle
già note esigenze di certezza del diritto e di rispetto della riserva di
154
Ad esempio, una repentina e profonda crisi di mercato, può deprimere gli indicatori
di bilancio assunti come parametro di valutazione dell’effettiva operatività di una
società in vista di una fusione, secondo il disposto del quinto comma dell’art. 123 del
DPR 917/86, impedendo all’incorporante di riportare le perdite dell’incorporata, a
meno di ottenere, attivando la procedura di cui all’VIII° c. dell’art. 37 bis del DPR
600/73, la disapplicazione della disposizione limitativa, dimostrando la validità delle
ragioni economiche dell’operazione.
155
Cfr. R. Lupi “L’elusione come strumentalizzazione ...” in Rass.Trib. 2/94 pagg. 225
e ss.; S. Cipollina “La legge civile e la legge fiscale,...”. op. cit., pagg. 125 e ss. ove si
approfondisce la connessione esistente tra la struttura normativa e l’elusione fiscale.
79
legge, ma anche alla cronica sfiducia nei confronti degli organi
deputati all’accertamento che si risolve in una cautela che talvolta
appare eccessiva verso l’attribuzione di poteri discrezionali
all’Amministrazione finanziaria, soprattutto per quanto concerne il
sindacato sul merito delle scelte imprenditoriali.
Numerosi sono gli esempi di norme antielusive analitiche,
introdotte nel corso degli anni nel Testo Unico delle Imposte Dirette,
ad esempio l’art. 14, cc. 6-bis e 7-bis (contro dividend washing e
dividend
stripping);
l’art.
55,
c.
5,
contro
le
possibili
strumentalizzazioni delle quali sono suscettibili i contratti di leasing;
l’art. 67, cc. 10 e 10-bis i quali prevedono la deducibilità nella
misura del 50% per tutta una serie di beni suscettibili di utilizzo
promiscuo dei quali è difficile od impossibile l’accertamento
oggettivo della percentuale di uso privato e imprenditoriale; l’art. 62,
c. 3, che in deroga al principio di competenza, subordina la
deducibilità dei compensi agli amministratori al loro effettivo
esborso; l’art. 73 c. 4, teso ad impedire che vengano “inventati”
fondi per rischi ed oneri oltre a quelli previsti dal Capo VI del Tuir;
l’art. 74 c. 2, che limita la deducibilità di alcuni costi, la cui inerenza
o meno all’attività imprenditoriale è molto difficile da provare, per
cui il legislatore ha preferito, similmente all’art. 67 commi 10 e 10bis, prevedere una deduzione forfetaria di 1/3; l’art. 76, c. 5, sul
transfer pricing, cc. 7-bis e ter applicabili alle operazioni intercorse
con società estere residenti nei cosiddetti “paradisi fiscali”; l’art. 102
recante dei limiti alla deduzione delle perdite pregresse; l’art. 121bis, che prevede requisiti e limiti di deducibilità dei componenti
negativi riferiti a talune categorie di mezzi a motore; l’art. 123, c. 5,
regolante l’ipotesi del riporto delle perdite in seguito a fusioni
societarie; e, ultimamente, l’introduzione, sulla scorta di analoghe
80
esperienze di vari Stati membri dell’OCSE156, dell’art. 127-bis
recante la nuova disciplina in tema di tassazione delle imprese
partecipate estere (Controlled foreign companies).
Soprattutto negli ultimi decenni, la naturale evoluzione del
sistema capitalistico occidentale, ha subito una repentina
accelerazione, che gli ordinamenti giuridici157 dei vari paesi hanno
dovuto con fatica inseguire.
Lo scenario economico è profondamente mutato, vi è
l’affermazione della logica del gruppo di società e quindi di una
visione più ampia quando si tratta di elaborare le strategie d’impresa,
non
solo
dal
punto
di
vista
economico
(produzione,
approvvigionamenti, marketing ecc.) e finanziario (collocamento dei
titoli in mercati regolamentati, capitalizzazione, indebitamento ecc.),
ma anche di efficiente ripartizione del carico tributario, con la
predisposizione di una vera e propria pianificazione fiscale.
Il panorama imprenditoriale italiano è ormai caratterizzato
dalla presenza di numerosi gruppi societari. Nonostante una
sostanziale identità soggettiva dal punto di vista economico158, il
gruppo di società non ha ancora raggiunto un riconoscimento
giuridico che consenta di considerarlo unitariamente159, sia come
156
Ad esempio il Canada, la Danimarca, la Finlandia, la Francia, la Germania, la Spagna,
il Giappone, il Portogallo, la Svezia, il Regno Unito e gli USA.
157
Non solo tributari, si pensi ai problemi connessi con la tutela del consumatore per
quanto riguarda i nuovi prodotti immateriali commercializzati via internet, e la
disciplina dei relativi contratti.
158
Cfr. Campobasso, “Diritto commerciale, vol II° Diritto delle società”, IV^ ed. Utet
1999, pag.271.
159
In Italia infatti, diversamente che in molti altri paesi, comunitari e non, non esiste, se
non in ipotesi del tutto marginali, la possibilità di compensazioni fiscali all’interno del
gruppo. Solo nella normativa civilistica il gruppo assume una certa rilevanza, essendo
prescritto l’obbligo del bilancio consolidato, nei casi e con le modalità previste dagli
artt. 25 e seguenti del Dlgs 127/91, attuativo delle Direttive comunitarie nn
78/660/CEE e 83/349/CEE. Le sole norme fiscali nelle quali il gruppo assume una
81
realtà che meriterebbe una più specifica regolamentazione sotto il
profilo del diritto societario, sia, e soprattutto, come soggetto dotato
di una certa autonomia sotto il profilo tributario. Perciò l’attuale
sistema impositivo vigente in Italia160 può dar luogo ad alcune
“distorsioni”, essendo basato sulla tassazione isolata dei redditi
conseguiti dalle singole società, senza possibilità di compensazione
tra gli utili di alcune e le perdite di altre. Quando le persone
giuridiche dell’agglomerato si trovano dislocate in differenti stati,
nasce il problema del transfer pricing ovvero del controllo delle
transazioni interne al gruppo, al fine di verificare che non vi siano
operazioni finalizzate ad allocare utili verso paesi esteri, spesso a
fiscalità ridotta161, o comunque privilegiata.
qualche rilevanza sono, l’articolo 43-ter, del DPR 602/73 relativo alla cessione delle
eccedenze di imposta infragruppo; la liquidazione IVA di gruppo prevista dall’art. 73,
del DPR 633/72; ed infine la deroga al divieto del riporto delle perdite previsto dall’art.
102 del DPR 917/86. il cui comma 1-ter dispone che il disconoscimento delle perdite,
previsto in via ordinaria quando il controllo della società con perdite riportabili sia
trasferito e venga altresì modificata l’attività che la società svolgeva nel momento in
cui le perdite si sono generate, non si applichi se il trasferimento del controllo avviene a
favore di un’altra società facente parte del medesimo gruppo. Questa ultima
disposizione, introdotta dall’art. 8 del Dlgs 358/97, ha lo scopo, come si rileva nella
relazione governativa “ di arginare il fenomeno noto come commercio delle bare
fiscali, riconducendo l’istituto del riporto delle perdite alla sua naturale funzione,
evitandone il patologico uso come strumento di elusione fiscale” precisando che,
“qualora questo passaggio si verifichi all’interno del medesimo gruppo, non vi è
motivo per penalizzarlo, considerata la sostanziale identità del soggetto economico in
questione.” Vedasi il lavoro di A. Lovisolo: “L’imposizione dei gruppi di società:
profili evolutivi”, in “L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano”, atti del
convegno “I settanta anni di ‘Diritto e pratica tributaria’” (Genova 2-3 luglio 1999),
coordinati da Victor Uckmar, Cedam, Padova, 2000, pagg. 313 e ss.. Per quanto
riguarda la giurisprudenza sul concetto di gruppo, Vds le sentenze della Corte di
Cassazione nn° 2708 del 24/04/1985; 1567 del 2/3/1983; 5597 del 26/10/1982; 3822
del 22/6/1982; 561 del 13/3/1964; 472 del 2/3/1964 e 382 del 18/2/1963.
160
La tassazione consolidata dei gruppi di imprese è regolata all’estero in modo assai
variegato, per una analisi comparata delle legislazioni delle più importanti economie
mondiali, si consiglia la lettura di P. Valente:”Tassazione consolidata nei gruppi di
imprese”, in Rass. di fiscalità int. n. 3/2001.
161
Il confronto della pressione fiscale può non essere sufficiente, da solo, a spiegare la
spinta alla localizzazione in un dato paese, per esempio, di uno stabilimento produttivo,
intervenendo nella scelta anche la normativa sul lavoro, in termini di costo e di
produttività dello stesso, ovvero di assenza delle stesse regole.
82
È in questa ottica che si inserisce la problematica dell’elusione
internazionale in generale, e del transfer pricing in particolare162.
Quest’ultimo si identifica con tutte quelle pratiche che hanno
come obiettivo esclusivo, quello di un’allocazione efficiente dei
redditi in una ottica complessiva di gruppo, tenendo conto della
differente struttura dei sistemi impositivi dei diversi paesi ospitanti
le imprese del gruppo.
Il sistema adottato è, in prima approssimazione, molto
intuitivo, può infatti accadere che, nei rapporti infragruppo, la
fissazione dei prezzi avvenga non già in base agli ordinari criteri,
bensì in modo da determinare uno spostamento di utili tassabili,
dalla società che risiede in un paese a più elevata pressione fiscale,
ad una residente dove il fisco è meno esoso. Poiché tali espedienti
coinvolgono paesi diversi, si è resa necessaria l’introduzione di linee
guida per cercare di armonizzare le diverse procedure, e ciò è
avvenuto ad opera dell’OCSE163.
Pur lasciando sostanzialmente alla sensibilità dei legislatori
nazionali l’onere della predisposizione delle norme relative ai criteri
di individuazione delle fattispecie cui si rende applicabile la
normativa del transfer pricing, l’OCSE ha inteso uniformare i
principi per quanto riguarda i metodi di determinazione dei prezzi
162
Le implicazioni che conseguirebbero ad un approfondimento di entrambi gli aspetti
citati, porterebbero il presente lavoro fuori dei binari di una organica rappresentazione
del fenomeno elusivo in una ottica prettamente interna e di rapporti tra
Amministrazione finanziaria italiana ed imprese residenti nell’esercizio della loro
autonomia negoziale verrà così affrontato solamente il secondo e più particolare
aspetto.
163
“Transfer pricing and Multinational Enterprises”, Parigi, 1979, recepito in Italia con
la circolare ministeriale 32/9/2267 del 22 settembre 1980; “Transfer pricing and
Multinational Enterprises. Three Taxation issues”, Parigi, 1984; ”Thin capitalization”,
Parigi, 1987; “Tax Aspects of Transfer Pricing within Multinational Enterprises – The
United States Proposed Regolation”, Parigi, 1994; “Transfer Pricing guidelines For
Multinational Enterprises and Tax Administrator”, 1995.
83
di trasferimento, garantendo ai singoli paesi lo spazio per alcune
alternative164, tenendo altresì presente l’esigenza di evitare le
doppie imposizioni. A tale scopo, l’ultimo rapporto del 1995 ha
ribadito che il criterio cardine è quello del principio di “libera
concorrenza” (arms lenght) ovvero, brevemente, quel prezzo che
sarebbe stato convenuto tra imprese indipendenti per operazioni
identiche o similari, in condizioni di libera concorrenza. In Italia la
normativa di riferimento è costituita dall’articolo 76, comma 5°, del
DPR 917/86, il quale dispone una presunzione (assoluta?165) di
cessione a valore normale (ex articolo 9 DPR 917/86) per le
operazioni
infragruppo
transfrontaliere.
L’impostazione
dell’amministrazione fiscale italiana166, in conformità alle direttive
Ocse, ha interpretato la legislazione nazionale nel senso di
privilegiare espressamente metodi oggettivi di valutazione, primo
fra tutti quello del confronto della transazione interna “sospetta”
con quelle, oggettivamente assimilabili, effettuate con imprese
164
Vi sono tre criteri base, il metodo del “confronto del prezzo”, del “prezzo di
rivendita” e del “costo maggiorato”,ai quali l’Amministrazione Finanziaria ha
affiancato altri quattro metodi per le ipotesi in cui nessuno dei precedenti fosse
applicabile: il metodo della ripartizione degli utili globali, della comparazione dei
profitti, della redditività del capitale investito e del margine lordo del settore
economico.
165
È stato lo stesso Ministero delle Finanze, con la circolare n. 32 del 22 settembre
1980, a considerare assoluta la presunzione. Nettamente contraria la giurisprudenza,
Comm. Trib. Reg. Piemonte, sez. XXXV, 18 gennaio 1999, n° 164. Per la dottrina
favorevole si veda M. Piazza, Guida alla fiscalità internazionale, Il sole 24 Ore,
Milano 1997. La dottrina contraria ha criticato la tesi osservando che la norma sul
transfer price è una norma sostanziale, e non una norma sulle prove : il valore normale
costituisce il valore tassabile degli scambi infragruppo per espressa disposizione
legislativa. In tal senso : G. Tremonti, Gruppi di società : i vincoli e le architetture
fiscali, in AA.VV., La fiscalità industriale, Bologna, 1998, pag. 48; Lupi, Manuale
professionale di diritto tributario, Milano 1998, pag. 365; Tosi, Le predeterminazioni
normative nell’imposizione reddituale; S. Cipollina, La legge civile e la legge fiscale: il
problema…, op. cit., afferma la “…erroneità e la contraddittorietà insite nella
creazione per via extralegislativa di una presunzione legale,…”, pag. 202.
166
Circolare n. 32 del 22 settembre 1980.
84
esterne al gruppo, indipendenti. Il maggiore problema riscontrato in
sede di applicazione pratica della norma, riguarda la possibilità,
molto frequente nella pratica, che l’impresa fornitrice abbia come
unico cliente il gruppo cui appartiene, essendo stata creata
appositamente per le esigenze del gruppo,
rendendo così
impossibile un confronto oggettivo.
I presupposti di applicabilità della norma in oggetto, possono
distinguersi in soggettivi ed oggettivi. I primi riguardano la
necessità di accertare che le operazioni “incriminate” avvengano tra
due imprese167, delle quali una italiana ed una estera, le quali,
direttamente o indirettamente: - controllano l’impresa; - ne sono
controllate, o – sono controllate dalla stessa società che controlla
l’impresa168.
167
La più volte citata circolare del 1980, affronta l’interpretazione del termine
“impresa”, in modo sufficientemente chiaro ed esaustivo, partendo dalla definizione
civilistica di cui all’art. 2082, tenendo però conto della presunzione di produzione di
reddito d’impresa contenuta nell’art. 87 I° c. lett. a) e b) del DPR 917/86, giungendo
per tale via a ricomprendere sostanzialmente qualsiasi soggetto che svolge o può
svolgere attività imprenditoriale (art. 2195 cc.), assoggettabile a tassazione ex. Tuir,
senza che rilevi la natura e la forma dello stesso, se non per la successiva verifica del
rapporto di controllo eventualmente intercorrente tra i soggetti. Possono così ritenersi
sottoposti alla normativa in esame sia le società che le ditte individuali e le stabili
organizzazioni di società estere, considerata la mancanza di autonomia giuridica dalla
casa madre, sicché le operazioni da essa poste in essere sono riconducibili direttamente
alla società dalla quale promana. le quali sono tassate in Italia a norma degli artt. 20, 87
e 112 del DPR 917/86.
168
Sulla nozione di controllo, l’opinione dominante, è quella che parte dal presupposto
dell’esistenza di una indipendenza (non assoluta) del diritto tributario da quello civile.
Ciò non significa che la valutazione di tale parametro sia completamente avulsa dalla
definizione civilistica di cui all’art. 2359. Che il dato civilistico sia da superare è
dichiarato espressamente dall’Amministrazione Finanziaria, nella circolare 32/1980
(“… poiché il meccanismo di alterazione dei prezzi di trasferimento è costituito spesso
dalla influenza di un’impresa sulle decisioni dell’altra, che va ben oltre i vincoli
contrattuali od azionari, sconfinando in considerazioni di fatto di carattere meramente
economico”), ove elenca, ampliando quelle civilistiche, alcune circostanze dalle quali
si desumono delle situazioni di controllo. La posizione ministeriale finisce per
coincidere sostanzialmente con quella espressa dalla VII^ direttiva CEE sui conti
consolidati ovvero dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia relativamente all’abuso
di posizione dominante sul mercato ex art. 86 del Trattato Istitutivo della Comunità.
Non si discosta di molto la giurisprudenza italiana, la quale però tende a precisare che
le fattispecie di cui ai numeri 1 e 2 del I° comma del 2359, configurano sicuramente
85
Per quanto concerne i presupposti oggettivi, la norma in
commento rimanda espressamente alla nozione di valore normale di
cui all’art. 9, III° comma DPR 917/86, il quale lo definisce come “il
prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi
della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e
al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo
in cui i beni e servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza,
nel tempo e nel luogo più prossimi.” Aggiungendo inoltre che, se
possibile, il valore vada determinato in conformità “ai listini o alle
tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi …”.
Come per l’elusione fiscale in genere, anche nello specifico
ambito del transfer price vi è un problema di distinzione dei
fenomeni leciti da quelli illeciti, in questo caso relativi alla
legittimità o meno della pianificazione fiscale internazionale,
richiedendosi quindi una approfondita conoscenza della legislazione
fiscale interna dei vari Paesi, senza tralasciare le convenzioni
internazionali eventualmente stipulate dagli stessi per evitare le
doppie imposizioni169.
ipotesi di controllo anche ai fini tributari, negli altri casi occorrerà invece una ulteriore
indagine sul caso concreto, onde verificare l’eventuale sussistenza di interessi comuni
nella alterazione dei prezzi. La C.T. di I° di Alessandria, sez. I^, del 28/11/1995, sent.
n. 1416, non ha ritenuto sussistente l’ipotesi del controllo di una società italiana rispetto
alla partecipata inglese al 50%, che commercializzava nel Regno Unito i prodotti della
prima. Contrariamente alla tesi dell’ufficio, la Commissione adita, ha ritenuto invece
sussistere “una forma partecipativa di collaborazione, assurta a rango societario, del
che ne era riprova la compartecipazione paritaria al 50% del soggetto inglese e del
soggetto italiano nella joint venture”. In appello la C.T.R. del Piemonte ha
sostanzialmente confermato la sentenza di primo grado, ribadendo implicitamente, che
le ipotesi ultronee rispetto alle fattispecie di dominio delle assemblee ordinarie (numeri
1 e 2 del comma I°), le varie ipotesi di dominio (o di comunanza di interessi) derivante
da rapporti contrattuali od extracontrattuali, potranno al più costituire dei semplici
indizi.
169
Vedasi A. e A.C. Musselli, “Transfer pricing”, ed. Il Sole 24 Ore, 2001 pag. 8, ove
viene proposta una doppia verifica per la valutazione della liceità di tali operazioni.
86
Un ultimo punto da rimarcare riguarda il riferimento
dell’articolo 76, 5° c. alle “procedure amichevoli” previste dalle
convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, le quali,
ove previste, rendono applicabili le disposizioni in argomento anche
nell’ipotesi in cui ciò comporti una diminuzione del reddito170.
§7) Le norme antielusive “settoriali”.
Premessa
Ho già avuto modo in precedenza171 di evidenziare
l’evoluzione legislativa che, a partire dagli anni ’80, ha contribuito
a definire più compiutamente il fenomeno elusivo nel tentativo di
arginarne gli effetti negativi più volte ricordati. In quella sede è
stata altresì evidenziata la scelta del legislatore di non inserire
nell’ordinamento una norma antielusiva di tipo generale, bensì un
gran numero di norme applicabili a singole fattispecie e, quasi a
voler “accontentare” anche i sostenitori della tesi disattesa, una
disposizione per taluni versi “a mezza via” tra una norma generale
ed una specifica, l’art. 10 della L. 408 del 29/12/1990, applicabile
nell’ambito delle operazioni di riorganizzazione societaria. Non ci
sono voluti molti anni perché, emersi i suoi limiti, anche grazie alla
170
La rettifica derivante dall’applicazione dei principi del transfer price, può talvolta
determinare problemi di doppia imposizione giuridica od economica, la prima si
verifica allorché uno stesso reddito viene tassato, in capo allo stesso soggetto, da più
amministrazioni fiscali; la seconda invece, quando uno stesso reddito viene tassato ad
esempio al momento della sua formazione ed in quello della sua percezione da parte
dello stesso soggetto. Con la procedura amichevole, si tende alla risoluzione
principalmente di problemi di interpretazione della norma convenzionale e
l’eliminazione della doppia imposizione nei casi in cui la norma non sia efficace nel
dirimere una specifica fattispecie. Nell’impossibilità di raggiungere un accordo, si potrà
ricorrere all’arbitrato, ma solo se entrambi i Paesi coinvolti, hanno accettato tale
procedura.
171
Si veda il precedente paragrafo 5.
87
copiosa giurisprudenza in materia, dopo alcune modifiche, per il
vero poco efficaci, quest’ultima norma sua stata completamente
abrogata e sostituita dal D.Lgs 8 ottobre 1997, n° 357, con il quale è
stato introdotto, nel corpo normativo del decreto sull’accertamento
delle imposte sui redditi (DPR 600/73), l’art. 37-bis.
§7.1) L’art. 10 della L. 29/12/1990, n° 408.
Premessa
L’essenza di una norma antielusiva in senso stretto, è quella
di attribuire, all’organo deputato all’accertamento delle imposte, al
verificarsi di determinati presupposti, il potere di disapplicare la
norma che sia stata strumentalizzata al fine di ottenere un
vantaggio
altrimenti
non
riconosciuto
dal
sistema
(e
sostanzialmente disapprovato), e ciò ai soli fini fiscali, fermi
restando cioè gli ulteriori effetti giuridici.
Essa quindi non modifica la legislazione sostanziale. Per
lungo tempo il legislatore ha preferito optare per la diretta modifica
delle singole norme strumentalizzate.
Con la L. 408/90 ha invece introdotto una disposizione,
antielusiva nei termini sopra accennati, applicabile ad una pluralità
di operazioni, tutte di finanza straordinaria172. L’articolo 10, nella
sua veste originaria, consentiva infatti all’Amministrazione
finanziaria di disconoscere i vantaggi tributari conseguiti in
dipendenza di talune operazioni di riorganizzazione aziendale173
172
Prima delle modifiche di cui alle leggi 724/1994 e 662/96.
173
Operazioni di fusione, concentrazione, trasformazione, scorporo e riduzione di capitale
sociale e, a seguito della interpretazione autentica effettuata mediante la norma contenuta
nel comma 16 dell’articolo 123-bis Tuir, anche di scissione.
88
poste in essere senza valide ragioni economiche ed allo scopo
esclusivo174 di ottenere, fraudolentemente175, un risparmio di
imposta.
174
Data la perentorietà dell’espressione utilizzata, non è stata pressoché mai posta in
discussione l’interpretazione della stessa nei termini di unicità di tale scopo e, dunque, di
incompatibilità con l’eventuale esistenza di uno seppur infimo scopo ad esempio
commerciale. Dalla lettura della proposta di legge originaria inoltre, si evince chiaramente che l’impostazione data è stata frutto di una scelta consapevole del legislatore,
“...Gli uffici..., possono considerare irrilevanti agli effetti della determinazione del reddito complessivo, gli atti che hanno la loro causa esclusiva o principale nella riduzione
dell’onere tributario.”. Le differenze con la norma in seguito approvata sono evidenti,
abbiamo anzitutto l’esclusione dell’aggettivo “principale”, che risponde probabilmente
all’esigenza di limitare (rectius escludere) margini di discrezionalità nella valutazione
della condotta tenuta, infatti non c’è dubbio sulla assolutezza di tale concetto, come da
orientamento pressoché unanime della dottrina (per tutti, S. Cipollina “La legge civile
e..” op. cit. pag. 244: “... nelle intenzioni del Parlamento, l’elusione dovrebbe risultare in
modo netto e inconfutabile dalla totale assenza di scopi commerciali effettivi nell’operato
del contribuente. Si esclude per questa via, qualsiasi valutazione comparativa tendente
ad ordinare, secondo criteri di prevalenza, gli scopi perseguiti. Ciò significa che la
presenza di un solo interesse commerciale ulteriore rispetto allo scopo di risparmiare
un’imposta è sufficiente a rimuovere il sospetto dell’elusione.”).Cfr. Comm. trib. I°,
Milano, 06/05/1996, n. 239,“Le parole ‘scopo esclusivo’ vanno interpretate per quello
che sono, cioè nel senso di unico e non di principale o prevalente; ciò anche sulla scorta
del generale atteggiamento di cautela mostrato dal legislatore nell’adozione di rimedi
antielusivi che non siano automatici e predeterminati.”.); Secit (Del. Secit 105 del
5/07/1994 : “... l’esclusività dello scopo non può essere intesa che come sottolineatura
del rigore con il quale deve valutarsi la sussistenza della prima condizione ( le valide
ragioni economiche). In secondo luogo abbiamo l’inserimento, nel testo definitivo, delle
“valide ragioni economiche” congiuntamente allo scopo esclusivo. Valutate
complessivamente, le modifiche possono essere viste come assenza di fiducia nelle
capacità degli organi preposti al controllo di effettuare (in modo imparziale) valutazioni
discrezionali, ovvero come espressione della volontà di tutela della certezza del
diritto.Vero è che, questa (corretta) interpretazione, unita alla richiesta fraudolenza,
contribuirono non poco alla scarsa fortuna della norma, la cui applicazione fu talvolta
“forzata”.
175
L’avverbio “fraudolentemente”, è stato oggetto di controversia in dottrina, circa la sua
eventuale derivazione, e quindi anche accezione, penalistica. Nel diritto penale infatti,
con tale espressione, si intende una condotta caratterizzata da artifici e raggiri,
indubbiamente dolosa, e quindi tendente all’occultamento di fatti veri ovvero alla falsa
rappresentazione di essi in modo da ingannare gli organi deputati all’attività di controllo.
La dottrina immediatamente dominante, rilevò anzitutto che una tale accezione avrebbe
reso la norma praticamente inapplicabile. Ciò era particolarmente vero soprattutto nella
versione ante L. 724/94 (nella quale si sottolinea la presenza della congiunzione “e” : “ ...
poste in essere senza valide ragioni economiche e allo scopo esclusivo di ottenere
fraudolentemente ...”.), infatti, cercare di colpire un fenomeno che per sua natura si
verifica strumentalizzando le norme, ma rispettandole formalmente, con una disposizione
che richiede invece la sussistenza di comportamenti artificiosi come ad esempio la
produzione di documentazione contabile falsa, non poteva che essere giudicato illogico e
pertanto il termine andava interpretato diversamente. In questo senso il Secit, il quale
nella delibera 105/94 escluse la possibilità che “l’avverbio ‘fraudolentemente’ esprima
qualcosa di più della connotazione complessiva dell’operazione come abuso dello
89
Tale prima versione venne innovata dalla legge 23/12/1994,
n° 724, che modificò l’elenco delle fattispecie alle quali poteva
applicarsi la norma in commento, aggiungendo le operazioni di
liquidazione, escludendo le fusioni, in conformità alle modifiche,
dalla stessa legge apportate176, alla disciplina delle fusioni e
strumento negoziale. ... esso non introduce nella fattispecie alcun ulteriore elemento
riconducibile all’accezione penalistica dell’’artificio’ o del ‘raggiro’.”. Così pure il
Gallo (“Prime riflessioni ...”, op. cit., pag. 1778; Trivoli, “Contro l’introduzione ...”, op.
cit. pag. 1366; M. Nussi, “Elusione tributaria ed equiparazioni al presupposto nelle
imposte sui redditi: nuovi (e vecchi) problemi”, pag. 526; Tabellini, “Libertà
negoziale...”op. cit. pag. 210., il quale argutamente rilevò che se così non fosse stato
inteso, la disposizione sarebbe stata facilmente elusa, semplicemente dichiarando
apertamente che l’operazione veniva posta in essere con il solo fine del risparmio fiscale,
così facendo, da un lato si verificava la condizione dell’assenza delle valide ragioni
economiche, ma nel contempo veniva esclusa la ricorrenza della fraudolenza. La corretta
interpretazione del termine era, secondo tale Autore, nel senso dell’”impiego distorto e
l’abuso dello strumento negoziale.”.Cfr. anche Lupi (“Elusione fiscale: modifiche ...”,
op. cit. pag. 418), il quale sottolinea che talvolta può avvenire che il contribuente effettui
una data operazione al solo fine del risparmio fiscale, ma ciò non determina
immediatamente l’illiceità dell’operazione (L’Autore cita, tra gli altri esempi, l’inizio di
una impresa individuale per fruire del favorevole regime forfetario per ‘i giovani
imprenditori’, ovvero all’ incasso di compensi al primo gennaio per differirne
l’inclusione nel reddito imponibile, l’anticipo di un investimento per fruire di una
agevolazione e così via); P. Valente, “L’elusione nelle operazioni di riorganizzazione
societaria: problemi esegetici dell’art. 10, legge 408/1990 e confronto con esperienze
straniere”, in Riv. di dir. fin. e sc. delle fin. LVI, 1, I, pagg. 115 e ss., soprattutto pagg.
134 e ss., in quanto “Quando la normativa fiscale, in via strumentale e per scelta di
sistema, privilegia un certo comportamento rispetto a un altro, ed il contribuente adotta
quello più favorevole, non esistono ancora strumentalizzazioni, manipolazioni o artifici.
Quando il sistema consente due alternative aventi pari dignità normativa, non elude chi
sceglie la più conveniente...”. Secondo l’Autore quindi il termine, lungi dall’essere inteso
nel senso penalistico, servirebbe proprio a facilitare la distinzione tra “la applicazione
strutturale, ovvero la strumentalizzazione e manipolazione delle regole tributarie.” Nella
stessa direzione la Comm. trib. I°, Milano, 04/05/1996, n. 239, la quale puntualmente
afferma che l’avverbio vada interpretato “nella sua accezione più lata, scevra ormai dal
concetto di dolo, tipico di un’ottica penalistica, toccando significati più sfumati, quali
quelli di furbizia, malizia astuzia,...”. Tra le opinioni contrarie, con dovizia di
argomentazioni, segnalo il Nuzzo, il quale sostiene l’erroneità della tesi del Secit secondo
la quale il temine, nella sua accezione penalistica, sarebbe una contraddizione in termini
rispetto al fenomeno che la norma intende colpire, il quale si verifica “alla luce del sole”,
e deve pertanto essere identificato con “l’abuso dello strumento negoziale”. L’autore
sostiene anzitutto che se così fosse, il legislatore avrebbe potuto semplicemente omettere
l’avverbio in discussione evitando controversie inutili, richiamandosi inoltre alla tesi per
cui, per la certezza del diritto e dell’unità dell’ordinamento, deve riconoscersi la costanza
di significato (salvo esplicita diversa indicazione fornita dallo stesso legislatore) delle
definizioni giuridiche da qualunque campo giuridico esse provengano (tesi peraltro mai
dimostrata.).
176
Con l’articolo 27, è stata infatti modificata la disciplina fiscale delle fusioni contenuta
nell’art. 123 del Tuir, rendendo impossibile l’utilizzo in franchigia di imposta del
90
facendole infine perdere la connotazione di norma applicabile alle
(sole) operazioni di riorganizzazione societaria, con l’inserimento
delle operazioni di valutazione di partecipazioni, cessione o
valutazione di beni mobiliari e di operazioni di finanza ordinaria
come le cessioni di crediti. Infine l’art. 3, comma 27 della l. 662
del 23/12/1996, aggiunse la ‘cessione d’azienda’.
L’elenco delle fattispecie oggetto della disciplina, sia prima
che dopo le modifiche, è sempre stata pacificamente qualificata
come tassativa e non meramente esemplificativa. Nel merito
vennero sollevate delle perplessità in quanto la norma richiamava
sia alcuni istituti ben delineati giuridicamente, come la fusione, sia
delle operazioni conosciute nel più ampio ambito delle scienze
economico-aziendalistiche, come ad esempio la concentrazione, e
come tali dai contorni giuridici molto vaghi.
L’aspetto però probabilmente più controverso ruotava invece
attorno agli altri presupposti di applicabilità ovvero: - le valide
ragioni economiche, - la fraudolenza, - lo scopo esclusivo e - il
risparmio di imposta177.
disavanzo di fusione da annullamento della partecipazione, per iscrivere l’avviamento o
rivalutare i beni della incorporata.
177
Ulteriore fonte di problemi interpretativi ed applicativi, erano le nozioni di “vantaggi
tributari” e “risparmio d’imposta”, non definite nella norma stessa e neanche in altra parte
dell’ordinamento tributario. Anzitutto deve rilevarsi l’inopportunità di una loro
considerazione come sinonimi, infatti ben può aversi un vantaggio tributario nel
differimento dell’imposizione di un componente positivo di reddito, o anticipazione della
deduzione di uno negativo, senza che ciò comporti un risparmio d’imposta strictu sensu.
Che il risparmio di imposta poi non si identifichi tout court con l’elusione fiscale è stato
già chiarito, resta da aggiungere che esso, se non è accompagnato da tutte le ulteriori
condizioni di cui all’art. 10 in commento, non può, nel contesto della stessa disposizione,
essere considerato illecito. Occorre pertanto che l’operazione posta in essere, la quale
deve rientrare tra quelle elencate, sia preordinata esclusivamente al conseguimento di un
concreto “risparmio d’imposta” e non di un generico quanto indecifrabile “vantaggio
tributario”. Pertanto, se è oggettivamente riscontrabile la presenza di un qualche interesse
extrafiscale, non importa se prevalente o meno rispetto a quello fiscale, ciò significa
implicitamente che il contribuente, dovendo effettuare una data operazione economicoaziendale, di fronte ad una pluralità di opzioni sulle modalità concrete di attuazione della
stessa, ancorché attraverso strumenti atipici, ha scelto quella che, complessivamente, ha
91
§7.2) L’articolo 37-bis del DPR 600/73
Premessa
Lo scopo perseguito dal legislatore della norma sopra
commentata, era quello di perseguire, vanificandone gli effetti
negativi in termini di gettito, gli abusi perpetrabili nell’ambito di
talune operazioni connotate da elevata complessità, come tali non
univocamente collegabili ad una determinata fattispecie impositiva,
valutato essere la più efficace ed efficiente, e quindi anche, ma non solo, per ragioni
fiscali. Dubbi interpretativi sorsero inoltre sulla necessità o meno di valutare il
menzionato risparmio tenendo conto o meno degli eventuali altri tributi sopportati in
conseguenza del comportamento disconosciuto. La lettura della norma non lasciava
comunque molti spazi, dovendosi escludere la rilevanza degli “altri tributi”. Le
conseguenze derivanti dal mancato scomputo di questi ultimi, comunque assolti, come
propugnato dal Secit che si basava sulla specificità della disposizione tenuto conto
dell’espresso riferimento alla normativa sulla riscossione delle imposte dirette contenuto
nel comma 2 (art. 15 DPR 602/73), non sono di poco conto, potendosi infatti considerare
questo ulteriore prelievo, come una sorta di sanzione impropria (Così Dus, “Norme
antielusive in materia di operazioni societarie”, in Il fisco 1991, pagg. 1222-1223;
Fiorentino, “Il problema dell’elusione tributaria nel sistema tributario positivo”, in Riv.
di dir. trib., 1998, I, pag. 821; Gallo, “L’elusione fiscale nelle operazioni di
concentrazione e scorporo”, in Il fisco, 1992, pag. 670; Lupi, “Società senza impresa,
detrazione IVA e ‘fiscalità dell’imprevedibile’”, in Riv. di dir. trib., 1992, pag 877.) con
il corollario che meno tributi si riusciva a pagare con il comportamento elusivo, minore
sarebbe stata implicitamente la sanzione in caso di contestazione.Le poche volte che
l’Amministrazione finanziaria ha tentato l’applicazione dell’art. 10, l’esito della
(inevitabile) fase contenziosa è stato per essa prevalentemente negativo. Per tutte,
Cassazione sez. tributaria, sentenza N° 14776 del 15/11/2000. La Cassazione cita inoltre
la sentenza della Corte di Giustizia C-28/95 del 17/7/1997 la cui massima ritengo utile
riportare: “Ai fini dell’applicazione del trattamento fiscale comune relativo alle
operazioni societarie stabilito dalla direttiva 90/434 CEE non è necessario che la società
acquirente sia titolare dell’esercizio di impresa, e neppure è richiesta la riunione
durevole, da un punto di vista finanziario ed economico, in una stessa entità,
dell’impresa di due società. Una fusione per scambio di azioni può pertanto avvenire
anche quando una stessa persona fisica che era l’unico azionista e amministratore delle
società acquistate assuma gli stessi ruoli nella società acquirente.”. Sulla differenza tra
‘risparmio fiscale’ ed elusione, nel senso voluto dalla L. 408/90, Comm. trib. prov. di
Milano citata, ove si legge che “... indubbiamente la ricorrente abbia conseguito un
notevole risparmio d’imposta e che ciò non sia sfuggito agli amministratori della
società”, ciononostante essa ha ritenuto che l’operazione in esame non dovesse ritenersi
elusiva in quanto “si ritiene che questo non sia affatto lo scopo esclusivo ... che ha spinto
la società.”. Si ha così l’ulteriore conferma dell’assurdità di interpretazioni che
costringano alla scelta della via fiscalmente più onerosa, allorché sia l’ordinamento stesso
a prevedere due o più alternative per la realizzazione di una operazione genuinamente
motivata. In tal modo infatti verrebbe ostacolata non già l’elusione, bensì la libertà
economica del soggetto d’imposta.
92
e pertanto suscettibili di essere manifestate in modo tale da ricadere
sotto regimi maggiormente favorevoli, indipendentemente da una
volontà legislativa in tal senso. La tecnica legislativa utilizzata, ha
però comportato una sostanziale inutilizzabilità della stessa, sia
prima che dopo le modifiche178, tanto che le (poche) pronunce
giurisprudenziali sono intervenute a distanza di anni dalla sua
introduzione179.
Ulteriore
implicazione
negativa
fu
che
l’accresciuta
incertezza nel campo delle operazioni di riorganizzazione aziendale,
frenò l’utilizzo di questo strumento imprescindibile per un sistema
economico-produttivo che già di per sé stentava a tenere il passo di
una economia mondiale sempre più ‘globale’. In altre parole la
disposizione esaminata ha causato molti disagi ai contribuenti a
fronte dei quali il gettito per l’Erario non ha tratto alcun vantaggio
apprezzabile, neppure indirettamente non essendo stata capace di
disincentivare180 le “grandi elusioni” da parte di quei (pochi ma di
rilevanti dimensioni) soggetti che si potevano permettere consulenti
178
Da rilevare la circostanza che dette modifiche non sfiorarono minimamente le
questioni che, sotto il profilo interpretativo ed applicativo, erano risultate
particolarmente critiche: non quella della “fraudolenza”, dello “scopo esclusivo”, né
quelle relative all’utilizzo di espressioni atecniche come “concentrazione e scorporo”,
non è stato poi chiarito come dovevano essere determinati i “vantaggi tributari”
indebiti, ovvero i termini di confronto, le imposte da considerare, il periodo temporale.
179
Comm. Trib. Prov.le Milano, sez. I, 4/5/96, n. 239. Comm. Trib. I° grado di
Modena, sez. II, 14/12/95, n. 22. Comm. Prov.le Udine, sez. IX, 21/04/1997, n. 105.
Cass. sez. trib. 15/11/2000, n. 14776. Parere del Cons. di Stato, sez. III n. 1535, del
13/2/96.
180
Per correttezza occorre precisare che lo scopo di una norma antielusiva non è
(principalmente) quello di conseguire maggior gettito, quanto quello di “educare” il
contribuente (e l’amministrazione finanziaria) disincentivando il ricorso a strumenti
elusivi. Così Lupi: “Si tratta di norme di chiusura, destinate ad impedire di perdere
gettito, rendendo più difficili i comportamenti elusivi. Si può, giungendo al paradosso,
considerare tanto più raggiunto l’obiettivo di queste norme quanto meno numerose
sono i casi cui applicarle.” in “Diritto tributario. Parte generale”, Milano, 1994, pag.
95.
93
di rango superiore, in grado di “aggirare” la stessa norma
(sedicente) “antiaggiramento”.
Una concreta applicazione dell’istituto dell’interpello di cui
all’art. 21 della legge 413/91 avrebbe sicuramente contribuito
positivamente, diminuendo anche il contenzioso, ma questi allo
stato attuale sono argomenti al più dottrinali, essendo nel frattempo
intervenute profonde modifiche che spostano (anche) la nostra
attenzione sui nuovi istituti di cui all’articolo 37-bis e
dell’interpello generalizzato introdotto con lo Statuto del
contribuente.
La distinzione tra il risparmio d’imposta accettato come
fisiologico e quello invece considerato patologico non può essere
tracciata in modo netto, deciso e perciò univoco, e ciò è tanto più
dimostrato quanto più si tenti di raggiungere questo risultato con
una norma giuridica. È stato ampiamente discusso quanto tale
confine possa essere raffigurato non già come una linea di confine,
talché
si
possa
versare
nell’una
o
nell’altra
condizione
(liceità/illiceità), quanto in una “zona”, una “fascia” dai limiti
incerti e talvolta variabili, che costituisce quella “zona grigia” ove
l’elusione si annida e prospera. Con un approccio “matematico”,
esso può assimilarsi ad un sistema di n equazioni con n incognite,
dove n è un numero elevatissimo, tale per cui tentare di trovarne la
soluzione (rectius le soluzioni!) sarebbe compito improbo anche per
un novello Einstein. Al minimo mutamento di una delle variabili
infatti, si potrebbe passare dall’uno all’altro “campo”. Allo stesso
modo anzi, a maggior ragione, trovare una definizione legislativa
che tenga conto di tutte le variabili, può agevolmente considerarsi
compito sostanzialmente impossibile.
94
La soluzione di second best, adottata dal legislatore italiano,
è stata quella di introdurre norme specifiche e/o correttive delle
norme eluse, in quei casi in cui le possibilità elusive derivavano da
“distrazioni” del legislatore che non aveva “previsto” le possibilità
di un loro uso strumentale, ed infine una norma di più ampio respiro
che tendesse ad impedire (rectius limitare) le fattispecie
maggiormente ricorrenti e “pericolose” in termini di “peso” per
l’Erario, ma che, al tempo stesso, non potevano essere considerate
tout court elusive, diventandolo solo al verificarsi di talune
condizioni, non necessariamente oggettive, ed in quanto tali
bisognevoli di una valutazione.
Del primo tentativo in tal senso ho dato conto nel precedente
paragrafo, evidenziando la difficile utilizzabilità in concreto dello
strumento approntato con l’art. 10. Il successivo tentativo ha dato
come
risultato
l’introduzione,
all’interno
del
decreto
sull’accertamento delle imposte sui redditi, dell’art. 37-bis.
§7.3) Generalità dell’art. 37-bis DPR 600/73 e
rapporti con l’art. 10 l. 408/90.
Per meglio apprezzare le caratteristiche peculiari della norma
in commento dobbiamo necessariamente tenere conto della delega
legislativa che l’art. 3, comma 161, lettera g, della legge 23
dicembre 1996, ha concesso al Governo, al fine di emanare uno o
più decreti delegati per una modifica, sistematica ed organica, delle
disposizioni in materia di imposte dirette concernenti le operazioni
di riorganizzazione delle attività produttive, con la revisione inoltre
dei criteri di individuazione delle operazioni di natura elusiva di cui
95
all’art. 10 della l. 408/90, anche in vista di un miglior
coordinamento con le nuove disposizioni comunitarie in materia di
operazioni straordinarie (in Italia D.Lgs. 544/92). Notevoli
contributi possono infine trarsi dalla lettura della relazione
governativa al decreto 358/97181.
