UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI SASSARI FACOLTA’ DI ECONOMIA TESI DI LAUREA IN DIRITTO TRIBUTARIO I POTERI DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA DI SINDACARE IL MERITO DELLE SCELTE IMPRENDITORIALI NELLE IMPOSTE DIRETTE Relatore: Chiar.mo Prof. Valerio Ficari Candidato Emanuele Dacrema Matr. 20/000117 ANNO ACCADEMICO 2001/2002 I POTERI DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA DI SINDACARE IL MERITO DELLE SCELTE IMPRENDITORIALI NELLE IMPOSTE DIRETTE Sommario......................................................................................................................I Introduzione ..........................................................................................................….V PARTE PRIMA CAPITOLO I L’ELUSIONE FISCALE : CONCETTI GENERALI §1) Premessa ...............................................................................................................1 §2) L’elusione fiscale nella dottrina e nella giurisprudenza italiana. .....…….......3 §3) L’elusione fiscale in altri ordinamenti. Cenni .…......................……................8 §4) L’elusione fiscale tra evasione e legittimo risparmio d’imposta. ...................10 CAPITOLO II LE ORIGINI DELL’ELUSIONE §1) Premessa .............................................................................................................20 §2) La pressione fiscale come indicatore della convenienza alla elusione (ed all’evasione) delle imposte .................................................................................21 §3) La struttura dell’ordinamento tributario italiano...........................................25 §4) Fisco e contribuenti: un rapporto difficile ................................................…...36 §5) Conclusioni..........................................................................................................39 PARTE SECONDA CAPITOLO I CONTRASTARE L’ELUSIONE FISCALE §1) Una precisazione di metodo ..............................................................................44 §2) Gli strumenti di contrasto del fenomeno elusivo. Premessa........................................................................................................45 §3) Le reazioni del legislatore alle pratiche elusive. La correzione delle imperfezioni normative ...........................…….................46 I §4) L’interpretazione in funzione antielusiva. Premessa........................................................................................................48 §4.1) L’interpretazione della norma tributaria Generalità............................................................................................48 §4.2) L’interpretazione e l’elusione: l’interpretazione funzionale, l’integrazione e l’analogia .................................................................55 §5) L’evoluzione della normativa antielusione in Italia. Dal dibattito sull’introduzione di una norma antielusiva generale all’articolo 37-bis del DPR 600/73 ……………………….....................................................................66 §6) Le norme antielusione analitiche. Il transfer pricing. Generalità e rinvio ..........................…................................78 §7) Le norme antielusive “settoriali”. Premessa..............................................................................................................87 §7.1) L’art. 10 della L. 29/12/1990, n° 408 ................…….........................88 §7.2) L’articolo 37-bis del DPR 600/73 ....................…..............................92 §7.3) Generalità dell’art. 37-bis DPR 600/73 e rapporti con l’art. 10 l. 408/90 ...................…………………………………………………...95 1) Il “disegno” elusivo: cenni e rinvio ................…..............105 2) Il requisito dell’assenza di valide ragioni economiche:cenni e rinvio …………………………………….........108 §8) Le reazioni dell’Amministrazione finanziaria alle pratiche elusive Premessa............................................................................................................114 §9) Il contrasto all’elusione da parte dell’Amministrazione finanziaria prima della correzione delle imperfezioni normative Premessa.........................................…...............................................................115 §10) L’articolo 37, III° comma del DPR 600/73, l’interposizione fittizia, uso (ed abuso) come strumento antielusivo. Il caso del dividend washing ...............116 Conclusioni.....................................................................................135 §11) segue, il transfer pricing. L’operato dell’Amministrazione finanziaria di fronte a fattispecie di Transfer pricing cosiddetto ‘interno’. Premessa............................................................................................................137 §11.1) Gli strumenti di contrasto utilizzati dall’Amministrazione finanziaria.………………………………………….....................138 §11.2) Il difetto del requisito dell’inerenza ...................................…......143 1) A proposito di inerenza: le cosiddette spese di regia. Un caso esaminato dalla Cassazione .......................144 II §11.3) Le soluzioni proposte dalla circolare 53 del 26/02/1999 per contrastare il transfer pricing interno ...............….........................151 1) L’art. 39, I°comma, lett. d) del DPR 600/73 ...........151 2) L’art. 37, III° comma DPR 600/73 ..........................154 §11.4) Qualificazione dell’operazione come negozio misto di vendita e donazione (o assegnazione ai soci) ...…..............…........................155 §11.5) Conclusioni .....................................................................................161 CAPITOLO II AUTONOMIA NEGOZIALE DELLE PARTI, POTERI DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA DI PORVI DELLE LIMITAZIONI ATTRAVERSO LA QUALIFICAZIONE DEI NEGOZI GIURIDICI AI FINI TRIBUTARI E DI SINDACARE SULLA ECONOMICITÀ DI TALUNE SCELTE IMPRENDITORIALI §1) La qualificazione dei negozi giuridici ai fini fiscali. Premessa............................................................................................................165 §2) Autonomia privata e libertà di iniziativa economica. Generalità..........................................................................................................167 §3) L’ampiezza dei criteri civilistici di interpretazione dei negozi giuridici tra privati e la loro limitata applicabilità ai fini tributari. Premessa ...........................................................................................................171 §3.1) Rapporti tra qualificazione ‘civilistica’ e fiscale delle attività dei privati................................................................................................171 §3.2) Qualificazione e riqualificazione negoziale: differenze concettuali e relativi poteri dell’Amministrazione finanziaria ..........................174 §3.3) L’interpretazione del contratto nel diritto civile. Diversità delle finalità e dell’ambito all’interno del quale si muove l’analoga attività in sede tributaria e limiti alla qualificazione negoziale ...........................................