L’esperienza dell’art. 10 ha infatti indotto il legislatore ad
intervenire, a distanza di pochi anni, per “aggiustare il tiro” contro i
comportamenti elusivi che nel frattempo erano ulteriormente
cresciuti, dando prova del fatto che il fisco non era ancora in grado
di arginarli in alcun modo. Allo stesso modo, si è accennato
all’importanza delle riorganizzazioni societarie ed all’incapacità
della citata disciplina di garantire un sufficiente grado di
conoscibilità delle conseguenze fiscali delle stesse, mentre
l’evoluzione dei consumi e dei mercati, richiedeva un ripensamento
delle strutture produttive le quali per lungo tempo avevano seguito
di pari passo l’evoluzione della normativa fiscale, nel senso che, le
imprese, anziché adattare le proprie strutture produttive al mercato,
tendevano principalmente ad adottare la configurazione ottimale
dettata dalla contingente situazione della normativa tributaria, la
quale si evolveva su un binario diverso rispetto a quello della
evoluzione dei rapporti economici, essendo ‘comandata’ dalle
181
“La finalità principale delle disposizioni che formano oggetto del decreto in esame è
la rimozione degli ostacoli di carattere tributario all’assunzione, da parte dei comparti
produttivi nazionali, della struttura aziendale e giuridica più soddisfacente in relazione
agli obiettivi imprenditoriali da conseguire. È noto, infatti, che la normativa tributaria
ha sistematicamente, ancorché forse involontariamente, deformato l’assunzione di tali
strutture privilegiando, di volta in volta, alcuni negozi giuridici rispetto ad altri; con il
risultato di spingere le imprese interessate ad indossare ‘l’abito’ fiscalmente più
agevolato, anziché quello operativamente più appropriato, per conseguire il risparmio
d’imposta che ne conseguiva.” Così la relazione allo schema di decreto legislativo sulle
riorganizzazioni societarie.
96
esigenze di gettito, che la spingevano ad incentivare ora le
aggregazioni, ora le disaggregazioni dei complessi produttivi182.
La riconosciuta natura di coordinamento183 della delega
contenuta nella l. 662/96, ed esplicitamente la relazione ministeriale
di accompagnamento al decreto, affermano la preferenza accordata
alla continuità dei termini utilizzati nella precedente disposizione
antielusiva, in quanto compatibili, in modo da evitare il più
possibile di disorientare gli operatori economici, con modifiche
esclusivamente lessicali, ma soprattutto per il rispetto delle norme
costituzionali in materia di delegazione legislativa. Assumono
pertanto rilevanza le espressioni divergenti, tra le quali, ai nostri
fini, una posizione di primo piano è senza dubbio occupata dalla
circostanza che, a differenza della previgente norma, l’art. 37-bis è
maggiormente articolato, prevedendo il potere (rectius poteredovere) di disconoscere184 i vantaggi tributari conseguiti nel comma
2 e l’effetto dell’inopponibilità della condotta elusiva nei confronti
del Fisco (prima assente) nel comma 1. Sempre nel primo comma
viene data una definizione generale del fenomeno che si intende
182
Cfr. L. 18/03/1965, n. 170; L. 1089 del 1968; L. 2/12/1975, n. 576; L. 16/12/1977, n.
904; L. 29/04/1981, n. 163; L. 30/07/1980, n. 218. Si è trattato di disposizioni che
agevolavano ora l’uno ora l’altro tipo di operazioni/localizzazione.
183
Cfr. Zoppini, “Fattispecie e disciplina dell’elusione nel contesto delle imposte
reddituali”, in Riv. dir. trib. 2/I/2002, pagg. 54 e ss.
184
Il passaggio dall’espressione ‘è consentito all’amministrazione finanziaria’
all’attuale ‘disconosce’, pare semplicemente strumentale alla precisazione che
l’esercizio del potere in discussione è una estrinsecazione dell’ordinario ‘poteredovere’ caratteristico dell’attività amministrativa allorché si versi in situazioni nelle
quali l’Amministrazione finanziaria debba valutare fatti od interpretare norme, il cui
corollario è la possibilità di non applicare la disposizione antielusiva quando ciò
contrasti con i principi di buon andamento ed economicità dell’azione amministrativa,
ad esempio se la differenza d’imposta può essere considerata trascurabile (cd
discrezionalità vincolata).
97
colpire, e nel terzo sono espressamente elencate le operazioni nel
cui ambito può applicarsi la norma.
È proprio nella lettura del primo comma che l’aspetto di
norma sostanziale è stato rilevato da parte della Dottrina185, laddove
sono dichiarati ‘inopponibili’ all’Amministrazione finanziaria le
operazioni reputate elusive sulla base di un procedimento
accertativo disciplinato dai commi successivi della stessa norma.
L’art. 10, non solo aveva natura procedimentale, in ciò
(anche) differenziandosi dal 37-bis, ma difettava proprio di una
disposizione sostanziale di oggettivo riferimento186. In altre parole,
il potere amministrativo ivi previsto e disciplinato, non incideva
sulla normativa sostanziale ma, piuttosto, rendeva inapplicabile,
limitatamente alla fattispecie concreta, il ‘vantaggio’ derivante
dall’ordinario rapporto tra singolo fatto e presupposto, non
procedendosi ad alcuna riqualificazione del fatto ai fini tributari,
complicando ancora di più, se possibile, l’individuazione dei citati
‘vantaggi tributari’. Quello che veniva infatti censurato dalla norma,
non era tanto la violazione di un presupposto d’imposta, quanto il
fatto di averlo maliziosamente eluso, e a tale comportamento doloso
veniva ricollegata una norma accertativa che prescindeva dalla
ricostruzione del singolo fatto imponibile.
185
Cfr. Piccone Ferrarotti: “Riflessioni sulla norma antielusiva introdotta dall’art. 7 del
D.Lgs 358/97”, in Rass. trib. 4/97, pag. 1150; Lunelli, “Normativa antielusione”, in Il
fisco 30/97, pagg. 8489 e 8490. Contro, Cociani, “Spunti ricostruttivi delle tecniche
giuridiche di contrasto all’elusione tributaria. Dal disconoscimento dei vantaggi
tributari all’inopponibilità al fisco degli atti, fatti e negozi considerati elusivi’, in Riv.
dir. trib. 7/8 2001, I, pagg. 705 e ss.; Nussi, “Elusione tributaria ed equiparazioni al
presupposto nelle imposte sui redditi:...”, op. cit. pag. 514.
186
La natura procedimentale della norma, ha fatto sorgere anche dei dubbi in relazione
alla configurabilità stessa di una violazione sostanziale da parte del contribuente e, di
conseguenza, alla stessa possibilità di applicazione delle corrispondenti sanzioni
amministrative.
98
Dunque, ponendo l’attenzione al solo aspetto volitivo del/dei
soggetto/i che compiono l’operazione societaria, risultavano
implicitamente estranei all’ambito di applicazione della norma, le
fattispecie elusive plurisoggettive, consentendo così ai soggetti
giuridicamente ‘terzi’ rispetto all’operazione, di conseguire
impunemente quegli stessi vantaggi tributari. L’impostazione della
nuova norma invece, come evidenziato dalla relazione governativa,
indirizza il controllo di elusività di un comportamento, verso un
confronto oggettivo tra i regimi fiscali, escludendosi la necessità di
sindacare i comportamenti soggettivi dell’‘uomo d’affari medio’.
La novità rappresentata dall’introduzione dell’inopponibilità,
oltre a contribuire a qualificare la norma come sostanziale,
sommandosi
al
passaggio
dall’espressione
‘è
consentito
disconoscere’ alla più tassativa ‘disconosce’, pare indicare che il
legislatore abbia inteso passare da un atteggiamento possibilista ad
un vero e proprio divieto di opponibilità. Tale considerazione, a
prima vista incontestabile, andrebbe maggiormente ponderata sulla
base della indisponibilità dell’obbligazione tributaria, la quale
implica che gli uffici accertatori, di fronte ad un comportamento
elusivo (constatato in base alla norma), non hanno grandi possibilità
di scelta, dovendo procedere alla rideterminazione della imposta per
richiedere il pagamento di quella eventualmente ancora dovuta. Non
deve quindi sopravvalutarsi la portata innovativa della nuova norma,
se non limitatamente ad una miglior definizione positiva del
fenomeno elusivo, con l’abbandono del concetto di fraudolenza a
favore di quello che la relazione di accompagnamento commenta
come “l’utilizzazione di scappatoie formalmente legittime allo
scopo di aggirare regimi fiscali tipici, ottenendo vantaggi che
ordinariamente
il
sistema
non
99
consente
e
indirettamente
disapprova.”, viene altresì fornita una più corretta elencazione delle
operazioni assoggettate alla norma e la considerazione delle
fattispecie complesse (il disegno elusivo). Può insomma rinvenirsi in
essa una distinzione, più corretta ed aderente ai principi
dell’ordinamento, tra comportamenti considerati elusivi e quelli di
mero risparmio di imposta.
In altri termini, con l’esplicito riferimento ai comportamenti
diretti ad aggirare obblighi e divieti previsti dall’ordinamento
tributario187 e strumentali all’ottenimento di risparmi d’imposta
altrimenti indebiti, si deve ritenere che il legislatore abbia
implicitamente affermato che le norme tributarie avrebbero natura
precettiva, almeno nel senso che, verificatasi la fattispecie, sorgono
determinati obblighi, mentre i divieti sono da desumere, ma con
argomentazione a contrario, dalle disposizioni attributive di diritti, le
quali sono formulate in termini positivi (ad esempio il diritto al
riporto delle perdite e quello al credito d’imposta sono soggetti a
187
Intorno all’esistenza, nell’ordinamento tributario, di obblighi o divieti, per la verità
non c’è accordo in dottrina, persistendo l’opinione che ritiene che le norme tributarie
sostanziali, non abbiano valenza precettiva non imponendo ad alcun soggetto obblighi
o divieti per così dire “autonomi”, bensì collegati al compimento, da parte di questo, di
determinati atti o fatti che il legislatore ha assunto a fattispecie originanti
l’obbligazione tributaria, e quindi, ma solo a posteriori, imponendogli obblighi o divieti
a quest’ultima conseguenti. Così, Russo: “Brevi note in tema di disposizioni
antielusive”, in Rass. trib. 1/99, pag 70; Piccone Ferrarotti: “Riflessioni sulla norma
antielusiva...”, op. cit., pag. 1155. Entrambi rafforzano la propria tesi citando la
consolidata opinione che ha ravvisato proprio in tale carenza di imperatività,
l’impossibilità di applicazione dell’istituto di cui all’art. 1344 cod.civ.. In senso
conforme anche Cipollina, “La legge...”, op. cit., pag. 149, anche se in riferimento
all’art. 10 della 408/90; Bucci: “La norma ‘generale’ antielusiva nell’interpretazione
del Comitato Consultivo: alcune considerazioni.”in Rass. trib. 2/2002, pag 509.
Contro, Micheli, “Legge”, in Enc. del diritto, XXIII, Milano, 1979, pag. 1079; Pacitto,
“Attività negoziale, evasione ed elusione tributaria: spunti problematici”, in Riv. di
dir. fin., 1987, I, pag. 742; Gallo: “Brevi spunti ...”, op. cit. pagg.17 e ss..
100
determinate condizioni, se esse non si verificano, sorge il divieto ad
esercitare tali diritti188).
La recente giurisprudenza di legittimità pare orientata invece
diversamente, ad esempio la sentenza della Cassazione n. 11351 del
2001, ha affermato che le norme tributarie sarebbero inderogabili,
ma non imperative, non ravvisandosi in esse “il carattere
proibitivo”, in quanto “non pongono divieti, ma assumono un dato
di fatto quale indice di capacità contributiva189”; né quello di tutela
di “interessi generali che si collochino al vertice della gerarchia dei
valori protetti dall’ordinamento giuridico190” poiché esse risultano,
piuttosto, poste a difesa “di interessi pubblici di carattere
settoriale.”.
Si constata inoltre la consapevolezza che il risparmio
d’imposta ritenuto da perseguire in quanto elusivo, è quasi sempre
il frutto di una pluralità di atti e comportamenti coordinati o
comunque collegati, in vista del disegno elusivo, potendo
facilmente accadere che ogni singolo atto non sia perseguibile in
sé191.
188
Esplicitamente in tal senso Tesauro, “Istituzioni...”, op. cit. VII° ed. 2000, pag 231:
“Che l’ordinamento tributario preveda obblighi non è cosa che ha bisogno di
spiegazioni. ... ,il divieto, riferito alle norme tributarie, è da intendersi in senso debole,
ossia come previsione che esclude che, ad una determinata fattispecie, segua un effetto
fiscale vantaggioso per il contribuente. ... ad esempio quando, ..., non attribuisce la
possibilità di dedurre un costo, di conseguire un credito d’imposta ecc.”. da notare la
circostanza che lo stesso Autore, a pag. 221 dello stesso testo sostiene l’inapplicabilità
dell’art. 1344 cod. civ. concordando che le norme tributarie non sono imperative, ma
specificando che non lo sono “nel senso (civilistico) dell’art. 1344”, citando inoltre
Carraro, “Frode alla legge”, in Novissimo digesto italiano, vol, VII, Torino 1961, pag.
647; Santonastaso, “I negozi in frode alla legge fiscale”, in Dir. e prat. trib., I, 1970,
pag. 505.
189
Così anche Cass. n. 12327/1999, n. 11598/1995, n. 4024/1981.
190
Così anche Cass. n. 11598/1995.
191
È stato acutamente rilevato che le condotte elusive si possono suddividere in due
categorie, a) “quella del ricorso a figure negoziali che consentono di raggiungere un
101
Il riferimento poi agli atti, fatti e negozi, vale inoltre a
riconoscere che l’attività negoziale (ed il contratto in particolare)
ancorché sia il principale, non è l’unico strumento per la
realizzazione dell’elusione, ben potendo a tal fine essere utilizzati i
fatti ovvero i comportamenti non negoziali ed anche unilaterali192.
Così impostato il ragionamento, può altresì ribadirsi che sia stato
recepito l’orientamento della Dottrina assolutamente dominante,
secondo il quale non elude chi, tra due strumenti negoziali che gli
consentono il raggiungimento di un dato fine (ovviamente lecito
secondo gli ordinari criteri civilistici), posti dal legislatore sullo
stesso piano della dignità giuridica, sceglie quello fiscalmente meno
oneroso193.
Questa libertà di scelta dello strumento negoziale ritenuto più
efficace ed efficiente dal contribuente è infatti il corollario del
principio di libertà negoziale a sua volta connesso a quello
costituzionale di libertà di iniziativa economica. Sotto questo
profilo, la precedente norma antielusiva era stata fortemente
criticata per la presenza dell’avverbio “fraudolentemente”, quale
caratteristica richiesta in aggiunta allo “scopo esclusivo” (requisito
determinato risultato economico attraverso una scansione contrattuale insolita od
inutilmente complessa ed articolata rispetto agli strumenti tipici a disposizione del
contribuente per perseguire i medesimi effetti economici”; b) quella che consiste
soltanto “nel procedere ad una operazione preordinata ad ottenere un vantaggio
fiscale, che si pone in palese contrasto con la funzione tipica dell’istituto nel quale essa
si inquadra” .Russo “Brevi spunti ...”, op. cit., pag. 74.
192
Ad esempio la valutazione delle partecipazioni, (comma 3, lett.g).
193
“Non c’è aggiramento fintanto che il contribuente si limita a scegliere tra due
alternative che in modo strutturale e fisiologico l’ordinamento gli mette a disposizione.
Una diversa soluzione finirebbe per contrastare con un principio diffuso in tutti gli
ordinamenti tributari dei paesi sviluppati, che consentono al contribuente di ‘regolare i
propri affari nel modo fiscalmente meno oneroso’, e dove le norme antielusione
scattano solo quando l’abuso di questa libertà dà luogo a manipolazioni, scappatoie e
stratagemmi, che pur formalmente legali, finiscono per stravolgere i principi del
sistema.”Così si legge nella relazione governativa al D.Lgs 358/97.
102
anch’esso fonte di problemi applicativi e non riproposto nella nuova
disposizione) perché il comportamento fosse ritenuto illecito, con i
problemi già affrontati e che non ripeto194.
L’innovazione ha reso in tal modo superflua l’indagine
soggettiva riferita alla concreta finalità perseguita dal soggetto,
essendo al contrario sufficiente l’accertamento che questi abbia
ottenuto un vantaggio tributario cui non avrebbe avuto diritto in
base all’applicazione del regime “ordinario”, evitato grazie ad uno o
più atti/fatti/negozi che, senza che vi fossero motivazioni
extrafiscali, sono stati in grado di aggirare obblighi o divieti previsti
dall’ordinamento. Aggirare è poi altra cosa rispetto a “violare”
(frodare), anche qui concordando, il legislatore, con la dottrina
pressoché unanime nel ritenere che, con il comportamento elusivo,
non viene violata alcuna norma sostanziale ma, quando si verificano
i presupposti di applicabilità della norma in esame, è quest’ultima
ad essere violata e, dal momento che si tratta di norma
sostanziale195, la condotta diviene illecita, qualificando come
indebito il vantaggio fiscale derivatone. In altre parole ancora,
quando il legislatore ha usato l’espressione “altrimenti indebiti”
intendeva evidenziare il ruolo a tale scopo ricoperto, dall’abuso
dello strumento negoziale che si estrinseca nell’aggiramento di
obblighi e divieti, ed al contempo legittimare la facoltà di optare per
l’uso di uno strumento alternativo a quello tipico, ancorché
194
Vds. Paragrafo precedente.
195
Sulla natura sostanziale e non meramente procedimentale della norma, non appaiono
esservi oramai più dubbi, atteso che essa assoggetta ad imposizione fattispecie che, in
sua assenza, non lo sarebbe o lo sarebbe in misura inferiore. Inoltre, se fosse stata
concepita come norma procedimentale, non si spiegherebbe la sua irretroattività. Nel
vigore dell’art. 10, tale distinzione non aveva trovato unanimità di consensi in dottrina,
a causa della formulazione della norma, la quale al I° comma enunciava i requisiti per
considerare elusiva una operazione, ma anche attribuiva il potere accertativo della
elusione stessa all’Amministrazione finanziaria.
103
costituito da una pluralità di negozi collegati, ma comunque
riconosciuto od ammesso, implicitamente o esplicitamente, dallo
stesso legislatore196.
Una differenza particolarmente importante risiede inoltre
nella riscrittura del ruolo dell’Amministrazione fiscale, la quale non
deve (e non può) limitarsi ad un ruolo ‘distruttivo’ della fattispecie
elusiva, dovendo procedere anche ad una vera e propria
‘riqualificazione fiscale’ dell’istituto giuridico utilizzato dal
contribuente per poter applicare la ‘giusta imposta197’.
Resta comunque fermo il principio che sancisce la
sopravvivenza del/degli istituti civilistici utilizzati, operando la
citata riqualificazione, nel solo ambito della normativa tributaria e
fatti pertanto salvi gli ulteriori e differenti effetti, civilistici in
primis.
Un’ultima annotazione sintetica, riguarda l’aumento delle
fattispecie potenzialmente elusive ed in quanto tali soggette alla
nuova norma198, che non riguardano più le sole operazioni di
finanza straordinaria come nella precedente norma, includendo
infatti operazioni di ordinaria amministrazione come la cessione di
crediti, l’acquisto, ma anche la semplice valutazione delle
partecipazioni. Lo spettro di applicabilità della disposizione è ora
talmente ampio che qualche autore le ha attribuito, se non nella
196
Cfr. le considerazioni alle quali si è pervenuti nella parte del presente scritto
relativamente alla definizione di elusione fiscale.
197
Esplicitamente corrispondente al differenziale (a sfavore dell’Erario) tra imposta
assolta in base al comportamento ritenuto inopponibile e quella dovuta in base alla
norma elusa. Ovvero ciò che nella precedente disposizione si intendeva (implicitamente
però) con il termine ‘vantaggio tributario’. Sugli aspetti controversi di tale
potere/dovere di riqualificazione si tornerà in seguito.
198
Per chi volesse approfondire questo aspetto, si veda Lunelli, “Normativa
antielusione”, op. cit., pagg. 8489 e 8490.
104
forma almeno nella sostanza, la caratteristica di norma antielusiva
(quasi) generale.
La limitazione delle possibilità di innovare la sostanziale
portata della nuova normativa è stata, ribadisco, limitata dalla
natura stessa della delega, altrimenti censurabile in sede di
sindacato di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 76
Cost. Fra le differenze immediatamente percepibili rispetto alla
norma precedente, vi è senza dubbio l’apprezzabile presa di
coscienza del legislatore, che una normativa che potenzialmente
limita l’autonomia negoziale dei privati, inverte l’onere della prova
inserendo una sorta di presunzione di elusività di talune operazioni
e attribuisce un (in)certo grado di discrezionalità agli organi
deputati
all’accertamento,
deve
necessariamente
essere
accompagnata da previsioni legislative ed amministrative che
disciplinino il procedimento attuativo in modo da garantirne
(almeno) la tendenziale equità (commi IV°, V°, ma anche VIII°,
vera e propria forma di interpello preventivo “speciale”).
1) Il “disegno” elusivo. Cenni e rinvio.
Come detto in premessa, il legislatore ha inteso meglio
calibrare la portata della norma con il riferimento agli “...atti, i fatti
e i negozi, anche collegati fra loro ...”, con ciò intendendo riferirsi
alla possibilità, tutt’altro che remota nel fenomeno elusivo, che
questo sia attuato mediante un vero e proprio “disegno”
preordinato199
all’aggiramento
199
di
obblighi
e
divieti
La interpretazione della concatenazione rinvenibile all’interno del ‘procedimento
elusivo’ come ‘preordinazione’ non è invero accettata unanimemente dalla dottrina.
Favorevoli Tabellini, Il progetto governativo antielusione”, in Boll. Trib., 1997, pag.
1063; Id. “Fusioni di società ed elusione fiscale”, op. cit., pagg. 1142-1144; Lupi,
105
dell’ordinamento al fine di conseguire un vantaggio tributario
altrimenti indebito.
Esempio classico di comportamenti di questo tipo sono quelle
operazioni ‘circolari’, nel senso che vengono poste in essere delle
operazioni di per sé legittime, annullate in seguito mediante
operazioni di segno opposto, in modo da riportare la situazione
economico-giuridica alla posizione di partenza, salvo aver fruito di
benefici di natura esclusivamente fiscale.
Altra figura di abuso di più strumenti negoziali a fini fiscali
elaborata dalla dottrina è quella dei cosiddetti ‘contratti a gradini’,
fattispecie nota da lungo tempo con riferimento all’interpretazione
degli atti ai fini dell’imposta di registro200 ex art. 20, norma nella
quale alcuni
autori vedevano sancito un principio generale di
“Elusione e legittimo risparmio d’imposta nella nuova normativa”, op. cit., pag. 1106;
Valente, “Riorganizzazioni societarie: prime osservazioni allo schema di decreto
legislativo.” in Il fisco 32/97 pagg. 9407 e ss. Contrario, Anello Di Domenico, “Profili
applicativi della nuova norma antielusiva”, in Corr. Trib., 1998, pagg. 1366 e ss.
Verosimilmente la corretta accezione dovrebbe essere nel termine di ampliare la
possibilità di contrastare le operazioni poste in essere mediante più atti/fatti/negozi,
fermo restando la necessità di provare (anche) il collegamento tra essi.
200
Esempio celebre di un siffatto operato, fu il caso, sottoposto al giudizio della Corte
di Cassazione, di un genitore in età molto avanzata, che donò ai figli delle obbligazioni
(in esenzione d’imposta) e, a distanza di pochi giorni, cedette degli immobili agli stessi
ricevendo come corrispettivo le stesse obbligazioni. Il risultato finale complessivo è
chiaramente stato quello di donare gli immobili, ma così congegnata, l’operazione ha
consentito di scontare la sola imposta sul trasferimento a titolo oneroso degli immobili
stessi evitando la più gravosa imposizione prevista per le donazioni immobiliari. Lo
Jarach nel commentare la sentenza della Cassazione che affermò il carattere elusivo dei
due negozi o, per meglio dire, la riconduzione ad unità del negozio indiretto, trasse
delle conclusioni che spesso vengono riproposte dagli studiosi che prendono in
considerazione la possibilità di interpretare unitariamente quei negozi che, nella loro
concatenazione di causa, sono impiegati a fini di risparmio fiscale, anche al di fuori
dell’imposizione indiretta, consentendo all’Amministrazione finanziaria di
‘riqualificarli’ (rectius qualificarli) ai fini fiscali in tal modo assoggettandoli
all’imposizione cui sarebbero stati sottoposti se si fosse posto in essere il negozio
avente come causa quella risultante dal risultato (economico-giuridico) complessivo dei
negozi ‘parziali’. Jarach, “I contratti a gradini e l’imposta”, in Riv. di dir. fin., 1982,
II, pagg. 79 e ss. commento a sent. Cass. sez. civ. I, n. 2658, 09/05/1979. Più di recente,
si vedano le sentenze della Suprema Corte, nn. 2713 del 25/02/2002, n. 14900 del
23/11/2001.
106
interpretazione dei negozi ai fini fiscali in base alla sostanza
economica, travalicante la sola imposizione indiretta201, autori
questi, tutti riconducibili sostanzialmente alla teoria della ‘scuola di
Pavia’ del Griziotti, che, come detto in precedenza, appare ormai
superata, anche se talvolta appaiono rivivere taluni aspetti di essa.
In effetti, è proprio quanto si è verificato in sede di
discussione dell’art. 37-bis, che nell’inciso ‘anche collegati fra
loro’, pare attribuire appunto al fisco il potere di interpretare
unitariamente la causa negoziale quale risultato di una lettura
complessiva di una complessa attività negoziale del contribuente,
nella quale sia ravvisabile una interdipendenza funzionale delle
singole operazioni che, poste in essere in apparente casualità ed
autonomia, nella realtà perseguono un fine unitario, riconducibile
appunto all’elusione di obblighi o divieti dell’ordinamento.
Ciò non significa comunque che in sede di accertamento
possa farsi una valutazione a posteriori collegando “atti, fatti o
negozi” che invece, per il modo che si sono verificati, appaiono
assolutamente autonomi tra loro. È la concatenazione di essi in vista
di un determinato obiettivo, ravvisabile nell’ottenimento di vantaggi
di natura fiscale, che deve essere stata decisa sin dal momento di
attuazione del primo atto202, con questo intendendo che l’attualità
del vantaggio, non contribuisce alla qualificazione della condotta
201
Così Jarach, “Principi per l’applicazione delle tasse di registro”, Padova, 1937,
pagg. 41 e ss.; Griziotti, “Il principio della realtà economica ...”, op. cit., pagg. 202 e
ss.; più di recente, Falsitta, “Manuale di diritto tributario”, op. cit., pag. 204; ID.,
“Usufrutto su azioni e contratto in maschera”, op. cit. pag. 1193. Contro, Tremonti,
“Autonomia contrattuale...”, op. cit. pag. 375; Tesauro, “Istituzioni ...”, op. cit. pag.
248; Santamaria, “Registro (imposte di)”, in Enc. dir., 1998, pag. 533.
202
Tabellini in “Il progetto governativo antielusione”, in Boll. Trib. 1997, pag. 1062 e
ss. afferma che, “i vantaggi tributari prodotti dal comportamento elusivo non devono
essere meramente ipotetici e, comunque, proiettarsi nel futuro, sì che diventi lecito
supporne di inesistenti: essi devono essere reali, attuali, apprezzabili, poiché sono
rilevanti, in quanto disconoscibili, solo i vantaggi effettivamente ‘conseguiti’”
107
come elusiva o meno, ma debba essere semplicemente intesa come
condizione di applicabilità del potere di disconoscimento.
Una
diversa
accezione,
porterebbe
a
conseguenze
potenzialmente portatrici di un intollerabile grado di incertezza,
potendosi verificare che una operazione originariamente non
elusiva, possa diventarlo in un secondo momento, allorché si
concretizzino degli effetti favorevoli al contribuente (ancorché
imprevedibili a priori).
2) Il requisito dell’assenza di valide ragioni
economiche. Cenni e rinvio.
Una
corretta
interpretazione
dell’art.
37-bis,
deve
necessariamente partire non solo dalla individuazione puntuale dei
suoi presupposti di applicabilità, ma anche dal procedimento da
seguire per la verifica della loro sussistenza secondo un preciso
ordine che ne garantisca la piena aderenza alla ratio dell’istituto.
Schematicamente, e seguendo la lettera della norma,
ricordiamo che i presupposti sono quattro: 1) assenza di valide
ragioni economiche; 2) aggiramento di obblighi o divieti previsti
dall’ordinamento; 3) preordinazione di siffatti comportamenti
all’ottenimento di vantaggi tributari (minori imposte/maggiori
rimborsi) altrimenti indebiti; e 4) inclusione delle operazioni ‘sotto
esame’ in quelle comprese nell’elencazione (tassativa) di cui al III°
comma,
ancorché
la
concretizzazione
del
comportamento
censurabile sia avvenuta per mezzo (anche) di atti, fatti o negozi
estranei all’elenco di cui al comma 3.
La dottrina concorda sulla circostanza che all’ordine di
elencazione sopraesposto, non corrisponda un analogo ordine
108
logico/interpretativo, ritenendo che, in primo luogo si debba
verificare che l’operazione, la cui legittimità si intende accertare
con la disposizione in esame, sia compresa nell’elencazione, poi se
questa sia stata attuata con mezzi che, lungi dall’essere previsti,
ancorché implicitamente, dallo stesso legislatore, siano invece
diretti ad aggirare obblighi o divieti, al fine di ottenere vantaggi
fiscali indebiti, anch’essi da verificare (e quantificare).
Solo allorché tutte le precedenti verifiche abbiano dato esito
positivo il comportamento tenuto dal contribuente potrà essere
considerato elusivo, ma perché sia censurabile, o meglio affinché
possa essere considerato illecito, occorre che l’indagine venga
estesa
al
controllo
dell’insussistenza
delle
valide
ragioni
economiche, finendo per apparire queste ultime, più che un
presupposto di applicabilità, un condizione esimente203, nel senso
che, con una inversione dell’onere della prova, il contribuente che
dimostri l’esistenza di esse, potrà evitare l’applicazione della
disposizione antielusiva.
Non sono in accordo con quest’ultima interpretazione quegli
Autori204 che ritengono invece comunque incombente sugli organi
accertatori l’onere di provarne l’assenza ancorché potendo far
ricorso allo strumento presuntivo, ritenendo che il requisito in
commento sia un elemento costitutivo della fattispecie e valga a
qualificare la condotta come elusiva.
Nonostante
possa
ritenersi
preferibile
quest’ultima
impostazione, occorre rilevare che se così fosse, il Fisco si vedrebbe
gravato dell’onere di fornire una probatio diabolica, essendo
203
In tal senso Russo, “Brevi note...”, op. cit., pag. 75.
204
Cfr. Zizzo, “Prime riflessioni sulla nuova disciplina antielusione” Lupi, “Elusione e
legittimo risparmio d’imposta nella nuova normativa” pagg. 1105 e ss.
109
pressoché impossibile per esso fornire la prova di un fatto negativo.
Anzi, e più correttamente, non si dovrebbe neanche parlare di
‘prova’, se, come ritengo corretto, ci troviamo di fronte ad una
attività valutativa, per sua natura insuscettibile di essere provata205.
Nella concreta applicazione, l’Amministrazione finanziaria
ha spesso attribuito al requisito in parola una valenza maggiore,
limitando l’indagine alla sola sussistenza o meno di esso, onde
qualificare un comportamento come elusivo; in altre parole
l’indagine amministrativa, di fronte ad una operazione ex III°
comma art. 37-bis comportante l’applicazione di un regime fiscale
vantaggioso,
accertata
la
insussistenza
delle
motivazioni
economiche a suffragio dell’opzione scelta, qualificava la condotta
dell’autore come elusiva. Una tale analisi non è semplicemente
superficiale, ma proprio errata nella metodologia, omettendo la
ricerca di quegli “aggiramenti”, quelle “strumentalizzazioni” delle
norme che non violano direttamente queste ultime, bensì principi,
piegando la ratio di esse allo scopo di rientrare in fattispecie
previste da altre disposizioni che garantiscono un vantaggio in
termini fiscali206.
Nella realtà, per una corretta valutazione, tutti i presupposti
devono essere considerati congiuntamente, anche perché sono
205
Così Consolo, “I pareri del comitato per l’applicazione della normativa antielusiva
e la loro sfuggente efficacia”, in Dir. e prat. trib. 1993, I, pagg. 960 e ss. Analogamente
Garbarino: “Riporto delle perdite ed elusione”, in Dir. e prat. trib. I/2001, pag. 106,
che così si esprime sull’argomento: “In base ai principi generali, è l’amministrazione
che deve provare l’assenza di valide ragioni economiche; gli è che le valide ragioni
economiche non sono un fatto suscettibile di prova diretta od indiretta, bensì una
valutazione, risultato di scelte necessariamente discrezionali dell’imprenditore,
ancorché rapportabili a parametri oggettivi di gestione aziendale.
206
La pericolosità di un tale approccio, è data dalla conseguenza che, se così fosse,
anche quando l’ordinamento consente di arrivare ad uno stesso risultato attraverso due
diversi regimi giuridici, dovrebbe comunque scegliere in base alle valide ragioni
economiche, le quali potrebbero così imporgli il comportamento più oneroso.
110
spesso strettamente collegati fra loro, in modo tale che non si può
pienamente apprezzare la portata dell’uno se non si considera anche
l’altro, soprattutto allorché si debba esaminare una operazione
complessa, attuata per mezzo di una pluralità di atti dei quali taluni
senza alcuna valida ragione economica che però, al contrario,
appare in tutta evidenza guardando al disegno complessivo oppure,
viceversa, negozi che, singolarmente considerati, appaiono
giustificati dal punto di vista economico, ma che in realtà non lo
sono, se li si guarda nell’ottica del risultato in concreto ottenuto
attraverso il collegamento di essi, come tipicamente accade nelle
operazioni ‘circolari’, ove gli effetti di esse si annullano
reciprocamente in quanto preordinate proprio al fine di evitare il
rischio di eventuali perdite, avendo così come unico effetto, quello
di far nascere un beneficio di natura fiscale, senza quindi
comportare alcuna modifica della situazione economico-giuridica
del contribuente.
L’Amministrazione finanziaria ha inoltre dimostrato una
carenza di fondo circa la valutazione del requisito in commento,
riconducibile ad una scarsa sensibilità e conoscenza delle dinamiche
produttive e finanziarie di una concreta gestione societaria e, più in
generale, del mercato nel suo complesso, finendo per considerare
non rilevanti talune motivazioni solo perché non rientranti in
schemi aprioristici da essa stessa delineati in relazione alle varie
operazioni assoggettate alla norma. Ad esempio, nella recente
risposta ad una richiesta di parere preventivo, l’Agenzia delle
Entrate ha giudicato elusiva una operazione di fusione per
incorporazione tra due società in procinto di essere poste in
liquidazione, di cui una ricca di perdite pregresse. Con la ris. n. 62
111
del 28/02/2002207, ha affermato che, per quanto riguarda l’elusività
dell’operazione, questa andasse individuata nell’aggiramento di un
supposto
principio
generale
di
divieto
di
compensazione
‘intersoggettiva’ delle perdite, mentre le disposizioni che regolano
fusioni e scissioni (artt. 123 e 123-bis del Tuir) pongono dei limiti
al riporto delle perdite allorché, secondo degli indici previsti dalla
legge, si possa configurare nella fattispecie, quel ‘commercio delle
bare fiscali’, a contrasto del quale tali disposizioni sono volte.
Pertanto, al di fuori di tali casi, la compensazione intersoggettiva
degli utili e delle perdite, appare conseguenza inevitabile, non
vietata e dunque lecita. Nel caso esaminato inoltre, le società
facevano parte dello stesso gruppo, nel cui ambito può dirsi
tendenzialmente
accettato
un
comportamento
tendente
all’ottimizzazione nel riporto delle perdite, infatti, l’art. 102 Tuir, Ibis, vieta il riporto delle perdite in caso di trasferimento di
partecipazioni societarie (e di modifica dell’attività esercitata), a
meno che ciò avvenga nell’ambito di un gruppo di società.
Riduttiva infine l’affermazione dell’Agenzia secondo la quale una
operazione di fusione “...rappresenta uno dei mezzi per giungere
alla crescita delle dimensioni dell’impresa ed alle conseguenti
economie di scala...” e “...nell’intento di aumentare la produttività
o, in vista di un allargamento del mercato, di acquisire nuovi
vantaggi concorrenziali, o semplicemente di acquisire particolari
conoscenze tecnologiche o professionalità che appaiono necessarie
in vista dei cambiamenti in atto”, e che pertanto nella fattispecie
sarebbero state insussistenti vista la successiva dichiarata volontà di
porre in liquidazione la società risultante dalla fusione, mancando
l’obiettivo di aumentarne quindi la vitalità economica. Nella
207
Reperibile in “documentazione tributaria” sul sito http://www.finanze.it/.
112
fattispecie invece, si sarebbero ottenuti innegabili riduzioni nei costi
della liquidazione stessa, in ciò dunque sussistendo la reale
motivazione economica dell’operazione suddetta.
Due considerazioni ritengo poi importanti, la prima è che
l’indagine non deve essere condotta come se si trattasse di dare un
giudizio soggettivo dell’operato dell’imprenditore, dovendosi fare
riferimento a dei parametri oggettivi, ci si deve in sostanza chiedere
se questi avrebbe comunque posto in essere la/le operazioni
allorché non fossero stati presenti quei vantaggi tributari invece
scaturenti, inoltre, il parametro di riferimento deve considerarsi
quello dell’imprenditore medio, oggettivizzando così l’analisi. In
tale direzione esplicitamente la relazione ministeriale, ove si legge
tra l’altro che “l’espressione ‘valide ragioni economiche’, non
sottintende ... una ‘validità giuridica’, che in questo contesto non
avrebbe senso, ma un’apprezzabilità economico-gestionale. ...
consistendo in un confronto oggettivo tra regimi fiscali, e non certo
nella
necessità
di
sindacare
i
comportamenti
soggettivi
dell’‘imprenditore medio’ o dell’ ‘uomo d’affari medio’.
Per concludere, possiamo dare una risposta al quesito che è
stato talvolta posto nelle discussioni, sulla necessità o meno che il
“collegamento” debba sussistere tra atti i quali siano tutti
menzionati nell’elenco del comma tre e privi tutti di valide ragioni
economiche, rispondendosi che ciò non sarebbe richiesto, nel senso
che l’assenza delle motivazioni economico-gestionali, debba essere
rilevata riguardo l’operazione nel suo insieme, indipendentemente
dalla loro sussistenza in alcune o anche tutte le parti (gli atti) di cui
essa si compone.
Si precisa infine, che i concetti da ultimo sommariamente
esaminati, verranno ripresi in seguito essendo connessi, il primo
113
alla presunta possibilità che l’Amministrazione finanziaria possa,
nell’ambito di un generale potere di riqualificazione contrattuale,
interpretare unitariamente una pluralità di negozi, ed il secondo
all’altrettanto eventuale possibilità che essa possa sindacare il
merito e l’economicità di alcune scelte imprenditoriali.
§8) Le reazioni dell’Amministrazione finanziaria
alle pratiche elusive
Premessa
Dopo avere rapidamente passato in rassegna le principali
tipologie di reazioni del legislatore di fronte all’erosione di gettito
causate dall’elusione delle imposte, occorre esaminare il concreto
uso che l’Amministrazione finanziaria ha fatto degli strumenti
legislativi così apprestati, soprattutto quando la loro applicabilità
alla fattispecie concreta è stata ‘forzata’, ovvero quale sia stato
l’atteggiamento dell’organo amministrativo prima dell’intervento
legislativo.
114
§9)
Il
contrasto
all’elusione
dell’Amministrazione
finanziaria
da
parte
prima
della
correzione delle imperfezioni normative.
Premessa
Nella parte del presente scritto dedicata all’individuazione dei
fattori
strutturali
dell’ordinamento
tributario
che
facilitano
l’ottenimento di vantaggi tributari non previsti dal legislatore
attraverso la strumentalizzazione delle regole e sfruttando la libertà
negoziale, ho già avuto modo di rimarcare quanto l’avvilupparsi di
regimi di tassazione differenziati, fattispecie escluse od esenti, abbia
dato un contributo suo malgrado determinante all’esplosione dei
fenomeni elusivi i quali si trovano costantemente in agguato, pronti
ad individuare all’interno di un siffatto groviglio normativo, uno
spiraglio ove intrufolarsi, una limitatissima area che la “coperta”
delle
fattispecie
imponibili,
positivamente
individuate,
inevitabilmente non riesce a coprire.
Quando ciò avviene, l’accertamento delle imposte da parte
dell’Amministrazione finanziaria diviene una sorta di laboratorio,
ove talvolta vengono sperimentate le più ardite interpretazioni, il più
delle volte rivelatesi in seguito velleitarie, ma che non le
impediscono di arroccarsi nelle proprie convinzioni, talvolta
corroborate da altrettanto fantasiose sentenze di alcuni giudizi di
merito.
115
§10) L’articolo 37, III° comma del DPR 600/73,
l’interposizione fittizia, uso (ed abuso) come
strumento di contrasto del dividend washing.
Prima che una norma esplicitamente ne impedisse l’uso a fini
elusivi, era divenuta pratica comune che un soggetto, titolare di
azioni solitamente quotate, le cedesse dopo la delibera di
approvazione del dividendo ma prima dello stacco della cedola, per
riacquistarli subito dopo l’incasso della stessa (con il relativo credito
di imposta) ad opera della controparte. I prezzi concordati per le due
cessioni venivano fissati ad arte, tenendo adeguatamente conto sia
del dividendo che del relativo credito d’imposta il quale veniva in tal
modo incassato immediatamente dal primo cedente, ancorché sotto
forma di plusvalenza su titoli, avendo riacquistato gli stessi ad un
prezzo inferiore. L’operazione non comportava alcun indebito
vantaggio di tipo fiscale allorché vi era perfetta “simmetria fiscale”
tra i due soggetti attivi dell’operazione, risolvendosi in vantaggi
prettamente finanziari. Solitamente infatti, il primo cedente, era a
credito nei confronti dell’Erario, per cui aveva maggior interesse a
monetizzare, cedendolo, il credito d’imposta sui dividendi, mentre il
primo acquirente, nell’opposta situazione fiscale, scomputava il
credito d’imposta dal proprio debito Irpeg.
L’operazione, da fisiologica diveniva patologica quando il
primo cedente era soggetto a particolari regimi che lo escludevano
dalla fruizione del beneficio del credito d’imposta, come tipicamente
avveniva per i fondi comuni d’investimento mobiliare o le Sicav208.
Questi infatti, cedendo il titolo per il solo tempo necessario
208
L. n. 77 del 1983.
116
all’incasso della cedola, monetizzavano il credito non spettantegli,
appunto perché, con l’operazione sopra descritta, lo “trasformavano”
in plusvalenza su titoli. È stato solo con l’intervento diretto del
legislatore nel 1992 con l’introduzione del comma 1 lett. a) dell’art
7-bis del DL 372/92, convertito dalla l. 429/92, che si è
concretamente posto quantomeno un freno a questo “commercio del
credito d’imposta”, attraverso l’aggiunta del comma 6-bis all’art. 14
del Tuir, il quale dispone la non spettanza del credito in questione,
quando è un Fondo comune od una Sicav che cede azioni o quote di
partecipazione in società od enti soggetti all’Irpeg dopo la delibera
di distribuzione degli utili e prima della loro effettiva distribuzione.
Analoga operazione veniva altresì attuata mediante l’istituto
dell’usufrutto su azioni, operazione di per sé lecita e ben conosciuta
nel diritto commerciale, ma la cui natura elusiva appariva in tutta
evidenza quando un soggetto non residente (e senza stabile
organizzazione in Italia) cedeva il diritto di usufrutto su azioni di
una società residente, ad altro soggetto residente. Anche in questo
caso infatti, il credito d’imposta, non spettante al soggetto non
residente, veniva incassato, attraverso l’usufruttuario, e retrocesso al
nudo proprietario con la fissazione ad hoc del corrispettivo per la
cessione del diritto d’usufrutto209.
Come per la prima operazione descritta, il legislatore è
direttamente intervenuto con l’introduzione, sempre nell’art. 14 del
209
Il corrispettivo pattuito era tendenzialmente corrispondente al valore attuale dei
dividendi futuri, relativi alla durata dell’usufrutto. Tale simmetria, consentiva
all’usufruttuario di iscrivere in bilancio gli utili via via incassati, neutralizzando tale
appostazione positiva con la quota di ammortamento del costo sostenuto per il diritto
stesso, ma lucrando dell’intero credito d’imposta sugli stessi che in tal modo costituiva
il valore degli interessi per l’anticipazione dei dividendi al nudo proprietario che in
sostanza non otteneva “a spese dell’Erario”, l’anticipazione di utili futuri. Varie
clausole di salvaguardia erano infine poste per garantire la “fissità” dei valori
concordati e per l’eventuale recesso.
117
Tuir, del comma 7-bis ad opera della stessa l. 429/92. Che si
trattasse di risparmio d’imposta non voluto né previsto dal
legislatore apparve immediatamente chiaro risalendo alla ratio della
disposizione sul credito di imposta, il quale come noto, assolve la
funzione di evitare la doppia imposizione, vietata dagli articoli 127
del Tuir e 67 del DPR 600/73 ed ancora prima dai principi
costituzionali. Si era quindi in presenza di una chiara breccia nel
sistema a fattispecie esclusive di cui al Tuir, che consentiva,
attraverso una semplice operazione210, la trasformazione di un
dividendo in plusvalenza, di pagare meno imposte211. Infatti in
entrambi i casi sopra descritti, anche se per motivi differenti, non
poteva verificarsi quella doppia imposizione che l’art. 14 del Tuir
mirava ad evitare212. Quanto detto però, lungi dal sancirne l’illiceità,
ne fa esclusivamente apparire l’elusività; e l’assenza di una norma
antielusiva, generale o specifica che sia, comportava l’impossibilità
di contrastare il descritto abuso, a meno di travalicare principi
210
Prova ne è il fatto che, operazioni cosiddette di “girocedole”, venivano eseguite,
nelle società finanziarie e commissionarie di borsa, non dai consulenti finanziari quanto
direttamente dai loro assistenti e ragionieri per prassi.
211
O, più precisamente, di ottenere un ‘rimborso d’imposta’, anche se “l’Erario
rimborsava fior di miliardi pur non avendo alcun precedente debito da saldare”, così
Fava in “Contratto in maschera. Elusione e interposizione”, in Il fisco 43/95, pag.
10375.
212
Nell’usufrutto Estero-Italia, infatti, il nudo proprietario non è soggetto passivo delle
imposte sui redditi, trattandosi di soggetto estero senza stabile organizzazione in Italia,
quindi non potrebbe godere del credito di imposta. Il fatto che questi riuscisse
comunque a fruirne, ancorché in via indiretta monetizzandolo, con la cessione
dell’usufrutto al soggetto residente prima dello stacco della cedola (per periodi
solitamente compresi fra i tre e cinque anni, ma a volte anche a entro un anno e
mantenendo il diritto di voto), rendeva assolutamente evidente la strumentalizzazione
della regola del credito d’imposta. Così, nell’ipotesi dividend washing il Fondo comune
o la Sicav, essendo assoggettati ad un regime particolare (addirittura di favore), non
erano soggetti alle norme del Tuir e quindi neppure all’art. 14, ma con la cessione del
titolo ad un prezzo comprensivo dell’utile già deliberato ma non incassato, per poi
riacquistarlo ad un prezzo inferiore, nella sostanza riuscivano a godere di un risparmio
non voluto né previsto dal legislatore.
118
giuridici altrettanto, se non maggiormente, importanti di quello del
divieto di doppia imposizione, come puntualmente è accaduto
quando tali operazioni sono entrate nel mirino del Secit.
L’Amministrazione finanziaria, con delibera del Secit213,
individuate le potenzialità elusive delle operazioni in argomento,
nella consapevolezza che la legislazione vigente non recava alcuna
disposizione che consentisse di contrastare in modo diretto il
fenomeno, tentò di “forzare” l’applicazione di due istituti, quello
dell’interposizione fittizia, di cui all’art. 37 III° comma del DPR
600/73, e quello della sostituzione dei redditi ex art. 6 II° comma del
Tuir.
Diramate istruzioni in tal senso214, nelle motivazioni degli
avvisi di accertamento emessi dagli uffici, si contestava la illiceità
del comportamento del contribuente, basandosi quasi sempre o
sull’ipotesi
di
una
negoziazione/usufrutto
simulazione
o
comunque
dei
contratti
sull’ipotesi
di
di
una
interposizione fittizia tra i soggetti che, a diverso titolo, risultavano
interessati.
Le varie ricostruzioni che venivano fatte, erano riconducibili
alle seguenti:
• si partiva dal ragionamento per cui il (primo) cessionario del
titolo (nell’usufrutto l’usufruttuario) fungeva da interposto
per incassare, per conto del (primo) cedente (il nudo
proprietario nell’usufrutto), il credito di imposta che
altrimenti al primo non sarebbe spettato perché non soggetto
alla ordinaria disciplina Irpef/Irpeg (come un fondo comune
o Sicav nel dividend washing o soggetto non residente
213
Vedasi la relazione del 06/10/1993.
214
Circolare 1692 del 13/10/1993, derivata dalla relazione Secit delibera 137 del 1993.
119
nell’usufrutto). Secondo questa ipotesi, il contratto fatto
palese, sarebbe stato in realtà simulato e, più precisamente,
si tratterebbe di simulazione (relativa) soggettiva, ritenendo
quindi applicabile il III° comma dell’art. 37 del DPR
600/73;
• altro
tentativo
esperito,
verteva
sull’ipotesi
che
il
comportamento del contribuente integrasse quella fattispecie
di sostituzione di un reddito ex art. 6 comma 2 Tuir;
• infine si riteneva di poter ricorrere alla riqualificazione del
negozio giuridico indiretto, valutando cioè in modo
complessivo l’economia dei diversi negozi, nell’ottica del
risultato
ultimo
conseguito/voluto,
implicitamente
attribuendosi un potere in tal senso arrivando, per tale via, a
creare nuove e singolari figure negoziali, come ad esempio
quella di “scambio di reddito a scopo di guadagno
fiscale215”, definita come negozio atipico o indiretto.
L’indirizzo amministrativo traeva al proprio interno la sua
legittimazione, muovendo dall’interpretazione del Secit che
attribuiva all’art. 37 III° c. DPR 600/73, la natura di norma generale
antielusiva, in tal modo consentendone il ricorso anche nei casi di
interposizione reale, spingendosi fino ad attribuire al fisco la
possibilità di verificare la credibilità sotto l’aspetto economico, a
prescindere dal profilo fiscale, per individuare il reale possessore del
reddito.
Le conseguenze non si fecero attendere, legittimando avvisi di
accertamento dalle motivazioni più curiose, applicando detta
disposizione anche alle erogazioni di compensi “abnormi” ai soci
215
Cfr. Comm. trib. prov. Milano, sez. XXXIV, 20/07/1999, n. 85.
120
amministratori, ritenendo costoro come soggetti interposti
delle
società.
La giurisprudenza di merito, limitatamente alle prime decisioni
sull’argomento, aderì allo schema ministeriale216, per mutare
rapidamente di 180° il proprio convincimento confermato poi dalla
giurisprudenza di legittimità, la dottrina fu invece maggiormente
pronta a coglierne l’insussistenza di presupposti giuridici217. Può
216
Comm. Trib. Prov. Parma, 20/07/1998, n. 264; Comm. Trib. Prov. Roma,
16/10/1998, n. 187; Comm. Trib. Prov. Cuneo, 08/10/1997, n. 61; Comm. Trib. I°
Milano, 30/03/1996, n. 190 e Comm. Trib. Reg. Milano, 08/05/1997, n. 72, (queste
ultime sono sfociate nel giudizio (contrario all’A.F.) della Cassazione nella nota
sentenza 3979 del 26/01/2000); Comm. Trib. I° Verona, 20/04/1993, n. 47; Comm.
Trib. I° Napoli, 25/10/1993, n. 3230, annullata dalla successiva decisione dalla Comm.
Trib. II° Napoli, 29/06/1994, n. 126; menzione a parte merita la sentenza della Comm.
Trib. Reg. Torino, 22/09/1998, n. 167, la cui motivazione lascia a dir poco sconcertati,
ove si legge che, “Il dividend washing è contratto esclusivamente motivato dal fine di
elusione fiscale, ed è pertanto nullo per contrarietà della causa contrattuale ai principi
del buon costume. La nullità del dividend washing, ai sensi dell’art. 1421 c.c., può
essere rilevata anche d’ufficio dal giudice tributario” per le critiche a quest’ultima
vedi D. Stevanato: “Dividend washing, nullità del contratto per contrarietà al buon
costume e ‘giustizialismo fiscale’, in Rass. Trib. 3/1999, pagg. 863 e ss.. Contrarie alle
prime anche Comm. Trib. I° Ivrea, 28/06/1995 n. 159; Comm. Trib. I° Udine,
12/07/1995, n. 79; Comm. Reg. Piemonte, 06/05/1997, nn. 185 e 186; Comm. Prov.
Torino, sez. XXXIV, 03/07/1997, n. 180; Comm. trib. prov. Roma, sent. n 9/48/00
dell’11/01/2000, e soprattutto Cass. sez. trib. 26/01/2000, n. 3979 ha sancito la liceità
delle operazioni di dividend washing, attuate mediante cessione del titolo o
dell’usufrutto prima dell’entrata in vigore delle modifiche di cui alla l. 429/92,
chiarendo la portata dell’articolo 37, ritenuto applicabile alle sole ipotesi di
interposizione fittizia, e cioè simulata, nel possesso del reddito; per cui non può trovare
applicazione allorché si verifichi un effettivo trasferimento della fonte produttiva del
reddito stesso, nello stesso senso, Comm. trib. Reg. Lombardia sez. LIII, sent. n. 101,
03/05/2001 e Cass. n. 3345 del 18/12/2001.
217
Tra le rare e poco condivisibili opinioni contrarie, Fava, “Sostituzione di redditi,
interposizione soggettiva e patti d’imposta fra dividend washing e usufrutto su azioni”
in Il fisco 33/93 pag. 8533 e Rai che, nel commento alla sentenza 159 del 28/06/1995
della Comm. I° Ivrea in Il fisco 33/95, pag. 8247, scrive: “Verosimilmente doveva
essere accertato se il vero scopo dell’operazione era quello di cedere il credito
d’imposta, altrimenti non utilizzabile, soprattutto con riferimento al prezzo da
comparare al dividendo riscosso più il guadagno fiscale... allorquando la vendita
dell’usufrutto avvenga tra un soggetto legittimato ed uno viceversa non legittimato
all’utilizzazione del credito d’imposta, l’operazione potrebbe prospettare un negozio in
frode alla legge fiscale...”. Verosimilmente la fattispecie esaminata andrebbe più
correttamente inquadrata in un negozio in frode a diritti di terzi, in questo caso ai
creditori (l’Erario). Dunque, non esistendo nell’ordinamento alcuna norma che sancisca
la nullità del contratto in frode a terzi, i diritti di questi ultimi saranno tutelati dalla
121
così dirsi consolidato l’orientamento secondo il quale la norma
contenuta nel decreto sull’accertamento delle imposte sui redditi non
ha la funzione di quella norma antielusiva generale da taluni
costantemente ricercata all’interno dell’ordinamento, anzi essa
avrebbe la natura di norma anti-evasione218.
Poco chiaro apparse immediatamente il procedimento attuato per
l’imputazione del reddito ai presunti interponenti, che pareva
fondarsi sulla riqualificazione di negozi ritenuti oggettivamente
simulati, ma convertiti in rapporti tra soggetti diversi dagli originari
contraenti.
Tra le argomentazioni maggiormente ricorrenti, nelle critiche
all’interpretazione ministeriale, vale la pena di evidenziare quella
per cui la stessa lettura dell’art. 37 III° c. impone di limitarne la
portata alla sola ipotesi dell’interposizione fittizia, rimanendo
totalmente estranea, dalla fattispecie normativa, l’interposizione
reale219.
possibilità di far dichiarare l’inefficacia del negozio a loro danno mediante le azioni
revocatorie o pauliane. Cfr Cass. 6239/83; Cass. 3905/81; Cass. 240/77.
218
“L’articolo 37 è una norma antielusione forse sul piano degli obiettivi, ma non è
certo una norma antielusione in senso tecnico. Non è cioè una di quelle norme che
consentono di disapplicare la normativa esistente a seconda che esistano o meno dei
‘vantaggi fiscali’. L’art. 37 ultimo comma del DPR 600/73 è una disposizione come
tutte le altre: o si applica sempre a tutte le fattispecie di trasferimento del dividendo,
oppure non si applica mai a tali operazioni”. Così Lupi in “L’elusione come
strumentalizzazione ...”, op. cit. pag. 229, ove concorda sull’elusività delle operazioni
di usufrutto “estero-Italia” e dividend washing ma ne contrasta la illiceità con la
circostanza, decisiva a mio avviso, che nell’usufrutto ad esempio è proprio
l’usufruttuario il titolare effettivo dei dividendi ed il nudo proprietario ha realmente
incassato un prezzo per la cessione del diritto, non ravvisandosi cioè nulla di simulato.
219
Cfr. Gallo “Prime riflessioni...” op. cit. pag 1769; Magnani “Interposizione fittizia
ed imputazione del reddito” in Le nuove leggi civ. comm., 1990, pag. 1247. Lovisolo
“Possesso di reddito ed interposizione di persona” in Dir. e prat. trib. 1993, I, pag.
1665. sulla tradizionale distinzione tra le due figure nel diritto civile,
Scardulla,”Interposizione di persona”, in Enc. del diritto, XXII, Milano 1972, pag.
143; Gatti, “Interposizione reale e interposizione fittizia (una distinzione ancora
valida), in Rivista di dir. comm., 1974, I, pag. 217; e anche Cass., 6/12/1984, n. 6243,
in Giust. Civile, 1985, I, pag. 719.
122
La prima figura riguarda infatti, per dottrina consolidata, il
caso in cui l’interposto agisce come effettivo contraente, mentre in
quella reale è l’interponente che contratta, l’interposto fingendo di
volere in proprio.
Accettata una tale distinzione si è unanimemente individuata,
tra le caratteristiche esteriori dell’interposizione fittizia, la
trilateralità dei soggetti intervenuti nell’accordo simulato, mentre in
quella reale è assolutamente irrilevante la conoscenza del terzo del
rapporto tra interponente ed interposto, non ravvisandosi una ipotesi
di vera e propria simulazione. Nella prima figura infatti il terzo ha
l’indispensabile compito di garantire la segretezza dell’interponente
e legittimare formalmente l’interposto, mentre nella seconda una sua
partecipazione attiva non è necessaria né richiesta, basta l’accordo
fra interposto ed interponente, in quanto le parti del contratto
continuano ad essere quelle tra le quali si è formato il consenso. In
altre parole, si esplica una ipotesi di interposizione fittizia
allorquando il contratto stipulato tra terzo ed interposto, produca i
propri effetti direttamente nella sfera giuridica dell’interponente, che
però non partecipa al negozio dissimulante, se non per interposta
persona.
L’attenta dottrina non si è fatta poi sfuggire la circostanza,
decisiva, che una corretta interpretazione dell’art. 37, doveva
necessariamente partire dall’altrettanto corretto significato da
riconoscere alla nozione di “possesso del reddito”, nel senso di
effettiva titolarità della fonte produttiva riconosciuta dalla legge
civile, contro le attribuzioni in via di fatto o convenzionali ovvero
della mera disponibilità materiale, garantendo l’intangibilità
123
dell’autonomia negoziale e la libera creatività delle forme rispetto
alla qualificazione materiale e di fatto220.
Il Secit, nel tentativo di legittimare l’applicazione della
disposizione da ultimo citata anche all’interposizione reale, avendo
egli stesso riconosciuto la piena validità civilistica dell’operazione,
si era spinto oltre, interpretando come combinato disposto, gli
articoli 37 III° c. DPR 600/73 e 6 II° c. Tuir (il quale postula la
conservazione della categoria per i redditi percepiti in sostituzione di
altri, già classificati in una determinata categoria nei confronti del
percipiente) in guisa da rendere applicabile all’acquirente del titolo
“gravido” del dividendo, titolare (apparente) del reddito, lo stesso
regime che sarebbe stato applicato al cedente, titolare effettivo.
A
parte
l’incontestabile
impossibilità
di
una
tale
interpretazione, a meno di ignorare i legittimi mezzi ermeneutici a
disposizione dell’interprete, ci si è chiesto quale potesse essere il
collegamento tra due norme che tra loro non condividono neppure la
natura, essendo l’una procedimentale (non a caso inserita nel decreto
sull’accertamento delle imposte sui redditi) e l’altra sostanziale.
Anche il ricorso alternativo ad una delle due disposizioni al di
fuori
della
precedente
interpretazione
“combinata”,
appare
agevolmente criticabile, non fosse altro per l’evidente circostanza
che fondi comuni e Sicav trovavano la loro specifica disciplina
tributaria al di fuori delle norme del Testo unico DPR 917/86. Non
essendo titolari di reddito d’impresa, non poteva loro applicarsi né
l’art. 6 Tuir, né l’art. 37 DPR 600/73 in quanto applicabili ai soli
soggetti passivi Irpeg/Irpef. La più recente giurisprudenza di
220
In tal senso Gallo in “Prime riflessioni...”, op. cit. pag. 1762.
124
legittimità221, ha palesato un orientamento consolidato avverso alla
posizione espressa dall’organo dell’amministrazione statale, la
quale, preso atto dell’elevata probabilità di soccombenza delle cause
ancora pendenti incentrate sulla sua interpretazione, è di recente
corsa ai ripari impartendo, con la circolare n. 87 del 30/12/2002222,
le istruzioni per la gestione di tali cause.
È comunque significativo che, l’Agenzia delle Entrate, non
abbia cambiato la propria convinzione laddove infatti si legge che,
“Le motivazioni poste a base dell’orientamento della Suprema
Corte
non
appaiono
integralmente
condivisibili.
Tuttavia,
considerato che l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità di cui
si tratta si deve ormai considerare consolidato, è opportuno
abbandonare le liti nelle quali si controverta solo in via di principio
della illiceità tributaria del dividend washing sulla base delle tesi
respinte con le due sentenze in esame (3979/2000 e 3345/2001), che
si sono occupate della posizione dei soggetti acquirenti dal fondo.
Pertanto, l’opportunità di abbandonare o di continuare il giudizio
va valutata caso per caso.”
La circolare dunque, parte dalle considerazioni fatte dai
giudici di legittimità nelle due sentenze da ultimo citate, per esortare
gli uffici ad abbandonare solo le controversie nelle quali la tesi
dell’accertamento si basa o sull’applicazione dell’art. 37 III° c. ad
ipotesi nelle quali non è stata però sufficientemente dimostrata la
221
222
Per tutte, Cass. sent. n. 3979 del 26/01/2000 e n. 3345 del 18/12/2001.
Consultabile
nella
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dati
“Documentazione
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125
tributaria”,
sul
sito
fittizietà delle operazioni223, oppure sulla disposizione contenuta
nell’art. 6 II°c. Tuir in riferimento a società di capitali224.
Isolate e rare infine, appaiono le opinioni in dottrina che in
qualche modo aderivano alla precedente tesi ministeriale, ravvisando
nell’usufrutto azionario Estero-Italia come sopra congegnato, la
“mancanza di tutti gli elementi che dovrebbero caratterizzare un
“vero” usufrutto azionario.”225 La contestazione più ricorrente in tal
senso, verteva sulla clausola pattizia di riservare il diritto di voto al
nudo proprietario anziché all’usufruttuario, tenendo conto del dettato
degli artt. 981 e 984 del Codice Civile. Per tale via si pretendeva di
considerare fittizio il contratto posto in essere, considerato quale
“schermo per mascherare il vero patto: negoziare una parte del
patrimonio dell’Erario, sotto forma di credito d’imposta, allo scopo
di pagare gli interessi alla società ‘apparente’ usufruttuaria per il
capitale da questa anticipato alla società ‘apparente’ concedente
l’usufrutto, e, all’un tempo, di consentire a quest’ultima di non
pagare alcun interesse su tale capitale”226, in quanto pagato
dall’Erario stesso. Si faceva altresì leva sull’inesistenza del possesso
223
La sent. 3979/2000 aveva infatti esplicitamente asserito l’inapplicabilità del 37
III°c., considerato che “tale norma, stabilendo l’imputabilità al possessore effettivo del
reddito di cui appaia titolare altro soggetto in base ad interposizione di persona,
inequivocamente si occupa del caso dell’interposizione di fittizia in senso proprio,
caratterizzata dalla divaricazione fra situazione esteriore e situazione sostanziale,
rispettivamente riferibili all’interposto e all’interponente, non anche al caso
dell’interposizione cosiddetta reale, quale quella accertata dalla sentenza impugnata,
ove la forma e la sostanza coincidono.”.
224
La sent. 3345/2001 ha ribadito la posizione già espressa anche nella 3979/2000,
aggiungendovi l’inapplicabilità dell’art. 6, comma 2 Tuir, in quanto “... tale norma è
inoperante quando il soggetto che sostituisce un reddito con un altro è una società di
capitali, poiché la commercialità della forma societaria comporta che tutti i ricavi ed i
proventi siano indistintamente considerati quali componenti del reddito d’impresa.”
225
Così Fava in “Contratto in maschera....”, op. cit. pag. 10374.
226
Fava, op. cit. pag. 10375.
126
materiale dei titoli oggetto del contratto, adducendo che ciò avrebbe
impedito la circolazione del diritto di usufrutto, ritenendo
(erroneamente),
detto
possesso,
condizione
inderogabile
dell’usufrutto azionario.
Una tale ricostruzione, che finiva sostanzialmente per
legittimare la ‘qualificazione’ del contratto come cessione di
credito227, in conformità allo schema proposto dal Secit, trascurava
che la disciplina del diritto di usufrutto non si esaurisce negli artt. da
978 a 1020 del Codice Civile, i quali costituiscono solo la disciplina
base dello stesso, ma occorre altresì considerare la sua
caratterizzazione in funzione della destinazione economica del bene
oggetto del diritto e della specifica disciplina di quest’ultimo, che ha
la funzione di completare, adattandola alla funzione del caso in
concreto, tale disciplina generale. D’altro canto non lasciano dubbi
la semplice lettura degli articoli 2352 cod. civ. e 1 del R.D.
29/03/1942, n. 239228.
La prima disposizione citata, al I° comma infatti, riferendosi
all’attribuzione “naturale” del diritto di voto all’usufruttuario, con
l’inciso “salvo convenzione contraria...”, conferisce legittimità
227
“... l’attribuzione all’usufruttuario del diritto di voto, in quanto principale
espressione del diritto ad amministrare la quota concessa in usufrutto, è più
rispondente ai principi dell’istituto di quanto non sarebbe la soluzione opposta, la
quale rischierebbe, invece, di privare l’usufrutto dei suoi essenziali caratteri di realità,
finendo per far degradare la posizione dell’usufruttuario a quella di titolare di un
mero diritto di credito.”Cass. sez. I civ., 12/04/1996, n. 7614. Tale sentenza è stata da
qualche autore citata a suffragio di questa tesi, omettendo però sia che l’esame della
Corte riguardava quote di Srl, sia il richiamo da essa fatto all’art. 2025 c.c. “Chi ha
l’usufrutto del credito menzionato in un titolo nominativo ha diritto di ottenere un
titolo separato da quello del proprietario.” Non essendoci un tale diritto incorporato in
un titolo azionario, tale non potendosi qualificare le somme dal socio versate a titolo di
sottoscrizione del capitale sociale, né a maggior ragione possono ritenersi crediti i
dividendi futuri, che potrebbero inoltre non venire ad esistere.
228
Norme interpretative, integrative e complementari del R.D.L. 25/10/1941, n. 1148,
conv. in l. 9 febbraio 1942, n. 96, riguardante la nominatività obbligatoria dei titoli
azionari
127
anche all’usufrutto su azioni prive del diritto di voto; il III° comma
della seconda disposizione, esplicita che, “Chi ha l’usufrutto ha
diritto di ottenere dalla società emittente, un titolo separato da
quello del nudo proprietario.”
È stata tentata anche la via della simulazione per dichiarare la
nullità del contratto, ma con scarsa fortuna. È stato già detto come
nei contratti in questione non si possa parlare di “apparenza”,
essendo gli effetti palesi di essi esattamente quelli voluti dalle parti,
e non essendoci neppure indizio della presenza di un accordo
segreto, tant’è che le parti neppure tentano di occultare in
qualsivoglia modo il favorevole risvolto fiscale, risultando l’effetto
naturale delle pattuizioni, rafforzando, se ce ne fosse ancora
bisogno, la convinzione della realità degli accordi così come
palesemente manifestati.
Altrettanto pretestuoso è apparso il collegamento tentato tra la
simulazione (relativa) e l’interposizione (reale), che aveva il non
troppo
occulto
scopo
di
attribuire
agli
organi
deputati
all’accertamento delle imposte, il potere di far valere tale
simulazione evitando il passaggio obbligato della rimozione degli
effetti civili di atti o negozi per la corretta imputazione del reddito.
In una direzione analoga, ma con argomentazioni meritevoli di
attenzione, la tesi secondo cui l’Amministrazione finanziaria ed il
giudice tributario possono accertare, ai soli fini della corretta
applicazione della normativa tributaria, la simulazione relativa di un
negozio posto in essere a fini elusivi229. Questo potere di qualificare
il
negozio,
discenderebbe
non
già
da
norme
presenti
nell’ordinamento tributario quali ad esempio l’art. 20 dell’attuale
229
Così Falsitta nel commento della sentenza Comm. Trib. I° Udine, sez. I, 12/07/1995
in Dir. e prat. trib. 1996, II, pag 63.
128
legge di registro (ed i suoi precedenti), o l’art. 37 DPR 600/73, bensì
dalla disposizione civilistica (art. 1417 c.c.) che consente a
qualunque “terzo” rispetto al rapporto contrattuale, l’azione di
accertamento della simulazione (assoluta o relativa che sia). Resta
ancora però da dimostrare che l’Amministrazione finanziaria possa
far prevalere il supposto “vero” accordo in sede di giurisdizione
civile ovvero direttamente in sede di accertamento e di contenzioso
tributario230.
Che
l’amministrazione
fiscale
avesse
un
potere
di
“riqualificare” il contratto di usufrutto su titoli azionari fu
esplicitamente affermato nel corso di un giudizio penale di rilevante
interesse a livello nazionale. Il tribunale di Pordenone231 infatti, nel
processo “De Benedetti”, se da un lato prosciolse232 tutti gli imputati
dal delitto di “frode fiscale ex art. 4, lett. f) della legge 516/82233”,
dall’altro ha disposto la trasmissione degli atti al Ministero delle
Finanze per una ulteriore valutazione dell’operazione, potendo
essere quest’ultima riqualificata come mera operazione di mutuo
concesso da società italiana a società estera, garantiti da cessioni di
230
In questa direzione il Gallo “Prime riflessioni... “, op. cit. pag. 1767, per il quale
l’art. 37 costituirebbe la riaffermazione del potere dell’A.F. di dimostrare, anche in
base a presunzioni, l’esistenza di una simulazione relativa soggettiva. E l’atto
strumentale a ciò sarebbe la motivazione dell’avviso di accertamento.
231
Sent. del 12/07/1997, n. 125.
232
Con formula piena, “perché il fatto non costituisce reato”, ovvero “per non aver
commesso il fatto”.
233
Per avere indicato, nella dichiarazione dei redditi e nel bilancio allegato di Olivetti il
componente positivo di reddito ‘dividendo Zanussi’ e del componente negativo ‘costo
di ammortamento’, difformi al reale in quanto pertinenti all’effettivo titolare “Chase” e
non al dichiarante ‘persona interposta’, tramite il comportamento fraudolento idoneo ad
ostacolare l’accertamento dei fatti materiali consistente nell’occultamento della reale
operazione di anticipazione finanziaria sui futuri dividendi attuato con un procedimento
negoziale avente contenuti obbligatori fra le parti non opponibili in sede tributaria ex
art. 37 DPR 600/73 e precostituito alla indebita detrazione del credito d’imposta da
parte diversa dell’effettivo proprietario.
129
credito, aventi ad oggetto dividendi azionari realizzate da società
nazionali controllate dalle società estere mutuatarie ed in quanto tali
non assoggettabili alla disciplina recata dall’articolo 14 Tuir, in
materia di credito d’imposta.
Nella motivazione della sentenza viene effettuata una
approfondita indagine di tipo tributario, che, per gli aspetti che qui
propriamente possono dirsi conferenti, porta i giudici ad affermare:
1. l’assenza di qualunque ipotesi simulatoria, e/o di
interposizione, con argomentazioni sostanzialmente
coincidenti con quelle riportate supra;
2. riguardo alla prospettiva che afferma la nullità del
contratto ex art. 1344 cod. civ. per frode alla legge in
quanto volto ad eludere l’applicazione di norme
imperative fiscali, “può solo rilevarsi che per pacifica
e consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, la
frode fiscale costituisce un illecito che trova sanzione
solo nel sistema tributario e non importa la nullità del
negozio mediante il quale viene commessa234”;
ma l’affermazione di maggior rilievo ai fini del presente
studio è che:
3. “Lo strumento per intervenire nel caso in esame è ....
la riqualificazione contrattuale235: e proprio questo
234
Cass. sez. I, 20/08/1987, n. 6970; 27/10/1984, n. 5515; 24/10/1981, n. 5571;
28/06/1976, n. 2464; 18/06/1975, n. 1459. Recependo il consolidato orientamento
giurisprudenziale (e dottrinale) il legislatore ha espressamente disposto che “Le
violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere
causa di nullità del contratto”, art. 10, comma 3, l. 27/07/2000. n. 212, Statuto dei
diritti del contribuente.
235
Il profilo della (ri)qualificazione giuridica del negozio, è inoltre, sempre secondo
quanto affermato nella sentenza, da distinguersi dalla interpretazione del contratto, la
quale avrebbe come obiettivo la ricostruzione del contenuto negoziale con il metro
della volontà delle parti e degli altri criteri di cui agli artt. 1362 e seguenti del cod. civ.,
mentre la qualificazione sarebbe logicamente operazione successiva a questa, avente lo
130
ultimo strumento consente, .... , di configurare
direttamente il cedente quale effettivo titolare del
reddito dividendo, senza necessità di superare
strutture interpositive con strumenti normativi esterni
al contratto stesso. E ancora: “Una volta determinato
il contenuto concreto del rapporto negoziale alla
stregua della comune volontà delle parti, la
qualificazione
giuridica
di
esso
–
cioè
l’inquadramento della fattispecie concreta nello
schema legale corrispondente, indipendentemente dal
nomen juris o dalla forma apparente utilizzata dai
contraenti
–
è
attività
che,
sostanziandosi
nell’applicazione di norme di diritto, è sottratta
all’autonomia esclusiva delle parti e può essere fatta
valere da chiunque vi abbia interesse (parte, terzo ed
anche amministrazione finanziaria).
La “fonte d’innesco” di tale approccio, sarebbe costituita da
una ricostruzione (alquanto sostanzialistica) dell’operazione, il cui
perno centrale sarebbe costituito dalla asserita carenza di quegli
elementi ritenuti da una parte imprescindibili, dall’altro carenti nello
specifico caso dell’usufrutto azionario del tipo di quello emerso nel
corso delle indagini preliminari e del dibattimento, per potersi
configurare un “vero” usufrutto236.
scopo di verificare se il contenuto negoziale così ricostruito, sia compatibile con il
regime giuridico invocato dalle parti ovvero se corrisponda ad un diverso modello
legale.
236
Nel caso in esame si tratta quindi di stabilire, attraverso la riqualificazione
contrattuale, se l’operazione fosse un vero usufrutto oppure se le pattuizioni contrattuali
avessero talmente snaturato il rapporto da farlo ritenere un mutuo garantito dalla
cessione del credito ai dividendi.
131
Come detto in precedenza, anche qui veniva contestata la
carenza del possesso materiale del titolo da parte dell’usufruttuario e
la riserva del diritto di voto in capo al nudo proprietario, ancorché
siano riservati al primo alcuni limitati diritti di voto237 (i quali,
sempre secondo la presente opinione, sarebbero essi stessi
strumentali alla realizzazione dell’operazione, consentendo una sorta
di potere di controllo dell’usufruttuario sulla effettiva distribuzione
dei dividendi nella misura concordata, eventualmente deliberando la
distribuzione di riserve di utili in caso di insufficienza degli utili di
periodo, essendo i dividendi e non gli utili la controprestazione
pattuita). Ma oltre a ciò, si contestava la circostanza che, la
predeterminazione della remunerazione in capo all’usufruttuario
faceva perdere quell’alea che secondo i giudici veneti costituisce una
caratteristica assolutamente inderogabile e discriminante appunto la
figura dell’usufrutto azionario da quella del mutuo assistito da
garanzia formata da cessione di credito, cosicché il cessionario non
percepirebbe utili, ma somme corrispondenti agli utili, da qui la
carenza del diritto al credito d’imposta.
Più di recente, l’attenzione dell’Agenzia delle Entrate, è
rivolta verso il presunto utilizzo elusivo da parte di professionisti, di
società di servizi.
Si è infatti constatata la tendenza a costituire società di
servizi (il cui unico socio era lo stesso professionista), per la
gestione di alcune tipologie di prestazioni accessorie, non coperte
da divieto di esercizio in forma societaria.
237
Solitamente per l’approvazione del bilancio e per la distribuzione dei dividendi.
132
Le potenzialità elusive sono evidenti nella sottrazione per tale
via, dei redditi, spesso ingenti, alla progressività dell’IRPEF,
benché comunque personalmente conseguiti.
A prescindere dall’elusività o meno dell’operazione, questa
per poter essere censurata, deve comunque potersi assoggettare ad
una qualche disposizione che consenta il superamento della barriera
formale costituita dal soggetto societario.
Di recente l’Agenzia delle Entrate, si è trovata, in sede di
risposta ad una istanza di interpello ex atr. 21, comma IX della
legge 413/91, a sostenere l’applicabilità della disposizione
sull’interposizione ad una fattispecie del tipo come sopra descritto,
ritenendo la società quale soggetto interposto per mezzo del quale il
professionista conseguiva gli stessi redditi, pagando meno imposte.
La cautela della risposta, manifestata con la Ris. 305 del
27/09/2002238, rispecchia la delicatezza della questione, che involve
il principio costituzionale secondo il quale ciascuno deve essere
messo nelle condizioni di poter svolgere la propria attività
economica secondo le modalità organizzative e giuridiche che
ritiene maggiormente confacenti allo scopo perseguito. L’Agenzia
ha tentato di evitare di generalizzare eccessivamente la risposta,
consapevole probabilmente della circostanza che, in tale ipotesi, la
conseguenza sarebbe stata l’implicita declaratoria di illiceità di ogni
società unipersonale, benché prevista dall’ordinamento. Allo scopo,
ha affermato la necessità che la società così costituita, fosse dotata
di talune caratteristiche che palesassero la sua reale funzione
economico-gestionale,
in
modo
da
evitare
che
l’unica
Reperibile in “documentazione tributaria” sul sito http://www.finanze.it/.
Commentata in Corr. Trib. n. 41/2002, pagg. 3743 e ss..
238
133
giustificazione plausibile venisse rinvenuta sostanzialmente in
quella di sottrarsi ad un regime impositivo più gravoso.
Nel caso sottoposto al vaglio dell’Agenzia, il professionista
non aveva adeguatamente posto in evidenza eventuali motivazioni
extrafiscali, consentendo all’organo amministrativo di pronunciarsi
in senso negativo, ritenendo che la società così costituita non
esistesse se non sulla carta, non essendo state definite con chiarezza
sotto il profilo organizzativo ed operativo-contabile le due sfere di
attività. Occorre adeguatamente rilevare che la tesi amministrativa
si fonda essenzialmente sulla asserita carenza di valide ragioni
economiche ultronee rispetto ai vantaggi fiscali, dalla stessa istante
posti a motivazione del proprio intendimento, benché l’operatività
dell’art. 37 non sia subordinata ad essa, bensì all’esistenza, anche
sulla base di presunzioni qualificate, che facciano ritenere
sussistente una fattispecie di interposizione fittizia.
Per ‘salvare’ la pronuncia dell’Agenzia, non resta allora che
ritenere che la stessa abbia considerato la insussistenza di valide
ragioni economiche quale presunzione talmente grave, precisa e
concordante da consentirle la declaratoria di illegittimità della
fattispecie come rappresentata nell’istanza.
Attenta dottrina239 non si è lasciata sfuggire l’occasione per
sollevare legittimi dubbi su un tale utilizzo della disposizione in
commento nei confronti di un soggetto societario, rilevando che la
scelta di operare attraverso una società configura necessariamente
una
ipotesi
interpositoria
prevista
e, come
tale, tutelata
dall’ordinamento. Per gli stessi motivi non convince l’assunto in
239
Cfr. V. Ficari, “Ragioni economiche di una società professionale e rischio di
interposizione fittizia nell’imposizione sul reddito”, in Boll. Trib. 21/2002, pagg. 1525
e ss..
134
base al quale i redditi restano nella disponibilità del professionista,
in quanto la titolarità giuridica di essi, in assenza di un accordo
simulatorio nella fattispecie non rilevato, è indiscutibilmente di
spettanza assoluta della società, la quale, dopo aver adempiuto alle
disposizioni fiscali in materia di determinazione del reddito
d’impresa cui è sottoposta, provvederà alla distribuzione degli utili,
circostanza questa che ribadisce l’assenza assoluta di alcuna ipotesi
simulatoria, nella quale il soggetto interposto ritrasferisce in modo
occulto i redditi dei quali, ai soli fini fiscali, egli era titolare.
Si concorda pertanto con le conclusioni cui è giunta la citata
dottrina240 la quale ha individuato nella insufficienza delle
argomentazioni, di cui all’istanza presentata, relativamente a
semplici
motivazioni
plausibili,
come
un
miglior
assetto
organizzativo, la possibilità di associare al professionista soggetti
terzi ecc., che avrebbero indubbiamente inibito l’Agenzia dal
formulare parere negativo.
Conclusioni
Le vicende del dividend washing nelle sue diverse
manifestazioni, ha ancora una volta posto all’attenzione dei
commentatori, i problemi in termini di perdita di gettito241, derivanti
da una legislazione che ha il presuntuoso obiettivo di prevedere ogni
fattispecie che evidenzi quella “ricchezza novella” da assoggettare a
prelievo in ragione del principio di capacità contributiva.
240
Cfr. Gavelli, “L’interposizione fittizia realizzata attraverso l’utilizzo della società di
servizi”, in Corr. Trib. 41/2002, pagg. 3743 e ss..
241
Una stima (prudenziale) riferita alla sola fattispecie appena citata, l’ha quantificata tra
i 500 e i 1000 miliardi di vecchie lire, basti pensare che nel solo caso “Olivetti”, si
discuteva di una presunta evasione di circa 38 miliardi di lire.
135
È
inoltre
ormai
definitivamente
tramontata
la
tesi
dell’esistenza nell’ordinamento tributario italiano di una clausola
generale applicabile di fronte a comportamenti elusivi, prevalenza
della sostanza sulla forma, simulazione, frode alla legge ecc..
È
lo stesso atteggiamento del legislatore a deporre
implicitamente a sfavore di tali orientamenti, quando introduce
disposizioni analitiche specificamente antielusive, presunzioni legali
e non, norme antielusive “settoriali” ma mai generali, ovvero quando
corregge direttamente le disposizioni che venivano aggirate242. Ciò
sarebbe infatti superfluo, in contraddizione persino con un
ordinamento nel quale vigesse una disposizione del genere.
Il comportamento della Guardia di Finanza, del Secit e degli
uffici periferici, è (parzialmente) giustificato dalla consapevolezza,
di trovarsi sostanzialmente disarmati di fronte ad un fenomeno
indiscutibilmente
e
palesemente
fonte
di
iniquità
sociali
(consentendo a pochi grandi soggetti, di sottrarsi al pagamento della
“giusta imposta”, attraverso sofisticati cavilli giuridici che non
alterano però la sostanza dei fatti).
È pur vero che l’incremento del contenzioso tributario
derivatone ha ulteriormente aumentato il danno per l’Erario, ma nel
contempo ha da un lato stimolato l’azione del legislatore verso la
correzione delle imperfezioni normative e/o l’introduzione di
specifiche misure di contrasto, dall’altro ha talvolta disincentivato,
nelle more dell’intervento legislativo, l’uso di tali espedienti, non
fosse altro per i costi e l’alea che comunque la via del contenzioso
comporta.
242
Come appunto è avvenuto per l’art. 14 del Tuir, completato con l’introduzione dei
commi 6-bis e 7-bis.
136
§11)
segue,
il
Transfer
pricing.
L’operato
dell’Amministrazione finanziaria di fronte a
fattispecie di Transfer pricing cosiddetto ‘interno’.
Premessa
Il sistema più sopra sommariamente descritto243, di
ottimizzare il carico fiscale complessivo del gruppo di società,
attraverso manovre sui prezzi di trasferimento infragruppo, non
esaurisce le proprie potenzialità elusive nel solo ambito del gruppo
multinazionale, e di ciò gli organi deputati all’accertamento delle
imposte erano consapevoli.
D’altra parte, per quanto riguarda i destinatari della norma in
commento, la lettera della stessa pare non lasciare dubbio alcuno
circa la sua applicabilità alle (sole) operazioni intercorse tra imprese
residenti e società estere244 facenti parte del gruppo (o più
precisamente controllate, controllanti ovvero soggette a controllo da
parte del medesimo soggetto), facendo esplicito riferimento alle
“…operazioni con società non residenti nel territorio dello
Stato...”.
243
Precedente paragrafo 6.
244
È stato solo con la circolare N. 53 del ’99, che l’A.F. ha “cambiato rotta”.
137
§11.1)
Gli
strumenti
di
contrasto
utilizzati
dall’Amministrazione finanziaria.
Nonostante la chiarezza della norma su quali fossero i
destinatari del particolare regime di (ri)determinazione dei prezzi di
trasferimento, l’Amministrazione finanziaria ha per lungo tempo
preteso di applicare la normativa sul transfer price anche alle
operazioni infragruppo tra imprese residenti.
La tesi amministrativa, espressa nella circolare 32 del
22/09/1980, ammetteva esplicitamente la possibilità per gli uffici, di
far riferimento al valore normale anche in ipotesi diverse da quelle
contemplate dalla norma sul transfer pricing245, precisando che, in
tali ipotesi, la presunzione dell’ufficio non avrebbe potuto assumere
valore di presunzione assoluta246, bensì relativa247.
Nelle motivazioni degli avvisi di accertamento emessi in
conformità all’orientamento ministeriale, il criterio del ‘valore
normale’,
da
norma
derogatoria
della
determinazione
245
Ammettendo infatti “...che gli uffici possano far ricorso, in sede di accertamento, al
criterio del ‘valore normale’ anche in ipotesi diverse da quelle del successivo art. 75
(ora art. 76 Tuir).”
246
L’Amministrazione finanziaria ha più volte sostenuto che la disposizione contenuta
nel V° c. dell’art. 76 Tuir sarebbe assistita proprio da una presunzione assoluta che,
ogni qualvolta esista un collegamento tra le due società e possa stabilirsi un valore
normale superiore a quello fatturato, imporrebbe la rettifica di quest’ultimo, a nulla
rilevando effettivi o conclamati minori prezzi di vendita praticati, rispetto ai valori
normali dei prodotti ceduti, in questo senso si esprimeva soprattutto la Ris. Min.