…………………………........179 §3.4) Il collegamento negoziale come strumento elusivo e i poteri interpretativi del Fisco come mezzo per contrastarlo ..................183 §4) La qualificazione “amministrativa” del presupposto: aspetti critici di un potere limitativo dell’autonomia negoziale delle parti. Il caso del lease-back .....................................……….......................................190 §5) Il (presunto) potere dell’Amministrazione finanziaria di giudicare l’economicità delle scelte imprenditoriali. Premessa............................................................................................................204 III §6) segue, il concetto di inerenza. La sua dimensione qualitativa. ...........…......207 1) Ancora sull’inerenza: la deducibilità delle sanzioni e più in generale dei costi connessi ad attività illecite .213 §7) segue, il difetto di inerenza. La sua eventuale dimensione quantitativa: pareri contrastanti in dottrina e giurisprudenza circa la sindacabilità della congruità di alcune spese e sulla legittimità del ricorso allo strumento dell’accertamento induttivo di fronte ad un comportamento ‘antieconomico’ del contribuente. Il caso dei compensi agli amministratori........................…............................221 1) I pareri (contrastanti) della giurisprudenza ….……223 2) Il caso dei compensi agli amministratori …………..227 3) Antieconomicità e accertamento induttivo …………233 Conclusioni ………………………………………………………….…246 BIBLIOGRAFIA ……………………………………………………...254 IV INTRODUZIONE Quando ho iniziato a frequentare il corso di Diritto tributario, ho avuto l’immediata percezione che la mia esperienza professionale maturata nell’Amministrazione finanziaria, con mansioni di accertatore e verificatore, fosse più carente di quanto potessi pensare dal punto di vista prettamente giuridico. In altre parole, mi sembrava quasi che esistessero due tipi diversi di ordinamenti tributari, dei quali, quello vigente per gli uffici fiscali, differente rispetto a quello che mi si stava chiarendo a seguito delle lezioni e delle ulteriori letture di dottrina e giurisprudenza su specifici argomenti. È stata questa la principale motivazione che mi ha spinto alla scelta della materia e dell’argomento trattato nel presente lavoro. Chiaramente intendevo approfondire la fase dell’accertamento, e l’elusione tributaria mi è immediatamente parsa la più interessante, dopodiché la scelta di studiare i poteri dell’Amministrazione finanziaria per contrastarla mi è parsa consequenziale. Il passo successivo è stato quello di restringere ulteriormente il campo di indagine, ancora troppo vasto. Si è optato per l’esame delle strumentalizzazioni attuabili grazie alle particolari libertà di cui gode il privato, allorché, nell’ambito della propria attività di impresa, valuti le diverse modalità di concreto esercizio della stessa. In altri termini, si è scelto di esaminare, all’interno di un argomento generale dai limiti già di per sé sfumati, una sua specifica forma i cui confini tra liceità ed illiceità sono ancora più evanescenti, a motivo della presenza di principi giuridici a tutela della libertà di impresa che rendono arduo il tentativo di accertare con certezza la natura elusiva o meno del comportamento prescelto. La tutela che l’ordinamento offre alla libera scelta degli strumenti giuridici V utilizzabili per la disposizione dei propri diritti ed affari, implica necessariamente l’esclusione che il potere amministrativo possa porvi delle restrizioni, se queste non sono disposte da apposite norme di legge (art. 41 Cost.). La circostanza ulteriore della presenza, nel campo dell’imposizione, del principio costituzionale della riserva di legge (art. 23 Cost.), che come vedremo comporta l’impossibilità di sottoporre a tassazione fattispecie non esplicitamente previste, ancorché espressive di altro principio costituzionale che al contrario ne sancirebbe l’imponibilità, e cioè la capacità contributiva (art. 53 Cost.), pone degli ostacoli spesso insormontabili dall’organo amministrativo chiamato al controllo dell’esatto adempimento dei doveri di contribuzione alle pubbliche spese. Si viene così a creare una sorta di equilibrio assolutamente instabile, venendo in contatto diritti e doveri, principi e prerogative di difficile definizione ed i cui confini talvolta si sovrappongono. Fino a quale punto la libertà di iniziativa economica e l’autonomia negoziale sono legittimamente invocabili dal contribuente e, specularmente, fino a quale punto il dovere di contribuire alle spese statali in ragione della propria capacità contributiva, ed il perseguimento di quegli obiettivi sanciti dalla Costituzione ai quali il primo è strumentale, giustificano la possibilità che l’Amministrazione finanziaria superi tali barriere? La dottrina si è spesso interrogata sulla possibilità di far prevalere, nell’imposizione di una fattispecie, la sostanza sulla forma, interpretando il o i negozi giuridici in ragione del risultato economico da essi effettivamente conseguito, subendo le censure di coloro che, in tale comportamento, vedevano la lesione della riserva di legge immanente in materia di prestazioni imposte. Si riteneva VI insomma che spettasse al legislatore il compito di predisporre appositi strumenti di contrasto nei confronti di fattispecie elusive positivamente individuate. La prevalenza di tale impostazione, ha contribuito ad inibire altresì la introduzione di una norma antielusiva generale, che fra l’altro sarebbe stato necessario corredare di una discrezionalità amministrativa ritenuta inaccettabile in campo tributario. Quindi, in seguito ad una breve disamina riassuntiva delle più autorevoli posizioni sulla definizione generale del fenomeno e dopo aver affrontato, in modo assolutamente generale, alcune disposizioni antielusive specificamente predisposte dal legislatore successivamente all’affermarsi di alcune vistose pratiche elusive, l’attenzione sarà indirizzata inizialmente verso i tentativi dell’Amministrazione finanziaria di contrastare tali comportamenti prima dell’intervento legislativo, per poi definitivamente incentrarsi sulle elusioni attuate attraverso l’abuso degli strumenti negoziali e del principio della rilevanza, pressoché assoluta, dei corrispettivi pattuiti, per analizzare i poteri dei quali