01/03/1982, n. 9/198.
247
Da questa ultima affermazione contenuta nella circolare, Lupi desume l’equivoco di
fondo nel quale parrebbe caduta l’Amministrazione finanziaria, cioè l’aver confuso il
rapporto fra il transfer pricing e le presunzioni, essendo l’art. 76 norma sostanziale in
quanto modifica i criteri di calcolo dell’imponibile (dal corrispettivo pattuito al valore
normale), e non norma sulla prova di una diversità fra corrispettivo dichiarato e
corrispettivo conseguito. In questo senso Lupi, “Manuale professionale di diritto
tributario”, op. cit., pagg. 409 e 410.
138
dell’imponibile sulla base dei corrispettivi pattuiti, è stato
disinvoltamente elevato al rango di principio generale.
La giurisprudenza si è mostrata immediatamente critica, con
argomentazioni inopinabili, ad esempio, la Commissione tributaria
di Milano, nella sentenza 18/03/1998, n. 577, dopo aver escluso la
possibilità di estendere l’applicazione dell’art. 76, V° c. Tuir, al
transfer pricing interno, afferma che “Pur se in via di principio non
si può negare all’Amministrazione finanziaria, in sede di
accertamento di raffrontare i prezzi convenuti tra le parti con quelli
praticati dal mercato, il ricorso al criterio del valore normale
risulta possibile soltanto se, in presenza di presunzioni gravi,
precise e concordanti, l’amministrazione stessa sia in possesso di
elementi comprovanti che i corrispettivi dichiarati siano inferiori a
quelli effettivamente conseguiti;...”.
I giudici di merito avevano così correttamente evidenziato,
che il ricorso al valore normale costituisce deroga all’ordinaria
rilevanza dei corrispettivi pattuiti, ed è legittimo, al di là dei casi
tassativamente e positivamente individuati dalla legge248, nei soli
casi di assenza di un corrispettivo249, sia che ciò derivi da assenza
originaria250, sia che invece consegua all’accertamento della falsità
del corrispettivo indicato rispetto a quello reale. Ebbene, non solo
248
Ad esempio artt. 9, II°c., 55, V° c., 48, III°c., 53, I°c, lett. e, e II°c, e 76 Tuir, art. 13,
II°c, lett. c, DPR 633/72.
249
Cfr. Leo-Monacchi-Schiavo, “Le imposte sui redditi nel Testo Unico”, Milano,
1999, a pag. 793, confermano che la stessa Direzione Generale delle imposte dirette,
con la risoluzione 10/03/1982, n. 9, ha espressamente limitato il riferimento al criterio
del valore normale all’attività di accertamento, in tal senso valendo come presunzione
relativa. Sempre all’attività di accertamento deve essere ricondotta la tesi che sancisce
l’indeducibilità dei costi economicamente non giustificati per difetto del requisito
dell’inerenza di cui all’art. 75 del DPR 917/86, infatti ,anche in tal caso,
l’antieconomicità ha valore presuntivo in merito alla mancata inerenza dei costi.
250
Es. cessioni gratuite, assegnazioni a soci o autoconsumo.
139
questa ipotesi simulatoria sarebbe tutta da provare, ma al tempo
stesso sarebbe incompatibile con la natura stessa dell’appartenenza
al
medesimo
gruppo
nazionale,
che
esclude
l’ipotesi
dell’occultamento o della simulazione del corrispettivo.
Che nella fattispecie non potesse rilevarsi una simile
situazione, era confermato dallo stesso operato dei verificatori, i
quali infatti non procedettero ad alcuna contestazione di
sottofatturazione, la quale avrebbe quindi avuto riflessi anche ai fini
dell’imposta sul valore aggiunto, per la quale non è stato invece
emesso alcun avviso di accertamento. Infine, se questa fosse la
corretta interpretazione della norma, essa sarebbe antievasiva e non
antielusiva, ma questa accezione contrasterebbe con la ratio
dell’istituto. I corrispettivi dichiarati infatti, sono esattamente quelli
voluti, e se non rispondono alla logica di mercato, non è perché una
parte dell’operazione è stata occultata agli occhi del fisco, bensì
perché il rapporto che lega i soggetti tra i quali l’operazione viene
posta in essere è tale da aver influenzato in modo determinante i
corrispettivi realmente praticati, sottraendoli alle regole del
mercato.
In senso contrario deve però rilevarsi la recente sentenza
della Cassazione n. 10802 del 24/07/2002251, che ha accolto la tesi
dell’ufficio, legittimando l’uso del criterio del valore normale quale
parametro generale di riferimento per la valutazione della congruità
di una transazione infragruppo tra società residenti.
La Suprema Corte, stravolgendo un orientamento che andava
ormai consolidandosi, ricostruisce l’operazione, tipicamente di
transfer price interno, attribuendo all’ufficio il potere utilizzare lo
251
Commentata in Corr. Trib. n. 39/2002, pagg. 3545 e ss., ed in Riv. di dir. fin. e sc.
delle fin., LXI, 3, II, pagg. 68 e ss..
140
strumento di cui all’art. 39, I°c., lett. d), sul presupposto di un
asserito comportamento contrario ai canoni dell’economia, valutato
attraverso lo strumento del valore normale. Inoltre respinge la tesi
della
società
resistente
secondo
la
quale
incomberebbe
sull’Amministrazione finanziaria, l’onere di provare l’incongruenza
tra il costo sostenuto ed il valore della prestazione ottenuta secondo
un orientamento, questo sì, consolidato252 e condivisibile, secondo il
quale l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare i fatti su
cui si fonda l’atto impugnato (presupposto del tributo, elementi
posti a base per la determinazione dell’imponibile, ecc.), mentre il
contribuente deve provare i fatti dai quali derivino delle riduzioni
dell’imponibile o dell’imposta, ovvero la soggezione a particolari
regimi agevolativi/esentativi.
Il punto maggiormente criticabile della decisione in rassegna,
risiede comunque nell’elevazione del concetto di valore normale, a
rango
di
strumento
di
tipo
generale,
utilizzabile
dall’Amministrazione, mentre la precedente giurisprudenza, e la
dottrina pressoché unanime, avevano già approfondito, giungendo
ad opposte conclusioni, la disposizione contenuta nell’art. 9 del
Tuir. La specialità della disposizione da ultimo citata, è stata infatti
rilevata sia dallo specifico riferimento alle componenti reddituali in
252
Cass. sez. trib. Sent. N. 16198 del 27/12/2001; Cass. Sez. Civ. N. 13478 del
30/10/2001; Cass. Sez. civ. n. 11514 del 07/09/2001; Cass. sez. civ. n. 4857 del
02/04/2001; Cass. sez. I, civ. n. 9895 del 11/10/1997. Cass. sez. trib. n. 14570 del
20/11/2001, secondo la quale tra le spese e l’attività d’impresa deve esistere una
relazione funzionale che le vincoli teleologicamente le une alle altre, e la dimostrazione
della quale incomba sul contribuente. L’onere della prova non potrà inoltre essere
assolto dalla sola dimostrazione della corretta iscrizione della spesa in contabilità, ma, e
ciò soprattutto qui rileva, il giudizio sull’esistenza in concreto del vincolo dell’inerenza
non legittima alcun sindacato fiscale sulla congruità delle spese rispetto all’attività
imprenditoriale, la quale rientra nella sola discrezionalità dell’imprenditore.
141
natura, sia dalla centralità, palese, della nozione di corrispettivo,
che è valore negoziale e non di mercato.
Passando poi ad un esame sistematico, si possono fare
diverse osservazioni, anzitutto quella per cui se fosse davvero una
regola generale, quella della valutazione a valore normale, ci si
dovrebbe interrogare sulla ratio della disciplina recata dall’art. 76,
V° c. Tuir.
Non si può dunque che dissentire dall’orientamento testé
descritto, ribadendo invece la correttezza di quanto affermato dalla
precedentemente rassegnata sentenza della Comm. trib. di Milano,
sez. I, n. 577 del 18/03/1998, ancorché sia di fonte meno
autorevole.
Anche la dottrina253 si è immediatamente espressa in senso
critico, anch’essa rilevando che una significativa differenza tra
corrispettivo dichiarato e valore normale, può costituire un forte
indizio di occultamento di materia imponibile, se le parti contraenti
sono imprese indipendenti, ma nel caso di operazioni infragruppo,
ciò non potrebbe avere lo stesso senso, essendo queste ultime
eventualmente indirizzate verso una pianificazione fiscale che rende
superfluo l’occultamento di corrispettivi, essendo sufficiente la
fissazione ad hoc degli stessi, svincolati dai valori di mercato254.
253
Cfr. Carpentieri, “Redditi in natura e valore normale nelle imposte sui redditi.”,
Milano, 1997, pagg. 235 e ss., Lupi, “Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento
tributario”, Milano, 1988, pagg. 226 e ss.
254
Cfr. Tremonti, “Gruppi di società: i vincoli e le architetture fiscali”, in AA.VV. ‘La
fiscalità industriale’, Bologna, 1988, pagg. 49 e ss.. Sulla natura antielusiva e non
antievasiva dell’art. 76, V°c. Tuir, Zizzo, “Regole generali sulla determinazione del
reddito d’impresa”, in AA.VV., ‘Giurisprudenza sistematica di diritto tributario,
imposta sul reddito delle persone fisiche, II’, diretta da F. Tesauro, Torino, 1994, pagg.
578 e ss.
142
Il fatto che la ottimizzazione del carico fiscale complessivo
nell’ambito di un gruppo, possa avvenire anche fra società tutte
residenti255,
non
può
invero
consentire
di
travalicare,
nell’interpretazione della norma, il tenore letterale della stessa,
almeno se si concorda con la tesi oramai dominante secondo la
quale l’interpretazione della norma tributaria non si sottrae agli
ordinari metodi ermeneutici256.
È infatti indiscutibile che possa ottenersi un risparmio fiscale
complessivo all’interno di un gruppo allorché venga effettuata una
transazione, tra due imprese residenti, pattuendo un corrispettivo il
quale, diverso da quello di mercato, determini lo spostamento di
materia tassabile da un soggetto in utile ad uno in perdita, oppure,
ad esempio, verso un soggetto che gode, a qualsiasi titolo, di
particolari agevolazioni nella determinazione dell’imposta257.
§11.2) Il difetto del requisito dell’inerenza.
La dottrina, riconosciuta l’erroneità della tesi ministeriale, ma
rilevato altresì l’irragionevolezza di una lettura ‘a contrario’ della
norma in commento, la quale finirebbe per legittimare, nei rapporti
255
Si veda il contributo di M. Micheli : “ Transfer pricing interno – Traslazione del
reddito tra tipi diversi di società “, in Il fisco 13/2000, pagg. 3561 e ss..
256
È stata infatti dimostrata l’erroneità delle teorie che ritenevano sussistenti, in materia
tributaria, i principi in dubio pro fisco, ovvero in dubio contra fiscum, ed anche la tesi
della c.d. interpretazione funzionale. Si rimanda a quanto si dirà in proposito in seguito.
257
L’esempio classico è quello dell’impresa residente in zone del Mezzogiorno, ovvero
di imprese assoggettate a regimi speciali, non solo ai fini dell’imposizione diretta, ma
anche dell’IVA, come ad esempio quando delle due imprese, una è in regime ordinario
e l’altra nel regime speciale per l’agricoltura di cui all’art. 34 che, è utile qui
rammentarlo, conteneva nel comma 12, prima delle modifiche apportate con il Dlgs
328/97, una disposizione antielusiva che limitava la detrazione dell’imposta nel settore
dell’allevamento.
143
fra imprese residenti appartenenti allo stesso gruppo, la fissazione
di prezzi anche simbolici ma non simulati, ha proposto lo strumento
alternativo del disconoscimento dell’inerenza del costo all’attività
dell’impresa, ovvero di una parte del costo per antieconomicità
manifesta dell’operazione, in tal modo almeno ribaltando l’onere
della prova sul contribuente che dovrebbe cioè spiegare la vendita
sottocosto, o l’acquisto a prezzi spropositati.
Sulla questione del difetto di inerenza per antieconomicità
manifesta si tornerà in seguito, limitandoci qui ad un esame di
alcune pronunce della giurisprudenza in tema di inerenza in
generale.
1. A proposito di inerenza: le cosiddette spese
di regia.
Un caso esaminato dalla Cassazione.
Abbiamo visto come la concorrenza tra le imprese abbia
ormai definitivamente travalicato i confini nazionali, la spasmodica
ricerca di economie di costo ha avuto quali corollari l’incremento di
pratiche quali l’outsourcing, gli accordi commerciali di vario tipo e,
soprattutto, l’affermazione del gruppo di società multinazionale.
Abbiamo altresì evidenziato le implicazioni dal punto di
vista fiscale e quanto esse siano particolarmente delicate, dal
momento che, attraverso operazioni infragruppo, può essere attuata
una politica di pianificazione fiscale internazionale.
Ci si trova così di fronte ad un problema di non agevole
soluzione, occorre infatti da un lato scongiurare il pericolo di una
erosione di gettito che dovrà necessariamente essere sostituita da
maggiori entrate gravanti sui soggetti che non possono avvalersi di
144
tali espedienti, evitando inoltre che venga falsato il meccanismo
della libera concorrenza, ma d’altro canto devono essere evitati i
fenomeni di doppia imposizione, e favorito il miglioramento
dell’efficienza complessiva delle organizzazioni, non ostacolando
quelle operazioni che consentono effettive riduzioni di costo258.
Quest’ultimo aspetto è ad esempio rappresentato da quegli
accordi che, all’interno del gruppo, attuano una sorta di
specializzazione dal lato dei costi, evitandone la duplicazione. Si
tratta soprattutto dei costi di amministrazione, marketing, utilizzo di
brevetti, marchi e altri diritti immateriali e dei diritti di utilizzazione
dei risultati dell’attività di ricerca e sviluppo.
Dal momento che si tratta di problematiche riguardanti
legislazioni fiscali differenti, o, che è lo stesso, differenze nelle
legislazioni fiscali che fanno nascere dei problemi di asimmetrie
impositive o, al contrario, di doppie imposizioni, l’approccio ad
esse non può che essere di matrice anzitutto sovranazionale.
Anche in questo particolare caso è stato compito
dell’Ocse259 quello di fissare dei principi, delle linee guida insomma
che indirizzassero i legislatori nazionali verso una uniformità di
valutazione di queste operazioni, condizione assolutamente
imprescindibile per poter tentare di discernere le pratiche elusive da
quelle aventi scopi meritevoli, al contrario delle prime, di tutela.
Un esempio di accordi nella ripartizione dei costi è quello
delle cosiddette spese di regia, oggetto ( anche se non principale )
258
Ad esclusione degli oneri fiscali.
259
“Transfer pricing and Multinational Enterprises”, Parigi, 1979, recepito in Italia con
la circolare ministeriale 32/9/2267 del 22 settembre 1980; “Transfer pricing and
Multinational Enterprises. Three Taxation issues”, Parigi, 1984; ”Thin capitalization”,
Parigi, 1987; “Tax Aspects of Transfer Pricing within Multinational Enterprises – The
United States Proposed Regolation”, Parigi, 1994; “Transfer Pricing guidelines For
Multinational Enterprises and Tax Administrator”, 1995.
145
della sentenza n° 14016 del 13 luglio 1999 della sez. I^ della Corte
di Cassazione.
Si tratta, in breve, di spese che la casa madre sostiene e
successivamente riaddebita alle filiali/succursali/controllate estere,
a motivo dei benefici da queste ricevuti. Occorrono dei parametri di
legge che oggettivizzino il più possibile i termini della questione
che sono poi quelli di accertare non solo e non tanto la reale
sussistenza delle operazioni, quanto la loro effettiva consistenza
economica.
Il rapporto Ocse del 1984260 ha affrontato la questione delle
“spese di regia”. Dopo averne sottolineato la potenziale pericolosità
fiscale in termini di spostamento, a fini elusivi, di base imponibile
verso paesi a fiscalità privilegiata (N.B. non necessariamente
Paradisi fiscali), ha esplicitato alcuni requisiti che dette operazioni
devono possedere per poter essere esenti da censure:
• il requisito della funzionalità, nel senso che deve
sussistere un effettivo vantaggio per l’affiliata;
• il requisito dell’inerenza, infatti, identicamente a
quanto in generale avviene per la deducibilità delle
componenti negative di reddito, deve sussistere una
correlazione tra le spese sostenute, ancorché dalla casa
madre, ed i ricavi prodotti dall’impresa ad essa
subordinata;
• il requisito della congruità, che poi non è altro che quel
valore normale della prestazione, che costituisce la
linea di discrimine per la valutazione della liceità
dell’operazione. Infatti, ferma restando la necessaria
260
“Transfer pricing and Multinsational Enterprises : Three taxation issues”.
146
sussistenza dei precedenti requisiti, solo se il
corrispettivo della transazione si discosta dal valore
normale, questa potrà essere disconosciuta ( e solo per
la differenza )261.
Il
caso
sottoposta
alla
Suprema
Corte,
riguardava
originariamente l’avviso di accertamento con il quale l’ufficio
impositore aveva rettificato il reddito della società italiana,
controllata da una società belga, disconoscendo i costi sostenuti da
quest’ultima e poi riaddebitati alla prima in quanto, come asserisce
la società belga ricorrente, afferivano i servizi centralizzati
effettuati a favore delle sedi periferiche.
L’ufficio, nella motivazione dell’avviso di accertamento,
contestava l’inerenza di tali spese sostenute all’estero e la loro
entità. In primo grado il ricorso venne rigettato, la commissione di
prima istanza aveva infatti ritenuto sufficiente la motivazione
addotta dall’ufficio, per cui l’onere della prova incombeva sulla
ricorrente, la quale però non ha fornito idonea documentazione.
La Commissione tributaria regionale della Lombardia ha poi
invece accolto l’appello affermando sia l’inerenza che la congruità
delle spese in contestazione, avendo la ricorrente fornito effettiva e
quantitativa dimostrazione delle attività condotte dalla casa madre
evidenziando anche le generalità dei funzionari operanti e le spese
ad essi riferite.
Il Ministero delle Finanze impugnò la sentenza in Cassazione
affermandone l’insufficienza della motivazione in quanto ciò che
era stato contestato non era “...l’astratta imputabilità alla sede
italiana delle spese di regia della sede centrale, ma la misura della
261
Per quanto riguarda il problema della determinazione di un prezzo congruo, si
rimanda a quanto detto in precedenza sul transfer price in generale.
147
quota di esse attribuita alla filiale, mentre la Commissione
Regionale ha proceduto ad attribuirle a quest’ultima per aver
considerato resi i servizi e congrui nella loro entità, non indicando
le ragioni della loro imputazione e la relazione di esse con i
benefici ricevuti dalla succursale italiana : ... l’ufficio aveva chiesto
di provare ... i criteri di imputazione alla succursale italiana della
quota di spese sostenute dalla centrale in base al riparto tra le sedi
periferiche dei costi sostenuti all’estero”.
La Suprema Corte confermò infine la pronuncia d’appello
ritenendo “... sufficiente l’analisi dei servizi resi e l’accertamento
dei costi degli stessi, incensurabile in sede di legittimità, per
accertare
l’affermata
inerenza
emergente
dalla
sentenza
impugnata, ...”.
È certamente vero che la Cassazione deduce l’inerenza delle
spese con ragionamento induttivo262, ma essa non si è limitata a
questo, fissando altresì delle condizioni per stabilire la sussistenza
di tale fondamentale requisito; si legge infatti in altro passo della
decisione, “... le spese della sede centrale possono qualificarsi
‘inerenti’ ai ricavi delle succursali, purché si siano tradotte in
servizi resi a queste ultime e, pur se funzionali al coordinamento,
tra le varie filiali e la sede centrale, sempre che non rispondano ad
esigenze di governo e gestione dell’impresa multinazionale,
dovendo in tal caso detrarsi dalla contabilità centrale e dagli
imponibili per i quali l’imposizione già si ha nello Stato estero.”
262
Nel quale è altresì determinante l’operato dell’ufficio e del Ministero in sede
contenziosa. Si legge infatti nella sentenza : “La sentenza impugnata, ritenuti provati i
servizi resi dalla casa madre alla filiale in difetto di impugnazione di controparte e
affermata la congruità dei costi degli stessi sul notorio, implicitamente ne afferma
l’inerenza; nel giudizio di merito, esplicitamente l’ufficio aveva ritenuto insufficiente
a imputare alla filiale l’eventuale riparto disposto dalla centrale tra le sedi periferiche,
che invece per il ricorso (in Cassazione) sarebbe indispensabile.”
148
Occorre comunque sottolineare che la Corte non ha affrontato
la questione della congruità degli addebiti, in quanto problema di
merito incensurabile in sede di legittimità. Sull’argomento specifico
la giurisprudenza, soprattutto di legittimità, è ancora scarsa, ma già
da questa sentenza si possono trarre utili indicazioni su come
operare.
È anzitutto evidente la convenienza a formalizzare per iscritto
l’accordo che regola i rapporti tra le compagnie, documentando
dettagliatamente i soggetti che hanno prestato i servizi e le spese ad
essi riferite, è inoltre stato fornito un parametro sufficientemente
chiaro per la valutazione dell’inerenza, escludendola però qualora le
spese siano riferibili alle esigenze di governo e di gestione della
capogruppo.
La stessa sentenza è apparsa però negativa nei confronti dei
criteri di ripartizione delle spese non direttamente imputabili,
affermando che costituirebbero un indice di mancata inerenza263, e
ciò nonostante fossero stati ammessi sia dall’Ocse che dalla stessa
Amministrazione finanziaria. Quest’ultima infatti, dopo un iniziale
orientamento264 particolarmente restrittivo, che negava in via di
principio l’inerenza delle spese di regia, a prescindere da
qualsivoglia analisi dell’eventuale sussistenza dei presupposti per la
deducibilità, ha successivamente265 invertito indirizzo, riconoscendo
l’impossibilità di risolvere la questione con soluzioni aprioristiche o
di principio in ambo le direzioni, affermando infatti la necessità di
263
Su quest’ultimo aspetto, successive pronunce della stessa Suprema Corte (citate in
nota 266), hanno sancito un orientamento più corretto e convincente.
264
Cfr. Relazione Secit, 31/05/1984, n. 24.
265
Cfr. Delibera Secit, 17/07/1995, n. 60 e circ. 21/10/1997 n. 271.
149
verificare in concreto le condizioni per la deducibilità sotto il
duplice aspetto qualitativo e quantitativo.
Da rilevare infine che successive pronunce della Corte266
hanno evidenziato una decisa tendenza verso l’ampliamento dei
requisiti di deducibilità, come sarà ampiamente argomentato infra
discorrendo del requisito dell’inerenza.
In conclusione, gli organi accertatori dovrebbero acquisire
una maggiore sensibilità nella specifica materia economicoaziendale, onde valutare se, nello specifico caso, alla base
dell’attribuzione alla stabile organizzazione di una quota di costi
sostenuti dalla casa-madre, vi siano intenzioni elusive legate alla
ottimizzazione del carico fiscale, con il dirottamento degli utili ove
più conveniente, ovvero sussistano effettive esigenze legate alla
natura dello specifico rapporto, le quali raramente si esauriscono
nella fase di avvio, ben potendo continuare anche successivamente,
basti pensare ad esempio, ad eventuali campagne pubblicitarie
internazionali, o al riaddebito di spese
relative allo sviluppo,
promozione, miglioramento delle attività commerciali dell’impresa
nel suo complesso e, quindi anche della sede locale che della prima
costituiste una mera promanazione.
266
Cass. 01/08/2000, n. 10062; 05/09/2000, n. 11648; 06/09/2000, n. 11770;
26/01/2001, n. 1133; 07/03/2002, nn. 3367 e 3368; 25/05/2002, n. 7682.
150
§11.3) Le soluzioni proposte dalla circolare 53 del
26/02/1999 per contrastare il transfer pricing
interno.
L’Amministrazione finanziaria ha solo di recente modificato
la sua posizione circa l’applicabilità dell’art. 76, V° c. Tuir alle
operazioni tra soggetti residenti, espressa in modo esplicito nella
più volte citata circolare n. 32/1980. Infatti, la circolare n. 53 del
26/02/1999267, nell’esporre le pratiche elusive di particolare
pericolosità, pone l’accento sulle “manovre attuate sui prezzi di
trasferimento interni”, riconosce l’inapplicabilità della disposizione
antielusiva di cui all’art. 37-bis del DPR 600, suggerendo, in sua
vece, l’utilizzabilità di altri mezzi per contrastare il fenomeno.
1. L’art. 39, I°comma, lett. d) del DPR 600/73.
È stato così proposto il ricorso all’art. 39, I° c. lett. d).
Quest’ultimo orientamento ministeriale è stato criticato basandosi
sull’affermazione che quest’ultima disposizione riguarderebbe solo
ipotesi di occultamento di operazioni attive a seguito di irregolarità
nelle scritture contabili, in altre parole le classiche ipotesi (evasive)
di
omessa certificazione, registrazione e dichiarazione di
corrispettivi, ovvero di loro indicazione inferiore al reale268. Infatti,
267
Consultabile
nella
banca
dati
“Documentazione
tributaria”
sul
sito
http://www.finanze.it/ .
268
“È infatti convincimento di questo Collegio, sulla scorta di consolidati orientamenti
dottrinari e giurisprudenziali, che la valutazione al valore normale di cessioni di beni
fra soggetti residenti, presuppone – di regola – l’assenza di corrispettivi. Il
presupposto, infatti, per l’insorgenza dell’obbligazione tributaria ai fini delle imposte
sui redditi è costituito dal prezzo pattuito fra le parti e non il valore di mercato. Pur se
in via di principio non si può negare all’Amministrazione Finanziaria, in sede di
151
come noto, la disposizione legittima la rettifica del reddito
imponibile dichiarato dal contribuente quando l’incompletezza, la
falsità e l’inesattezza delle registrazioni contabili risulta dalle
ispezioni delle scritture contabili tenuto conto delle fatture e degli
altri documenti raccolti in sede di istruttoria. Sarebbero quindi
evidenti i vincoli della norma ove si consideri, da un lato l’esclusiva
rilevanza delle operazioni imponibili non dichiarate, accertate a
seguito dell’esame della contabilità e dei documenti giustificativi, e
dall’altro, il richiamo alle presunzioni “gravi, precise e concordanti”
il quale richiede, di volta in volta, la valutazione delle
argomentazioni probatorie fatte valere dall’ufficio, le quali devono
essere particolarmente forti, atteso il diverso riferimento, compiuto
nel II° comma dell’art. 39, alle “presunzioni non gravi precise e
concordanti” in tema di accertamento induttivo extracontabile. In
altri termini, le argomentazioni avanzate dall’ufficio devono essere
in grado di dimostrare, in modo inequivocabile, l’esistenza di
operazioni non dichiarate. Apparirebbe così evidente che, una volta
escluso che vi possa essere anche solo una semplice somiglianza
concettuale tra l’occultamento o la simulazione di corrispettivi ed il
fenomeno
del
transfer
pricing
interno,
l’Amministrazione
finanziaria non possa contestare il prezzo di trasferimento pattuito
tra imprese residenti ricorrendo all’art. 39, I° c. lett. d).
accertamento, di raffrontare i prezzi convenuti fra le parti con quelli praticati dal
mercato, il ricorso al criterio del valore normale risulta possibile soltanto se, in
presenza di presunzioni gravi, precise e concordanti, l’amministrazione stessa, sia in
possesso di elementi comprovanti che i corrispettivi dichiarati siano inferiori a quelli
effettivamente conseguiti”. Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. I°,
18/03/1998, n. 577.
152
A
differenti
conclusioni
è
giunta
la
più
recente
giurisprudenza di legittimità269, ritenendo che una ingiustificata
sproporzione tra corrispettivo pattuito e valore normale, possa
costituire la base di un ragionamento logico-deduttivo come quello
tipicamente adottato in sede di applicazione dello speciale
strumento accertativo270. È importante sottolineare che il gap deve
potersi considerare oggettivamente rilevante, evitando di cadere
nell’equivoco, indotto dall’infelice passaggio della citata sentenza
della Cassazione 10802/2002, di considerare il valore normale un
principio generale tale per cui ogni differenza, di qualunque
importo sarebbe automaticamente rettificata271 (induttivamente),
inoltre e comunque, il ragionamento presuntivo deve condurre
all’emersione di attività non dichiarate o passività inesistenti. Sarà
dunque da valutarsi caso per caso, la ricorrenza dei requisiti di cui
all’art. 2729 cod. civ. per la legittimità del ragionamento
presuntivo, quindi se da una parte non può aprioristicamente
escludersi la possibilità che il solo scostamento del corrispettivo
pattuito dal suo valore normale272 possa integrare i presupposti
richiesti per la validità della presunzione stessa, non può neppure
escludersi che detta differenza non possa essere altrimenti motivata,
269
Cfr. Cass. 24/07/2002, n. 10802, nonostante il maldestro utilizzo del criterio del
valore normale che taluni hanno desunto dalle infelici espressioni usate nella sentenza,
per le cui critiche vedi supra pag. 140.
270
Vedasi quanto esposto infra Parte seconda, capitolo II.2 in tema di legittimità
dell’utilizzo dell’accertamento art. 39, I° c. lett. d) di fronte a comportamenti
manifestamente antieconomici, le cui argomentazioni sono a questa fattispecie
conferenti, e la citata recente giurisprudenza di legittimità.
271
Che si trattasse di una imperfezione relativa alle espressioni usate nella citata
sentenza ho già avuto modo di evidenziarlo in precedenza. Vedi supra pagg. 140 e ss.
272
E’ opinione dominante ormai che non sono richiesti una pluralità di fatti noti per
legittimare la presunzione, né che il fatto ignoto che si suppone così provato sia l’unico
possibile. Il contribuente coerentemente con quanto appena detto, basterà che dimostri
la sussistenza, nel caso concreto, delle diverse motivazioni della divergenza contestata.
153
dovendosi tenere in debita considerazione che i benefici che
derivano da una transazione, devono essere valutati secondo
un’ottica economico-aziendale che travalica il mero riferimento al
solo corrispettivo in danaro.
2. L’art. 37, III° comma DPR 600/73.
Secondo il Ministero, si potrebbe attribuire all’impresa
soggetta alla tassazione ordinaria, che con manovre sui prezzi di
trasferimento abbia traslato materia imponibile verso altra impresa
residente del gruppo, soggetta a particolare regime agevolativo, la
quota di reddito dichiarata da quest’ultima, attraverso l’istituto
previsto dall’art. 37 III° comma del DPR 600/73.
Secondo la tesi ministeriale, “attraverso la manovra di
sottofatturazione, la società alienante trasferisce quote di utili
all’acquirente, ma resta titolare effettivo del reddito in qualità di
controllante o collegata e, in sede di distribuzione dei dividendi,
può attribuirsi dette quote, non tassate, godendo altresì del relativo
credito d’imposta.”
Non appare però una soluzione convincente in quanto detto
strumento si riferisce all’ipotesi della “interposizione fittizia273”, e
sarebbe d'altronde improbo dimostrare che l’interponente abbia
mantenuto la disponibilità giuridica dell’utile così trasferito,
soprattutto nei casi in cui la interposta sia partecipata anche da
soggetti esterni al gruppo, i quali si approprierebbero in tal modo di
una parte degli utili trasferiti fittiziamente, oppure nel caso in cui la
(presunta) interponente sia la controllata anziché la controllante.
273
Relativamente a questo aspetto dell’art. 37, si rimanda a quanto detto nel §10 del
presente capitolo.
154
Insomma,data la sua natura antievasiva274, l’art. 37 III° risulta
inapplicabile a fattispecie chiaramente elusive come quella in
esame.
§11.4)
negozio
Qualificazione
misto
di
dell’operazione
vendita
e
come
donazione
(o
assegnazione ai soci).
L’atto ministeriale propone infine di ricondurre il negozio a
prezzo “di favore”, alla disposizione contenuta nel II° comma
dell’art. 53, del Tuir, il quale prevede l’assimilazione ai ricavi, del
valore normale275 dei beni destinati al consumo personale o
familiare dell’imprenditore, assegnati ai soci o destinati a finalità
274
Cfr. Gallo, “Prime riflessioni...”, op. cit. pagg. 1769 e ss.; Tabellini, “Prime
considerazioni sul progetto antielusione approvato dal Governo”, in Boll. Trib., 1988,
pag. 1503; Lupi,”Compensi abnormi agli amministratori: antielusione sì, doppia
imposizione no”, in Rass. trib. 1994, pagg. 81 e ss.; Stevanato, “Compensi a soci
amministratori e interposizione di persona. Un’ipotesi da scartare”, in Rass. trib.
1994, pagg. 81 e ss.; Cociani, “Usufrutto su azioni ed interposizione fittizia di
persona”, in Il fisco 1994, pagg. 2437 e ss.. Per la giurisprudenza si cita, rimandando al
paragrafo sul dividend washing ove è stata più estesamente riportata, la recente
sentenza n. 3979 della Cassazione del 03/04/2000, nella parte in cui afferma che l’art.
37 III°c. “...inequivocabilmente si occupa del caso dell’interposizione fittizia in senso
proprio caratterizzata dalla divaricazione fra situazione esteriore e situazione
sostanziale, rispettivamente riferibili all’interposto ed all’interponente, non anche del
caso dell’interposizione cosiddetta reale,..., ove la forma e la sostanza coincidono, e si
può porre soltanto un problema di validità ed efficacia dell’atto negoziale determinato
dalla variazione soggettiva nella titolarità del bene”.
275
Si rammenti inoltre, che le fattispecie alle quali è possibile applicare il criterio del
valore normale, come parametro convenzionale per la determinazione del reddito
tassabile, è stato dal legislatore esplicitamente limitato alle ipotesi di assenza di un
corrispettivo pattuito e ad alcuni casi quali: operazioni infragruppo realizzate tra società
residenti in paesi diversi (art. 76, V° t.u.i.r.); sopravvenienze da cessione del contratto
di locazione finanziaria (art. 55, V° t.u.i.r.). Al di fuori di ipotesi come queste
esplicitate in disposizioni di legge, nel caso di operazioni tra imprese residenti, il
ricorso al criterio del valore normale sarà giustificato solo allorché manchi un
corrispettivo pattuito, ovvero si (l’A.F.) dimostri che esso sia inferiore al reale. Infatti,
il presupposto dell’obbligazione tributaria è il prezzo convenuto, non quello di mercato.
155
estranee all’esercizio dell’impresa, qualificandolo come negozio
misto di vendita/donazione.
In altre parole, la differenza tra il valore normale e il
corrispettivo pattuito, costituirebbe la “donazione” considerata
ricavo ex art. 53 II°c. per il suo valore normale276.
Nello specifico ambito tributario, si tratta di un approccio già
sperimentato nella Ris. Min. 9/198 del 10/03/1982277, in relazione
alla fattispecie di cessione intragruppo di azioni, sostanzialmente
simile a quella del transfer pricing interno di cui alla circolare qui
esaminata, che però utilizza il più ampio riferimento alle ‘finalità
estranee all’esercizio dell’impresa’.
Anche a voler prescindere dalle difficoltà insite nella stessa
identificazione dei profili di quest’ultimo concetto, c’è da rilevare la
circostanza che l’attribuzione del bene ad un soggetto collegato a
titolo, anche solo parzialmente, gratuito, deve risolversi in un
incremento di ricchezza per il cedente.
La destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa
deve, in altri termini, tradursi nella acquisizione del bene in oggetto
al patrimonio personale del dominus dell’impresa, e, cioè,
dell’imprenditore, in caso di impresa individuale, o dei soci, in caso
di società.
Il negotium mixtum cum donatione, è stato oggetto di studio
soprattutto nel campo del diritto civile, che lo ha individuato come
quella situazione nella quale in un solo negozio, si rinvengono sia le
caratteristiche del negozio oneroso, sia quello della donazione. In
276
Art. 53 II° c. DPR 917/86 : “ Si comprende inoltre tra i ricavi il valore normale dei
beni ... destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa “. N.B. Vedasi anche l’art.
54 della legge n° 342 del 21 novembre 2000.
277
Consultabile
nella
banca
dati
“Documentazione
http://www.finanze.it/ .
156
tributaria”
sul
sito
tale ambito, la soluzione ritenuta corretta, è quella di assoggettare
ciascuna parte ideale del negozio al regime suo proprio, una volta
che possa legittimamente escludersi la possibilità che si versi in una
situazione di simulazione.
In ordine alla qualificazione in termini di donazione, a parte il
fatto che l’art. 782 c.c. richiede l’atto pubblico ad substantiam per
le donazioni di non modico valore, si deve sottolineare che la
dottrina e la giurisprudenza maggioritarie, usano distinguere tra atti
a titolo gratuito e atti di liberalità278 ed inoltre che la dottrina è
divisa sulla inclusione o meno delle cessioni gratuite fra le ipotesi
di destinazione dei beni a finalità estranee all’impresa279.
Perché
si
possa
parlare
di
donazione
non
basta
l’arricchimento di un soggetto conseguente all’attribuzione
patrimoniale gratuita di un altro soggetto, ma occorre inoltre lo
spirito di liberalità280 e il depauperamento del patrimonio del
donante. Ebbene, proprio l’appartenenza al gruppo, potrebbe far
trasparire la carenza dell’animus donandi, inteso come libera scelta
del donante, in assenza di qualsiasi obbligo di natura giuridica o
meno. In altre parole, il venditore/donante281, dovrebbe essere
mosso
esclusivamente
da
spirito
di
liberalità
verso
il
compratore/donatario, potendosi verificare casi di obblighi nascenti
278
Cfr. Cass. 29/09/1997, n. 9532; Cass. 13/07/1995, n. 7666. Manzini, “Spirito di
liberalità e controllo giudiziario sull’esistenza della causa donandi”, in Contratto e
impr., 1985, pagg. 409 e ss.; Cecchini, “L’interesse a donare”, in Riv. di dir. civ.,
1976, I, pagg. 254 e ss.
279
Vedasi : L. Carpentieri, Redditi in natura e valore normale ... op. cit., pagg. 131 e
ss..
280
Cfr. Cass. 23/02/1991, sent. N. 1931, in Mass. Foro It. 1991, “...non c’è contratto
mixtum cum donatione,quando il prezzo inferiore al valore di mercato non derivi da
spirito di liberalità del disponente.”
281
Facciamo qui l’ipotesi della cessione sottocosto, considerazioni speculari valgono
ovviamente in quella di acquisto a prezzo spropositato .
157
da politiche infragruppo, che non lascino al supposto donante
alcuna possibilità di sottrarsi, essendo questi soggetto al dominus
del donatario, inoltre il fatto che il reddito finisce in tal modo per
essere solo trasferito, può valere ad escludere qualsiasi ipotesi di
depauperamento del patrimonio del donante, almeno con riguardo
all’aspetto sostanziale. Illuminante al riguardo, il caso deciso dalla
Cassazione relativo ad un atto senza corrispettivo, effettuato da una
società controllata, in adempimento di direttive impartitele dalla
controllante, a favore di quest’ultima. La Suprema Corte ha così
avuto modo di stabilire che “...l’assenza di corrispettivo se è
sufficiente a caratterizzare i negozi a titolo gratuito (distinguendoli
da quelli onerosi), non basta invece ad individuare i caratteri della
donazione,
per
la
cui
sussistenza
sono
necessari,
oltre
all’incremento del patrimonio altrui, la concorrenza di un elemento
soggettivo (lo spirito di liberalità) consistente nella consapevolezza
di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in
alcun modo costretti, e di un elemento di carattere obbiettivo dato
dal depauperamento di chi ha disposto del diritto o assunto
l’obbligazione.282”. Per cui, prosegue, “ne consegue che quando un
atto viene posto in essere da una società controllata, va esclusa la
ricorrenza di una donazione..., se l’operazione è stata posta in
essere in adempimento di direttive impartite dalla capogruppo o
comunque di obblighi assunti nell’ambito di una più vasta
aggregazione imprenditoriale, mancando la libera scelta del
donante. ...inoltre, al fine di verificare se l’operazione abbia
comportato o meno per la società che l’ha posta in essere, un
depauperamento effettivo, occorre tenere conto della complessiva
situazione che, nell’ambito del gruppo, a quella società fa capo,
282
Cass. 05/12/1998, n. 12325.
158
potendo l’eventuale pregiudizio economico che da essa sia
direttamente derivato, aver trovato la sua contropartita in altro
rapporto, e l’atto presentarsi come preordinato al soddisfacimento
di un ben preciso interesse economico, sia pure mediato e
indiretto”.
In conclusione, lo strumento de quo, appare molto
difficilmente utilizzabile in funzione di contrasto dei fenomeni di
transfer pricing interno, ove si consideri la stessa ratio di
quest’ultimo, teso all’ottimizzazione del carico fiscale di gruppo,
attraverso transazioni “comandate” dalla capogruppo, ma delle
quali potrà teoricamente godere (in termini di convenienza
economica
della
operazione-strumento)
indifferentemente
la
controllante o la controllata, a seconda della specifica situazione
fiscale del momento.
Chi scrive è dell’idea che qualificare un negozio come
‘donazione’ per la sola sproporzione tra corrispettivo pattuito e
valore normale, appare scorretto in virtù della possibilità che
attraverso una attribuzione di favore, lo stesso (supposto) donante
riceva una ulteriore controprestazione, non in moneta, ma in
vantaggi economici di altra natura, come appare evidente
nell’ipotesi in cui, essendo questi una impresa collocata, all’interno
di una filiera produttiva (e/o di un gruppo), a monte o a valle
dell’impresa beneficiaria, attraverso un atto apparentemente
‘antieconomico’, ottiene in cambio la conservazione della vitalità di
quest’ultima, e dunque salvaguarda i suoi stessi volumi produttivi e
le connesse economie di scala e di continuità dei processi
produttivi. In altri termini è come dire che l’atto, gratuito, ancorché
parzialmente, è stato il mezzo per soddisfare lo scopo sociale fino al
punto di rendere possibile la sopravvivenza dell’intera filiera (e/o
159
del gruppo societario), per cui attraverso una valutazione non
statica, bensì prospettica, la supposta antieconomicità potrebbe non
apparire poi così manifesta.
Quanto appena detto rende quindi evidente l’insussistenza del
richiesto depauperamento del patrimonio del (supposto) donante il
quale, sommato all’assenza di un generalizzato ed autonomo potere
di qualificare i negozi giuridici ai fini fiscali, rende la ricostruzione
dell’operazione in termini di negozio misto di vendita e donazione,
assolutamente illegittima. Infine, anche al di fuori di una ottica ‘di
gruppo’, è da rilevare che l’istituto della donazione, intesa come
espressione esclusivamente di uno spirito di liberalità, è
incompatibile con gli interessi tipici perseguiti dalle società
lucrative, e deve essere lo statuto sociale a prevederle
eccezionalmente e solo motivate. La prescritta forma pubblica, è
inoltre strumentale alla tutela degli interessi dei terzi (soprattutto i
piccoli azionisti) nei confronti degli atti a questi contrari.
Pertanto, se anche si volesse ritenere sussistente in capo al
Fisco un potere di qualificare il negozio come in parte gratuito,
ancorché limitato alle ipotesi di oggettiva antieconomicità (anche
prospettica) dell’operazione, ci si troverebbe di fronte, facendo
qualche estremizzazione relativamente alle società per azioni, ad
una lesione di quelle norme codicistiche poste a tutela dell’integrità
del patrimonio di queste ultime, la cui competenza è attribuita al
giudice civile.