il Fisco può legittimamente disporre per contrastarli, allorché si trovi al di fuori del campo di operatività di quelle norme antielusive precedentemente citate. Ci si interrogherà sui possibili esiti dello scontro fra considerazioni di fatto, basate sulla logica ed il buon senso, e relative disposizioni legislative che ne inibiscono la prevalenza in funzione impositiva, si darà conto di come gli uffici abbiano talvolta tentato di contrastare evidenti abusi, avvalendosi spesso però in modo maldestro di strumenti predisposti per altri fini, e di quali si ritiene al contrario possano essere legittimamente utilizzabili, chiarendo che l’autonomia negoziale e la insindacabilità delle scelte imprenditoriali, non possono essere intese in un senso talmente VII assoluto e tassativo da inibire completamente l’azione degli organi deputati alla tutela delle ragioni erariali, ma occorrendo altresì che i poteri discrezionali dell’Amministrazione finanziaria, non vadano oltre, sconfinando in un ‘giustizialismo’ altrettanto inaccettabile, preferendosi cioè, alla possibile perdita di certezza del diritto, l’accettazione di elementi di iniquità nella distribuzione del carico tributario tra i consociati. A conclusione di questa introduzione, mi pare assolutamente conferente agli obiettivi della presente ricerca, citare le testuali splendide parole di Luigi Einaudi, tratte dal suo “ Miti e paradossi della giustizia tributaria1”: “Accanto ai cercatori della giustizia, fondata su principii razionali, della giustizia applicabile con formule sicure, vi sono, ugualmente importuni, i cercatori della verità. La lotta tributaria è descritta come una lotta della verità contro la bugia, della schiettezza contro la frode. Ed è lotta santa, se condotta da uomini di buon senso, invidiosa e distruttrice se guidata da fanatici persuasi di possedere la chiave della verità assoluta.”. 1 Edito da Einaudi, Torino, 1959, pagina 172. VIII CAPITOLO I L’ELUSIONE FISCALE: CONCETTI GENERALI §1) Premessa Cercare di dare una definizione dell’elusione fiscale non è un compito agevole ed essa non potrebbe neppure essere esaustiva, a causa delle diverse angolazioni e prospettive di osservazione possibili. In effetti molte delle definizioni proposte hanno come denominatore comune il fatto di nascere dallo studio di concrete fattispecie sulle quali si discute della natura elusiva o meno, per poi giungere in maniera indiretta ad una definizione generale che risente così necessariamente della propria origine1. Il concetto di elusione fiscale, più che nel sistema di diritto positivo, sembra affondare le proprie radici in campo etico-sociale, e più precisamente nell’ambito del naturale conflitto di interessi (e di posizioni giuridiche) esistente tra contribuente (libertà di iniziativa economica e contrattuale) e fisco (finalità di assicurare il massimo gettito fiscale possibile), e della connessa esigenza erariale di contare su risorse certe nell’ammontare, contro l’esigenza dei contribuenti di poter conoscere con esattezza l’entità del sacrificio economico che si richiede loro. Molte delle definizioni elaborate, hanno studiato il fenomeno evidenziandone similitudini e differenze rispetto a concetti e principi 1 Non solo, talvolta un tale ragionamento deduttivo non porta ad un risultato corretto a causa della struttura della legislazione tributaria, orientata verso la elencazione delle fattispecie imponibili. 1 per lo più di derivazione tipicamente civilistica, cercando in questo modo di ricondurlo ad essi per poter così utilizzare i rimedi già approntati dall’ordinamento (simulazione e nullità del negozio in frode alla legge su tutti). Infine, sebbene una definizione legislativa del fenomeno non sia mai stata data, si può arrivare, con ragionamento “a contrario”, a desumere i caratteri del comportamento elusivo, come inteso dal legislatore, partendo dalla disposizione antielusiva di cui all’art. 37 bis del DPR 600/73. Dalla lettura del 1° comma è possibile infatti enucleare gli elementi fondamentali dell’elusione : 1. l’assenza di valide ragioni economiche ( intesa nel senso di una apprezzabilità economico-gestionale, come esplicitamente enunciato nella relazione ministeriale al D. Lgs. 358/97 ); 2. l’intento di aggirare un obbligo o un divieto dell’ordinamento ( superando in tal modo il precedente concetto di fraudolenza2, che tanti problemi di natura interpretativa ed applicativa aveva causato ); 3. lo scopo di ottenere un’indebita riduzione del carico tributario. 2 Art. 10 L. 408/90. 2 §2) L’elusione fiscale nella dottrina e nella giurisprudenza italiana. Il fenomeno dell’elusione non è recente, né rappresenta una prerogativa dell’ordinamento tributario, rinvenendosi anche in altri settori dell’ordinamento. L’elusione fiscale “...è un fenomeno antico, verosimilmente coevo alle forme di prelievo più primitive, ...(le cui radici affondano) ... in ideali di giustizia e di uguaglianza anche non del tutto trascritti nelle leggi dello Stato. (Per tale via, l’elusione fiscale si identificherebbe) ... con vere e proprie aree di privilegi riservate a talune classi economico-sociali, rappresentate, queste ultime dai titolari di redditi di impresa, di lavoro autonomo, di capitale, di terreni e fabbricati3. Dalla presenza di tali aree di privilegi, deriverebbero non pochi effetti negativi a carico di certe categorie di contribuenti, per così dire “taglieggiate” , tra le quali possono annoverarsi per esempio, i titolari di redditi di lavoro dipendente, di piccoli patrimoni, di pensione”. L’elusione in campo tributario per lungo tempo non è stata considerata un problema rilevante4 dal legislatore, almeno fino a quando, a partire dagli anni ’70, hanno cominciato ad essere evidenti le conseguenze ad essa connesse, non solo e non tanto per la perdita di gettito, ma soprattutto per l’effetto distorsivo sulla allocazione delle risorse e sull’efficacia delle politiche fiscali. Nella 3 Tabellini : L’elusione fiscale, Giuffrè, 1988. 4 Questa è l’impressione che l’atteggiamento del legislatore ha dato per lungo tempo. Lo studio dei modi per contenerla è divenuto, anche in chiave politica, di estrema attualità e concretezza a partire dalla seconda metà degli anni 80. 3 distribuzione del carico tributario, i proclami costituzionali dell’uguaglianza, della solidarietà e della capacità contributiva, diventano lettera morta, e in un sistema che sembra premiare i furbi non può certamente nascere e prendere corpo quella educazione civica e morale, che al di là degli obblighi e delle enunciazioni di principio, garantiscono lo spontaneo ed esatto assolvimento dei tributi, avvertito come un dovere al quale non è moralmente accettato sottrarsi, e che costituisce a mio avviso il primo e più importante strumento di contrasto non solo dell’elusione, ma anche dell’evasione delle imposte. Il vivace dibattito dottrinale5, ha portato a diversi risultati in termini di definizione del fenomeno, cause e strumenti di contrasto, ma c’è una conclusione univoca cui è giunta la dottrina pressoché unanime, e cioè che l’elusione, ancorché deprecabile e da cercare di contrastarsi attraverso l’interpretazione, è perfettamente lecita almeno fino a quando non viene introdotta nell’ordinamento una norma specificamente antielusiva6. 