160
§11.5)Conclusioni
Considerate le indubbie potenzialità elusive della fissazione
ad hoc dei prezzi di trasferimento infragruppo tra imprese residenti,
contrastabili, a mio avviso, solo attraverso lo strumento
dell’accertamento analitico-induttivo, e solo in quei casi in cui il
contribuente
non
riesca
a
fornire
delle
argomentazioni
sufficientemente credibili circa i motivi di una operazione che,
valutata complessivamente, non appare fondarsi su alcuna
motivazione di natura economico-finanziaria valida, e pertanto è
stata legittimamente posta a base del ragionamento presuntivo
dell’ufficio, sarebbe necessario, a parere di chi scrive, un intervento
legislativo che facilitasse una inversione dell’onere della prova
come sopra descritto, attualmente fortemente vincolato alla
preventiva verifica di una antieconomicità manifesta, non sempre
agevolmente esperibile, a motivo delle specificità dei rapporti
infragruppo, che rendono spesso difficoltoso il confronto dei prezzi
delle transazioni, come avviene per esempio in quei numerosi casi
in cui la produzione della controllata, oltre a riguardare prodotti non
commercializzati da altre imprese, trattandosi di semilavorati
specifici, è destinata unicamente alle altre imprese del gruppo per il
quale è stata appositamente costituita-acquisita.
Inoltre, tra le operazioni potenzialmente elusive nei rapporti
tra imprese dello stesso gruppo nazionale, ve ne sono alcune che
non utilizzano le manovre sui prezzi.
Ad esempio, nei rapporti contrattuali, è normale la previsione
di clausole penali, multe, caparre confirmatorie o penitenziali, a
fronte di comportamenti che integrano forme di inadempienza
contrattuale. Ebbene risulta assai facile attuare un trasferimento di
161
materia imponibile alla stregua di quanto avviene con il transfer
price, mediante la preordinata inadempienza, per legittimare un
trasferimento di ricchezza senza problemi di contestazioni da parte
del Fisco.
Considerato infine che quanto detto vale anche per le imprese
assoggettabili al particolare regime di cui all’art. 76, V° c. Tuir, che
in tal modo lo “eludono”, si comprende la gravità della carenza
rilevata, non potendo essere utilizzato neppure lo strumento
previsto dall’art. 37-bis. È stato pertanto proposto di modificare
quest’ultima disposizione o, per essere più precisi, si è proposta
l’aggiunta fra le operazioni contemplate dalla norma, delle
“pattuizioni intercorse tra società collegate ai sensi dell’art. 2359
del codice civile, aventi ad oggetto il pagamento di somme a titolo
di clausola penale, multa, caparra confirmatoria o penitenziale.”.
In questo modo, come si legge nella relazione di
accompagnamento al disegno di legge283, non si attribuiscono nuovi
poteri all’amministrazione, “... ma (si) amplia la tipologia di
operazioni soggette al meccanismo antielusivo...”, in tal modo, la
rettifica non sarà automatica, dovendo sussistere anche gli ulteriori
ordinari requisiti richiesti dalla stessa norma e già commentati in
precedenza.
Anche la prevista riforma del diritto societario, potrà
indirettamente portare dei vantaggi ai fini di un più agevole
contrasto ai fenomeni descritti, infatti, la L. 3/10/2001, n. 366
(Delega al Governo per la riforma del diritto societario) prevede fra
l’altro la istituzione di una apposita disciplina in materia di gruppi
283
Disegno di legge n. 4992, Senato della Repubblica, ad iniziativa dei senatori
Albertini, Vigevani, Castellani Pierluigi, Pasquini, Bonavita, Montagna, Ripamonti,
Sartori, Marino, Marchetti, Bergonzi, Caponi e Manzi. Comunicato alla Presidenza il
14 febbraio 2001, in Il fisco 10/2001, pagg. 3875 e ss..
162
di società, ove si legge che: (art. 10) la normativa dovrà ispirarsi ai
principi:
“a) di trasparenza, in modo da assicurare l’interesse delle
consociate singolarmente e come gruppo e dei soci di
minoranza delle consociate;
b) di motivazione delle operazioni intragruppo;
c) di pubblicità del gruppo e di appartenenza delle
consociate al medesimo;
d) di tutela del socio in sede di ingresso o di recesso dal
gruppo.”
Nonostante non vengano esplicitamente menzionati gli
aspetti fiscali, appare chiaro come l’attuazione dei principi della
tutela degli interessi propri delle consociate e della motivazione
delle operazioni intragruppo, potrebbe essere la logica premessa per
l’introduzione di uno strumento, analogo a quello previsto dal 76
V°, ma applicabile nelle ipotesi di operazioni intragruppo nazionali.
Occorre infine rilevare che, la riforma Tremonti dell’imposta
sulle società, riconoscendo la rilevanza fiscale del gruppo di
società, consentirebbe di superare alcuni dei problemi applicativi e
delle distorsioni, attualmente esistenti negli strumenti di contrasto
delle
maliziose
manovre
sulle
operazioni
infragruppo,
la
valutazione delle quali, avverrebbe attraverso il solo requisito
dell’inerenza, senza distinzione tra la libertà di determinazione del
prezzo di trasferimento concessa attualmente nelle operazioni
“interne” e negata a quelle transfrontaliere.
Verrebbe insomma rivalutato sia il limite ‘civilistico’ di cui
all’art. 2391 del cod. civ. che vieta alle imprese di gruppo
un’attività in conflitto di interessi, sia, di conseguenza il principio
per cui l’impresa di gruppo deve operare nel rispetto del proprio
163
scopo di impresa, e cioè la creazione di un utile economico (art.
2082 cod. civ.). Occorre infine che la valutazione di una transazione
non si limiti al solo dato relativo al prezzo, rivalutando la rilevanza
di motivazioni ulteriori che, in base ad un ragionamento
prospettico, possano ragionevolmente assumersi quali ‘valide
ragioni economiche’ legittimanti il comportamento discusso, a nulla
rilevando la circostanza che, a posteriori, detti vantaggi non si
verifichino, potendo tali conseguenze essere ricondotte all’ordinaria
alea che permea i rapporti contrattuali, superando il risalente dogma
dell’assoluto equilibrio delle prestazioni reciproche stabilite
contrattualmente.
164
Capitolo II
II)
Autonomia
negoziale
dell’Amministrazione
delle
Finanziaria
parti,
di
poteri
porvi
delle
limitazioni attraverso la qualificazione dei negozi
giuridici ai fini tributari e di sindacare sulla
economicità di talune scelte imprenditoriali
§1) La qualificazione dei negozi giuridici ai fini
fiscali.
Premessa
I vari e vani tentativi di rinvenire all’interno dello stesso
ordinamento, strumenti di contrasto al fenomeno dell’elusione e la
successiva introduzione di norme antielusive di portata più o meno
ampia, ma mai generale, confermano che nel nostro ordinamento
non esiste né una norma né un principio antielusivo generale che
possa assurgere alla stregua di un criterio, al limite residuale rispetto
alle norme specificamente antielusive, che in ultima istanza riesca ad
evitare che una fattispecie, sicuramente espressiva di potenzialità
economica e “logicamente” tassabile, sfugga all’imposizione per
motivi meramente formali.
In questa parte della ricerca si tenterà di esaminare i
fondamenti giuridici di un autonomo potere qualificatorio
dell’attività
negoziale
dei
privati,
da
parte
dell’organo
amministrativo che, per tale tramite, ha talvolta tentato di supplire
165
alla carenza di cui sopra. Isolare i termini della questione non è stato
compito agevole, in quanto ‘tracce’ di essa sono rinvenibili negli
stessi argomenti trattati in precedenza.
Ho tentato in tali casi di rimandarne l’approfondimento
specifico in questa sede, perciò, in questa sezione conclusiva
verranno spesso richiamati istituti già precedentemente visti in
un’ottica allora generale. Sarà soprattutto ripreso il discorso sull’art.
37-bis, principalmente in relazione ai tentativi di applicazione del
potere di riqualificare i negozi anche al di fuori di quelli riferibili
alle operazioni ivi elencate facendolo apparire, in ultima analisi,
espressione di un principio generale anziché di un potere in deroga,
opportunamente limitato.
Si tornerà sui concetti di ‘disegno elusivo’ e di ‘valide ragioni
economiche’, i quali verranno approfonditi in quanto aspetti
connessi, il primo alla possibilità che il fisco qualifichi una serie di
‘atti fatti e negozi, anche collegati tra loro,’, come un negozio
unitario, disattendendo la forma giuridica che il contribuente ha
prescelto per i suoi scopi; ed il secondo, al potere, che
l’Amministrazione finanziaria talvolta si attribuisce, di sindacare
l’economicità, cioè il merito, delle scelte imprenditoriali.
Si rende pertanto necessaria una breve postilla di diritto civile,
commerciale e costituzionale sui principi di autonomia privata e
libertà di iniziativa economica, i quali saranno spesso richiamati in
questa seconda parte di lavoro.
166
§2) Autonomia privata e libertà di iniziativa
economica. Generalità.
Del principio di autonomia privata, ai nostri fini, rileva
l’aspetto, di ambito più ristretto, dell’autonomia negoziale, il quale
poggia principalmente su due libertà, quella di contrarre, cioè di
costituire, modificare od estinguere situazioni giuridiche, e quella di
determinare il contenuto dell’accordo. L’autonomia negoziale a sua
volta, “contiene” il concetto di autonomia contrattuale284 (art. 1322
cod. civ.). È proprio quest’ultimo, l’aspetto che qui maggiormente
rileva, in riferimento soprattutto alla connessa possibilità di
concludere contratti atipici. A questo riguardo, il significato ad essa
attribuito, è duplice, da una parte è infatti inteso come “libertà di
perseguire finalità diverse da quelle perseguibili con i contratti
tipici, dall’altra, come libertà di perseguire con modalità
contrattuali atipiche finalità già perseguibili con contratti tipici”285,
costituendo inoltre la “libertà di utilizzare contratti tipici per
realizzare finalità atipiche - ... – oppure di combinare fra loro varie
figure contrattuali, tipiche o atipiche, per realizzare – come nei
contratti collegati – interessi ulteriori e diversi da quelli sottostanti
a ciascun contratto, isolatamente considerato.”286.
I limiti a tale autonomia, sono posti dal legislatore a tutela di
interessi generali e talvolta, con atteggiamento ‘paternalistico’, a
284
Cfr. Messineo F. , “Il contratto in genere”, Giuffrè, Milano, 1973, pag. 42: “La
libertà (o autonomia) contrattuale (o, in più larga accezione, negoziale) dipende
concettualmente (e ne è la principale articolazione) dalla cosiddetta autonomia privata
(che, a sua volta, è il riflesso della libertà economica).
285
Così Galgano, “Diritto civile e commerciale”, II/1, Cedam, Padova, pag. 138.
286
Galgano, op. cit., pag. 139.
167
tutela degli stessi contraenti, soprattutto quelli appartenenti a
categorie considerate più deboli.
Il principio di cui si discorre, ha vissuto momenti di
espansione e di contrazione, a seconda che, nel corso di decenni di
storia economica, prevalesse una tendenza liberista, più o meno
marcata, ovvero di programmazione pubblica e quindi di ingerenza
nelle vicende economiche dei privati. La fase attuale, caratterizzata
da una elevata tendenza verso la globalizzazione dei mercati, è
accompagnata da una forte resistenza contro qualsiasi ipotesi di
statalizzazione, come testimoniato dalle politiche di deregulation,
privatizzazione e smantellamento dello stato sociale. Si assiste in
sostanza ad un rifiuto dell’intervento pubblico nell’economia
alimentato dai palesi fallimenti della passata gestione della cosa
pubblica. Lo stesso articolo 41 della Costituzione, almeno nella sua
accezione più ‘interventista’ riguardo i pubblici poteri, appare in
crisi, una crisi accentuata dall’ormai consolidata appartenenza ad un
mercato
sopranazionale287,
quello
della
Comunità
europea,
insensibile o quasi alle istanze solidaristiche votata invece
all’esaltazione del “principio di un’economia di mercato aperta e in
libera concorrenza” (art. 4 del Trattato istitutivo della CEE).
Da molto tempo si discute se lo scenario economico delineato
dalla Costituzione propenda per l’una o l’altra posizione, ma
probabilmente entrambe possono essere considerate compatibili con
il dato costituzionale, almeno nella misura in cui, coesistendo,
consentono la elaborazione di soluzioni e scelte che contemperino
gli aspetti potenzialmente conflittuali, delle istanze sociali e delle
287
Cfr. Barcellona, in “Diritto privato e società moderna”, Jovene, Napoli, 1996, pag.
294: “Lo Stato è un frammento di una comunità sovranazionale;il suo territorio
politico non è più il territorio del suo mercato e delle sue imprese. I suoi strumenti di
controllo, autoritativi o persuasivi che siano, non hanno più la capacità di raggiungere
i destinatari, le imprese, perché queste non sono più raggiungibili.”.
168
ragioni del mercato, garantendo altresì il rispetto dei diritti e delle
libertà fondamentali dell’individuo. L’orientamento costituzionale in
materia di economia infatti, lungi dall’essere descritto dal solo art.
41, è dato dalla sua combinazione con altri precetti, soprattutto
quelli delineati negli artt. 1, 2, 3, 36, 42 e 43. Inoltre, il ‘peso
specifico’ degli aspetti sopra menzionati, è determinato dalla
situazione storica e socio-politica del momento. Non appare dunque
possibile tentare di individuare, all’interno della Costituzione, una
“Costituzione economica”, quale complesso normativo in qualche
modo avulso o comunque estrapolabile dalla Suprema Carta,
“isolare una sfera dell’economico rispetto agli altri contesti nei
quali si esplicano le attività sociali dell’uomo, è quantomeno
problematico, e (...) conseguentemente lo è ancora di più postulare
una autonomia delle disposizioni in materia economica all’interno
di testi normativi come quelli costituzionali, che hanno l’ambizione
di dettare regole fondamentali di un sistema sociale nella sua
intierezza288.”.
All’interno dello stesso art. 41 possono ravvisarsi entrambe le
tendenze, liberista289 e dirigista290 ma, come acutamente osservato da
Barcellona291: nell’articolo 41 Cost., la “coesistenza di principi, che
sono apparentemente contraddittori, è realizzata....non assumendo
nessun principio come assoluto, perché l’assolutezza di uno
escluderebbe tutti gli altri.”
288
Così Luciani M. in “Economia nel diritto costituzionale”, 1990, pag. 374.
289
Art. 41, I° comma: “L’iniziativa economica privata è libera.”
290
Art. 41, III° comma: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni
perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a
fini sociali.”
291
In “Diritto privato e società moderna”, op. cit., pag 164.
169
Per tornare al più conferente aspetto dell’autonomia negoziale,
si rileva che la definizione dei suoi limiti, analogamente a quanto
detto in proposito dell’art. 41 Cost., non può essere dogmatizzata dal
solo art. 1322 cod. civ., “Il codice, così come edifica una regola di
libertà contrattuale (artt. 1321 e ss.), così, nello stesso modo, e
senza soluzione di continuità, erige una controregola formulata in
più articoli (1343 e ss., 1418), che argina la libertà contrattuale a
salvaguardia dell’ordine pubblico, della morale, della norma
imperativa, ecc.292”. I condizionamenti giuridici posti sulla base di
criteri economico-sociali insomma, indicano, in negativo, la misura
in cui l’interesse del privato può trovare tutela in un sistema
giuridico espressione di interessi generali, non implicando quindi
che sia il privato, attraverso i suoi atti, a farsi portatore di questi.
È questo, in estrema sintesi, lo scenario all’interno del quale si
muove l’autonomia dei privati in materia di atti negoziali in genere e
contratti in particolare. I labili confini disegnati dalle disposizioni
normative, evidenziano la difficoltà di ricondurre i diritti dei singoli
all’interno di specifici canoni di comportamento, rendendo in tal
modo arduo accertare l’esistenza di forme di abuso sia nella
specifica materia contrattuale civilistica, sia in quella tributaria che
da essa deriva. Appare altresì chiaro che la libertà di cui godono i
singoli, benché costituisca indubbiamente un valore di fondamentale
importanza, non può considerarsi una barriera invalicabile per i
pubblici poteri, i quali, nell’esercizio delle proprie funzioni, sono
comunque soggetti a disposizioni costituzionali volte a garantirne la
tendenziale equità. Per fare un paragone di stampo economico, si
pensi alla centralità assegnata al ruolo della concorrenza che però
292
Così Sacco R. in “L’abuso della libertà contrattuale”, in AA.VV., “Diritto privato
1997. III) L’abuso del diritto, Cedam, Padova, 1998, pag. 218.
170
non implica un obbligo assoluto di non ingerenza da parte dello
Stato che, attraverso l’autorità garante del mercato e della
concorrenza, vigila su di essa, in modo da dare effettività alle istanze
di tipo sociale che, unitamente a quelle di tipo più liberista,
concorrono a delineare l’orientamento complessivo della nostra
Legge Suprema.
§3)
L’ampiezza
dei
criteri
civilistici
di
interpretazione dei negozi giuridici tra privati e la
loro limitata applicabilità ai fini tributari.
Premessa
Per valutare appieno le considerazioni, in parte già svolte e in
parte da sviluppare sull’interpretazione dei negozi giuridici ai fini
tributari,
occorre
una
breve
digressione
di
diritto
civile
sull’interpretazione e la qualificazione dei negozi giuridici, onde
evidenziarne punti di contatto e di contrasto con analoghe attività,
svolte però in vista dell’applicazione della normativa tributaria.
§3.1) Rapporti tra qualificazione ‘civilistica’ e
fiscale delle attività dei privati.
L’esame
dell’evoluzione
giurisprudenziale
e
dottrinale
dell’interpretazione (in sede ‘civilistica’) del contratto, ha
evidenziato un orientamento tendenzialmente travalicante i limiti
formali, in guisa da consentire all’interprete di individuare l’effettivo
171
scopo economico perseguito293, anche indirettamente, dai contraenti,
avvalendosi inoltre, ex art. 1362 II° c. cod. civ., di un’ampia
valutazione del comportamento complessivo delle parti, anche
successivo alla conclusione del contratto.
Si pone quindi l’interrogativo sulla possibilità ed opportunità
che un simile approccio venga impiegato anche in campo tributario,
e specificamente in funzione di contrasto dei possibili abusi
dell’autonomia privata, talvolta perpetrabili a motivo della
fungibilità di alcune figure negoziali in vista del raggiungimento di
un medesimo fine (economico). Non si tratta di un dubbio di poco
conto, trattandosi di questioni che riguardano l’attribuzione di poteri
fortemente limitativi della libertà di scelta delle forme di
disposizione dei propri diritti ad un organo amministrativo portatore
di interessi diversi, tendenzialmente contrapposti a quelli dei privati.
Le tesi ‘sostanzialistiche’, si è più volte evidenziato,
attribuiscono un ruolo assolutamente primario al principio di
capacità contributiva (ed a quelli ad esso connessi di solidarietà ed
uguaglianza), ma la circostanza, unanimemente condivisa, che gli
effetti economico-sostanziali dei comportamenti dei privati, stiano
alla base di tale giudizio di valore, il quale assicura una
giustificazione costituzionale del prelievo, non può far dimenticare
che la stessa Costituzione ha assegnato al legislatore ordinario il
compito di dare attuazione al citato principio, e quest’ultimo, per
innegabili esigenze di oggettività e certezza del diritto, ha optato per
l’individuazione delle fattispecie da sottoporre a tassazione
attraverso la mediazione di quelli che sono gli aspetti giuridicoformali degli atti posti in essere anziché assumere a presupposto
293
Da un’accezione astratta e tipica della causa contrattuale si è passati
all’individuazione in chiave di ‘ragione concreta del contratto’, di ‘funzione
economico-individuale’, ovvero di ‘sintesi degli effetti giuridici essenziali’.
172
dell’imposizione
direttamente
le
manifestazioni
di
capacità
contributiva in termini di effetti economico-sostanziali degli atti
stessi.
Nella determinazione del reddito d’impresa, le disposizioni
civilistiche costituiscono la base di partenza, mentre le norme
tributarie hanno lo scopo di limitare la discrezionalità del
contribuente, fissando parametri oggettivi294, inserendo delle
qualificazioni ‘presuntive295’.
Volendo ulteriormente rimarcare il rapporto di dipendenza
esistente tra il reddito d’impresa (fiscalmente rilevante) e le
risultanze del conto economico (civilistico), una lettura “a contrario”
dell’articolo 52 del Tuir, evidenzia il principio per cui se non c’è una
norma tributaria che espressamente regoli una data fattispecie
derogando alla sua regolamentazione civilistica, allora la sua
rappresentazione contabile conforme al dettato del codice civile e
delle scienze aziendalistiche, funge da criterio-guida anche per la
sua considerazione ai fini della determinazione del reddito
(d’impresa) imponibile.
294
Si pensi alle disposizioni sull’ammortamento dei beni, l’applicazione del principio
civilistico dell’iscrizione dei beni la cui utilità è limitata nel tempo, al valore
corrispondente alla residua possibilità di utilizzazione, non sarebbe agevolmente
verificabile e sarebbe fonte di incertezze anche per lo stesso contribuente che sarebbe
sempre esposto a possibili contestazioni del fisco, pertanto il legislatore tributario ha
adottato il metodo imperniato sull’applicazione di precisi coefficienti, con possibilità
comunque di derogarvi in casi e in misura limitata. Stesso dicasi per la valutazione dei
crediti verso la clientela, il valore di presumibile realizzo non può essere accolto in
diritto tributario, per cui è stato prescelto il metodo di iscrizione al valore nominale,
con possibilità di procedere alla loro svalutazione ‘forfetaria’, indipendente da effettive
difficoltà nella riscossione, e al loro definitivo stralcio, in caso di impossibilità
d’incasso, da provare documentalmente.
295
Ad esempio, in materia di Iva e imposte dirette, nelle vendite con riserva di
proprietà, non si tiene conto della riserva, così come le locazioni con clausola di
trasferimento vincolante per ambedue le parti, si considerano come cessioni di beni.
173
Una
ulteriore
conferma
della
correttezza
di
questa
impostazione, può desumersi dalla centralità, attribuita dal
legislatore della riforma tributaria296, alla rappresentazione dei fatti
di gestione nelle scritture contabili, nonché la loro intrinseca
attendibilità in vista di finalità che riguardano la correttezza delle
informazioni relative all’attività gestoria per assicurare il rispetto dei
diritti dei terzi. Ebbene le disposizioni specificamente tributarie,
deroganti o quantomeno specificanti quelle civilistiche, secondo
questo modo di intendere, possono considerarsi come regolatrici di
quei casi in cui ‘terzo’ è l’Erario.
§3.2) Qualificazione e riqualificazione negoziale:
differenze
concettuali
e
relativi
poteri
dell’Amministrazione finanziaria.
Per
chiarire
quale
sia
il
preciso
ruolo
dell’attività
qualificatoria, possiamo asserire che essa funge da trait d’union fra
l’atto di autonomia privata e l’intero ordinamento giuridico, in modo
da attribuire all’operazione economica voluta dai privati, quelle
conseguenze giuridiche contemplate nel complesso normativo
approntato dal legislatore per la regolamentazione della fattispecie.
Ed è appunto tramite la qualificazione che viene attuato quel
processo di verifica di identità-differenza, dell’atto compiuto e della
fattispecie contemplata dalla norma tributaria297.
296
Cfr. art. 10, II° c. n. 4, legge 09/10/1971, n. 825.
297
Cfr. Carresi, “Accertamento e interpretazione del contratto”, in Diritto e impresa,
1989, pag. 928, afferma infatti che così come le parti sono sovrane nello stabilire in
quale modo vogliono regolare i loro interessi, così l’ordinamento è sovrano nel
ricollegare ai regolamenti di privati interessi gli effetti giuridici che reputa più
opportuni.
174
Attraverso la qualificazione giuridica, in altre parole,
estrapolata da un testo negoziale la volontà delle parti, questa è stata
collocata secondo l’istituto cui erano direttamente riconducibili
quegli stessi accordi. Preme inoltre sottolineare che la scelta di
utilizzare il termine “qualificazione”, anziché “riqualificazione”, non
è
solamente
terminologica,
si
è
infatti
dato
preferenza
all’orientamento della dottrina che ritiene che le parti contraenti, non
procedono alla sua qualificazione (da cui la successiva operazione
compiuta dal Fisco o dai giudici sarebbe una “riqualificazione”), ma
semplicemente gli attribuiscono una denominazione che può non
rappresentare l’esatta natura giuridica della volontà estrinsecata nel
negozio stesso.
Nel suo ruolo di tutore degli interessi erariali, appare dunque
doveroso attribuire all’Amministrazione finanziaria la possibilità di
operare siffatta qualificazione prescindendo anche dal nomen juris
attribuito dalle parti stesse, poiché se così non fosse, la varietà e
tassatività dei regimi imponibili si presterebbe a facili distorsioni
attraverso un utilizzo disinvolto e ‘malizioso’ dell’autonomia
negoziale, ma è altrettanto obbligatorio che a tale potere vengano
apposti dei limiti. Ciononostante si è riscontrata la tendenza
dell’organo amministrativo verso una qualificazione dei negozi tale
da agganciare l’accordo privato alla fattispecie fiscalmente più
onerosa, facendo perdere all’accordo stesso le peculiarità sue proprie
quale necessaria rappresentazione formale della volontà negoziale,
unico e solo punto di riferimento dell’attività ermeneutica e di
conseguente
imposizione,
esercitabile
dall’Amministrazione
finanziaria al di fuori di quelle fattispecie, positivamente e
tassativamente individuate, nelle quali lo stesso legislatore le
concede
ulteriori
mezzi,
approntando
175
comunque
particolari
procedure e limiti affinché si possa ancora parlare di discrezionalità
(vincolata) e non di arbitrio, garantendo la tutela del contribuente
attraverso la possibilità di fornire la prova contraria e di richiedere
l’interpello preventivo.
Ad esempio, nel caso del lease-back298, l’impostazione del
Secit mirava a disconoscere che nell’accordo concluso dalle parti si
verificasse una vendita, qualificandola ‘dazione a garanzia’ e così il
corrispettivo dei canoni come rata di mutuo. Ed è in questo che le
censure della dottrina e della giurisprudenza coglievano nel segno,
avendo il fisco ‘stravolto’ la volontà negoziale.
Per riepilogare brevemente con altro esempio, gli organi
ispettivi, di fronte ad un accordo denominato dalle parti ‘comodato’,
ravvisandovi, nella concatenazione del complesso delle clausole in
esso racchiuso, la corresponsione di un canone, hanno il poteredovere di superare la denominazione di parte, applicando alla
fattispecie il regime della locazione, ma non possono andare aldilà
od all’esterno della volontà negoziale esplicitata, correttamente o
meno, nell’accordo.
Naturalmente questo non significa che l’ufficio accertatore,
nell’analisi dei singoli negozi non possa rinvenire elementi di nullità
o intenti fraudolenti, ma queste circostanze devono essere provate
nelle singole fattispecie sulla base di fatti certi e non con
affermazioni aprioristiche, fondate cioè su principi che essa stessa ha
elaborato ovvero, innegabilmente esistenti, ha presunto di poter
applicare a difesa dei propri interessi, rammentando che l’organo
amministrativo è terzo interessato nel negozio privato, per cui gli è
inibito un tale potere, la cui competenza è del giudice ordinario. In
ciò può infatti cogliersi una differenza fondamentale tra
298
Sul quale più diffusamente infra II.1.ii).
176
l’interpretazione ‘civilistica’ e quella ‘fiscale’ del negozio giuridico,
perché mentre la prima si caratterizza per la neutralità dell’autorità
giudiziaria istituzionalmente deputata a dirimere le controversie,
nella seconda vi è la mediazione giuridico-formale del presupposto
d’imposta, risolvendosi il compito dell’autorità fiscale nell’obbligo
di accertare l’obbligazione tributaria corrispondente alla capacità
contributiva espressa nell’accordo, e tale relazione è individuata
positivamente dalla regola contenuta nella disposizione tributaria
sostanziale.
Per rendere ancora più evidente la correttezza di queste ultime
affermazioni, si può, generalizzando ed estremizzando la questione,
pensare ai contratti stipulati dalla Pubblica amministrazione, ed ai
pericoli insiti nella eventuale attribuzione a questa del potere di
interpretare autoritativamente il contratto. In tali ipotesi, l’interesse
pubblico viene già assicurato attraverso la particolare disciplina, in
parte derogatoria di quella ordinaria civilistica, che consente
all’Amministrazione-parte l’esercizio di particolari poteri. Ma anche
in questi casi, tra l’altro individuati positivamente, l’interpretazione
della parte pubblica, in ipotesi di conflitto con la parte privata, non
potrà autoritativamente essere imposta, e per la soluzione della
controversia si renderà comunque necessaria l’adizione del giudice
ordinario.
A chi volesse ancora sostenere la possibilità di espandere la
portata dell’art. 20 del DPR 131/86 all’accertamento delle imposte
sui redditi, si potrebbe agevolmente obiettare con due fondamentali
aspetti di tale disposizione che si ritiene di condividere, anzitutto il
fatto che, in modo coerente con la logica ed il funzionamento
dell’imposta di registro, essa mira a sottolineare il presupposto
formale, l’atto giuridico sottoposto a tassazione, ancorando il
177
prelievo ai termini giuridici e non a quelli economici299. In secondo
luogo, la giurisprudenza della Suprema Corte ha espressamente
statuito che “...l’atto deve essere tassato in base alla sua intrinseca
natura ed agli effetti (ancorché non corrispondenti al titolo ed alla
forma apparente) da individuare attraverso l’interpretazione dei
patti negoziali, secondo le regole generali di ermeneutica, con
esclusione degli elementi desumibili aliunde300.”
Quindi anche nell’ambito della stessa imposta per la quale è
stato previsto, lo strumento di cui alla norma in commento soffre di
una limitazione che impedisce all’ufficio del Registro di procedere a
qualificare il negozio sulla base del comportamento complessivo
delle parti, anche posteriore alla conclusione dello stesso, dovendosi
limitare all’esame delle clausole dei negozi sottoposti a tassazione.
L’inapplicabilità dell’istituto de quo, potrebbe fornire
l’argomentazione anche per sostenere che, al di fuori dell’ambito
dell’imposta di registro, gli elementi extratestuali potranno essere
utilizzati, ricorrendone i presupposti di gravità, precisione e
concordanza, quali elementi presuntivi per l’attività di accertamento
di cui agli artt. 39301 del DPR 600/73 per le imposte dirette e 54 del
DPR 633/72 per l’IVA.
Infine, e correttamente, è stato messo in evidenza da attenta
dottrina come sia diverso l’ambito applicativo dell’art. 20 citato
rispetto a quello dell’art. 1362 cod. civ.. Per quest’ultimo infatti
occorre ricercare l’effettiva intenzione delle parti, senza limitarsi al
299
Significativa in tal senso la circostanza che nel testo vigente è stato espressamente
escluso l’originario riferimento agli effetti economici delle pattuizioni negoziali.
300
Cass. 06/05/1991, n. 4994. Nello stesso senso anche, Cass. 09/05/1997, n. 4064.
301
Nei casi di cui al comma 2 possono essere utilizzate presunzioni prive di tali
caratteristiche.
178
senso letterale delle parole, invece nell’imposta di registro i contratti
vanno considerati per gli effetti giuridici che sono idonei a produrre
potenzialmente, anche se essi non sono voluti dalle parti, purché
siano riconducibili allo schema negoziale astratto, in cui le parti si
sono uniformate302.
§3.3) L’interpretazione del contratto nel diritto
civile.
Diversità delle finalità e dell’ambito all’interno del
quale si muove l’analoga attività in sede tributaria
e limiti alla qualificazione negoziale.
L’interpretazione ‘civilistica’ dei contratti, trae la sua fonte
normativa dalle disposizioni contenute negli articoli da 1362 a 1371
del codice civile, applicabili, per l’espresso rinvio operato dall’art.
1324 anche agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto
patrimoniale.
È stato già parzialmente anticipato nel precedente paragrafo
che il procedimento dell’interpretazione inizia con l’accertamento,
per mezzo di prove, degli elementi di fatto, ovvero ciò che è o non è
accaduto, ciò che è o non è vero. La fase successiva riguarda la
determinazione dell’effettivo contenuto come atto di volontà,
interpretando cioè gli elementi di fatto precedentemente provati.
Infine, il fatto, la cui esistenza e veridicità è stata provata, ed il cui
302
Cfr. D’Amati, “Rilevanza e vizi degli atti ai fini dell’imposta di registro”, secondo il
quale: “la mancata coincidenza tra l’art. 1362 del codice civile e l’art. 20 del testo
unico (Dpr 131/86), dunque, trova fondamento nei diversi limiti dell’indagine. Infatti,
secondo la disposizione civilistica, l’interpretazione investe il comportamento
antecedente e successivo alla conclusione del contratto. La norma della legge sul
registro, invece, permette di interpretare l’atto in riferimento alla sua intrinseca natura
e agli effetti giuridici.
179
significato accertato, deve trovare collocazione nel sistema del
diritto positivo, attraverso appunto la qualificazione giuridica di
esso, fase quest’ultima sottratta all’autonomia privata, per questo
motivo si dice che l’interprete non è vincolato dal nomen juris dato
dalle parti all’accordo.
Occupandoci della interpretazione ‘legale’, condotta secondo i
criteri dalla legge stabiliti, la norma fondamentale, l’art. 1362 cod.
civ., sottolinea la necessità di non limitarsi al senso letterale delle
parole. Deve evitarsi l’equivoco di interpretare questo criterio alla
stregua dell’art. 12 delle disp. preliminari, a motivo della differenza
di oggetto dell’attività ermeneutica e di fine della stessa.
Nell’interpretazione di una norma, la necessità di andare oltre
il significato delle parole discende direttamente dalla circostanza che
essa deve trovare collocazione sistematica all’interno di un
ordinamento fatto di altre norme e anche principi, con i quali si deve
fondere in maniera armonica, con il corollario che, un mutamento di
essi può far cambiare anche drasticamente303 la stessa disposizione
benché immutata nel testo (interpretazione sistematica ed
interpretazione evolutiva).
Nell’attività
negoziale
invece,
l’interprete
non
mira
direttamente a determinare il significato delle parole usate, benché si
avvalga di esse per ricercare l’effettiva volontà, pertanto non è
vincolato dalla formula usata che rappresenta quindi solo il mezzo
attraverso il quale le parti hanno inteso esprimere la volontà
negoziale, ben potendo questa “formula”, essere stata utilizzata in
modo maldestro, più o meno maliziosamente. Per ‘volontà’ non deve
restrittivamente intendersi l’intenzione o scopo intimamente
perseguito dall’uno o dall’altro contraente, ma il ‘voluto’ così come
303
Fino alla sostanziale abrogazione (implicita) per desuetudine.
180
tradotto dall’accordo palesato. Si darà allora prevalente rilevanza
all’affidamento, partendo dal comportamento esteriore ed anche
posteriore delle parti, dovendosi giungere al punto di intersezione
delle loro volontà inerenti la disposizione dei propri diritti quali
potevano apparire alle stesse dal reciproco comportamento. In
quest’ottica, in altre parole, si darà prevalenza alla ricerca del senso
che la parte poteva ragionevolmente aspettarsi
di fronte alla
dichiarazione ed al comportamento dell’altra.
Quanto detto risulta intuitivamente, ove si consideri che
l’oggetto della ricerca interpretativa del giudice, il quale deve
risolvere un concreto dubbio interpretativo sulle formule usate o sul
contegno tenuto, è proprio l’interpretazione della parte. Si
comprende così anche l’impossibilità di applicare l’analogia e
l’interpretazione evolutiva.
Individuati a grandi linee i criteri di interpretazione, piuttosto
ampi, del negozio giuridico ai fini civilistici, resta da stabilire se essi
possano essere integralmente recepiti dall’interprete ‘fiscale’. Una
prima osservazione è che tali principi esprimono delle nozioni di
diritto comune, e come tali applicabili anche in campo tributario. Le
finalità ed il contesto all’interno del quale si estrinseca
“l’interpretazione fiscale” però, sono profondamente diverse da
quelle che caratterizzano il sistema civile, la prima essendo diretta
all’accertamento dell’obbligazione tributaria corrispondente alla
capacità contributiva espressa dall’accordo.
Altri elementi depongono a favore della necessità di limitare
la discrezionalità ermeneutica in campo fiscale evidenziando altresì i
pericoli insiti in un’accezione contraria.
Anzitutto la posizione super partes del giudice civile, e quella
invece di terzo interessato (e portatore di interessi contrastanti)
181
dell’Amministrazione finanziaria, inoltre la circostanza che il
procedimento interpretativo contiene in sé un accertamento di
fatto304 implicante una valutazione legittimamente suscettibile di una
conclusione non univoca, è poi pacifico che la discrezionalità
amministrativa sia caratterizzata dalla possibilità che l’organo
amministrativo possa compiere delle valutazioni e quindi delle scelte
motivate da giudizi di opportunità, ma tale discrezionalità non si
esprime solo a livello decisionale, essendo ipotizzabili funzioni
vincolate in relazione all’atto finale che esprime la scelta, ma
discrezionali per quanto riguarda l’individuazione dei presupposti
della stessa305, sembra allora opportuno ribadire che la vincolatività
dell’attività di accertamento delle imposte non vada ricercata solo
nell’ovvia impossibilità che gli uffici emettano giudizi di
opportunità, ma anche nel conseguente compito del legislatore di
predisporre procedimenti interpretativi legali tali da garantire la
(tendenzialmente) assoluta univocità dei fatti da accertare. Prova
decisiva
al
riguardo,
nell’ordinamento
è
tributario,
fornita
di
dalla
norme
stessa
che,
presenza,
attribuendo
espressamente speciali poteri accertativi (ed interpretativi in deroga
quindi a quanto prima detto) che consentono il superamento delle
strutture formali private, implicitamente restringono l’ambito di
quelli ‘ordinari’.
Dunque, per ricapitolare brevemente, l’Amministrazione
finanziaria non può, di fronte ad una presunta discordanza tra forma
e sostanza negoziale, procedere ad una ‘qualificazione’ in via
304
Infatti, l’interpretazione del contratto quale giudizio di fatto è censurabile in sede di
legittimità solo per errata applicazione delle norme che la disciplinano, artt. 1362 e ss.
cod. civ.
305
In tal senso, Piras, “Discrezionalità amministrativa”, in Enc. Giur., 1990, XIII,
1964, 87 e ss..
182
interpretativa, mentre potrà esercitare la propria attività di
accertamento su base presuntiva (o perfino indiziaria ex art. 39 II°c.
DPR 600/73) qualora ne ricorrano i presupposti di legge e,
nell’ambito di tale procedimento, sottoporre a tassazione la concreta
sostanza dell’affare. In questa stessa direzione la recente
giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale, nella sentenza n.
12794,
del
04/06/2001,
ribadendo
l’orientamento
espresso
precedentemente con le sentenze 09/05/1997, n. 4064 e 28/07/2000,
n. 9944, ha escluso che, “...in mancanza di una norma che tale
possibilità specificamente prevedano, l’Amministrazione finanziaria
possa determinare la natura di un contratto prescindendo dalla
volontà concretamente manifestata dalle parti e magari in contrasto
con essa.”.
§3.4) Il collegamento negoziale come strumento
elusivo e i poteri interpretativi del Fisco come
mezzo per contrastarlo.
Occorre infine fare un passo avanti per dare conto delle
possibilità e dei limiti che l’Amministrazione finanziaria incontra
nell’interpretazione non di un singolo accordo, bensì di un
complesso negoziale nel quale, il raggiungimento di un fine unitario,
viene perseguito attraverso una pluralità di atti, fatti o negozi
ovvero, per dirla con altri termini, quali presupposti devono
verificarsi affinché, nell’ambito dell’attività interpretativa da parte
dell’organo amministrativo, questi possa ricondurre ad unità, in
quanto considerati teleologicamente collegati, più attività negoziali e
non.
183
È chiaro il riferimento al ‘disegno elusivo’ di cui all’art. 37bis ed all’inciso ivi contenuto degli ‘atti, fatti e negozi, anche
collegati tra loro...’. Con tale inciso il legislatore ha volutamente
attribuito all’Amministrazione finanziaria la possibilità di ricercare
la causa originaria, per qualificarla eventualmente elusiva, di una
concatenazione causale di eventi, da cui siano scaturiti i supposti
vantaggi tributari. Questi ultimi potranno essere infine qualificati
indebiti, e pertanto disconosciuti, allorché detta concatenazione
venga ritenuta anormale in vista del raggiungimento del risultato
economico palesato, e qualora essa difetti di alcuna plausibile
ragione che non sia esclusivamente quella di conseguire per il suo
tramite un certo vantaggio306tributario, o infine quando possa
rilevarsi una interdipendenza funzionale delle singole operazioni
che, poste in essere in apparente casualità ed autonomia, nella realtà
perseguono un fine unitario.
Quanto detto, se appare corretto visto in riferimento ad una
norma antielusiva come l’art. 37-bis, non può, al di fuori di essa,
assurgere a criterio generale di interpretazione utilizzabile in sede di
accertamento delle imposte in un ordinamento tributario come il
nostro, nel quale abbiamo già detto non trova dimora il principio di
prevalenza della sostanza sulla forma. Numerosi sono invece gli
esempi di tentativi in tale direzione esperiti da zelanti verificatori
delle fiamme gialle o degli uffici fiscali.
In uno di essi307, l’ufficio tributario, pretendeva di ricondurre
ad unità una complessa operazione di leasing nella quale l’ordinaria
prestazione del concedente era stata ripartita in due distinti contratti,
306
Cfr. Falsitta, Manuale..., op. cit. pagg. 181 e ss.
307
È il caso esaminato in Cass. sez. I, sent. N. 5935 del 03/03/99.
184
in base ai quali la società di leasing concedeva al proprio cliente il
bene-automobile, e la società finanziaria (appartenente allo stesso
gruppo) provvedeva, oltre all’assicurazione del bene per rischi
diversi dalla responsabilità civile, a garantire (per un corrispettivo
diverso da quello dell’assicurazione,
pagato anticipatamente
dall’utilizzatore al momento della stipula del contratto di leasing)
l’adempimento degli obblighi dell’utilizzatore verso la concedente,
mediante una cauzione pari al costo del bene eccedente i canoni
anticipati e con una fideiussione illimitata.
L’Amministrazione finanziaria nella fase contenziosa ha
sostenuto che:
-
per qualificare un contratto, occorre accertare quale
interesse esso è concretamente volto a realizzare,
cosicché non basta verificare se lo schema usato dalle
parti sia compatibile con uno dei modelli contrattuali,
ma
occorre
ricercare
il
significato
pratico
dell’operazione con riguardo a tutte le finalità che, sia
pure tacitamente, il contratto è diretto a realizzare;
-
le varie obbligazioni nascevano da un unico contratto
di leasing, e non poteva accettarsi che l’attività delle
parti fosse riconducibile invece ad una serie di
contratti autonomi giustificandola con l’autonomia
delle parti nel compiere tali attività, risultando in
pratica
le
parti
coinvolte
in
un
meccanismo
contrattuale di obbligazioni reciproche che si attivava
in occasione dell’unica manifestazione di autonomia
contrattuale ipotizzabile, cioè la conclusione del
contratto di leasing tra concedente ed utilizzatore.
185
A queste argomentazioni la Suprema Corte ha ribattuto, per
quanto in questa sede conferente308:
-
che ogni utilizzatore stipulava due distinti contratti
aventi ciascuno una propria individualità ed una
propria causa, pertanto doveva ritenersi che, avendo le
parti regolato univocamente il proprio assetto di
interessi attraverso distinti ed autonomi contratti fra
loro
teleologicamente
collegati,
il
vincolo
di
collegamento non valeva a sottrarre ciascun contratto
al
proprio
regime
giuridico
e
fiscale.