5 Il fenomeno è sempre stato, infatti, all’attenzione della dottrina, vds. Arena, Elusione dell’imposta e perequazione tributaria, in “Riv. della G. di F.” 1954; Antonini, Equivalenza di fattispecie tributaria ed elusione di imposta, in “Dir. e prat. Trib.” 1966; Morello, Frode alla legge Milano 1969; Gonzales Garcia, La cosiddetta evasione fiscale legittima, in “Riv. di dir. Fin. e sc. delle fin. 1974; Lovisolo, Evasione ed elusione tributaria nei rapporti internazionali, in “Dir. e prat. Trib. 1985; Tremonti, Autonomia contrattuale e normativa tributaria : il problema dell’elusione tributaria, in “Riv. di dir. fin. e sc. delle fin. 1986 pag. 369 e ss; Cipollina, L’elusione fiscale, in “Riv. di dir. fin. e sc. delle fin. 1988, pagg. 122 e ss.; Gallo, Brevi spunti in tema di elusione e frode alla legge nel reddito di impresa, in “Rass. Trib.” I/1989, pagg. 11 e ss. per citarne solo alcuni. 6 Cfr. Tesauro: “Istituzioni di diritto tributario” Vol. 1 Parte generale settima edizione, pag. 219; Lupi: Elusione fiscale, modifiche normative e prime sviste interpretative. In Rass. Trib. n. 3/95 pag. 409 e ss. Critica di E. Grassi L’elusione tra la certezza del diritto e le ragioni dell’economia in Il fisco n. 31/95 pag 7625. E’ altresì contrario alla teorizzazione del “carattere di legalità delle elusioni” U. Morello, “Frode alla legge”, op. cit.;Le definizioni proposte dai vari ed autorevoli studiosi, rispecchiano l’impostazione di fondo da essi attribuita al fenomeno in esame, ad esempio, il Falsitta, “Manuale di diritto tributario”, Cedam, Padova, 1995, pagg. 178, 181-182, ritiene che si tratti di operazioni caratterizzate “i) dalla anormalità della concatenazione di atti 4 Molto più rare sono le pronunce giurisprudenziali nelle quali sia rinvenibile una definizione positiva dell’elusione. Uno dei primi esempi di definizione del fenomeno, non esplicita ma dalla quale possono desumersi i suoi aspetti principali tra cui anzitutto la sua incontestabile liceità, è la sentenza del Tribunale di Roma n. 3906 del 25/01/1988, nella quale si legge testualmente che “nessuna norma ... vieta al contribuente di continuare a realizzare gli interessi economici o risultati economici sufficientemente fungibili con quelli oggetto di imposizione, ma rivestiti di forme giuridiche diverse da quelle espressamente previste dal legislatore tributario, che gli consentono anche di sfruttare eventuali ‘smagliature’ nell’ordinamento positivo ovvero di fare leva su norme che accordano trattamenti fiscali preferenziali a specifiche operazioni economiche.”. escogitata per raggiungere un dato risultato economico rispetto a quelli solitamente adottati dagli operatori che versano nelle medesime esigenze; ii) dall’assenza, dietro la scelta di tale concatenazione, di alcuna plausibile ragione che non sia esclusivamente quella di conseguire per il suo tramite un certo vantaggio; iii) dalla circostanza che detto vantaggio sia ottenuto aggirando una determinata regola tributaria normalmente adottabile e non sia quindi qualificabile come fisiologico o comunque coerente col sistema”. L’accento viene quindi posto sul risultato economico, paventando implicitamente la possibilità di un approccio sostanzialistico, non a caso l’Autore richiama in merito l’orientamento della “ Scuola di Pavia”, basato sulla cosiddetta “ interpretazione funzionale ”. Il Fantozzi sostiene che l’elusione si concretizzi in un comportamento attivo “ voluto, non vietato dall’ordinamento e consistente nell’impiego abnorme di un istituto consentito, al fine del risparmio d’imposta“. Similmente, ma in modo più completo, il Lupi, “Manuale professionale di diritto tributario”, Ipsoa II ed. 1999, pagg. 71 e ss, che considera elusivo il “ comportamento del contribuente sottilmente diretto a costituirsi, strumentalizzando le imperfezioni normative, un regime giuridico di favore fatto in casa, senza inganni e frodi, ma con artificiosità e capziosità squisitamente giuridiche “. Ponendo l’accento sull’assenza di inganni e frodi, sull’uso malizioso che viene fatto delle norme e sulla loro imperfezione, viene enfatizzata la liceità del comportamento, ed il fatto che la responsabilità maggiore risiede nella insoddisfacente redazione delle norme le quali, costituendo le “ regole del gioco ” predisposte dal legislatore, non possono essere da quest’ultimo buttate all’aria, violandole, non appena si rende conto che “ l’altro giocatore “ ne ha evitato l’applicazione senza violarle. Per la verità nel pensiero del Lupi si rinviene un atteggiamento fortemente critico non solo nei confronti del legislatore chiamato a predisporre dette regole, ma anche dell’Amministrazione Finanziaria, che deve farle rispettare, senza dimenticarsi di osservarle a sua volta. 5 Nelle poche significative sentenze delle Commissioni tributarie nelle quali è stata data una definizione del fenomeno, seppur incidentalmente, i giudici non si sono comunque discostati di molto dalla più volte citata dottrina7. Recentemente la Commissione Regionale di Torino, sez. X, nella sentenza del 23/09/1998, n. 167, ha definito l’elusione come “...quel comportamento del contribuente volto a sottrarsi scaltramente ad un obbligo d’imposta – idem a lucrare benefici, deduzioni non spettanti – pur nel rispetto formale delle leggi e che si concretizza nello sfruttare le possibili scappatoie 7 Sebbene non sia molto autorevole trattandosi di una sentenza di una commissione di I° grado, la sentenza n° 239 della Commissione tributaria di Milano del 04/05/1996 è significativa per il modo in cui definisce esplicitamente il concetto, “ Per elusione si intende l’attività posta in essere dal contribuente mediante la realizzazione di una fattispecie che, sotto il profilo del risultato economico, è equivalente a quella “ normalmente attuabile” , ma con il pregio di consentire l’ottenimento di un vantaggio fiscale che con quest’ultima non verrebbe concretato”. La commissione individua quindi gli elementi della fattispecie elusiva (in relazione ad una controversia riguardante l’applicabilità dell’art. 10 L. 408/90) nell’utilizzo di uno strumento giuridico “ anormale ”, ma non per ciò solo illecito, nell’assenza di valide ragioni economiche, nello scopo prevalente o esclusivo, di ottenere un vantaggio fiscale (scopo elusivo) e nell’animo fraudolento. Ancora più esplicita nel riconoscere la liceità dell’elusione, in carenza di una qualsiasi norma antielusiva di portata almeno settoriale, era stata la più risalente sentenza della stessa Commissione tributaria del 06 gennaio 1981, la quale, motivando la decisione su una controversia relativa ad una operazione di fusione con una società avente perdite riportabili, che costituivano la sua unica “qualità”, aveva affermato che “...le motivazioni imprenditoriali delle fusioni sono del tutto indifferenti quanto alle conseguenze fiscali della fusione stessa; e lo sono quindi anche quando fossero motivazioni non economicamente convenienti o di pura elusione delle imposte (non di evasione di imposte, ma di elusione, cioè di mera scelta di fattispecie alternative che consentono di percorrere la via meno onerosa per il contribuente) ”. L’approccio della commissione è di tipo formalistico, rispondente alla duplice e al tempo stesso connessa esigenza di assicurare un elevato grado di certezza del diritto e ribadire la preminenza del principio di libertà negoziale. Essa ha però trascurato completamente qualsiasi considerazione sulla funzione solidaristica e di partecipazione alle spese pubbliche, che la nostra Costituzione assegna all’imposizione tributaria. Non contesto la decisione per la riconosciuta legalità del comportamento, ineccepibile data la mancanza di una norma antielusiva applicabile al caso, ma per la circostanza di non aver, neppure implicitamente, sottolineato la inadeguatezza della normativa vigente. Ha perso cioè l’occasione per fare una critica costruttiva nei confronti del legislatore stimolandolo affinché dotasse l’ordinamento di strumenti legislativi idonei a contrastare pratiche inattaccabili legalmente, ma che costituiscono una palese distorsione di fondamentali precetti costituzionali, limitandosi, al contrario a dare una definizione del fenomeno come mera scelta tra alternative previste dall’ordinamento. 6 offerte dalle disposizioni fiscali, dalla vaghezza delle norme, dalle insufficienze di tecnica legislativa.” A tutta evidenza non viene aggiunto nulla di nuovo alle definizioni già proposte, a parte il fatto che, nel seguito della motivazione, la sentenza in oggetto prende una piega alquanto bizzarra, arrivando ad ipotizzare l’esistenza nell’ordinamento giuridico, di una clausola generale antielusiva la quale trarrebbe spunto dalla parificazione del comportamento elusivo al comportamento contrario al buon costume, in quanto “... depaupera le possibilità di finanziamento del sistema sociale e/o scarica iniquamente sui consociati che non possono avvalersi di espedienti altrettanto elusivi ultronea parte del carico generale della spesa e pertanto viola i principi del buon costume” per tale via il contratto concluso per un simile fine sarebbe nullo secondo le ordinarie regole civilistiche (art. 1343 c.c.), e tale nullità, rilevabile altresì d’ufficio ex art. 1421, travolgerebbe anche l’aspetto fiscale dello stesso. L’insegnamento che dalla sentenza possiamo trarre è esclusivamente quello che spesso le argomentazioni giurisprudenziali percorrono strade impervie nel tentativo, velleitario, di supplire alla mancanza di una norma antielusiva espressa, ovvero di “salvare” una altrettanto ardita interpretazione dell’Amministrazione finanziaria, piegando però in tal modo la certezza del diritto alle esigenze di gettito. Dalle più recenti pronunce della Suprema Corte di Cassazione, è possibile estrapolare l’approccio giurisprudenziale di fondo, il quale, prestando sempre la dovuta attenzione ai pericoli insiti nell’attribuzione all’Amministrazione finanziaria di un potere discrezionale travalicante le sue effettive capacità di gestione, ha più volte collegato l’elusione fiscale a comportamenti del contribuente 7 contrari ai più elementari dettami economici che governano (rectius dovrebbero governare) la gestione dell’impresa8. In effetti si tratta per lo più di pronunce relative all’applicabilità o meno della disposizione antielusiva di cui all’art. 37-bis del DPR 600/73, soprattutto per quanto riguarda la valutazione di esistenza delle “valide ragioni economiche” che, richiedendo un giudizio da parte dell’Amministrazione finanziaria, implicano l’ulteriore problema di definire i confini entro i quali la stessa possa sindacare sull’economicità delle scelte imprenditoriali, argomento sul quale si ritornerà nel prosieguo. §3) L’elusione fiscale in altri ordinamenti. Cenni. Se dare una definizione di elusione in un dato ordinamento, crea qualche problema, ancora peggiore è la situazione allorché si cerchi di darne una valida in campo internazionale. La corretta individuazione del fenomeno infatti dipende dall’atteggiamento che ciascun ordinamento ha nei confronti dell’erosione del gettito dovuta all’elusione, soprattutto nei termini dell’adozione o meno di una clausola generale antielusione9, congiuntamente alla variabile rappresentata dal collocamento di quest’ultima in ordinamenti common law ovvero civil law. 8 Cfr. Cass. civ., Sez. V, 9 febbraio 2001, n. 1821, “... la regola alla quale si ispira chiunque svolga una attività economica è quella di ridurre i costi, a parità di altre condizioni. Pertanto, in presenza di un comportamento che sfugga a questo parametro di buon senso ed in assenza di una sua diversa giustificazione razionale, è legittimo il fondato sospetto che la incongruenza sia soltanto apparente e che dietro di essa si celi una diversa realtà .”. 9 Perciò preferisco dare conto delle diverse definizioni “estere” dell’elusione, in sede di esame delle differenze tra evasione ed elusione, ovvero nella disamina delle diverse impostazioni relativamente alla normativa antielusione. 8 L’esempio lampante è rappresentato dalla circostanza che in alcuni paesi, un comportamento che garantisca un risparmio d’imposta calpestando lo spirito, la ratio della norma, equivale già a violarla. L’intento di eludere la norma fiscale, accompagnato da un anormale utilizzo (abuso) di forme giuridiche di per sé lecite, è ritenuto illegittimo dagli ordinamenti di Paesi come Portogallo, Germania, Austria, Francia, Olanda, e Stati Uniti. Definire univocamente il fenomeno e contrastarne gli effetti nelle operazioni transnazionali diviene così una utopia, costituendo queste ultime il terreno più fertile ove l’elusione può crescere e svilupparsi. In ambito europeo sarà decisivo l’esito del processo di armonizzazione comunitaria, mentre a livello internazionale la trasparenza e lo scambio di informazioni in condizioni di reciprocità, giocheranno un ruolo fondamentale anche per problemi di più ampio respiro come quelli del riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite, e/o destinato a fini di terrorismo internazionale10. 