Una
(ri)qualificazione di essi come contratto unitario
(misto
o
complesso)
era
dunque
palesemente
contrastante con la comune intenzione delle parti;
-
che a tale scopo non può neppure addursi la
circostanza
che
complessivamente
l’operazione
realizzata
economica
dalle
parti
fosse
equivalente a quella sottesa ad un normale contratto di
leasing, perché il principio di autonomia contrattuale
enunciato dall’art. 1322 cod. civ. consente alle parti di
scomporre in più contratti funzionalmente collegati
un’operazione economica conseguibile mediante un
unico contratto;
-
che non è altresì consentito all’Amministrazione
finanziaria, di prescindere dallo schema negoziale
validamente
scelto
dalle
parti
e
dalla
sua
configurazione giuridica civilistica e ricondurre la
308
A prescindere cioè dalla sussistenza di motivazioni economico-organizzative
comunque affermate nella sentenza.
186
fattispecie concreta ad altra fiscalmente più onerosa in
base ad un’ottica meramente economica;
-
che
solo
eccezionalmente
tassativamente
consente
indicate,
la
e
per
normativa
all’Amministrazione
operazioni
tributaria
finanziaria
di
disconoscere i vantaggi tributari conseguiti in
determinate operazioni, ma solo se queste, in aggiunta,
rispettano le ulteriori condizioni di applicabilità dalle
stesse norme enunciati.
Una fattispecie che si è trovata spesso ad essere oggetto di
sindacato da parte degli organi accertatori, è quella relativa a
plurime e successive cessioni di beni aziendali, riqualificate ai fini
tributari quale unitaria cessione di azienda. Nonostante si tratti di
una questione che non tocca problematiche legate all’imposizione
diretta, riguardando infatti l’imposta di registro e l’Iva, le sentenze
di legittimità che le riguardano sono comunque significative ai fini
della presente indagine, consentendo di trarre dei principi generali
statuiti dalla Suprema Corte309, ed in quanto tali validamente
utilizzabili anche oltre i confini del singolo caso.
L’orientamento della Cassazione può dirsi consolidato, nella
direzione che il potere di qualificare un contratto non sia affatto
precluso all’Amministrazione finanziaria. Sul punto è stato
autorevolmente osservato in dottrina310 che “l’unico strumento
attraverso il quale l’amministrazione può pervenire ad una
riqualificazione del fatto o negozio elusivo, indipendentemente dalla
309
Cass. sez. I, sent. n. 4319 del 28/04/1998.
310
Fantozzi, “Diritto tributario”, op. cit. pag. 188.
187
sua previa invalidazione sul piano sostanziale, è costituito... – in
assenza o indipendentemente dalla previsione di specifiche clausole
antielusive – da una interpretazione logica della norma che dia
adeguato rilievo alla sostanza economica della fattispecie,
all’interesse del Fisco a scoraggiare l’elusione ed in definitiva ad
una realizzazione effettiva del principio di capacità contributiva
espresso dalla ratio del tributo.”
Abbiamo però più volte evidenziato, che l’unica norma
dell’ordinamento che conferisce all’Amministrazione finanziaria un
potere interpretativo di tale ampiezza è l’art. 20 del DPR 131/86 che,
per la stessa dottrina ha una portata limitata all’interpretazione degli
atti soggetti a registrazione, non riguardando quindi l’interpretazione
della norma tributaria, la quale si ripete, non si sottrae agli ordinari
criteri ermeneutici.
In altre parole, può affermarsi il principio per cui
l’Amministrazione finanziaria ha il potere di individuare gli effetti
degli atti negoziali dei contribuenti, anche prescindendo dalla
volontà delle parti, ma tale potere trova un insuperabile limite nella
stessa norma di legge che lo conferisce, se si concorda come me, con
chi ha affermato che “...la regola dell’art. 20 è, per così dire, a
fattispecie esclusiva perché applicabile solo all’imposta di registro e
non pure per le imposte sui redditi e l’Iva.311”.
L’importanza di un corretto utilizzo del criterio del
collegamento negoziale ai fini dell’interpretazione complessiva di un
rapporto negoziale del quale occorra valutarne le eventuali
potenzialità elusive, è posto adeguatamente in evidenza da alcune
recenti risoluzioni ministeriali emesse a seguito della procedura di
311
Così Nuzzo, “Lease-back, elusione, poteri degli organi ispettivi.”, in Rass. trib.
12/1990, pagg. 801 e ss..
188
interpello preventivo. Si è infatti constatato dalle risposte
dell’Agenzia delle Entrate, che spesso, qualificata una fattispecie
come non elusiva, la sua regolarità viene comunque ad essere in un
certo senso condizionata da particolari ed ulteriori tipologie di
operazioni, le quali, se poste in essere a monte o a valle della
fattispecie descritta nell’istanza, farebbero transitare la stessa tra
quelle suscettibili di contestazione in sede di accertamento tributario.
Ad esempio, la Ris. Min. n. 28 del 30/01/2002312, ha giudicato
non elusiva una operazione di scissione parziale e proporzionale di
una società preesistente in una società beneficiaria di nuova
costituzione alla quale sarebbero stati assegnati beni immobili,
strumentali all’esercizio dell’attività dell’impresa della società
scissa, e successiva stipulazione di un contratto di locazione, a
prezzi di mercato, avente per oggetto i medesimi beni immobili, tra
società scissa e società beneficiaria. Nella pronuncia ministeriale, si
legge però che “... nel caso in cui i soci della società istante
dovessero cedere, a qualsiasi titolo, il controllo della società scissa
a terzi, anziché limitarsi alla stipulazione di accordi di joint venture,
e, successivamente, i nuovi soci dovessero per qualsiasi ragione
risolvere il contratto di locazione con la società beneficiaria
facendo assumere alla stessa natura di mera società ‘contenitore’,
la serie di operazioni poste in essere sarebbe preordinata a svuotare
più che ad alleggerire la società istante dei beni immobili, prima
della cessione del controllo, usufruendo indebitamente del regime di
neutralità d’imposta tipico della scissione.”
Situazioni analoghe si riscontrano soprattutto in quei
numerosi casi sottoposti all’interpello preventivo, nei quali potrebbe
312
Tratta
dalla
banca
dati
‘Documentazione
http://www.finanze.it/
189
tributaria’,
presso
il
sito
rinvenirsi l’espediente di trasformare le plusvalenze sui singoli beni
(o talvolta i ricavi), in plusvalenze su partecipazioni attraverso la
cessione di azioni o quote di società alle quali si erano
precedentemente assegnati determinati beni, solitamente immobili. È
stato più volte ribadito che, per la correttezza dell’operazione
complessa, assumono particolare rilevanza i tempi e le condizioni
della stessa, affinché possa essere escluso che nella fattispecie
concreta sottoposta a parere, possa ravvisarsi l’intento (elusivo) di
creare una società ‘contenitore’ attraverso la quale trasformare i beni
in beni di secondo grado, in vista di una cessione. La qualificazione
dell’operazione come elusiva viene anche in questo caso a dipendere
dal comportamento successivo delle parti313.
§4)
La
qualificazione
“amministrativa”
del
presupposto: aspetti critici di un potere limitativo
dell’autonomia negoziale delle parti.
Il caso del lease-back.
Il (nuovo) ruolo dell’Amministrazione finanziaria nell’ambito
della normativa antielusione disegnata dall’art. 37-bis, è, come detto
in precedenza, quello di procedere, oltre alla ‘distruzione’ (ai fini
fiscali) dell’impianto negoziale posto in essere dai soggetti agenti,
quello di effettuare una vera e propria ‘qualificazione’ giuridica
onde individuare la norma elusa, in modo da poter correttamente
313
Per la rilevanza dei comportamenti ulteriori, prodromici o successivi, in ordine alla
qualificazione elusiva o meno di una operazione vedasi ad esempio le risoluzioni
ministeriali nn. 183 del 14/11/2001; 53 del 21/02/2002 e 224 del 09/07/2002, in banca
dati dell’Agenzia, http://www.finanze.it/ , documentazione tributaria.
190
calcolare (per differenza) quel risparmio d’imposta ritenuto indebito
del quale richiedere il pagamento314.
Accertata la sussistenza di un potere (rectius dovere) in tal
senso nell’ambito delle operazioni censurabili in base alla citata
norma, ci si può interrogare sulla legittimità di un suo utilizzo anche
in casi estranei ad essa. In effetti gli organi ispettivi, sia prima che
dopo l’introduzione della disposizione più volte citata, hanno tentato
la via (impervia) della ‘qualificazione’ negoziale a fini fiscali. I
tentativi fatti, naufragati in sede contenziosa, hanno talvolta
evidenziato la assoluta pretestuosità delle contestazioni sollevate,
ovvero, nella migliore delle ipotesi, posto in luce effettive lacune
nella scrittura delle norme stimolandone la correzione, il tutto però
accompagnato da costi enormi in termini sia di spese (per gli
accertamenti ed il contenzioso), sia per la perdita di certezza
dell’imposizione e di immagine della stessa Amministrazione
finanziaria, e, importante conseguenza, senza essere riusciti ad
evitare l’emorragia di gettito nel frattempo concretizzatasi, a parte i
(pochi) casi nei quali la certezza di subire contestazioni da parte
degli uffici fiscali ha inibito qualche operatore economico dal
compiere quel tipo di operazioni.
Il più delle volte le pretese dell’organo tributario non si
incentravano ‘direttamente’ ed esplicitamente sull’affermazione e
quindi l’esercizio del potere di qualificare i negozi ovvero di
accertare essa stessa cause civilistiche di invalidità degli atti, benché
nelle proprie affermazioni si rinvenissero ‘in ordine sparso’
argomentazioni tipicamente utilizzate nei diversi e inconciliabili
314
Art. 37-bis, II° comma DPR 600/73: L’amministrazione finanziaria disconosce i
vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti e i negozi di cui al comma 1,
applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte
dovute per effetto del comportamento inopponibile all’amministrazione.
191
contesti ‘civilistici’, a sostegno di tali tesi, e questo lo si desumeva
dalle motivazioni di avvisi di accertamento (spesso clamorosi, per le
somme in gioco e per la notorietà dei soggetti interessati), talvolta
corroborate da alcune sentenze emesse da quelle Commissioni
tributarie formate spesso da giudici privi della necessaria
preparazione nella specifica materia non dedicandosi ad essa a
tempo pieno, preoccupati più del danno patito dall’Erario (benché
fosse talvolta innegabile e molto evidente), che della ricerca di
fondamenti giuridici alle loro decisioni.
La dottrina che si è occupata dell’elusione, sempre molto
restia
nell’attribuire
poteri
estremamente
penetranti
all’Amministrazione finanziaria, quali quelli connessi ad un
autonomo
potere
reinterpretativo/qualificatorio
del
negozio
giuridico, ha talvolta preso in considerazione questa eventualità,
limitandola però attraverso l’abbinamento ad altri strumenti giuridici
presenti nell’ordinamento.
Per
la
verità,
invertendone
l’ordine
logico,
nelle
argomentazioni circa il possibile utilizzo di istituti tipici del diritto
civile per contrastare le pratiche elusive, alcuni autori315 hanno visto
nella qualificazione del negozio a fini fiscali, il ‘completamento’
dell’opera distruttiva del negozio operato dalla norma civile, alla
stregua di quanto detto supra sul 37-bis, sia essa la simulazione o la
frode alla legge, un potere quindi subordinato al preventivo
accertamento giurisdizionale dell’invalidità, con le conseguenze che
essa giuridicamente comporta.
Nel caso ad esempio dell’istituto civilistico del negozio in
frode alla legge, anche la dottrina che si è schierata per un suo
315
Cfr. Pacitto, “Attività negoziale,evasione ed elusione tributaria....”. op. cit., pagg.
730 e ss.
192
possibile utilizzo a fini antielusivi316, ha dovuto riconoscere alcuni
suoi limiti, tra i quali, per quanto qui rilevante, la sua portata
distruttiva dell’intero negozio (rectius contratto) il quale, dichiarato
nullo, sarà improduttivo di effetti erga omnes, ovvero come mai
esistito, in guisa da far riemergere la situazione giuridica
preesistente. Appare quindi evidente, che l’istituto de quo sarebbe
appropriato nei soli casi nei quali lo scopo di eludere l’imposta sia il
solo (od al limite il prevalente), per cui la sua completa rimozione
non avrà, per così dire, ‘effetti collaterali’. Diversamente, nel caso in
cui il contratto regoli altresì interessi meritevoli di tutela, la sua
completa rimozione sarebbe sicuramente eccessiva nei riguardi delle
parti contraenti, ma al tempo stesso insufficiente per l’Erario. Infatti
in casi del genere, che sono tra l’altro la maggioranza, l’efficace ed
efficiente utilizzo di questo mezzo non viene assicurata dalla
semplice rimozione del negozio, ma richiede una sua vera e propria
‘qualificazione’ a fini tributari.
In altre parole, sarebbe in questi casi necessario che l’organo
accertatore possedesse l’autorità di considerare irrilevante ai soli fini
fiscali il negozio elusivo, convertendolo al tempo stesso in un altro il
quale dovrebbe avere gli stessi effetti economici e rientrare nella
fattispecie prevista dalla norma che si è inteso eludere la quale lo
sottopone a tassazione più gravosa. In senso conforme a
quest’ultimo approccio, il giudizio della Cassazione317, molto noto in
dottrina e già precedentemente citato, riguardante una permuta di
immobili con titoli di stato precedentemente donati dallo stesso
proprietario degli immobili, risolto dai giudici di legittimità evitando
316
Cfr. Gallo, “Brevi spunti...”, op. cit., pagg. 11 e ss..
317
Sent. Cass. sez. civ. I, n. 2658, 09/05/1979. Vedasi nota 200.
193
una dichiarazione di nullità318 (del trasferimento immobiliare
effettivamente voluto dalle parti ed espressione di un interesse
innegabilmente
meritevole
sostanzialmente
il
di
procedimento
tutela)
pur
logico,
ed
seguendone
attribuendo
all’Amministrazione finanziaria il potere di sottoporre a tassazione il
negozio (ri)qualificato come donazione immobiliare.
Questa sentenza non solo contraddiceva il precedente
orientamento della stessa Corte, ma inoltre non fornì alcun
fondamento normativo a legittimazione di un siffatto potere e rimase
comunque isolata. La Suprema Corte, molto probabilmente era
partita dall’erroneo convincimento che, nella fattispecie in esame, si
fosse già verificato il presupposto d’imposta, al quale il contribuente
si era sottratto mascherandolo, ma se così fosse saremmo di fronte
ad un fenomeno riconducibile all’evasione e non all’elusione fiscale,
dalla quale quindi i giudici di legittimità non avevano,
nell’occasione, compreso la sostanziale differenza.
A conclusioni non molto differenti sono pervenute sia la
dottrina che la giurisprudenza, per quanto riguarda la simulazione,
come è stato già dedotto in sede di discussione circa la
(im)possibilità di applicare l’art. 37 III° c., per contrastare il
fenomeno del dividend washing. Determinante per la soluzione del
dubbio, la circostanza per cui la norma riguarda le (sole) ipotesi di
interposizione fittizia, che a sua volta presuppone una simulazione
negoziale, che nella fattispecie non veniva integrata, a motivo della
reale volontà delle parti di concludere quel dato negozio con quegli
effetti.
L’Amministrazione finanziaria ha invece evitato il più delle
volte il ricorso diretto agli istituti civilistici appena citati, tentando di
318
L’art. 1344 non viene difatti menzionato nella sentenza.
194
raggiungere risultati ad essi fungibili, con la qualificazione negoziale
a fini fiscali appunto, in tal modo bypassando il ricorso all’autorità
giudiziaria ordinaria.
Mantenendoci entro i confini segnati dall’oggetto del presente
lavoro, i diversi espedienti ideati dagli organi ispettivi per
contrastare i comportamenti elusivi attuati mediante quelle
(presunte) ingegnerie negoziali che consentivano di raggiungere un
fine (palese) lecito, con l’utilizzo ‘anormale’ di strumenti negoziali
di per sé leciti, sono a mio avviso sostanzialmente riconducibili
nell’alveo della ormai risalente e pressoché abbandonata teoria
dell’interpretazione funzionale che ravvisava la possibilità di far
prevalere la reale sostanza economica dell’affare, travalicando la
forma negoziale prescelta dalle parti. Il Secit infatti, ha
reiteratamente tentato di contrastare alcune pratiche (presunte)
elusive, evitando il ricorso all’istituto della simulazione o della frode
alla legge, ma reinterpretando gli accordi raggiunti dalle parti. Gli
esempi
maggiormente
rappresentativi
dell’impostazione
dei
‘superispettori’, trasfusa con solerzia in circolari agli uffici
periferici, sono sicuramente quelli legati alle vicende del dividend
washing e del sale and lease back. Del primo mi sono già occupato,
evidenziando l’impossibilità di procedere alla qualificazione
dell’operazione sia nella sua forma della doppia vendita che
dell’usufrutto, riconoscendo comunque la sua portata evidentemente
elusiva testimoniata anche dal preciso intervento legislativo
correttivo della norma eludibile a tutela degli interessi erariali,
implicitamente
concludendo
che,
benché
fosse
palese,
ed
eventualmente anche esclusivo, l’intento di eludere determinate
disposizioni della legge tributaria e quindi un regime fiscale più
oneroso, per poter procedere ad una qualificazione a fini fiscali del
195
negozio-strumento, occorre una precisa disposizione normativa che
l’autorizzi.
Se nel caso del dividend washing quindi, la reazione degli
ispettori poteva in parte essere giustificata dalla sua reale
potenzialità elusiva, incomprensibile appare l’accanimento contro
l’operazione di lease-back, la quale veniva contestata più per
l’aspetto formale che essa evidenziava che per un effettivo danno
per l’Erario. Infatti, riepilogando brevemente data la notorietà
dell’argomento, i sospetti sorsero inizialmente perché il negozio
(complesso) era a struttura bilaterale, in ciò (solo) differenziandosi
dall’ordinario contratto di leasing, sovrapponendosi le figure
dell’alienante e dell’utilizzatore il bene oggetto del contratto, quasi
sempre un immobile. L’organo amministrativo nonostante avesse
ravvisato in questa differenza una possibile fattispecie simulatoria,
ovvero una elusione del divieto di patto commissorio di cui all’art.
2744 cod. civ., ha ritenuto di poter procedere alla qualificazione del
negozio attraverso la ricerca dell’‘effettivo assetto dei rispettivi
interessi realizzato dalle parti’, in modo da considerare realmente
voluta e quindi sottoporre ad imposizione l’ipotizzata operazione di
mero finanziamento, ed evitando in questo modo il preventivo
accertamento giurisdizionale di nullità.
Il Secit poggiava la sua ‘interpretazione’, sull’assunto che il
titolo di proprietà del bene venisse trasferito al finanziatore
(concedente) a scopo di garanzia, e l’apparente corrispettivo celasse
in realtà l’importo del finanziamento, configurandosi di conseguenza
i canoni pattuiti come rate di mutuo comprensive di quota capitale e
quota interessi. Una volta che, per tale via, veniva escluso il
passaggio di proprietà del bene, in quanto considerato dato in
garanzia, veniva automaticamente meno qualsiasi riferibilità della
196
fattispecie al divieto di patto commissorio. Le conseguenze fiscali
per ambo le parti erano estremamente pesanti, comportando per
l’utilizzatore-concedente la perdita del diritto alla detrazione dell’Iva
assolta sui canoni corrisposti, e l’indebita deduzione dal reddito dei
canoni stessi; specularmente, il concedente-acquirente perdeva il
diritto alla deduzione delle quote di ammortamento del bene oggetto
del leasing e la detrazione dell’Iva assolta sul suo acquisto.
A ben vedere una delle critiche più accanite nei confronti
dell’operato del Secit, poggia proprio sull’aspetto testé descritto.
Non si riusciva in effetti a comprendere dove si celasse il danno per
l’Erario, posto che, nella descritta operazione non si verifica alcun
‘salto d’imposta’ in quanto ciò che era deducibile da una parte era
imponibile come ricavo o plusvalenza dall’altra. È pur vero che il
venditore-utilizzatore, nel caso in cui il costo fiscale del bene fosse
prossimo allo zero, poteva ‘ricominciare’ un processo di deduzione
fondato questa volta sui canoni, ma è altrettanto vero ovviamente,
che ciò implicava la cessione dello stesso ad un prezzo superiore al
valore contabile, realizzando una plusvalenza imponibile pari
esattamente alla differenza. Allo stesso modo, il concedenteacquirente, se da una parte deduceva le quote di ammortamento del
bene, dall’altra assoggettava ad imposizione, iscrivendoli tra i ricavi
di esercizio, i relativi canoni, simmetria divenuta perfetta a seguito
dell’adozione, con la legge finanziaria per il 1996 che ha modificato
l’VIII° comma dell’art. 67 del Tuir, del metodo ‘finanziario’ per la
determinazione degli ammortamenti dei beni concessi in locazione
finanziaria.
Per quanto concerne l’Iva, ritengo superflua qualsiasi
spiegazione sull’assenza assoluta di indebiti vantaggi fiscali,
bastando riferirsi al funzionamento tipico di tale imposta, il solo
197
caso limite nel quale potrebbe ravvisarsi una convenienza fiscale è
quello di una eventuale incidenza (a favore del contribuente)
dell’operazione sul pro-rata di indetraibilità in caso di esercizio
anche di attività dalle quali si originino corrispettivi esenti, ad
esempio su operazioni di finanziamento.
Da altro punto di vista, la tesi del Secit, partendo dal
presupposto (corretto), che il nomen juris attribuito dalle parti
all’operazione negoziale da essi conclusa non fosse vincolante in
termini assoluti, giungeva però a delineare un assetto di interessi che
divergeva non solo nella forma, ma anche nella sostanza, da quello
voluto dalle parti. L’assunto entrava così in aperto e deciso conflitto
con il principio secondo il quale i soggetti, non solo sono liberi di
disporre a loro piacimento della propria sfera giuridico-economica,
ma nell’ambito di questa libertà di fini (riconducibile alla libertà di
iniziativa economica art. 41 Cost.), sono altrettanto liberi di
elaborare ed adottare gli strumenti tecnico-giuridici che ritengano
più efficaci ed efficienti per la realizzazione dei loro interessi anche
al di fuori delle forme tipizzate nel codice civile, ovvero con una
combinazione/concatenazione di strumenti negoziali tipici e/o atipici
(libertà negoziale art. 1322 cod. civ.). Contenuto dell’accordo
negoziale è dunque l’autoregolamentazione dei propri interessi
attraverso la fissazione di un insieme di diritti ed obblighi ai quali le
parti hanno inteso reciprocamente vincolarsi stipulando il negozio.
Di
conseguenza
l’interpretazione
del
negozio, si
concreta
nell’indagine dell’affare concluso, quale forma e fenomeno
giuridico, e non quale sostanza economica costituente il fine che
attraverso il complessivo accordo si è inteso perseguire.
Quanto detto permette di evidenziare l’equivoco di fondo sul
quale l’intera ricostruzione operata poggia, ovvero una confusione di
198
ruoli tra interpretazione del contratto, nel cui ambito deve assegnarsi
preminenza alla ricerca della volontà delle parti, indipendentemente
dal nomen juris da queste indicato, e la qualificazione giuridica
dell’accordo stesso, che è operazione successiva e dipendente dai
risultati della prima.
Altro punto critico della ricostruzione operata dal Secit, è
senza dubbio quello relativo alle supposte differenze tra contratto di
lease-back e leasing ‘classico’. La bilateralità dell’accordo, anche in
questo caso viene sopravvalutata dall’organo ispettivo, secondo il
quale infatti, la circostanza che l’utilizzatore fosse già in possesso
del bene prima della stipula del contratto, avrebbe cambiato
radicalmente la causa sottostante ad esso. Più precisamente, mentre
la causa del finanziamento veniva considerata come tratto comune
delle due figure, discriminante veniva considerato l’oggetto, il quale
nel leasing veniva ravvisato nell’utilitas del bene, nel lease-back
invece proprio nella somma di denaro, essendo il bene strumentale
già nella sua disponibilità.
Nonostante il vuoto normativo che contraddistingue il leasing
finanziario, un orientamento del legislatore può desumersi dal D.L.
03/05/1991, n. 143, che all’11° comma dell’art. 6, ancorché non
convertito nella L. 05/07/1991, n. 197, così definiva il leasing
finanziario, anche nella sua variante del lease-back: “... l’operazione
nella quale il concedente mette a disposizione per un tempo
determinato e verso un corrispettivo periodico un bene strumentale
all’attività dell’utilizzatore, che il concedente fa costruire o acquista
anche dallo stesso utilizzatore, che lo sceglie e ne assume tutti i
199
rischi, anche di deperimento, e che può acquistarne la proprietà alla
scadenza del contratto con il pagamento del prezzo stabilito319”.
Non è questa la sede per approfondire queste tematiche,
inoltre ormai risolte soprattutto grazie alla giurisprudenza della
Suprema
Corte320,
accettate
dalla
stessa
Amministrazione
319
Cfr anche il progetto elaborato dall’ABI nel 1980, che proponeva al legislatore
nazionale utili suggerimenti al fine di superare taluni problemi ed incertezze che
l’adozione del contratto di locazione finanziaria di fatto originava. L’art. 14-bis inoltre,
auspicava che il legislatore disciplinasse il contratto di lease-back attraverso il rinvio
alla regolamentazione proposta in tema di locazione finanziaria.
320
Nel 1991, già le commissioni tributarie avevano rilevato l’erroneità
dell’impostazione ministeriale: Comm. trib. I° Roma, sez. XVIII, 03/06/1991, in Il
fisco, 1991, pagg. 5682 e ss.; Comm. trib. II° Alessandria, 03/07/1991, dec. n. 259, in Il
fisco 1991, pagg. 8282 e ss.; Comm. trib. I° Como, 21/09/1991, in Il fisco, 1991, pagg.
8283 e ss.; Comm. trib. I° Macerata, 12/12/1991, n. 443, in Il fisco 1991, pagg. 6806 e
ss.; Comm. trib. II° Treviso, 30/06/1992, dec. n. 182, in Il fisco 1992, pagg. 11258 e
ss.; Comm. trib. I° Treviso, 07/09/1993, dec. n. 191, in Il fisco, 1993, pagg. 11884 e ss.;
Comm. trib. I° Venezia, sez. V, 29/11/1993, n. 632, in Rass. trib. 10/94, pagg. 1647 e
ss.; Comm. trib. II° Roma, sez. I, 17/01/1996, n. 1034, in Corr. Trib.. 1996, pagg. 1521
e ss.; Comm. trib. I° Venezia, sez. III, 12/02/1994, n. 58, in Rass. trib. 10/94, pag.
1648, con commento di Lupi, “Lease-back, qualcuno ci spieghi dov’è l’elusione”;
Comm. trib. I°, Napoli, sez. XXV, 26/03/1996, dec. n. 232, in Rass. trib. 1996, pagg.
445 e ss. ; Comm. trib. I°, Belluno, sez. VI, 22/08/1995, dec. n. 84, in Rass. trib. 1995,
pagg. 1898 e ss.; Comm. trib. I° Udine, sez. I, 12/07/1995, dec. n. 79 in Boll. Trib.
1996, pagg. 80 e ss. ; Comm. trib. II° Napoli, sez. I, 13/06/1995, decc. nn. 122 e 124, in
Rass. trib. 1996, pagg. 445 e ss.; Comm. trib. I° Sassari, sez. III, 28/12/1993, dec. n.
443, in Boll. Trib. 1994, pagg. 1781 e ss.; Comm. trib. I° Roma, sez. I, 25/01/1993, in
Il fisco, n. 9/93, pagg. 2886 e ss.; Comm. trib. I° Napoli, sez. V, 20/11/1992, dec. 5229;
Comm. trib. I° Napoli, sez. V, 25/09/1992, dec. n. 4994, confermata da Comm. trib. II°
Napoli, sez. XIII, 15/04/1994, dec. n. 37, in Rass. trib. 1996, pagg. 446 e ss.; Comm.
trib. I° Monza, sez. IV, 13/05/1995, dec. n. 2832, in Rass. trib. 1996, pagg. 435 e ss.;
Comm. trib. II° Lecce, sez. III°, 14/04/1995, dec. n. 97, in Boll. Trib. 1995, pagg. 1762
e ss.; Comm. Trib. I° Napoli, sez. XIX, 01/02/1993, dec. n. 2994, confermata da
Comm. trib. II° Napoli, sez. II, 27/02/1995, dec. n. 11, in Rass. trib. 1996, pagg. 440 e
ss.; Comm. Trib. I° Roma, sez. XVIII, 03/06/1991, dec. n. 442, in Boll. Trib. 1992,
pagg. 469 e ss.; Comm. Trib. I° Firenze, sez. III, 25/06/1991, dec. n. 300, in Rass. trib.
1991, pagg. 1360 e ss.; Comm. Trib. I° Firenze, sez. VI, 14/11/1991, dec. n. 287, in
Corr. Trib. 1992, pagg. 2370 e ss.; Comm. trib. Centrale, sez. XXIII, 30/06/1995, dec.
n. 2602, in Boll. Trib. 1995, pagg. 1761 e ss.; Comm. trib. Reg. Piemonte, sez. IV,
06/10/1997, n. 134 ; Comm. trib. Centrale, sez. XXIV, 12/05/1997, dec. n. 3187, in
Giur. It., 1998, pagg. 186 e ss.; Comm. trib. Centrale, sez. V, 17/11/1993, dec. 2312, in
Giur. delle imp. 1994, pagg. 288 e ss.; Comm. trib. Centr., sez. XI, dec. 5338 del
02/07/1999, in Il fisco 1/2000, pagg. 132 e ss.. In seguito numerose sono state le
sentenze della Suprema Corte, tutte nella medesima direzione: Cass. 06/05/1991, n.
4994; Cass. 09/04/1991, n. 3726; Cass. 14/04/1998, n. 3791; Cass. 09/05/1997, n.
4064; Cass. sez. civ. 16/10/1995, n. 10805, in Il corriere giuridico, 1995, pagg. 1360 e
ss.; 07/05/1998, n. 4612; Cass. sez. civ. sez. III, 19/07/1997, n. 6663, in Foro it. 1997,
200
finanziaria321 e (quasi322) mai posta in discussione dalla dottrina,
basti sul punto l’affermazione che nulla porta ad una distinzione di
funzione economica tra le due figure, tanto meno il semplice numero
di parti contraenti, ben potendo altrimenti farsi partecipare
all’accordo un terzo che acquistasse il bene per rivenderlo alla
società di leasing evitando così di integrare la fattispecie del leaseback.
Tutte le contestazioni mosse dal Secit dunque dovrebbero
valere anche nei confronti del leasing ‘ordinario’, ma se il legislatore
tributario ha scelto di agevolare il ricorso a tale strumento
sottoponendolo ad una normativa che lo rendesse al tempo stesso
fungibile al ricorso ‘diretto’ al credito, differenziandolo da questo
dal punto di vista fiscale, ciò significa semplicemente che questi ha
voluto fornire uno strumento che garantisse agli operatori economici
una opzione aggiuntiva, dato che l’assimilazione di esso ad un
mutuo (ipotecario) dal punto di vista tributario, ne avrebbe
ovviamente comportato lo scarso utilizzo, nonostante la crescente
diffusione negli ordinamenti degli altri paesi. Dunque uno strumento
pagg. 3586 e ss.; Cass. sez. trib. 28/07/2000, n. 9944, in Riv. di giur. trib. N. 5/2001,
pagg. 412 e ss.
321
Dopo l’impostazione iniziale del Secit, nella “Relazione al Ministero delle Finanze
sull’attività svolta dal Servizio nell’anno 1988”, e, nella stessa direzione, in quelle del
1989, 1990 e 1992, lo stesso Servizio, con la delibera comitato di coordinamento del
07/06/1999, ha giudicato lecita, sotto il profilo fiscale, l’operazione di lease-back. Già
in precedenza, visto il consolidamento della posizione della Corte di Cassazione,
alcune Direzioni Regionali avevano impartito istruzioni circa l’abbandono delle
controversie in corso sulla materia, vedasi la circolare 98116023 del 21/09/1998 della
Dir. Reg. Piemonte. Dopo la delibera Secit, vedasi la circolare 20/E-42441 del
24/05/2000 della Dir. Reg. delle Entrate della Lombardia.
322
Isolato il sostegno dato alla tesi del Secit da parte di Pacifico, “Il leasing e l’elusione
fiscale”in Il fisco, 1989, pagg. 431 e ss., “Aspetti civilistici del lease-back”, in Riv. it.
del leasing, 1989, pagg. 480 e ss., “Sale and lease-back: i canoni sono deducibili?”, in
Il fisco 1989, pagg. 2385 e ss. Si tenga però in debita considerazione che Pacifico è uno
degli ispettori del Secit che ha contribuito alla posizione ministeriale.
201
ulteriore, in conformità “alle esigenze di efficienza, rafforzamento e
razionalizzazione dell’apparato produttivo323”, rispetto al talvolta
più difficoltoso ricorso agli ordinari canali creditizi. Prova ne è, a
mio avviso, che i vantaggi fiscali non sono assoluti, ma solo
eventuali, cioè valutabili caso per caso dall’operatore economico in
base alle condizioni economico-finanziarie della propria azienda;
ovvero e indipendentemente dalle motivazioni fiscali, può talvolta
essere scelto in virtù di specifiche politiche di bilancio, in quanto
strumento che evita l’appostazione dell’indebitamento “implicito”,
poiché l’operazione viene rilevata tra i conti d’ordine, ed i successivi
movimenti transitano nel conto economico. Proprio questo ulteriore
effetto sulla “rappresentazione veritiera e corretta” nel bilancio
“civilistico”, ha stimolato le pressioni di taluna dottrina, verso
l’abbandono del metodo “patrimoniale”, come sopra succintamente
descritto, per l’adozione del metodo ‘finanziario, secondo il quale i
beni in locazione andrebbero iscritti nel bilancio dell’utilizzatore e
da questi ammortizzati, considerando i canoni come rate di
restituzione di un mutuo con interessi.
Questa impostazione non varrebbe comunque a discriminare
le due diverse tipologie di locazione finanziaria, regolandole invece
entrambe. In conclusione possiamo affermare che, se si verifica un
vantaggio
fiscale,
esso
rientra
nelle
possibilità
previste
dall’ordinamento, traducendosi in un legittimo risparmio d’imposta
frutto della possibilità di scegliere all’interno di più soluzioni
negoziali, quella fiscalmente meno onerosa.
L’esempio di cui sopra permette di trarre delle conclusioni più
generali, alle quali è giunta, oltre alla giurisprudenza citata, anche la
dottrina assolutamente dominante, ovvero l’impossibilità, per gli
323
Cfr. Art. 2, n. 16 della legge delega per la riforma tributaria 825/1971.
202
organi amministrativi, di procedere ad una qualificazione delle
fattispecie contrattuali poste in essere dai privati, ribadendo la
pericolosità di un orientamento contrario, il quale potrebbe essere
esso stesso riqualificato evidenziandone l’aspetto sostanziale, cioè la
sovrapposizione del potere accertativo con quello di enucleazione di
fattispecie imponibili, in dispregio della riserva di legge.
Alla medesima conclusione si deve giungere anche quando
l’Amministrazione finanziaria richiamando, ma solo formalmente, i
principi di interpretazione dei contratti, ovvero l’accertamento della
“comune intenzione delle parti”, ricorre, nella sostanza, a dei criteri
ermeneutici sconosciuti all’ordinamento come quello già in
precedenza citato, della ricerca di un “effettivo assetto dei rispettivi
interessi delle parti”, nel qual caso inoltre verrebbe svilito il
principio di intangibilità degli schemi contrattuali liberamente
adottati dalle parti.
Defatiganti, inutili e costosi sono anche i tentativi di rinvenire
un qualche principio dell’ordinamento che attribuisca la possibilità
di esercitare un potere come sopra descritto, il quale dipende
evidentemente solo da un intervento legislativo in tal senso, già
escluso dal legislatore della riforma tributaria. Qualunque ipotesi,
quindi, di simulazione o frode alla legge attuata attraverso strumenti
negoziali, deve necessariamente essere sottoposta al vaglio del
giudice ordinario e comunque provata dall’Amministrazione ex art.
2697 cod. civ..
203
§5) Il (presunto) potere dell’Amministrazione
finanziaria di giudicare l’economicità delle scelte
imprenditoriali.
Premessa
Nel precedente esame dei presupposti applicativi di quella che
a tutt’oggi si presenta come l’unica norma antielusiva avente portata
esorbitante una singola fattispecie, l’art. 37-bis DPR 600/73, è stato
già evidenziato come l’assenza di valide ragioni economiche sia
stato spesso ritenuta condizione non solo necessaria, ma anche
sufficiente per operare rettifiche reddituali comunque all’interno
dell’ambito di applicabilità della norma da ultimo citata.
Dalla lettura di alcune sentenze, si è però constatato che,
l’Amministrazione finanziaria in sede di verifica o accertamento
tributario, pur trovandosi di fronte a fattispecie estranee a quelle
enunciate nel III° comma dell’art. 37-bis, ha in alcuni casi posto a
base di talune riprese a tassazione, il giudizio di insussistenza di
valide ragioni economiche, intendendolo quale generale parametro
in base al quale poter sindacare l’economicità delle scelte
imprenditoriali. Gli esempi maggiormente significativi e sui quali in
gran parte si baserà questa ultima parte di lavoro riguarda
indubbiamente il caso dei compensi agli amministratori. Si
accennerà inoltre ai casi relativi alla deducibilità di alcuni costi,
negata in base ad una supposta non congruità.
Alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione, hanno
suscitato, da parte di vari commentatori, il timore che si andasse
consolidando un preoccupante orientamento della stessa, verso il
204
riconoscimento agli organi deputati all’accertamento delle imposte,
di un autonomo potere di sindacare tout court l’economicità di
talune scelte e comportamenti imprenditoriali. In altri termini la
preoccupazione era quella che, per tale via, il fisco potesse ‘entrare’
nella gestione ordinaria dell’azienda, valutando, per di più ex post,
l’economicità di alcune decisioni imprenditoriali e, giudicate queste
ultime contrarie agli ordinari canoni di una proficua gestione,
potesse
automaticamente
rettificarne
i
valori
dichiarati
e
contabilizzati in una contabilità fra l’altro esistente e non privata di
validità (ipotesi questa contemplata nella lett. d dell’art. 39 I°c. DPR
600/73).
Il sindacato del Fisco sull’economicità di alcune scelte
imprenditoriali, si è spesso concretizzato in accertamenti
analitico-induttivi che recuperavano a tassazione alcuni costi
dedotti, sul presupposto che, giudicati questi ultimi non congrui,
venisse meno il requisito dell’inerenza degli stessi.
Il
malinteso
nel
quale
pare
essere
caduta
l’Amministrazione finanziaria, è quello incentrato sul corretto
significato che deve essere dato al concetto di inerenza.
Autorevole dottrina324 ha in effetti affermato, come il
concetto di inerenza (art. 75 Tuir) sia talmente ampio da legittimare
il sindacato dell’ufficio impositore sulle scelte aziendali soltanto per
dimostrare
l’esistenza
di
finalità
extraimprenditoriali.
L’antieconomicità deve inoltre essere valutata non con riferimento
alla singola operazione contestata, bensì avendo riguardo alla
concatenazione degli atti di acquisto e di successiva cessione. Deve
inoltre trattarsi di antieconomicità rilevabile sin dall’origine,
324
Stevanato, “Rettifiche dei corrispettivi intragruppo e transfer pricing ‘interno’”, in
Rass. trib. 1/99, pagg. 235 e ss.; Lupi, “Manuale professionale di diritto tributario”,
op. cit., pagg. 411 e ss..
205
trattandosi di operazioni per le quali fosse palese sin dall’inizio,
l’inevitabile chiusura in perdita. Se così non fosse, sarebbe
qualificato non inerente qualsiasi componente negativo del reddito
che non trovasse immediata e diretta corrispondenza in alcuna “...
attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che
concorrono a formare il reddito”, scorrettamente interpretando, in
maniera eccessivamente restrittiva, l’art. 75, V° c. Tuir325, tornando
in pratica indietro di circa cento anni, quando non potevano dedursi
neppure le spese sostenute per avviare una attività, a causa
dell’assenza, nell’immediato, di ricavi, ovvero quando vigeva
l’indeducibilità delle spese ad esempio generali, in quanto non si
correlavano in maniera diretta, oltre che immediata, a ricavi di
vendita.
Altra parte della dottrina ha però criticato siffatto approccio,
nella
misura
in
cui
ciò
implicherebbe
il
potere
dell’Amministrazione finanziaria di sindacare le scelte economiche
del contribuente326.
Più corretta, a mio giudizio, la posizione intermedia espressa
argutamente dal Lupi327, il quale da una parte ritiene che in generale
il Fisco non possa sindacare le scelte imprenditoriali, ma di fronte
ad una scelta che, sin dall’inizio, appare destinata inevitabilmente a
325
Prova ne è l’incontestabile deducibilità dei costi ed oneri sostenuti in proiezione
futura, in tal senso la Cir. min. 30/9/944 del 07/07/1983, che ha inoltre precisato che il
concetto di inerenza non è legato ai ricavi dell’impresa, ma all’attività della stessa.
Analogamente la Ris. min. 158 del 28/10/1998. Tutte tratte dalla banca dati
“Documentazione tributaria” sul sito http://www.finanze.it/.
326
Barusco, “Considerazioni sulla indeducibilità delle some pagate da una società per
la liberazione di un proprio dirigente sequestrato”, in Riv. di dir. trib., 1996, pagg. 365
e ss..
327
Lupi, “A proposito di inerenza... Il Fisco può entrare nel merito delle scelte
imprenditoriali?”, in Riv. di dir. trib., 1992, II, pagg. 940, 941.
206
generare una perdita, questi potrà legittimamente presumere un fine
extraimprenditoriale, e sarà il contribuente a dover fornire la prova
contraria spiegando quali elementi rendevano l’operazione coerente
alla
logica
imprenditoriale
(minimizzazione
dei
costi-
massimizzazione dei profitti).
§6) segue, il concetto di inerenza. La sua dimensione
qualitativa.
Occorre, a questo punto, una breve disamina delle posizioni
più di recente assunte dalla dottrina e dalla giurisprudenza, riguardo
al generale concetto di inerenza. In generale, occorre partire da
quello che è il presupposto del prelievo ovvero la capacità
contributiva, della quale una diretta manifestazione è costituita dal
reddito che, di conseguenza328, deve essere considerato al netto,
ovvero depurato di quelle componenti che ne rettifichino in
diminuzione il valore imponibile. Per una corretta determinazione
dell’entità da sottoporre a prelievo, occorre quindi la fissazione di
alcune regole per l’individuazione di tali componenti negative,
ovviamente in coerenza alla ratio dello specifico tributo, ovvero per
scelte economico-politico-sociali del legislatore.
Questi potrà adottare la tecnica della elencazione tassativa,
oppure della descrizione in modo generale, per l’individuazione di
criteri omogenei espressivi delle valutazioni sottostanti alla scelta
328
Così, Gaffuri, “L’attitudine alla contribuzione”, Milano, 1969, pag. 180; Moschetti,
“La capacità contributiva”, Padova, 1973, pag. 373; in senso critico vedasi, Antonini,
“Discrezionalità del legislatore e apriorismo della Corte in materia tributaria”, in
Giur. Cost., 1996, pag. 1496; Marongiu, “La crisi del principio di capacità contributiva
nella giurisprudenza della Corte Costituzionale nell’ultimo decennio”, in Dir e prat.
trib., 1999, I, pag. 1773; De Mita, “Razionalità e fiscalismo nella giurisprudenza
costituzionale tributaria”, in “L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano”,
AA.VV., Padova, 2000, pagg. 177 e ss..
207
legislativa, ovvero ricorrere ad una combinazione di fattispecie
tipizzate e di una clausola di chiusura diretta a consentire la
deduzione anche a fattispecie diverse da quelle espressamente
elencate, ma comunque espressive della medesima ratio di queste.
Occorre altresì precisare che il concetto di inerenza ha portata
generale, non è cioè collegato alle sole poste negative, ma anche a
quelle attive, onde evitare spostamenti di questi ultimi, tra le diverse
categorie reddituali, le quali, a loro volta, soggiacciono a differenti
regimi impositivi329 .