10 Proprio gli sviluppi dei tristemente noti accadimenti dell’11 settembre 2001, hanno fatto comprendere quanto sia improcrastinabile l’esigenza di combattere la segretezza finanziaria che alcuni stati ancora garantiscono. Certo occorre una forza politica non indifferente, perché gli interessi sono forti e le lobbies interne hanno un notevole peso, occorre inoltre un consenso unanime dei paesi maggiormente sviluppati, i quali adottino delle ritorsioni finanziarie nei confronti degli stati che non forniscono le informazioni richieste, implicitamente appoggiando i criminali. 9 §4) L’elusione fiscale tra evasione e legittimo risparmio d’imposta. Alla conclusione della liceità dell’elusione (salvo norma antielusiva contraria), non si è certo giunti senza contrasti e distinguo, il primo significativo input in questa direzione è stato sicuramente il dibattito incentrato sulle differenze tra l’elusione e l’evasione vera e propria, condizione imprescindibile per poter affermare la liceità del comportamento elusivo. Ed in questo contesto, fondamentali per tutti gli autori che in seguito si sono occupati del problema, sono le teorie di Blumenstein11 ed Hensel12. 11 Blumenstein: Sistema di diritto delle imposte, trad. it. a cura di F. Forte, Milano 1954, pagg. 25 e ss. si ha elusione d’imposta, allorquando “attraverso un determinato procedimento intenzionale fino dal principio, venga posto in essere un patto che non integri i presupposti per l’imposizione oppure attenui la grossezza dell’imposta dovuta; in ciò l’elusione differisce dall’evasione d’imposta, per la quale esiste il fatto che è fondamento dell’imposizione, ma la sua esatta valutazione da parte degli organi amministrativi viene impedita mediante un comportamento illegale del contribuente”.Secondo l’Autore, l’essenza dell’elusione si caratterizzerebbe, attraverso tre elementi concettualmente essenziali, uno soggettivo, uno oggettivo ed uno relativo all’effetto. Dal punto di vista soggettivo deve risultare l’intento di conseguire un risparmio d’imposta per il tramite della avvenuta configurazione del fatto, la quale non si sarebbe verificata in quella maniera, se non si fosse cercato di ottenere, mediante di essa, una attenuazione del carico fiscale. Tuttavia poiché non esiste alcun obbligo dell’individuo di salvaguardare, nella sua attività economica, innanzitutto l’interesse fiscale e l’impiego delle forme previste, la presunzione non è giustificata quando si può riconoscere un altro motivo per il comportamento in questione, in altre parole, non può censurarsi il comportamento che risponda ad esigenze prima di tutto aziendali e solo secondariamente, direi quasi incidentalmente, di risparmio fiscale. Sotto il profilo oggettivo fa parte della elusione dell’imposta la anormalità dei procedimenti scelti o della configurazione considerata, da mettere in relazione alle circostanze di fatto e dell’eventuale esistenza di ragioni per discostarsi dalla via normale. Occorre prestare la dovuta attenzione al concetto di anormalità la cui accezione non deve essere considerata quale atipicità, rara riscontrabilità nella pratica dell’uomo d’affari medio, stante la portata del principio sancito nell’articolo 1322 del c.c., bensì individuarlo nella deviazione da una funzione istituzionale prestabilita del negozio per la quale esso è riconosciuto e tutelato dall’ordinamento. Sotto il profilo degli effetti, il procedimento considerato, diverso da quello “normale”, deve permettere un “vantaggio fiscale che, proprio con quest’ultimo (procedimento), non verrebbe concretato, e dunque un risparmio di imposta non previsto o consentito, neppure implicitamente, dal legislatore. Questi elementi non devono essere presunti, ma bisogna che siano appurati d’ufficio 10 Il punto di partenza è rappresentato indubbiamente dal fatto che i concetti di evasione fiscale e di elusione, sono sicuramente riconducibili ad unità per quanto concerne le finalità della condotta dell’evasore/elusore, il quale tende ad ottenere un risparmio di imposta. Tale comportamento è assolutamente coerente con il principio economico delle scelte razionali. Ad un identico scopo non corrisponde però unità di modi, ed è infatti nel campo applicativo che le differenze, anche se talvolta sottili, assumono rilevanza. Sotto questa ottica, una prima netta distinzione dell’elusione dall’evasione, già riconoscibile nelle definizioni riportate in nota, è data dall’importante circostanza che, mentre nell’evasione il fatto generatore, espressivo di capacità contributiva e cioè la fattispecie imponibile, si è verificata, ed il soggetto passivo si limita ad occultarla ed a non eseguire correttamente gli adempimenti ad essa nel caso singolo, così che sia consentita al contribuente la prova contraria od ostativa a tale presunzione. L’evasione invece, viene individuata nel fatto che “una prestazione di imposta viene sottratta all’ente pubblico da parte di una persona obbligata alla prestazione”. Dunque il fatto che è fondamento dell’imposizione esiste, ma la sua esatta valutazione da parte degli organi amministrativi viene impedita mediante un comportamento illegale del contribuente, tendente per tale via ad un risparmio d’imposta illecito. 12 Hensel : Diritto tributario, Milano, 1956, pagg. 110 e ss. il quale nota che l’imposizione legislativa è sempre subordinata alla realizzazione della fattispecie legale. L’Autore infatti, dopo aver rilevato che il legislatore persegue lo scopo di non lasciare sorgere determinati avvenimenti economici senza che nello stesso tempo nasca un diritto d’imposta, afferma che la norma che regola la fattispecie cerca di circoscrivere queste situazioni nella loro tipica configurazione di diritto o di fatto. Non di rado, tuttavia, esiste una discrepanza tra la fattispecie economica, considerata dal legislatore da colpire, e la fattispecie d’imposta identificata nelle norme giuridiche; in particolare la fattispecie economica può realizzarsi per altra via ed il risultato economico può essere raggiunto in un modo diverso da quello che il legislatore ha supposto nella redazione della legge tributaria. Così, l’Autore distingue tra elusione e frode fiscale: “In questo ultimo caso (frode fiscale) si tratta di un inadempimento colpevole della pretesa tributaria già validamente sorta attraverso la realizzazione della fattispecie, mentre nell’elusione si impedisce il sorgere della pretesa tributaria, evitando la fattispecie legale”. 11 connessi13 con ciò violando le relative norme, nell’elusione viene evitata la concretizzazione stessa della fattispecie legale, facendone sorgere in sua vece una che dal punto di vista economico consente di soddisfare una esigenza analoga (ad esempio disporre di un dato bene indipendentemente dal titolo giuridico, proprietà o diritto di godimento) ottenendo, con una valutazione complessiva, un risparmio in termini di imposta, senza che tale “agevolazione” fosse stata prevista o voluta dal legislatore, e tutto ciò avviene sfruttando i difetti strutturali del sistema14 ovvero strumentalizzando la pluralità degli strumenti giuridici che consentono il raggiungimento dell’analogo risultato (economico). Anzi è proprio la circostanza che sia lo stesso legislatore a prevedere diversi strumenti dotati della medesima dignità giuridica che rende particolarmente difficoltosa la distinzione del lecito dall’illecito, dell’uso dall’abuso. Da ciò si evince chiaramente che l’evasione fiscale, costituendo una diretta violazione della norma impositiva, rende assolutamente legittima l’immediata reazione dell’ordinamento, mentre nel caso dell’elusione deve concludersi per la liceità di un comportamento che tende ad un risultato analogo15, ma con un aggiramento, sostanzialmente lecito, delle norme fiscali16. 13 Lovisolo, L’evasione e l’elusione tributaria, in Dir. e prat. Trib. 1984/I pagine 1287 e seguenti : ...l’evasione consiste in qualsiasi fatto commissivo od omissivo, del soggetto passivo dell’imposizione che, avendo posto in essere il presupposto del tributo, si sottrae in tutto o in parte ai connessi obblighi previsti dalla legge. 14 Questo conferma che l’evasione può investire sia questioni di diritto che (soprattutto) di fatto, mentre l’elusione è essenzialmente una questione di diritto. 15 Sempre, nel senso degli effetti economici desiderati, e comunque in base ad una valutazione complessiva che tenga conto, da una parte dell’eventuale minor beneficio economico imputabile alla scelta di uno strumento “anormale”, e dall’altra del risparmio d’imposta in tal modo ottenibile. 16 Su posizioni molto simili nell’individuare la linea di discrimine tra i due fenomeni, confronta : Tesauro : “ Istituzioni di diritto tributario “, vol I parte generale IV ed., 12 Nell’elusione quindi l’agente manifesta al Fisco i fatti, ricostruendoli in modo da sfuggire all’imposizione, operando extra legem; nell’evasione, invece, manifesta una realtà diversa da quella in concreto verificatasi, operando contra legem17. Un simile approccio, unitamente alla formulazione delle norme antielusive “settoriali18” introdotte negli anni ’90, ci permette inoltre di sottolineare un aspetto importante dell’elusione, la quale sempre più si verifica in seguito ad un disegno elusivo, piuttosto che ad un singolo atto. E questo aspetto diviene rilevante quando si deve decidere sulla liceità o meno di un dato comportamento. In taluni casi infatti, solo una visione complessiva può evidenziare la perfetta liceità di una operazione complessa posta in essere, benché per ipotesi, il primo atto negoziale formalmente autonomo fosse da considerare illecito per difetto di valide ragioni economiche. Motivazioni queste ultime che si sono palesate solo in conseguenza degli ulteriori negozi19. Ed è vero anche il contrario, negozi singolarmente leciti possono fare parte di un disegno criminoso20. Utet, Torino 1995, pag 48 nota 5; Falsitta, : “Manuale .. op.cit.; Lupi, “ Diritto... op. cit.; Fantozzi, “Diritto tributario”, UTET 1991. 17 Nell’esperienza francese, la distinzione veniva così riassunta : • evasione, atto contra legem, è una violazione prevista e punita dalla legge, consistente sia nel rilasciare volontariamente false dichiarazioni, sia nell’attuare, sempre volontariamente, dissimulazioni materiali o giuridiche, nell’intento di diminuire l’imposta dovuta o di beneficiare di vantaggi fiscali indotti; • elusione, atto extra legem, consistente nell’uso effettivo da parte del contribuente di uno strumento tecnico giuridico, atto o fatto, in grado di consentire, al contribuente stesso, di porre in essere una fattispecie non tassata o tassata meno. Robbez-Masson in Dictionnaire encyclopédique des Finances Publiques. 18 Per norme antielusive “settoriali“ si intenderanno convenzionalmente, nel presente lavoro, gli artt. 10 della legge 408/90 e 37-bis del DPR 600/73, per la loro caratteristica di essere applicabili ad una pluralità di fattispecie e non ad una sola come avviene per quelle che definiamo coerentemente “analitiche”, ma il cui ambito è comunque limitato ai casi tassativamente previsti, in ciò differenziandosi da una disposizione “generale”. 19 Ad esempio,l’acquisto di una società in cui ci sono utili, seguito dalla distribuzione di questi utili e dalla successiva svalutazione della partecipazione non è una procedura 13 Non si deve però cadere nel malinteso di considerare elusiva ogni forma di concatenazione di operazioni, essendo rilevante in tali casi, la preordinazione del progetto elusivo, valutata a priori, nel senso che quando si è attuata la prima operazione, doveva essere già stata decisa anche la successiva. Con ciò escludendo che l’Amministrazione finanziaria possa effettuare una valutazione a posteriori, ricollegando fatti successivi che al limite potevano non essere previsti o prevedibili, al compimento dei primi. Una volta fatta questa importante distinzione, si è giunti ad identificare diverse forme attraverso le quali si può giungere all’attenuazione del carico tributario senza violare alcuna norma impositiva. Qualsiasi studio economico finalizzato all’esame delle scelte di un qualunque operatore economico, parte necessariamente dal dogma del comportamento razionale ed efficiente, intendendosi per esso quello tendente ad indirizzare la propria attività sulla base di scelte che ottimizzino la produttività degli investimenti effettuati, massimizzando i vantaggi e minimizzando i costi. Ponendo l’obbligo tributario tra i costi (al quale tra l’altro non corrisponde alcun vantaggio direttamente percepibile), è naturale ipotizzare un comportamento del contribuente, tendente ad ottenere il massimo risparmio d’imposta possibile. elusiva, ma fisiologica, perché altrimenti ci sarebbe una doppia imposizione degli utili societari : una volta sotto forma di utili della partecipata, e una seconda volta sotto forma di plusvalenza sulla cessione delle partecipazioni, realizzata da chi le cedette al soggetto che effettua la svalutazione. 20 Ad esempio, la scissione di alcuni beni può essere finalizzata alla creazione di una “società contenitore”, ispirata allo scopo di trasformare le plusvalenze su beni in plusvalenze su partecipazioni, magari tassate con l’imposta sostitutiva. In tal caso, il risparmio d’imposta si manifesta non già con la scissione, ma con la successiva vendita delle partecipazioni. Altri significativi esempi verranno trattati in seguito, in sede di esposizione del caso dei “contratti a gradini”. 