L’evoluzione delle disposizioni legislative in materia330, ha
portato alla scomparsa dell’esplicito riferimento al termine
“inerenza”, facendogli così assumere la caratteristica generalmente
detta di “norma senza disposizione331”.
329
Si pensi, ad esempio ai redditi agrari, cui l’art. 29 Tuir, dedica disposizioni
particolari, delimitandoli dai redditi d’impresa.
330
Dall’art. 32 del T.U. n. 4021 del 24/08/1877: “Per la classe dei redditi industriali, si
terrà conto, in deduzione, delle spese inerenti alla produzione, come il consumo di
materie grezze e strumenti, le mercedi degli operai, il fitto dei locali, le commissioni di
vendita e simili.”, cui seguì l’art. 23 della L. n. 1 del 5/01/1956: “... sono deducibili,
nell’esercizio in cui sono state sostenute, esclusivamente le spese e le passività inerenti
a rediti assoggettabili all’imposta stessa, nonché la quota di spese generali imputabile
a tali redditi.”, poi l’art. 91 del TU n. 645 del 29/01/1958, “Il reddito netto è costituito
dalla differenza tra l’ammontare dei ricavi lordi che compongono il reddito soggetto
all’imposta e l’ammontare delle spese e passività inerenti alla produzione di tale
reddito.”, in seguito l’art. 61, III° c. DPR n. 597 del 29/09/1973,”I costi egli oneri
diversi da quelli espressamente considerati dalle disposizioni di questo titolo sono
deducibili se ed in quanto siano stati sostenuti nell’esercizio dell’impresa e si
riferiscono ad attività ed operazioni da cui derivano ricavi e proventi che concorrono a
formare il reddito d’impresa...”, in parte trasposto nell’attuale art. 75, V° c. DPR
917/86, “Le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli oneri passivi, ..., sono
deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi
o altri proventi che concorrono a formare il reddito...”. L’evoluzione legislativa
manifesta in tutta evidenza il cambio di impostazione soprattutto a partire dalla riforma
degli anni 70, laddove può riconoscersi una stretta dipendenza dell’imponibile fiscale da
quelle che sono le regole civilistiche assurte dunque a criteri generalmente applicabili in
quanto non specificamente derogate da disposizioni tributarie.
331
Così Zizzo, “Regole generali sulla determinazione del reddito d’impresa”, in
“Imposta sul reddito delle persone fisiche”, a cura di Tesauro, Torino, 1994, pagg. 556
e ss.; Nocerino, “Il problema dell’individuazione di un principio generale (inespresso)
di inerenza”, in Rass. trib. 1995 pagg. 910 e ss.
208
La giurisprudenza si è spesso trovata a dover dirimere
controversie relative alla deducibilità o meno di talune spese,
stabilendo alcuni punti fermi utili per dare concreta attuazione al
principio de quo. La Cassazione332 ha precisato ad esempio, che la
deducibilità dei costi e degli oneri, è sempre condizionata ad una
stretta inerenza degli stessi all’attività svolta, richiedendo cioè che
essi siano stati funzionali alla formazione del reddito imponibile,
rapportandosi ad esso con una relazione di causa ad effetto.
Alcuni casi spesso citati in dottrina derivano proprio da
sentenze della Suprema Corte che, ad esempio, ha precisato che non
sono
fiscalmente
deducibili
per
mancanza
del
requisito
dell’inerenza:
Ø i costi sostenuti per il pagamento del riscatto per la
liberazione
di
un
dirigente,
considerato
uomo-chiave
per
nonostante
l’attuazione
fosse
dei
programmi aziendali (Cass. sez. I, n. 8818/95 cit.,
Comm. trib. Cent., sent. n. 768 del 09/02/2000);
Ø i costi per le cure mediche, operazioni chirurgiche, e
relativa permanenza presso istituti di cura sostenuti
per migliorare le condizioni di salute o addirittura per
salvare la vita di un dirigente, indipendentemente dalla
dichiarata volontà di conservazione delle facoltà
intellettive di quel determinato dirigente, in virtù delle
sue specifiche e cospicue doti manageriali. Stesse
332
Cfr. Cass. sez. trib., sent. 7071 del 29/05/2000; Cass. sez. I, sent. 8818, del
11/08/1995, che ha inoltre precisato che la norma va interpretata nel senso di ancorare
la deducibilità del costo ad uno stretto collegamento con l’esercizio d’impresa inteso
nel senso della sua gestione ordinaria.
209
considerazioni per le spese relative alla conservazione
delle condizioni psicologiche dello stesso (Cass.
8818/95 cit.).
La stessa Suprema Corte si è espressa positivamente,
riconoscendo la sussistenza dell’inerenza, ai costi di propaganda e,
in genere, promozionali, dai quali possono facilmente desumersi dei
principi più generali:
Ø l’art. 75, V° Tuir “àncora la deducibilità delle spese e
degli altri componenti negativi del reddito, diversi
dagli interessi passivi, al riferimento di tali spese...
all’attività di impresa in senso ampio, il cui ambito di
operatività deve necessariamente essere valutato in
rapporto a tutte le attività (anche se non attualmente
esercitate) indicate nell’oggetto sociale e in vista delle
quali la società è stata costituita ed al cui esercizio i
soci sono tenuti a concorrere333.”Così la Cass. sez.
trib. sent. n. 6502 del 19/05/2000, nella quale è stata
ribadita la non necessità di un collegamento stretto
con i ricavi, anche dal punto di vista temporale, “il
principio di inerenza può essere esteso anche a spese
effettuate a fini promozionali, e quindi proiettate verso
il futuro.... La pubblicità non svolge più soltanto un
ruolo puramente informativo di far conoscere
l’esistenza di un prodotto sul mercato, ma può essere
utilizzata anche per sensibilizzare preventivamente
l’interesse dei consumatori verso beni e servizi non
333
In senso conforme, Cass. n. 14350 del 21/12/1999.
210
ancora concretamente offerti. Le spese pubblicitarie
sono inerenti all’esercizio dell’impresa “anche se
sostenute prima che l’offerta del bene o del servizio
pubblicizzato si sia concretamente realizzata.... non
rileva neppure che alle spese pubblicitarie nella
specie poste in essere non abbiano, nell’immediato,
corrisposto realizzazioni concrete ed apprezzabili;
infatti anche gli atti diretti a porre le premesse
indispensabili per lo svolgimento o il rafforzamento di
una data attività economica costituiscono parte
integrante dell’attività imprenditoriale, sicché anche i
relativi costi, anticipatori e prodromici, in quanto
strumentali al consolidamento e all’ampliamento del
mercato, che solo all’imprenditore spetta valutare,
non possono che ritenersi deducibili, in quanto
inerenti all’attività dell’impresa; ... non spetta
all’ufficio valutare la portata dell’inerenza delle spese
pubblicitarie all’attività d’impresa, ove quelle spese
possano essere obiettivamente rapportate al nome e
all’oggetto
dell’impresa,
ed
inquadrate
nello
svolgimento e nello sviluppo dell’attività della stessa,
in conformità di tali presupposti.
Viene così affermata la deducibilità dei costi sostenuti in
proiezione di futuri ricavi (ancorché potenziali, ed implicitamente
insindacabili a posteriori), allargando altresì i confini sia
211
dell’inerenza in generale334 che delle spese di pubblicità e
propaganda in particolare.
Si constata pertanto un orientamento teso al riconoscimento
del concetto di inerenza in una accezione piuttosto ampia335,
talmente ampia da rasentare quasi l’inutilità del relativo giudizio. A
ben vedere invece, l’attento esame delle posizioni maggiormente
convincenti della dottrina e della giurisprudenza, conduce a ritenere
invece ancora vitale il principio in discorso, inteso in termini di
nesso causale che deve sussistere tra la spesa e l’attività
dell’impresa in senso ampio considerata336 (quale serie di atti tesi
334
Cfr. Cass. sez. trib. Sent. n. 10062 del 01/08/2000, ove si legge tra l’altro che, a
seguito della riforma tributaria, “...l’inerenza dei costi e degli oneri in materia di
reddito d’impresa... deve essere riferita, non ai ricavi, ma all’oggetto dell’impresa.
335
La stessa Amministrazione finanziaria, con la Ris. n. 158/E del 28/10/1998,
Applicazione del principio generale di inerenza sancito dall'art. 75 del TUIR Deducibilita' dei rimborsi spese elargiti agli atleti ai sensi della legge 25 marzo 1986, n.
80, dai proventi commerciali conseguiti da associazioni sportive dilettantistiche non
riconosciute ai sensi dell'art. 36 del codice civile - Quesito della Federazione Italiana
Giuoco Calcio, Lega nazionale Dilettanti, ha ribadito il principio che “la normativa
vigente si ispira a criteri di maggiore larghezza rispetto a quelli pre-riforma, e che il
concetto medesimo (di inerenza) non è più legato ai ricavi d’impresa, ma all’attività
della stessa, con la conseguenza che si rendono deducibili tutti i costi relativi
all’attività dell’impresa e riferentesi ad attività ed operazioni che concorrono a
formare il relativo reddito. Sulla deducibilità delle spese sostenute in proiezione futura,
Ris. III-6-005 del 14/07/1993.
336
Cfr. Tinelli, “... l’inerenza va vista quale requisito oggettivo, come riferibilità degli
stessi all’esercizio d’impresa, cui sono legati da un rapporto di causa ad effetto.” in:
“Il reddito d’impresa nel diritto tributario”, Milano, 1991, pag. 248; Zizzo, “I redditi
d’impresa”, in Manuale di diritto tributario” di Falsitta, parte speciale, Padova 1997,
pag. 219, il quale ritiene che appartengono alla categoria delle spese inerenti“tutte le
spese sostenute nell’interesse del realizzazione del programma economico
dell’impresa”, e in quanto tali, suscettibili “di arrecare una utilità all’attività
produttiva dell’impresa, sia pur in via soltanto indiretta e mediata”; Galeotti Flori,
“La determinazione del reddito d’impresa”, in Caraccioli, Galeotti Flori, Tanini: “Il
reddito d’impresa nei tributi diretti”, Padova, 1997, pag. 46, ove si legge, che “i
componenti negativi devono avere un nesso di causalità con l’esercizio dell’impresa.
Non è chiesto che il nesso sia necessario. Basti che si tratti di costi che non sarebbero
stati sostenuti se l’impresa non ci fosse stata”. Per l’evoluzione della regola di inerenza
leggasi, oltre agli autori citati in precedenza, anche, Graziani, ”L’evoluzione del
concetto di inerenza e il trattamento fiscale dei finanziamenti ad enti esterni di
ricerca”, in Falsitta, Moschetti, “I costi di ricerca scientifica”, Milano, 1988, pagg. 55
e ss.; Cicognani, “L’imposizione del reddito d’impresa”, Padova, 1980, pagg. 147 e
ss.; D’Amati, “La progettazione giuridica del reddito”, Padova, 1975, III, pagg. 61 e
212
alla produzione o allo scambio di beni o servizi). Occorre
comunque sempre raccordarsi con il fine di una tale indagine la
quale deve mirare alla distinzione tra spese di produzione e spese
qualificabili come di erogazione del reddito, a ciò non essendo
sufficiente l’affermazione che la spesa non fosse necessaria, ma
ulteriormente dimostrando in positivo che il costo rispondeva ad
una finalità personale o extraimprenditoriale337, in quanto è proprio
questa la ratio del principio qui in discussione.
1. Ancora sull’inerenza: la deducibilità delle sanzioni
e più in generale dei costi connessi ad attività
illecite.
Una questione connessa al principio di inerenza di particolare
attualità, riguarda la possibilità o meno di considerare deducibili i
costi per multe e sanzioni, in particolar modo quelle comminate
dall’Autorità Antitrust, data la rilevanza degli importi338. Più in
generale la tematica è riconducibile alla vexata quaestio della
rilevanza ai fini reddituali dei proventi339 (e quindi specularmente
dei costi) derivanti da attività illecite.
ss.; Panizzolo, “Inerenza ed atti erogativi nel sistema delle regole di determinazione
del reddito d’impresa”, in Riv. di dir. trib., 1999, I, pagg. 675 e ss..
337
Cfr. Lupi, “Diritto tributario – Parte speciale”, Milano, 2000, pagg. 97 e ss.;
Tesauro, “Istituzioni di diritto tributario – Parte speciale”, Torino, 1999, pag. 111.
338
Si pensi che la sanzione comminata ad alcune imprese di assicurazione ammonta a
700 miliardi di lire.
339
Si rammenta che, l’art. 14, IV° c., della legge 537 del 24/12/1993, dispone che,
“Nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1 Tuir, devono intendersi
ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività
qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a
sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni
riguardanti ciascuna categoria.”.
213
Il panorama giurisprudenziale sull’argomento, arricchito da
alcune recenti sentenze, non ha ancora assunto dei contorni definiti.
A prima vista infatti si possono osservare diverse posizioni
(apparentemente) contrastanti, ad esempio, la Comm. trib. Reg. di
Milano, (sent. n. 293 del 10/05/2000) ha ammesso in deduzione
(inerenti) le somme pagate da una società per la sanatoria di
irregolarità edilizie; analogamente la Comm. trib. prov. di Matera,
sez. II, sent. 27/06/2001, n. 437, ha ritenuto che, in assenza di
specifica disciplina, le somme pagate a titolo di sanzione
comminata dall’Antitrust, devono essere valutate secondo i principi
generali ed il concetto di inerenza; ebbene, quando i comportamenti
sanzionati hanno portato al conseguimento di un maggior reddito
sottoposto a tassazione340, la deducibilità deve essere sempre
riconosciuta. Conforme a quest’ultima pronuncia, la sentenza della
Comm. trib. prov. di Milano, sez. XLVII, n. 370, del 12/12/2000,
che ha posto l’accento sulla particolare modalità di determinazione
della sanzione, in misura percentuale rispetto all’ammontare dei
ricavi, da ciò deducendone il collegamento funzionale con le scelte
dell’imprenditore. Inoltre, riconoscere l’irrilevanza fiscale di tali
esborsi, li farebbe assurgere ad ulteriore sanzione, comportando la
tassazione di un reddito inesistente. Nello stesso senso la
Commissione tributaria regionale di Genova, nella sentenza n. 34
del 02/05/2001, ha riconosciuto la rilevanza fiscale delle sanzioni
340
È la stessa ratio della motivazione delle sanzioni comminate dall’Autorità garante
della concorrenza e del mercato a deporre in tal senso, riferendosi ad attività
indubbiamente poste in essere per incrementare i ricavi, riferendosi alle “intese
restrittive della libertà di concorrenza”, agli “abusi di posizione dominante”, alle
“operazioni di concentrazione di imprese con determinate caratteristiche”, ovvero di
“pubblicità ingannevole”, entrambe poste in essere a motivo della connessa possibilità
di fissare prezzi più alti, di attrarre (ingannevolmente appunto) un maggior numero di
clienti rispetto a quanto avrebbe potuto fare una pubblicità ‘regolare’, ovvero di
sfruttare informazioni commerciali illecitamente ottenute.
214
comunitarie irrogate dalla Ceca, per la violazione delle regole sulla
concorrenza, dovute per il supero dei limiti di produzione
dell’acciaio. Riguardo le pronunce di merito da ultimo citate, vi è
però da ricordare che esse si sono basate sull’assunto, ancora in
discussione, che dette somme avessero natura risarcitoria e non
afflittiva, in ciò ravvisando quel requisito di collegamento
funzionale con l’attività di impresa che ne giustifica la deducibilità.
Alcune pronunce di legittimità, manifestano invece un
orientamento tendenzialmente contrario, ad esempio, la Cassazione
nella sentenza del 20/01/2000, n. 7071, aveva affermato che “devesi
ritenere che, di massima, un costo possa essere ravvisato
deducibile dal reddito di impresa solo se ed in quanto risulti
funzionale alla produzione del reddito. Ciò posto, è da dire che la
riscontrabilità del considerato rilevante rapporto di correlazione
fra costo e reddito va senz’altro esclusa, in linea di principio, con
riferimento a quei costi che siano rappresentati dal pagamento di
sanzioni pecuniarie irrogate per punire comportamenti illeciti del
contribuente, quali sono indiscutibilmente le infrazioni alle norme
sulla circolazione stradale, e che perciò, i costi in argomento
devono essere tenuti per, comunque, indeducibili341.”. Più di
recente la sentenza n. 5796 del 19/04/2001, ha negato la
deducibilità delle somme pagate per evitare indagini fiscali, senza
affrontare la questione della illiceità della condotta, bensì rilevando
esclusivamente il difetto di inerenza, affermando infatti che tale
pagamento pur presentando una indubbia “interferenza sulla vita
dell’impresa,... non concorre, direttamente o indirettamente, alla
341
Nello stesso senso anche, Comm. trib. centr., nn. 1763 del 04/07/1983, n. 4394 del
07/06/1990 e n 784 del 17/03/1994, criticata da Carpentieri “La morale degli uffici e
della giurisprudenza sulla deducibilità delle sanzioni dal reddito d’impresa”, in Rass.
trib. 1994.
215
formazione del reddito, ma tende soltanto a preservare il risultato
dei fattori produttivi”, comunque collocandosi su di un piano
autonomo ed esterno rispetto alla gestione dell’impresa.
Il contrasto di posizioni scompare, allorché si passi a
considerare con più attenzione i motivi delle decisioni in rassegna.
Possiamo infatti affermare che anche le sentenze favorevoli al
contribuente si sono basate sulla qualificazione delle somme pagate
secondo la tesi ‘risarcitoria’, implicitamente riconoscendo l’attualità
dell’orientamento tradizionale che vede nella dicotomia tra natura
risarcitoria/afflittiva della sanzione, la linea di discrimine tra la
deducibilità e l’indeducibilità della stessa..
L’Amministrazione
finanziaria
si
è
pronunciata
sull’argomento con la Cir. min. n. 98 del 17/05/2000342, affermando
l’indeducibilità delle sanzioni inflitte dalla UE per difetto di
inerenza, in quanto derivanti da un comportamento illecito tenuto
dal contribuente, in conformità all’orientamento di quella parte
della dottrina, ormai risalente, che postula tale indeducibilità
basandosi su due fondamentali principi secondo i quali:
Ø non si può ritrarre un beneficio dal compimento dalla
commissione di un fatto illecito;
Ø il costo del comportamento antisociale non può essere
ripartito sulla collettività.
A tali argomentazioni è stato efficacemente ribattuto, per
quanto riguarda la prima affermazione, che lo Stato non è guardiano
342
Tratta dalla banca dati ‘Documentazione tributaria’ consultabile sul sito
http://www.finanze.it/
216
della virtù343; per la seconda invece, rilevando la sua incompatibilità
con una giustificazione del prelievo tributario non più ancorato al
superato
principio
della
controprestazione,
ma
a
quello,
solidaristico e redistributivo, ancorato al principio di capacità
contributiva344.
L’orientamento ministeriale è stato ribadito dalla recente Ris.
min. n. 89 del 12/06/2001345 che, pone l’accento sulla natura
afflittiva e non risarcitoria, delle sanzioni in discorso, citando anche
il conforme parere fornito dal Consiglio di Stato, sez. VI, n. 1671
del 20/03/2001. La posizione espressa dall’Agenzia delle Entrate è,
a prima vista, suffragata da quella giurisprudenza346 che ha deciso
l’indeducibilità delle sanzioni per difetto di inerenza, ma spesso si
trattava di multe stradali, ove il relativamente modesto valore della
lite rendeva la controversia poco importante sia per l’autorità
giudicante, che non ha ritenuto necessario fornire adeguate
argomentazioni giuridiche a fondamento delle proprie decisioni,
impostando invece il problema sotto il profilo dei ‘motivi di
sicurezza e di ordine sociale, sia per gli stessi difensori della parte,
sicuramente maggiormente propensi a spendere più proficuamente
le loro energie lavorative.
343
Così Antolisei, “Manuale di diritto penale. Parte generale”, 6° ed. Milano, Giuffrè,
1969, pag. 255.
344
Cfr. S. Steve, “Lezioni di scienza delle finanze”, Cedam 1964, pagg. 6 e 7, ma
soprattutto gli scritti di B. Griziotti: “Il principio della solidarietà finanziaria”, in
Saggi sul rinnovamento dello studio della scienza delle finanze e del diritto finanziario,
Milano 1953, pagg. 241 e ss.; “Vecchi e nuovi indirizzi nella scienza delle finanze”,
ivi, pagg. 155 e ss., 201 e ss.; “Il principio della capacità contributiva”, op. cit., pagg.
349 e ss.
345
Tratta dalla banca dati ‘Documentazione tributaria’ consultabile sul sito
http://www.finanze.it/
346
Comm trib. cent. , n. 1763 del 04/07/1983, Comm. trib. cent., dec. n. 4394 del
07/06/1990 ; da ultimo Cass. sez. trib., n. 7071 del 29/05/2000.
217
Contro il descritto orientamento dell’organo amministrativo,
si pone anche l’Associazione dei Dottori Commercialisti di Milano,
che nella Norma di comportamento n. 138 dell’8 aprile 1999, ha
sostenuto la deducibilità delle sanzioni Antitrust, in quanto i
comportamenti
che
costituiscono
infrazioni
si manifestano
nell’ambito dell’attività dell’impresa e normalmente comportano
maggiori ricavi rispetto a quelli conseguibili in assenza del
comportamento lesivo. In senso conforme, la circolare Assonime n.
39 del 24/05/2000, dove viene affermata la difficoltà di negare che
le sanzioni pecuniarie irrogate dalle autorità UE e dalle autorità
italiane in materia di concorrenza sleale, presentino comunque un
collegamento con la gestione dell’azienda, seppur dovendo valutare
caso per caso l’inerenza delle stesse con l’esercizio delle attività
dell’impresa e, più specificamente, con la produzione dell’utile.
Poiché infine, la deducibilità delle sanzioni è questione
strettamente connessa a quella del riconoscimento dei costi
sostenuti nell’ambito di attività illecite, dalle quali sono scaturiti
ricavi altrettanto illeciti, ma comunque imponibili, può citarsi la
sentenza n. 92 del 25/09/2001 della Comm. trib. prov. di Firenze,
che ha deciso per l’illegittimità della ripresa a tassazione dei costi
riferiti a proventi conseguiti nell’esercizio di attività illecite. Un
approfondimento di questa interessante tematica347 esorbita lo scopo
della
presente
ricerca,
si
rimanda
pertanto
alla
copiosa
documentazione della dottrina348 sull’argomento limitandomi a
347
Quale quella relativa ad esempio alla distinzione tra attività illecite compiute per
mezzo di atti illeciti, ovvero quelle concluse attraverso più atti in sé leciti (ad esempio
la stipula di un contratto di locazione di un immobile è di per sé lecito, ancorché esso
sia funzionale ad una attività per ipotesi di spaccio di droga).
348
Lupi, “Sulla deducibilità fiscale delle somme pagate per violazioni della normativa
antitrust.”, in Riv. di dir. trib. , 2001/I, pagg. 224 e ss.; Zizzo, “Sanzioni per violazioni
della normativa antitrust e determinazione del reddito d’impresa.”, in Riv. di dir. trib.,
218
concludere con l’opinione che in generale la rilevata ampiezza del
concetto di inerenza dovrebbe bastare a consentire la deducibilità
sia delle sanzioni che dei costi connessi ad attività illecite
produttive di ricavi imponibili, dovendosi al riguardo superare
l’indagine sulla natura e funzione delle somme pagate. D’altra parte
non può tacersi che tale affermazione, se assunta come dogma,
potrebbe in alcuni casi condurre a risultati altrettanto inaccettabili
quanto quelli della tassazione di un reddito inesistente, e vada
pertanto esaminata alla luce dei principi di meritevolezza e
ragionevolezza, caso per caso349.
La validità di queste conclusioni è però stata completamente
rimessa in discussione dallo stesso legislatore, infatti la legge
finanziaria per il 2003, approvata con la legge n. 289 del
24/12/2002, ha previsto nel comma 8 dell’articolo 2, l’aggiunta del
comma 4-bis, all’art. 14 della legge n. 537 del 1993 il quale
testualmente prevede: “Nella determinazione dei redditi di cui
all’art. 6, I° comma del testo unico delle imposte sui redditi, di cui
2001, II, pagg. 816 e ss.; Moscatelli, “Considerazioni sui costi da illecito nella
determinazione del reddito.”, in Riv. di dir. trib., 2000, I, pagg. 1187 e ss.. ColnagoGiacosa, “Deducibilità ai fini delle imposte dirette delle sanzioni antitrust.”, in Boll.
Trib. 2000, pag. 1463. Per citare solo i contributi più recenti.
349
In questo senso Lupi, “Inerenza e sanzioni Antitrust”, in Rass. trib., 6/2001, pag
1753, il quale correttamente osserva che il principio dell’inerenza, in qualunque dei due
sensi estremizzato, porterebbe a conseguenze inique. Nella sua più ampia accezione
infatti porterebbe alla deducibilità anche di quei costi (tra cui appunto le sanzioni)
connessi a comportamenti immorali, contrari a ogni deontologia professionale (ad
esempio, la commercializzazione di prodotti alimentari nocivi, alla pirateria informatica
a scopi di spionaggio industriale, il commercio di armi con paesi sottoposti a embargo,
ecc.). la soluzione diametralmente opposta condurrebbe invece alla tassazione di un
reddito in parte inesistente, o da altro punto di vista, alla comminazione di una ulteriore
sanzione, non legislativamente prevista e pertanto in contrasto al dettato dell’art. 25
della Cost.. Perciò l’Autore giunge alla conclusione che sarebbe preferibile un
approccio meno aprioristico, secondo il quale “...le sanzioni, in quanto elemento
negativo di reddito connesso ad una attività illecita, dovrebbero dedursi solo dal
reddito o dai maggiori redditi derivanti dall’attività sanzionata.”. Contro, Spoto, “La
deducibilità delle sanzioni cosiddette antitrust, nel reddito d’impresa.”, in Riv. di dir.
trib., 2001, pagg. 589 e ss.
219
al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, non
sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti
o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti
costituzionalmente garantiti.”.
Sarà a questo punto necessaria una complessa attività
interpretativa della disposizione da ultimo citata, per valutarne da un
lato la coerenza con le argomentazioni precedentemente fatte e,
dall’altra con i principi dell’ordinamento tributario in particolare
riferimento alle disposizioni Costituzionali. Appare infatti ovvio che,
se si riconosce fondatezza alle tesi della dottrina che ritiene tale
indeducibilità in contrasto con la Costituzione (artt. 53 e 23
soprattutto), la norma appena introdotta dovrà essere sottoposta al
giudizio di legittimità dinanzi la Corte Costituzionale.
Personalmente ritengo riduttivo (e presuntuoso) da parte del
legislatore, pensare che, con una semplice disposizione di legge,
possano essere superati i legittimi dubbi sorti nella specifica materia,
testimoniati da dottrina, giurisprudenza e perfino prassi350,
contrastanti.
350
Cfr., anche se potrebbe dubitarsi della attinenza all’argomento qui trattato la Ris.
min. N. 178 del 09/11/2001 (in banca dati “Documentazione tributaria” sul sito
http://www.finanze.it/), nella quale è stata ammessa la deducibilità degli interessi
passivi corrisposti per la rateazione del pagamento di una sanzione comunitaria.
220
§7) segue, il difetto di inerenza.
La sua eventuale
dimensione quantitativa: pareri contrastanti in dottrina
e giurisprudenza circa la sindacabilità della congruità di
alcune spese e sulla legittimità del ricorso allo strumento
dell’accertamento
induttivo
di
fronte
ad
un
comportamento ‘antieconomico’ del contribuente.
Il caso dei compensi agli amministratori.
L’esame, seppur sommario, svolto nel precedente paragrafo,
ha evidenziato che, in breve, il giudizio sull’inerenza di un
componente negativo del reddito di impresa, si fonda su una
valutazione ex ante del suo collegamento funzionale con l’attività
di impresa, non necessariamente quella attuale. Restano ora da
rilevare i motivi per i quali si ritiene che, valutazioni circa le
dimensioni del costo, non trovino dimora nel citato giudizio.
Anzitutto abbiamo da evidenziare che, laddove il legislatore
ha ritenuto che vi potessero essere possibilità di abusi,
nell’imputazione a costo di impresa, di componenti suscettibili di
un
uso
extraimprenditoriale
quantificazione,
ha
optato
di
per
difficile
la
dimostrazione
determinazione
e
legale
dell’inerenza con la eventuale fissazione di particolari limiti o
forfetizzazioni, per presunzione assoluta351. Dunque, al di fuori di
queste ultime ipotesi, ci si deve interrogare sui poteri che
l’Amministrazione finanziaria possiede per sindacare il merito
delle scelte imprenditoriale allorché ci si trovi di fronte a beni o
servizi dei quali non è stato provato l’uso non imprenditoriale.
351
Ad esempio artt. 57; 62, commi 1-bis e 2; 65, comma 1; 67, comma 10; 121-bis del
Tuir.
221
Occorre inoltre dare atto del recente orientamento, espresso
soprattutto dalla Corte di Cassazione, che pare attribuire agli
organi accertatori il potere di negare la deducibilità di alcuni costi,
basandosi proprio su una valutazione di congruità degli stessi. In
altre parole, alcune recenti sentenze, sembra che abbiano
riconosciuto, in capo all’Amministrazione finanziaria, un potere di
valutazione dell’inerenza di un componente di reddito, la cui
deducibilità è in discussione non perché ritenuto atto per sua natura
erogativo di reddito, ma perché l’ammontare della somma spesa
apparirebbe non giustificato secondo un ragionamento di
economicità, ovvero sproporzionato rispetto all’entità degli affari
dell’impresa e per tale ragione indeducibile per l’eccedenza. Per
ricollegarci al paragrafo precedente, sembra pertanto farsi strada la
possibilità
che
i
parametri
di
valutazione
del
requisito
dell’inerenza, non siano solo quelli sommariamente esposti in
precedenza, ma ve ne sia uno ulteriore, quantitativo, rappresentato
dalla congruità o, ancora più precisamente dalla sussistenza di
valide ragioni economiche, le quali assurgono così ad una sorta di
criterio generale, travalicante l’ambito di applicazione segnato dal
3° comma dell’art. 37-bis.
Gli interrogativi che a questo punto ci si pone sono
principalmente due: può davvero rinvenirsi, nel concetto di
inerenza, una eventuale dimensione quantitativa, la congruità
appunto? e l’altro: ammesso e non concesso che la risposta al
primo quesito sia positiva, quali sono i fondamenti giuridici ed i
relativi mezzi di cui l’Amministrazione finanziaria concretamente
dispone, per procedere ad una tale valutazione in modo oggettivo,
il tutto rispettando due principi costituzionali di basilare
importanza in uno stato di diritto ovvero il principio di libertà di
222
iniziativa economica (art. 41 Cost.) e di imparzialità nell’esercizio
dei propri poteri (art. 97 Cost.)?
A tal proposito la prima analisi che si rende necessaria,
riguarda l’eventuale esistenza di una disposizione legislativa in tale
direzione. Ebbene si deve concludere che essa effettivamente
esiste, potendola ravvisare all’interno degli artt. 9, 53 II° comma,
54 III° comma nelle ipotesi in essi previste352 e soprattutto 76 V°
comma del Tuir, la quale, come visto in precedenza, è però
esplicitamente limitata alle componenti di reddito derivanti da
operazioni con società appartenenti allo stesso gruppo, non
residenti. Potrebbe pertanto agevolmente sostenersi che, poiché
ove il legislatore ha inteso attribuire all’Amministrazione
finanziaria un potere di sindacare la congruità delle spese, lo ha
fatto esplicitamente, deve ritenersi che, in generale, fuori di tali
ipotesi, ciò le sia inibito.
1. I pareri (contrastanti) della giurisprudenza.
Che il giudizio di inerenza implichi una indagine
quantitativa sulla congruità del costo, è questione che, nota da
tempo, ha preso notevole vigore di recente a seguito di alcune
pronunce della Corte di Cassazione, le quali hanno indotto taluni a
ritenere che la giurisprudenza si stesse consolidando su tale
posizione. Il panorama giurisprudenziale sull’argomento è
oltremodo variegato e scostante, sia tra le corti di merito che di
352
Si potrebbe aggiungere anche l’art. 65 il quale, letto ‘in negativo’, reca il principio
generale della indeducibilità degli atti di liberalità in quanto intrinsecamente estranei
ad una logica imprenditoriale in senso stretto, stabilendo, in deroga, la deducibilità di
talune tipologie di essi, positivamente e tassativamente individuati, in quanto ritenuti
socialmente meritevoli di essere incentivati.
223
legittimità. Una breve rassegna di alcune significative decisioni ne
darà conto.
La Commissione Tributaria Centrale, sez. XI, sent. n. 1721
del 06/03/1991 ha ritenuto deducibili le spese di rappresentanza,
“quando appaiano documentate e contenute in una percentuale
modesta
rispetto
all’ammontare
complessivo
dei
costi
d’esercizio.” Sempre la Commissione Tributaria Centrale, sez. II,
con la decisione n. 3286 del 05/05/1992, aveva negato la
deducibilità della perdita derivante dall’acquisto e successiva
rivendita (nello stesso giorno) di obbligazioni, in quanto ritenuta
non tanto conseguente al “’rischio finanziario’ dipendente
dall’andamento del mercato”, quanto derivante dal carattere
“manifestamente antieconomico dell’operazione”, come tale
“estraneo alla produzione del reddito”. La stessa Commissione,
sez. XVIII, dec. n. 1860 del 13/05/1993, chiamata a pronunciarsi
sulla deducibilità di una perdita derivante dall’acquisto e
successiva rivendita (a distanza di 17 giorni) di azioni, l’aveva
invece ammessa se, “...non siano contestate la validità e la
fondatezza dei fissati bollati che comprovano i prezzi di
contrattazione, a nulla rilevando le considerazioni di fatto
dell’ufficio finanziario sull’utile netto perseguito dalla società per
effetto
dell’operazione,
la
quale
può
essere
valutata
economicamente ma non può incidere sul piano fiscale.”, con ciò
ribadendo il principio per cui il potere di disconoscere gli effetti
fiscali di atti giuridicamente validi, sussiste nei soli casi in cui una
disposizione (antielusiva) specificamente lo attribuisca.
Nella stessa direzione ancora la Commissione tributaria
Centrale, nella decisione n. 3532 del 16/12/1993, che ha escluso
esplicitamente che l’ufficio potesse subordinare la deducibilità
224
delle spese (di pubblicità), ad un giudizio di congruità delle stesse.
Più di recente, sempre la Commissione Tributaria Centrale, sez.
VIII, sent. n. 5641 del 30/09/1999, ha invece espresso parere
opposto, ritenendo “deducibili tutte le spese di rappresentanza e
promozionali, connesse con l’attività dell’impresa, quando
risultino congrue.”
Altro esempio di sentenze di merito discordanti, può trarsi
da due pronunce di altrettante Commissioni tributarie regionali
sulla questione della deducibilità delle perdite su crediti ceduti pro
soluto. Nella prima (CTR Lombardia, n. 66 del 07/04/1999), si
legge esplicitamente che, “la cessione pro soluto di crediti in
sofferenza è pienamente legittima, rientra nella libertà di
valutazione degli organi amministrativi della società, è pertanto
deducibile la differenza tra l’importo nominale dei crediti ceduti
ed il prezzo di cessione.”, per la seconda invece, (CTR Veneto, n.
50 del 31/05/1999), “... non sussistono fondate ragioni per ritenere
che attraverso la cessione di crediti in sofferenza... si realizzi, ipso
facto, una perdita certa.”
Anche la più recente giurisprudenza della Corte di
Cassazione, pare non fornire indicazioni univoche, ad esempio,
nella sentenza n. 12183 del 17/05/2000, è stato affermato che
l’Amministrazione finanziaria può “negare la deducibilità di parte
di un costo ove questo superi il limite al di là del quale non possa
essere ritenuta la sua inerenza ai ricavi o, quanto meno,
all’oggetto dell’impresa.” Indicazioni sostanzialmente analoghe si
rinvengono nelle successive pronunce del 22/11/2000, n. 5104 e
del 20/10/2001, n. 13478, nella quale ultima si legge che
“l’Amministrazione finanziaria ben può valutare la congruità dei
costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e
225
procedere a rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano
irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti
giuridici compiuti nell’esercizio d’impresa, e di conseguenza
negare la deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi
o all’oggetto dell’impresa”.
Più di recente invece, la stessa Corte, ha escluso la
possibilità di esprimere un giudizio basato sulla congruità. Con la
sentenza n. 6599 del 09/05/2002, non solo è stata ribadita la regola
generale della libertà di cui gode l’imprenditore nella scelta di
come impostare la propria strategia, ma è stato esplicitamente
escluso che l’inerenza rilevi anche sotto l’aspetto quantitativo, per
cui, una volta riconosciuta al componente negativo l’attitudine alla
produzione di ricavi, esso deve essere senz’altro considerato
inerente e quindi deducibile, senza che possa o debba effettuarsi
una ulteriore indagine basata sulla congruità, a meno di esplicita
disposizione legislativa in tale direzione. Alcune altre sentenze
hanno fatto delle affermazioni353 che, ad una prima lettura,
ingeneravano ulteriore incertezza sull’argomento, ma che più
attentamente esaminate, sono state collocate nel corretto alveo
della legittimazione a procedere ad accertamenti presuntivi di
353
Cfr. Cass. 20/11/2001, n. 14568, secondo la quale “il contribuente che voglia
portare in deduzione la perdita deve ... dimostrare... gli elementi ... che gli hanno
consigliato di propendere per una cessione pro soluto con un recupero parziale.”
Nello stesso senso la n. 13181 del 04/10/2000. La sent. n. 6337 del 03/05/2002, ove
si legge che “Se è vero che le scelte economiche dell’imprenditore sono normalmente
insindacabili, tuttavia, il Fisco non è tenuto a credere che un imprenditore agisca in
modo antieconomico.”. A favore della insindacabilità delle scelte economiche
dell’imprenditore anche, Cass. sez. trib., n. 10062 del 01/08/2000; Comm. trib.
Centr., n. 6812, del 23/12/1990; Comm. trib. I° Torino, n. 721, del 04/08/1994;
Comm. trib. I° Como, n. 68, del 28/01/1992; Comm. trib. II° Forlì, n. 101, del
11/03/1988; Comm. trib. I° Como, n. 875, del 05/06/1980. In senso contrario, Comm.
trib. I° Savona, n. 228, del 25/05/1995; Comm. trib. I° Reggio Emilia, n. 2200, del
02/11/1989; Comm. trib. Centr., n. 8365, del 18/11/1987; Cass. n. 4857/2001; Cass.
sez. trib., n. 15268 del 27/11/2000; Cass. sez. trib., n. 7803 del 08/06/2000; Cass. sez.
trib., n. 6502 del 19/05/2000.
226
fronte ad un comportamento antieconomico, e non già di un
automatico disconoscimento del relativo costo. In verità anche
nelle decisioni più sopra citate a favore di un supposto potere di
sindacato di ‘congruità’, le affermazioni in tal senso devono essere
riconsiderate, apparendo dettate più da un certo ‘buon senso
fiscale’, e da considerazioni di uguaglianza sostanziale, che da
precise disposizioni di legge, delle quali infatti nei passaggi
riportati non c’è traccia.
Non convince al riguardo, l’affermazione che l’art. 75 del
Testo unico, attribuisca all’interprete siffatti poteri, laddove esso
testualmente consente la deduzione “ ... se e nella misura in
cui...”, ritenendo che il legislatore abbia in tal modo
implicitamente voluto attribuire il potere di valutare, in aggiunta
alla qualità dei componenti negativi da ammettere in deduzione,
anche la parte di essi che si ritiene siano giustificati da un punto di
vista quantitativo, ovvero appunto congrui.
2. Il caso dei compensi agli amministratori
La giurisprudenza si è spesso occupata dei casi nei quali
l’Amministrazione finanziaria, entrando nel merito delle decisioni
dell’impresa, ha ritenuto di poter disconoscere parte dei costi
rappresentati dai compensi agli amministratori, in quanto ritenuti
eccessivi rispetto a parametri oggettivi riferiti alla dimensione
dell’impresa stessa o dei suoi affari354.
Prima di prendere in considerazione le più recenti sentenze
della Cassazione, rappresentative dell’incertezza dello specifico
argomento, occorre tenere in debita considerazione il panorama e
354
Cass. 6502/2000, 7803/2000, 12819/2000, 15268/2000, 13478/2001.
227
l’evoluzione normativa che ha interessato i presupposti di
deducibilità del componente negativo in commento.
Nella vigenza del DPR 597/73, la norma di riferimento era
l’art. 59, il quale testualmente ammetteva in deduzione i compensi
deliberati a favore dei soci amministratori “... nei limiti delle
misure correnti per gli amministratori non soci.”, con un
approccio sostanzialmente riconducibile a quello sotteso nella
disposizione volta a contrastare il fenomeno del transfer price, e
cioè quello di usare come parametro di riferimento, alla stregua di
un ‘valore normale’, i compensi che si sarebbero erogati a soggetti
estranei, indipendenti. Le potenzialità elusive erano infatti state
individuate nella possibilità che, attraverso la fissazione di
compensi artificiosamente elevati, veniva abbattuto l’imponibile
Ilor a carico della società. I vantaggi fiscali dunque, per essere
mantenuti all’interno della compagine societaria, dovevano
riguardare compensi erogati ad amministratori che fossero altresì
soci, in quanto il loro maggior reddito imponibile veniva
comunque sottoposto alle aliquote progressive dell’Irpef.
Bisogna quindi interpretare la compatibilità logica della
esclusione di tale riferimento, nella norma dell’attuale Tuir che ha
sostituito la disposizione da ultimo citata, con il supposto potere
dell’Amministrazione finanziaria di procedere ad una valutazione
di congruità. Nell’art. 62355 infatti, la deducibilità dei compensi
agli
amministratori,
non
è
soggetta
ad
alcuna
esplicita
limitazione356.
355
L’art. 62 contempla il caso dei compensi agli amministratori di società di persone,
ma la norma è comunque applicabile anche alle società ed enti indicati nell’art. 87, I°
c., lett. a e b del Tuir, per l’espresso richiamo contenuto nell’art. 95, II° c..
356
Cfr. Cass. Sez. Trib. n. 8458 del 21/06/2000, secondo la quale addirittura, poiché
l’art. 62 ha innovato in maniera favorevole all’impresa la precedente norma (art. 59
228
Una prima indicazione utile può essere tratta dalla relazione
ministeriale allo schema del Tuir 917/86, ove viene affermato che
il limite di deducibilità contenuto nell’art. 59 era di “difficile ed
empirica applicazione”. Nulla lascia pertanto intendere una
volontà del legislatore di attribuire al Fisco il potere di determinare
autoritativamente
l’importo
ammissibile
in
deduzione
prescindendo da quanto stabilito nelle relative deliberazioni
societarie.
Anche in questa circostanza specifica, una attenta lettura
delle motivazioni delle sentenze, ha permesso di stemperare i
timori sorti nei primi commentatori sulle implicazioni di una tale
discrezionalità.
Ad esempio, nel caso deciso dalla Cassazione, con sent. n.
12813 del 17/05-27/09 2000, veniva avallato l’operato dell’ufficio
che aveva recuperato a tassazione compensi agli amministratori
ritenuti eccedenti rispetto al valore ritenuto congruo, con
l’affermazione che i compensi deliberati non costituiscono un
vincolo insindacabile dall’Amministrazione finanziaria, per di più
senza obbligo, per quest’ultima, di procedere al preventivo
disconoscimento della validità civilistica della delibera sociale.
Nella fattispecie la società, di modeste dimensioni per volume
d’affari e numero dei dipendenti, aveva deliberato la nomina di
tutti i cinque soci quali amministratori, attribuendogli un compenso
quasi doppio rispetto all’utile operativo.
Una successiva pronuncia, la n. 13478 del 10/11/2001, ha
aderito all’orientamento più sopra descritto, affermando anch’essa
la legittimità dell’operato dell’ufficio che, nel caso in esame, aveva
del 597/73), esso avrebbe efficacia retroattiva, a condizione che ricorressero le
condizioni di legge.
229
ritenuto il compenso all’amministratore sproporzionato rispetto ai
ricavi ed all’oggetto dell’impresa.
In senso opposto si è invece espressa la più recente Cass.
sez. trib. n. 6599 del 09/05/2002. Anzitutto ha affermato la natura
prettamente ‘qualitativa’ del giudizio di inerenza, negando inoltre
al Fisco il potere di entrare nel merito delle scelte imprenditoriali,
“... allo stato attuale della legislazione l’Amministrazione
finanziaria non ha il potere di valutare la congruità dei compensi
corrisposti agli amministratori delle società di persone per cui tali
compensi sono deducibili come costi ai sensi dell’art. 62 del
D.P.R. 917/86.”. Correttamente quindi la Corte, ha affermato che
fattispecie simili a quella in esame, non possono essere decise
ponendo il problema sul piano dell’inerenza, essendo questa
rilevante sotto il solo profilo qualitativo “... proprio perché
l’ordinamento riconosce all’imprenditore la libertà di impostare la
sua strategia d’impresa.”
Dalla lettura della sentenza, pare desumersi che essa abbia
probabilmente recepito le preoccupazioni espresse dalla dottrina a
commento delle sentenze precedentemente citate, ed abbia altresì
inteso
chiarire
alcuni
malintesi
ingenerate
dalle
stesse.
L’orientamento della dottrina infatti non ha avuto significative
oscillazioni, sempre pressoché unanime nel negare un tale ampio
potere discrezionale al Fisco e nell’attribuire al giudizio di
inerenza la sola dimensione qualitativa, ben evidenziato dal
Tesauro357, “... se una spesa è fatta in funzione dell’impresa, gli
uffici non possono disconoscere la deducibilità adducendo
motivazioni che attengono alla sfera discrezionale delle scelte
357
« Istituzioni di diritto tributario », vol. II, parte spec., Torino, 1996, pag. 118.
230
imprenditoriali.” e da E. De Mita358, “... il principio dell’inerenza
è di tipo qualitativo: serve ad escludere dalle voci passive dei
redditi netti le spese che non attengono alla vita dell’impresa.”
Dunque se il costo è inerente perché servente alla produzione di
ricavi, una volta accertata questa qualità del costo, è difficile dire,
senza sconfinare in una discrezionalità di portata inaccettabile, in
quale misura esso è deducibile o meno, a meno di constatare
l’esistenza di una indicazione normativa specifica che ponga un
tetto alle spese. E la circostanza che in taluni casi esistano dei
limiti specifici, depone a favore dell’insindacabilità nelle ipotesi
che detti limiti non prevedono359. Infine, si consideri la pressoché
impossibile prova contraria che l’imprenditore sarebbe così
chiamato a fornire, ovvero la dimostrazione dell’inerenza di un
costo esorbitante provando che da esso provengono effetti solo sul
reddito di impresa e non anche benefici ‘privati’.
Il contrasto rispetto al precedente orientamento ingenerato
da questa ultima sentenza ha determinato la rimessione di alcuni
processi insorti con riguardo ad identiche fattispecie, al primo
presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite onde
appunto ricondurre ad unità l’orientamento espresso nelle citate
sentenze.
Le
dall’esigenza
ordinanze360
di
sancire
in
questione
nascono
ufficialmente
la
quindi
correttezza
dell’impostazione, come osservato prima largamente condivisa in
dottrina, recepita nella sentenza da ultimo citata, ma anche come
358
In Il Sole 24 Ore del 13 dicembre 2001, pag. 25.
359
De Mita, op. cit. “... un limite quantitativo a una spesa inerente lo può porre solo
la legge.”
360
Cass. Sez. Trib., ordinanze nn. 9024 e 9025, del 20/06/2002.
231
conferma che neppure le sentenze che avevano avvallato le pretese
dell’amministrazione, avevano l’intenzione di sancire un così
ampio potere discrezionale in capo ad essa, bensì legittimare
l’insorgere di sospetti di elusione e dunque, a seguito comunque di
ulteriori indagini, il ricorso all’accertamento analitico-induttivo.
Era inoltre necessario fare chiarezza sugli elementi posti a base di
tale giudizio di congruità sulla cui scelta le sentenze criticate hanno
sicuramente peccato di imprecisione. La valutazione della
congruità del costo infatti, come in qualunque rapporto
sinallagmatico (e la prestazione d’opera degli amministratori è
senza dubbio tale) deve raffrontare l’esborso pattuito con il valore
dell’opera richiesta agli amministratori quale legittimamente
ipotizzabile al momento della fissazione dello stesso, evitando una
valutazione, per giunta ex post, con riferimento a componenti per
loro natura variabili ed aleatori. Per esemplificare, dire che il
compenso è sproporzionato al volume d’affari conseguito, spesso
si rivela scorretto, e comunque sempre riduttivo, infatti il
compenso, deliberato361 ex ante, potrebbe rivelarsi eccessivo a
seguito di una repentina contrazione degli affari che deprime
l’ammontare complessivo dei ricavi, senza per ciò solo aver violato
il sinallagma originario (anzi talvolta alterandolo a svantaggio
dell’amministratore il quale si è trovato a dover affrontare dei
problemi
maggiori
rispetto
a
quelli
ordinariamente
ed
originariamente previsti). E cosa dire dell’ipotesi (tutt’altro che
361
Per motivi di sintesi non si sono fatte distinzioni tra amministratori di società di
persone, sulla cui spettanza di diritto del compenso vi è contrasto di posizioni in
dottrina (Cfr. Galgano, Le società in genere. Le società di persone. Milano, 1982,
pag. 228, nota 84. Buonocore, Castellano, Costi, Società di persone, Milano, 1978,
pag. 550. Mignoli, Nobili, Amministratori (di società), in Enc. del diritto, Milano,
1958, pag. 233. Auletta, Comunione familiare e società. Diritto a compenso del socio
amministratore. In Riv. di dir. comm.le, 1948, II, pag. 299) ed amministratori di
società di capitali, per i quali la fonte del diritto al compenso è rinvenibile nelle
disposizioni del Codice Civile.
232
rara) di una impresa che si trovi ancora nella fase di avvio, pertanto
senza aver conseguito ancora alcun ricavo, ma i cui amministratori
devono affrontare i problemi critici di una gestione in fase di
implementazione?
Può dunque affermarsi, in conclusione, che nella generalità
dei casi ove si riscontri un comportamento imprenditoriale che
appare non essere economicamente plausibile, si renderanno
necessarie ulteriori indagini, nonché l’instaurazione di un
procedimento in contraddittorio con la parte, onde valutare se nel
caso specifico l’antieconomicità non sia altro che la spia di una
condotta elusiva (o evasiva), ovvero dettata da strategie di impresa
che non sempre, a prima vista, appaiono di facile lettura362,
soprattutto ai profani dell’economia aziendale e del marketing che
naturalmente abbondano tra coloro che si trovano a dover
verificare, accertare ed infine decidere su casi del genere.
L’assenza di adeguate giustificazioni potrà pertanto consentire
all’ufficio di procedere, sulla base comunque di elementi raccolti
nelle ulteriori indagini, all’accertamento analitico-induttivo ex art.
39, I° c. lett. d) del DPR 600/73 come sarà più estesamente
argomentato nel paragrafo che segue.
3. Antieconomicità e accertamento induttivo
Quanto detto al termine del precedente paragrafo è
avvalorato da una rilettura delle sentenze 12813/2000 e
13478/2001, le quali, al di là dell’utilizzo un pò maldestro di
362
Se una compagnia aerea decidesse di far decollare un volo nonostante la presenza
a bordo di un solo passeggero, alla base della decisione potrebbero esserci
considerazioni legate ad esempio all’immagine o ad accordi con associazioni dei
consumatori, l’Amministrazione finanziaria non potrebbe insomma disconoscere il
relativo costo per il solo fatto che appaia antieconomico
233
alcune espressioni, si possono agevolmente porre all’interno di
quell’orientamento, abbastanza consolidato ed assolutamente
condivisibile, che vede l’Amministrazione finanziaria sicuramente
titolare del potere di giudicare la congruità di quanto indicato nelle
delibere, come negli atti negoziali in genere, nell’ambito del
potere-dovere di accertamento delle imposte, ma senza che ciò
implichi
necessariamente
anche
il
potere
di
sostituire
automaticamente tale valore con altro ritenuto congruo.
Nonostante il tenore delle affermazioni fatte sia stato da
alcuni autori interpretato come una pericolosa affermazione della
possibilità di procedere ad una automatica rettifica dei valori
disallineati a quanto ritenuto congruo, con l’utilizzo inoltre di
parametri assai discutibili, l’attenzione sulle decisioni criticate in
dottrina deve essere incentrato sul giudizio di legittimità circa il
ragionamento presuntivo operato dall’ufficio. In altre parole, e per
‘salvare’ almeno parzialmente i ragionamenti della Corte, potrebbe
agevolmente sostenersi che essi intendessero affermare che la
insindacabilità delle decisioni imprenditoriali non deve e non può
portare alla paralisi dell’azione accertatrice, in tal modo lasciando
gli organi ad essa preposti disarmati di fronte a palesi manovre
elusive attuate dai contribuenti, ma l’irragionevolezza delle
decisioni imprenditoriali ben può costituire la base di un
ragionamento logico-deduttivo il quale, corroborato da altri
elementi, sterilizzi le decisioni imprenditoriali da qualsiasi intento
elusivo.
Notevoli spunti di indagine possono essere tratti da altre
recenti pronunce di legittimità, in una nota sentenza363 ad esempio,
363
Cass. sez. trib. N. 1821 del 18/10/2000 09/02/2001.
234
la Corte aveva espressamente affermato che “...la regola alla
quale si ispira chiunque svolga una attività economica è quella di
ridurre i costi, a parità di tutte le altre condizioni”; e che
“pertanto, in presenza di un comportamento che sfugga a questo
parametro di buon senso e in assenza di una sua giustificazione
razionale, è legittimo il fondato sospetto che la incongruenza sia
soltanto apparente e che dietro di essa si celi una diversa realtà.”,
così avallando l’accertamento analitico-induttivo di un maggior
reddito, fondato su un comportamento giudicato appunto
antieconomico. Si trattava nella fattispecie di un commerciante il
quale con uno stratagemma alterava le indicazioni apposte nelle
bolle di accompagnamento, onde far ritenere che avesse trasportato
modiche quantità di prodotti. I verificatori, partendo dalla
constatazione che l’effettuazione di plurimi trasporti ravvicinati nel
tempo di pochi prodotti a basso valore unitario, fosse un
comportamento contrario a qualsiasi logica commerciale, avevano
desunto la falsità materiale delle bolle stesse. In sostanza, il
comportamento antieconomico, lungi dall’essere direttamente
sindacato, ha costituito la base di un ragionamento logicodeduttivo che ha corroborato la tesi dell’alterazione delle bolle allo
scopo di effettuare vendite “in nero364”, mentre non sono stati
contestati
i
costi
dei
trasporti
ancorché
riconosciuti
‘antieconomici’. Nel motivare la propria decisione però, i giudici
non
sono
stati
altrettanto
abili
quanto
alcuni
arguti
commentatori365, nel sottolineare una tale corretta ricostruzione,
364
Circostanza questa decisiva per sottolineare che trattasi di fattispecie riconducibile
all’evasione e non all’elusione fiscale.
365
Vedasi i commenti di Lupi, “Equivoci in tema di sindacato del fisco
sull’economicità della gestione aziendale”, in Rass. trib. 1/2001, pagg. 214 e ss; Ivo
Caraccioli, “Antieconomicità ed evasione fiscale”, in Il fisco 8/2001, pagg. 3143 e
235
con l’utilizzo di alcune espressioni e riferimenti effettivamente
suscettibili di una diversa e preoccupante interpretazione366 e cioè
verso una ipotetica giustificazione dell’ingerenza del Fisco nelle
scelte imprenditoriali in caso di comportamenti giudicati
“antieconomici”.
Significativa al riguardo di tale orientamento, la sentenza
della Suprema Corte n. 6337 del 03/05/2002 367che ha deciso per la
legittimità del ricorso all’accertamento ex art. 39, I° c. lett. d) del
DPR 600/73, anche in caso di contabilità formalmente regolare368,
ma
considerata
complessivamente
inattendibile
in
quanto
confliggente con i criteri della ragionevolezza, “anche sotto il
profilo
della
antieconomicità
del
comportamento
del
contribuente.”.
Anche la più recente sentenza n. 10802 del 24/07/2002369, ha
indotto
all’equivoco
alcuni
dei
primi
commentatori370,
ss.; Toscano, “Il comportamento ‘antieconomico’ dell’imprenditore”, in Riv. della
G. di F. 4/2001, pagg. 1675 e ss.
366
Ad esempio i riferimenti assolutamente privi di fondamento giuridico all’art. 37bis e ad una interpretazione di assoluta fantasia di alcune disposizioni contenute nello
Statuto del contribuente, per le quali si rimanda agli Autori di cui alla nota
precedente.
367
Commentata in Corr. Trib. 41/2002, pagg. 3737 e ss..
368
Nello stesso senso, Cass. n. 10649, del 03/08/2001, secondo la quale “... deve
ritenersi legittima, a mente degli artt. 38 e 39 del DPR 600/73, la rettifica induttiva
del reddito d’impresa operata in presenza di contabilità formalmente regolare
quando, sulla base di presunzioni dotate dei requisiti prescritti dall’art. 2729,
comma 1 del Cod. Civ., possa fondatamente ritenersi che l’entità del reddito
dichiarato si ponga in evidente contrasto con il comune buonsenso e con le regole
basilari della ragionevolezza.” nella fattispecie si trattava di scostamento nelle
percentuali di ricarico dichiarate.
369
Già citata a proposito del transfer pricing interno.
370
Cfr. Iorio, “Sprechi in azienda al vaglio del Fisco”, articolo apparso su Il sole 24
Ore del 02/08/2002.
236
probabilmente a motivo del riferimento al criterio del valore
normale quale principio generale anziché, come ho già in
precedenza affermato, quale deroga al (vero) principio generale di
rilevanza dei corrispettivi pattuiti. Più probabilmente, il riferimento
al ‘valore normale’ o più precisamente, allo scostamento da esso
dei corrispettivi pattuiti, lungi dal consentire una automatico
adeguamento in rettifica, era da considerarsi quale indice di un
comportamento antieconomico il quale, a sua volta, costituirebbe
una presunzione grave, precisa e concordante che legittima
l’ufficio a procedere ad un accertamento analitico-induttivo ex art.
39 I°, lett. d371). Riguardo l’utilizzo delle presunzioni, la Corte ha
infatti precisato che “non occorre che l’esistenza del fatto ignoto
rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto secondo
un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva, ma è sufficiente
371
In questo senso, Anello, “La Cassazione interviene ancora sulla sindacabilità dei
comportamenti economici”, in Corr. Trib. 39/2002, pagg. 3545 e ss. che
approfondisce acutamente l’aspetto procedimentale e probatorio dell’accertamento
analitico-induttivo affermando che esso “...in sostanza non richiede
necessariamente,..., la presenza di una prova rappresentativa (e cioè un giudizio di
fatto basato su documenti e altri elementi simili), ma ritiene sufficiente la sussistenza
di una prova presuntiva....purché la presunzione sia dotata dei requisiti di gravità,
precisione e concordanza.”. Per altri profili della sentenza vedasi pagg. 134 e ss. del
presente scritto. Nello stesso senso, ma con argomenti meno ‘fantasiosi’, la
successiva sent. n. 11240, del 30/07/2002, ove si legge che: “... rientra nei poteri
dell’Amministrazione finanziaria (ai fini dell’imposizione sul reddito,...) la
valutazione della congruità dei costi e ricavi esposti in bilancio e nelle dichiarazioni
e la rettifica di queste ultime, anche se non ricorrono irregolarità nella tenuta delle
scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’impresa, con
negazione della deducibilità, totale o parziale, di un costo ritenuto insussistente o
sproporzionato. Gli uffici finanziari non sono, pertanto, vincolati ai valori o
corrispettivi indicati in delibere sociali o contratti. In materia di imposizione del
reddito d’impresa una consolidata giurisprudenza della Corte ha, più in generale,
riconosciuto il potere dell’Amministrazione finanziaria di rettificare componenti
negativi del reddito, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), DPR 600/73, anche in
presenza di una contabilità regolarmente tenuta.
237
che dal fatto noto sia desumibile quello ignoto, secondo un
giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit372.”
Non appare invece corretto l’utilizzo dell’accertamento
induttivo previsto dal successivo II° comma dello stesso articolo,
ed approvato dalla Suprema Corte con la sentenza n. 11645 del
17/09/2001, infatti i presupposti di tale tipo di strumento
accertativo, che consente di prescindere totalmente dalle risultanze
della contabilità, richiedono che essa non sia stata tenuta, sia stata
(dolosamente) sottratta alla disponibilità dei verificatori ovvero, se
tenuta, presenti una serie di inesattezze gravi e ripetute, tali da
consentirne il disconoscimento. Ebbene è proprio a quest’ultima
circostanza che la Corte ha ricondotto il comportamento giudicato
manifestamente
antieconomico,
ed
è
proprio
da
questa
affermazione che nascono le critiche. I giudici di legittimità infatti,
hanno sostenuto che la constatazione di un incoerente rapporto
ricavi/immobilizzazioni e ricavi/costo del lavoro dipendente,
sommato all’elevato indebitamento verso le banche, avrebbe
legittimato
l’Amministrazione
finanziaria,
in
assenza
di
giustificazioni plausibili del contribuente, a ritenere inattendibile
nel suo complesso la contabilità e quindi a procedere
all’accertamento induttivo (anche) sulla base di presunzioni prive
dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, richieste invece
nel I° c. lett. d) dello stesso articolo. Decisiva appare la circostanza
che né l’art. 39 II° c., né il decreto373 che ha fissato i criteri per
poter legittimamente considerare inattendibile la contabilità,
facciano menzione alcuna degli elementi posti a base del
372
Cass. sent. nn. 12212 del 15/09/2000, 5082 del 06/06/1997, 2700 del 26/03/1997,
2605 del 06/03/1995, 7213 del 26/06/1995, 4555 del 06/06/1998, 8089 del
05/09/1996.
373
DPR 570 del 16/09/1996.
238
ragionamento della Corte. Si rileva inoltre che accettare tale
orientamento significherebbe attribuire al Fisco, non già un
limitato potere di sindacare alcune scelte imprenditoriali,
comunque attraverso la mediazione di un ragionamento presuntivo
e con accertamento analitico-induttivo, bensì un inopportuno
potere di sindacare l’economicità della conduzione dell’impresa
complessivamente considerata, il cui andamento è sintetizzato nei
citati indici.
In ogni caso però, il dibattito che potrebbe legittimamente
sorgere di fronte a decisioni del tenore analogo a quello appena
commentato,
riguarda
la
possibilità
che
la
manifesta
antieconomicità, così come la mancanza di inerenza per difetto di
congruità, altro non siano se non concetti derivanti da una estesa
accezione delle valide ragioni economiche le quali pertanto non
sarebbero più confinate nei limiti imposti dall’art. 37-bis,
assumendo valore di parametro generale di riferimento per
qualsiasi operazione aziendale, fornendo in tal modo però un’arma
impropria al Fisco. Non può essere infatti sottovalutata la
circostanza che il legislatore, nelle ipotesi nelle quali ha ritenuto
opportuno attribuire ad esso siffatti poteri, lo ha fatto con
specifiche ed esplicite disposizioni di legge, in modo da garantire
l’adeguata limitazione della discrezionalità amministrativa, e
prevedendo un insieme di norme procedurali a garanzia del diritto
alla difesa anche attraverso la previsione dell’obbligo del
preventivo contraddittorio. Non può dunque essere accettata una
simile impostazione che confliggerebbe con tutti quei principi a
tutela dei quali le predette limitazioni sono state poste. In altre
parole, per tale via sarebbe sostanzialmente riconosciuta la
presenza nell’ordinamento di una norma antielusiva generale,
239
basata sul principio della sostanza sopra la forma, tesi questa
oramai risalente ed abbandonata, attraverso la considerazione delle
valide ragioni economiche alla stregua di un generale parametro di
riferimento di ogni sorta di operazione aziendale, dipendente da
considerazioni soggettive dell’organo amministrativo, la cui
discrezionalità non avrebbe inoltre alcun esplicito confine stabilito
dal legislatore. Appare a questo punto doveroso il semplice
richiamo, trattandosi di considerazioni già svolte nel presente
lavoro, circa i principi che verrebbero pregiudicati da una tale
accezione, quello della riserva di legge, della capacità contributiva,
del diritto di difesa e dell’autonomia privata, con ovvie
ripercussioni sulla certezza del diritto e dei traffici che non trovano
giustificazione nella pur innegabile circostanza che, in tal modo,
alcune fattispecie elusive verrebbero sicuramente colpite.
È inoltre da rilevare, che l’esame dell’evoluzione degli
strumenti di accertamento messi a disposizione del Fisco ha
evidenziato una costante tendenza dalla originaria prevalenza del
metodo analitico al sempre più massiccio favore verso quello
induttivo, logico corollario, si può affermare, dell’analoga
tendenza a tassare non già un reddito effettivo, quanto invece uno
‘medio’. Con la riforma tributaria degli anni ’70, detta tendenza
trovò chiara espressione nella legge delega 825/71374 e, in seguito
negli artt. 39 del DPR 600/73 e 54 del DPR 633/72.
Successivamente l’estensione dell’accertamento induttivo è stata
ampliata, dapprima con gli artt. 2 comma 29 e 3 del DL n. 853 del
19/12/1984, convertito, con modifiche dalla l. n. 17 del
374
Cfr. Art. 10, n. 4, che delegava il Governo ad emanare una normativa che
consentisse il ricorso alla prova per presunzioni “dell’esistenza di attività non
dichiarate o dell’inesistenza di passività dichiarate”, solo in presenza dei “requisiti
indicati nel I° comma dell’art. 2729 del cod. civ.”
240
17/02/1985, poi dagli artt. 11 e 12 del DL n. 69 del 02/03/1989,
convertito, con modificazioni, dalla l. n. 154 del 27/04/1989, con i
quali sono stati introdotti i coefficienti di congruità e presuntivi di
reddito. Infine, il definitivo abbandono delle forme di accertamento
analitico è avvenuto con l’art. 62-sexies, III° c., del DL 331 del
30/08/1993, che ha previsto la possibilità di procedere ad
accertamento analitico-induttivo in base alla constatazione di gravi
incongruenze tra i ricavi, compensi, e corrispettivi dichiarati,
rispetto a quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e
dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero
dagli studi di settore.
Ebbene
le
accennate
incongruenze
possono
essere
indubbiamente ravvisate in alcuni comportamenti del contribuente
che si pongano in palese contrasto con regole consolidate e di
comune esperienza, che normalmente dovrebbero accompagnare la
generalità delle decisioni imprenditoriali, non intendendo con ciò
anche la possibilità di intervenire automaticamente in seguito alla
sola constatazione della carenza di valide ragioni economiche,
richiedendosi invece la ricerca di ulteriori elementi ad integrazione
dei dati statistici per raggiungere la soglia della gravità, precisione
e concordanza richiesta dalla norma, e garantendo la possibilità di
fornire la prova contraria attraverso la fissazione di precise regole
procedurali. Lo strumento degli studi di settore si presenta come
affinamento dei precedenti parametri e coefficienti presuntivi nelle
diverse forme proposte nell’ultimo decennio circa, accompagnato
da un tangibile miglioramento anche dal punto di vista prettamente
procedurale e della possibilità di difesa da parte del contribuente.
Si è insomma assistito ad un processo per via del quale, la
validità delle indicazioni delle scritture contabili è oramai soggetta
241
ad un duplice controllo, che tenga conto dei due aspetti rilevanti
della attendibilità, quella cioè formale e quella sostanziale, ma la
maggiore rilevanza attribuita a questo ultimo aspetto, ha messo in
crisi la stessa funzione dell’impianto contabile e degli adempimenti
formali ad esso correlati.
La
recente
introduzione
del
cosiddetto
concordato
preventivo triennale, previsto dall’art. 6 della legge finanziaria per
il 2003, ancorché sia per ora a livello di programma essendo
demandata ad un futuro regolamento del Ministro dell’Economia e
delle Finanze, l’individuazione delle concrete modalità attuative,
costituisce prova che le esigenze di poter contare su entrate certe,
ha suggerito al legislatore di continuare, anzi accentuare la
tendenza sommariamente descritta in precedenza. Chi scrive è
dell’idea che si sia probabilmente esagerato, mortificando oltre
ogni misura sostenibile il lavoro dell’Amministrazione finanziaria,
accettando un reddito sicuramente inferiore a quello reale e talvolta
a quello agevolmente accertabile attraverso gli ordinari poteri
istruttori.
Il parallelismo individuabile fra metodi di determinazione
del reddito e di accertamento in base a coefficienti ha però spesso
determinato una illegittima sostituzione dell’Amministrazione
finanziaria al legislatore sia nell’individuazione delle procedure
esperibili, sia, che è peggio, nelle determinazioni del relativo
contenuto, assumendo così i connotati di un comportamento
arbitrario. La legittimità delle cennate forfetizzazioni infatti, esige
la compiuta previsione legislativa delle stesse, per evitare una
palese violazione della riserva di legge. Devesi altresì osservare
che tali metodologie dovrebbero essere eccezionali, transitorie,
mentre si stanno rivelando sempre più ordinarie e permanenti,
242
deprimendo oltremodo la rilevanza del principio di capacità
contributiva.
Per quanto conferente con l’oggetto della presente ricerca, si
può affermare che la presenza di una serie di strumenti di
accertamento presuntivo-statistici i quali trovano la propria
legittimazione nella constatazione di una divergenza non spiegata
tra valori rilevati in contabilità e quelli calcolati sulla base degli
strumenti statistici approntati dal legislatore ed applicabili nel caso
concreto, forniscono ampie possibilità all’organo procedente che
potrà
richiedere
antieconomico
sia
che
un
comportamento
giustificato
in
maniera
manifestamente
plausibile
dal
contribuente, conferendo in caso contrario legittimità alla
ricostruzione del reddito su base analitico-induttiva, ma si deve
altresì aggiungere che detta antieconomicità deve essere
assolutamente evidente e rilevante ed inoltre deve tenere conto di
considerazioni
economico-aziendalistiche, ritenendosi inoltre
inopportuna la pretesa di fissare regole generali ed aprioristiche,
incompatibili con una indagine che deve necessariamente limitarsi
al caso concreto.
È questa quindi la corretta chiave di lettura delle recenti
sentenze della Cassazione inquadrate dalla dottrina nell’ambito del
sindacato del Fisco sulle scelte imprenditoriali, le quali, altrimenti
intese, si rivelerebbero assolutamente scorrette e contrarie ai più
elementari principi costituzionali e non. Occorre però tenere in
debita considerazione che la presenza di una palese ed illogica
gestione aziendale, tale da far legittimamente sospettare una non
veritiera (ancorché formalmente corretta) rappresentazione dei
valori contabili, non può costituire il fondamento analitico delle
relative contestazioni, e ciò contribuisce a spiegare in tali casi, le
243
maggiori possibilità di utilizzare con successo lo strumento
previsto nel I° comma dell’art. 39 rispetto a quello previsto invece
al II° comma dello stesso, a meno di poter disconoscere
completamente la contabilità in quanto non tenuta, sottratta alla
disponibilità degli organi procedenti o irregolare secondo i
parametri fissati dal DPR 570/96, ovvero per la presenza di
irregolarità gravi e ripetute.
Al riguardo infatti, le generali disposizioni in materia di
onere
della
prova,
richiedono
l’obbligo,
da
parte
dell’Amministrazione finanziaria, di produrre gli elementi di prova
a suffragio del supposto incremento del reddito. A tal proposito
possono citarsi i casi di rettifiche effettuate sostituendo la
percentuale di ricarico desunta dalla contabilità con quelle medie
di settore nel caso in cui le prime si discostino in maniera
significativa dalle seconde. In questi casi detta sostituzione appare
illegittima, infatti la constatazione di un congruo scostamento
certamente può legittimare l’ufficio a sviluppare ulteriormente il
controllo attraverso la rilevazione, in base ai prezzi di acquisto
rilevati dalle fatture e i prezzi di vendita effettivamente praticati, e
con il metodo della media ponderata, del ricarico realmente
applicato, con la conseguente rideterminazione dei ricavi che
legittimamente si può presumere siano stati conseguiti. La
Cassazione375 ha più volte sostenuto che i valori percentuali medi
del settore, non possono essere considerati quel ‘fatto noto’
storicamente verificato dal quale desumere il fatto ignoto che
costituisce l’oggetto della dimostrazione da fornire. Alla stessa
375
Cfr. Cass., sez. I civ., nn. 9385 del 04/09/1999, 5850 del 26/05/1995, 1628 del
15/02/1995 e 10850 del 17/12/1994; Cass. sez. trib., n. 6499 del 19/05/2000. In tal
senso anche Comm. trib. reg. L’Aquila, sent. n. 167 del 14/01/2002
244
maniera, l’antieconomicità del comportamento tenuto non può
legittimare la sostituzione dei valori, espressi in accordi la cui
intrinseca validità giuridica non è contestata, con quelli ritenuti,
dallo steso organo procedente, maggiormente rispondenti ad una
logica di mercato. Non si vedono infatti gli strumenti giuridici che
possano consentire di pervenire ad una oggettiva determinazione di
quest’ultimo attributo. Se così non fosse, assisteremmo ad un serie
di accertamenti effettuati ‘a tavolino’, senza cioè alcun controllo
delle specificità che contraddistinguono ciascuna azienda, con
l’ulteriore aberrante conseguenza che il contribuente dovrebbe
fornire la prova di aver conseguito ricavi pari a quelli indicati nella
contabilità, sempre che la stessa sia giudicata attendibile.
Altre volte invece, l’accertamento analitico-induttivo ha
ottenuto il (giusto) riconoscimento della stessa Corte quando,
rilevate dalla verifica in azienda le specifiche modalità di esercizio
dell’attività, si procedeva ad una ricostruzione analitico-induttiva
fondata su regole di comune esperienza. Ad esempio376 constatata
la incoerenza della percentuale di ricarico dichiarata da un
ristoratore, determinata da una quantità di acquisti eccessiva
rispetto ai pasti contabilizzati, si procede alla determinazione del
numero di clienti effettivamente serviti, attraverso il ‘consumo’ di
tovaglioli (desunto dalle fatture della lavanderia). In casi analoghi
a quello sopra esemplificato377 appaiono infatti rispettate le regole
di un corretto ragionamento presuntivo, soprattutto se verificatori
ed accertatori, in sede di materiale ricostruzione, si avvalgono dei
dati relativi al consumo di materie prime, percentuali di resa e di
376
Cfr. Cass. sez. civ., nn. 12212 del 15/09/2000, 51 del07/01/1999, 12274 del
22/12/1988, 12482 del 11/12/1998.
377
Ad es. Cass. sez. I, civ. n. 239 del 11/01/1999.
245
sfrido, prezzi e sconti mediamente praticati ecc., sulla base di
quanto dichiarato nell’ambito del contraddittorio instaurato con il
contribuente.
Quanto sopra dunque vale a legittimare, nei casi previsti
dalle norme parametriche e forfetarie di determinazione del
reddito, l’utilizzo dell’accertamento analitico-induttivo, nei modi e
con le cautele indicate dalle stesse, mentre di fronte ad un
comportamento antieconomico, inteso come carente delle valide
ragioni economiche, quest’ultima circostanza potrà, al più,
costituire l’input per svolgere ulteriori indagini che consentano il
reperimento di elementi tali da consentire una legittima
ricostruzione del reddito su base presuntiva. Lo strumento così
delineato appare comunque maggiormente applicabile a fattispecie
evasive compiute da piccole e medie imprese, mentre maggiori
cautele dovranno osservarsi in sede di controllo riferito alle
imprese di più grandi dimensioni, le quali ricorrono a metodologie
(elusive) più sofisticate per ‘nascondere’ materia imponibile al
Fisco.
Conclusioni
Il lavoro di ricognizione sui possibili strumenti a
disposizione dell’Amministrazione finanziaria per contrastare le
maliziose elusioni degli obblighi di contribuzione alle pubbliche
spese, in particolare quelle attuabili nascondendosi dietro il riparo
fornito dai principi dell’ordinamento che attribuiscono ai privati
una larga discrezionalità nella scelta dei modi e dei tempi di
disposizione dei propri diritti in vista del raggiungimento di fini
protetti
in
quanto
meritevoli
246
di
tutela,
ha
evidenziato
impietosamente la grave inadeguatezza dell’attuale normativa in
materia tributaria.
Il Fisco, soprattutto allorché il fenomeno elusivo è, per così
dire, esploso, si è trovato in deficit di mezzi per contrastarlo.
Abbiamo quindi assistito ai suoi tentativi di espandere la propria
discrezionalità, esaminandone principalmente due aspetti, quello
del superamento delle forme negoziali predisposte dai contribuenti,
qualificando il negozio in modo da fare emergere la reale sostanza
economica dell’accordo e quello del sindacato sulla economicità
delle scelte imprenditoriali.
L’operato dell’Amministrazione finanziaria, si è così
inevitabilmente trovato a dover fare i conti con quei principi
dell’ordinamento che, come in precedenza ricordato, garantiscono
ampie
libertà
ai
cittadini.
Diviene
pertanto
inderogabile
l’individuazione dei confini entro i quali non solo i cittadini, ma
anche il Fisco, possono legittimamente muoversi. È apparso altresì
evidente, che è questione assolutamente pregiudiziale, quella di
discriminare correttamente i comportamenti effettivamente elusivi,
da quelli di mero risparmio di imposta, poiché la scelta dello
strumento giuridico meno oneroso fiscalmente, non può essere
considerato di per sé elusivo, allorché sia stato lo stesso legislatore
a consentire consciamente la possibilità di scegliere tra strumenti
alternativi per il raggiungimento di un medesimo fine, attribuendo
a questi ultimi una pari dignità giuridica. Si rivela pertanto
necessaria una valutazione da effettuarsi il più delle volte caso per
caso, rivelandosi allo scopo da non sottovalutarsi le potenzialità di
un corretto utilizzo dello strumento dell’interpello preventivo, non
più limitato ad alcune sole tipologie di operazioni, ma
247
generalizzato a qualsiasi situazione potenzialmente suscettibile di
determinare un conflitto di interpretazioni.
Con
riferimento
allo
specifico
strumento
della
‘qualificazione’ giuridica per il superamento della barriera della
autonomia negoziale, il contributo giurisprudenziale ha chiarito in
modo pressoché unanime la portata del principio sotteso,
deludendo in maniera quasi assoluta le pretese degli uffici, anche
se spesso a causa del fatto che essi, imperterriti, continuavano a
fare riferimento all’art. 20 della attuale legge di registro come ad
un principio generale, consentendo ai giudici di evitare molto
spesso di entrare nello specifico argomento dell’autonomia
negoziale. Si ritiene che comunque l’attribuzione di un tale potere
all’Amministrazione finanziaria, anche prescindendo dalle carenze
di questa ultima, non sia auspicabile né condivisibile. Troppo alto
sarebbe il prezzo in termini di perdita di certezza del diritto in
generale e dell’imposizione in particolare, con il conseguente
ostacolo al libero esplicarsi ed evolversi delle relazioni
economiche.
A conclusioni non molto diverse si perviene, quando si
paventa la possibilità di consentire al Fisco di entrare all’interno
dell’area decisionale dell’azienda, in guisa da consentirle di
sindacarne le scelte. La posizione contrapposta degli interessi in
gioco, implica necessariamente che l’organo amministrativo tenda
verso la opzione fiscalmente più gravosa. Ipotizzare automatismi
nella sostituzione dei corrispettivi pattuiti, e per giunta in ambito
generale non è dunque soluzione accettabile in un paese civile.
Devesi altresì riconoscere però che se quanto appena detto è
vero, è altrettanto vero ed incontestabile che il riconoscimento di
sacrosanti diritti e libertà ai privati, non può essere inteso in una
248
accezione talmente ampia da paralizzare l’attività, anch’essa
meritoria, di garanzia dell’assolvimento degli obblighi derivanti
dal principio di solidarietà e quindi di contribuzione alle pubbliche
spese in ragione della propria capacità contributiva, in osservanza
altresì del principio di uguaglianza. In altre parole, non è
ammissibile che l’Amministrazione finanziaria sia impotente anche
di fronte a quelle ipotesi in cui il comportamento del contribuente
sia in palese contrasto con le più elementari regole di buon senso e
ragionevolezza.
In
conclusione,
preso
atto
dell’atteggiamento
ostile
all’introduzione in Italia di una norma antielusiva generale, il
contrasto all’elusione fiscale perpetrata attraverso l’abuso dello
strumento negoziale, ovvero del principio generale che vede la
prevalente rilevanza dei corrispettivi pattuiti può, nei casi più
eclatanti, essere attuata mediante gli attuali strumenti accertativi
fondati su presunzioni gravi, precise e concordanti, allorché tali
requisiti possano legittimamente ravvisarsi in una serie di indizi
dei quali, l’antieconomicità del comportamento, ovvero la
sproporzione tra corrispettivo e valore oggettivamente attribuibile
al bene o servizio, ne costituiscano il principale, ma non
l’esclusivo. Certo in questo modo potranno essere colpite con
maggiore efficacia le sole ipotesi più evidenti, come la
giurisprudenza della Cassazione ha più volte avuto modo di
confermare, ma ciò proverebbe che una discrezionale valutazione
dei fatti è comunque possibile, laddove ragionamenti basati sul
buon senso e la ragionevolezza, trovino ulteriori riscontri oggettivi
nel comportamento, anche successivo, delle parti, specificando al
riguardo che ciò non deve intendersi come valutazione ex post del
risultato economico concretamente ottenuto, soggetto all’alea
249
tipica
delle
scelte
imprenditoriali,
bensì
nel
senso
che
l’Amministrazione possa ricondurre ad operazione complessa, una
serie di operazioni che, ancorché separatamente considerate
appaiano insindacabili, siano state concepite unitariamente in vista
del raggiungimento di un fine prettamente di risparmio fiscale, e
ciò risulti in base ad un ragionamento coerente. Si deve inoltre
evitare di ‘farcire’ le motivazioni degli avvisi di accertamento di
riferimenti, anche legislativi, tra loro incoerenti, in sostanza, una
volta scelta una concatenazione motivazionale, bisogna seguirla in
modo diretto, senza tentare di avvalorare la propria tesi con
frammentarie argomentazioni parallele. In parole povere è quanto a
dire che due “mezze motivazioni” non equivalgono ad una
motivazione.
Non potranno pertanto accettarsi estensioni delle fattispecie
imponibili per assimilazione, analogia o qualunque altro
ragionamento metagiuridico ancorché ‘logico’, onde evitare di
incorrere in censure per la violazione della riserva di legge, e la
medesima considerazione vale allorché si tratti di disposizioni
antielusive specifiche, le quali, sottoponendo a tassazione
fattispecie altrimenti non imponibili, assumono la stessa portata
sostanziale che ne inibisce qualsiasi estensione ai casi non
esplicitamente previsti. Né potrà farsi ricorso ad istituti finalizzati
alla tutela di interessi differenti, come quelli civilistici della
simulazione e del negozio in frode alla legge.
Dare una ‘ricetta’ a questa ‘malattia’ cronica e congenita
dell’ordinamento tributario è cosa che non rientra nelle mie
possibilità, potendomi limitare alla constatazione ben nota in
dottrina, della necessità improcrastinabile di un miglioramento
della
tecnica
legislativa
in
materia
250
tributaria,
con
la
predisposizione di Testi unici la cui stabilità non venga
pregiudicata dalle esigenze di gettito e con l’abbandono della
pretesa di utilizzare sempre e solo la leva fiscale anche per
risolvere problemi che potrebbero essere affrontati attraverso altri
strumenti privi degli effetti collaterali appena ricordati. Invece di
predisporre una giungla di regimi fiscali differenti e alternativi, in
funzione agevolativa, sarebbe in taluni casi possibile, quanto
auspicabile, optare per il potenziamento delle politiche industriali e
di predisposizione di adeguate infrastrutture, in modo da tendere al
medesimo risultato, limitando così la parcellizzazione dei regimi
stessi, caratteristica questa che presta il fianco a facili
strumentalizzazioni.
Il recupero dell’immagine del Fisco e della percezione di
equità e doverosità della contribuzione, sono aspetti da migliorare
per raggiungere il necessario grado di correttezza tendenziale del
dialogo tra privati e pubblici poteri, imprescindibile requisito di un
sistema fondato sulla autodeterminazione delle imposte. Un valido
contributo in tale direzione potrebbe ravvisarsi in una seria lotta
agli ‘evasori totali’, mediante il potenziamento dell’utilizzazione
delle banche dati sempre più numerose e disponibili su internet, in
modo da lanciare un chiaro messaggio anche di incoraggiamento ai
contribuenti ‘regolari’, tutelandoli al tempo stesso dalle distorsioni
della concorrenza che essi subiscono da chi svolge la loro stessa
attività, ma evitando l’intero carico tributario. A mio avviso
insomma, il contrasto all’evasione fiscale deve vedere come
pricipali ‘attori’, uffici fiscali e Guardia di Finanza, mentre
l’elusione deve principalmente contrastarsi ‘a monte’, attraverso
l’opera del legislatore, nelle due direzioni della predisposizione di
un impianto normativo che renda arduo il suo aggiramento, e della
251
attribuzione agli organi sopra ricordati, di adeguati strumenti
normativi.
A parere di chi scrive, le recenti disposizioni contenute nella
manovra finanziaria per il 2003, al di là di qualsiasi considerazione
politica, dimostra che la soluzione del problema dell’elusione (e
dell’evasione) è stata ancora una volta ‘scavalcata’ dalle esigenze
di gettito. L’attesa riforma tributaria non si vede neppure
all’orizzonte, mentre un passo indietro è stato fatto, con la
riapertura della ‘stagione dei condoni’, i quali tra l’altro hanno reso
quasi inutile l’azione accertatrice degli uffici sin da quando si sono
diffuse, nell’autunno del 2002, le voci in tale direzione,
deprimendo altresì pesantemente le entrate da accertamento con
adesione.
Altro effetto negativo si riscontra nell’attività di verifica, con
la possibilità per il soggetto verificato, di dichiarare la volontà di
aderire al concordato
in qualsiasi momento del controllo,
inibendone in tal modo la prosecuzione.
La perdita di credibilità e di immagine è però l’aspetto più
negativo, laddove si consideri soprattutto l’encomiabile sforzo in
tale
direzione
compiuto
dalle
Agenzie.
Dal
lato
dell’Amministrazione si è assistito infatti negli ultimi anni ad un
miglioramento nella qualità del personale, con il massiccio
ingresso di giovani molti dei quali laureati, e l’aumento delle ore
dei corsi di approfondimento/aggiornamento. Certo si rileva ancora
una rigidità delle procedure per garantire progressioni di carriera
legate al merito, ma è al riguardo da riconoscere che non sempre è
possibile una adeguata e corretta valutazione di quest’ultimo.
L’istituzione delle Agenzie fiscali è stata probabilmente
eccessivamente enfatizzata, ingenerando così l’aspettativa di un
252
rapido e radicale rinnovamento che, considerate le dimensioni
della struttura e la forte sindacalizzazione, con le resistenze al
cambiamento che ne derivano, non poteva che essere delusa. In
ossequio alla teoria della relatività, deve tenersi conto, nella
valutazione temporale degli effetti delle riforme, della diversa e
tendenzialmente più lenta scansione del tempo che ancora
contraddistingue le organizzazioni pubbliche rispetto alle private.
253
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