14 E’ sostanzialmente questo il motivo di fondo che impone di considerare lecito il risparmio d’imposta almeno fino a quando lo stesso non incontri una esplicita preclusione legislativa21. Talvolta è lo stesso legislatore che, nel quadro complessivo di politica economica, utilizza la leva fiscale per indirizzare le risorse produttive verso quegli impieghi ritenuti maggiormente meritevoli in quanto tendenti a soddisfare bisogni primari, ovvero ad attuare quei numerosi principi che in una Costituzione22 programmatica quale è la nostra, ne costituiscono l’asse portante. Abbiamo così la rimozione del presupposto del tributo, intesa come autolimitazione della propria sfera di azione, ed il cui esempio estremo può essere rappresentato dalla decisione di non lavorare per non produrre reddito tassabile, o non consumare per non pagare imposte sui consumi. Si tratta di reazioni senz’altro legittime, anche se contrarie alle finalità di una politica fiscale razionale che deve tendere allo sviluppo dell’economia e dei consumi nell’interesse della collettività di modo che la ricchezza complessiva del sistema cresca a vantaggio di tutti. Il contribuente può altresì opporsi al (rectius evitare il) pagamento dei tributi attraverso la cosiddetta economia di scelta, consistente nella scelta, di fronte a più alternative previste dall’ordinamento, di quella che, a parità o quasi di risultato, comporta il minor sacrificio tributario. Diventa in questo modo arduo considerare illecito il comportamento del contribuente che adotta una data forma societaria perché più conveniente fiscalmente, 21 La tesi della legittimità del comportamento elusivo viene fatta risalire al principio della riserva di legge, da parte di chi ritiene che vi sia un rapporto di assoluta dipendenza tra detto principio e la legislazione millimetrica di identificazione delle fattispecie imponibili. 22 Vds senza pretesa di completezza gli artt 3, 4, 9, 31, 32, 33, 34, 36, 38, 41, 44, 45 e 47 della Costituzione. 15 oppure che scelga di investire in titoli che garantiscono rendimenti esenti, ovvero che localizzi i propri stabilimenti in località assoggettate ad un favorevole trattamento fiscale, come generalmente avviene in Italia nel Mezzogiorno. Infatti, se l’utilizzo dello strumento (forma societaria) è, di per sé, legittimo, non potrà certo essere il suo uso abnorme a determinarne l’illiceità, ancorché “l’anomalia” derivi proprio dal risparmio d’imposta realizzato. Una terza forma di resistenza del contribuente di fronte alla pretesa tributaria viene quindi identificata nella elusione tributaria vera e propria. Essa, come già detto, viene ricondotta al comportamento di chi, distrae le norme tributarie dalla loro originaria funzione costituzionale di far partecipare tutti alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva, asservendole al proprio fine esclusivo o predominante di ottenere un vantaggio fiscale23 non voluto dal legislatore, sfruttando le asimmetrie impositive presenti nel sistema24 e le imperfezioni delle norme stesse. Gli esempi di un siffatto comportamento sono molteplici e facilmente identificabili, proprio perché l’elusione, a differenza dell’evasione, è attuata in modo assolutamente palese, non si ricorre cioè ad affermare il falso o nascondere fatti veri. Questa (corretta) impostazione permette di spiegare ad esempio la proliferazione (ante legge 408/90) delle fusioni per incorporazione nelle quali l’incorporante si avvantaggiava della 23 Che può concretizzarsi anche nel riuscire a rientrare in un regime particolare di esenzione o nell’ottenere una agevolazione oltre lo spirito della norma come “intesa” dal legislatore. 24 Lupi: L’elusione come strumentalizzazione delle regole fiscali in Rass. Trib. 2/1994 pag. 225. 16 deducibilità delle perdite della incorporata, senza possibilità di essere censurata dall’Amministrazione finanziaria25. E’ stato proprio il proliferare di questo “insano” commercio delle cosiddette bare fiscali, insieme alla impotenza dell’Amministrazione finanziaria a combatterlo, che ha indotto il legislatore ad introdurre una normativa appositamente congegnata26. La dottrina più recente ha affinato la distinzione evasione/elusione proponendo la dicotomia evasione/legittimo risparmio d’imposta27 (in tal modo accentuando esplicitamente la liceità del fenomeno) e individuando all’interno di quest’ultimo, il risparmio fisiologico d’imposta, e la elusione fiscale legittima28. 25 E talvolta burlandosi di essa, come quando il consiglio di amministrazione di una banca illustrò analiticamente nella propria relazione, le finalità elusive di una certa operazione, irritando non poco l’allora Ministro delle Finanze che di lì a poco appoggiò l’approvazione della prima norma espressamente antielusiva, l’art. 10 della legge 408/90. Giova al riguardo ricordare la già citata (nota 7) decisione di merito della Commissione tributaria di I° di Milano del 6 gennaio 1981 che, proprio in relazione ad una operazione di questo genere ne ha esplicitamente affermato la liceità ancorché posta in essere al solo fine di eludere le imposte. 26 Vds la formulazione dell’art. 123 Tuir dopo le modifiche di cui al D.Lgs. 358/97. 27 Lupi, ancora prima dell’introduzione dell’art. 37-bis DPR 600/73, scriveva in Rass. Trib. 4/97: “ ...quando il sistema consente due alternative aventi pari dignità normativa, non elude chi sceglie la più conveniente: finché il sistema contiene due strade maestre, il contribuente che segue quella fiscalmente meno onerosa non elude l’altra. L’elusione nasce solo quando, di fronte ad una o più strade maestre, il contribuente si costruisce una scorciatoia utilizzando frammenti di un sistema normativo che spesso è in pezzi. Non è elusore chi profitta di un trattamento strutturalmente più vantaggioso, ma lo è chi, strumentalizzando le regole e le loro imperfezioni, si costruisce un trattamento privilegiato fatto in casa. Trattamento privilegiato che contrasta con indicazioni di segno contrario presenti nel sistema, con una sorta di divieti impliciti.” 28 A. Garcea “Il legittimo risparmio d’imposta” pag 66 e ss. al quale si rimanda anche per una rassegna di casi materiali di legittimo risparmio d’imposta. Tra le figure che, seppur non propriamente pertinenti ai fini della nostra indagine, consentono di evitare/ridurre il carico tributario, possiamo, per dovere di completezza, ricordare quella della traslazione dell’imposta. Essa si realizza quando, il soggetto passivo destinatario dell’obbligo tributario, riesce a trasferire ad altri l’incidenza dell’imposta attraverso una negoziazione pattizia tra debitore d’imposta e terzo, pur rimanendo il soggetto passivo responsabile personalmente degli obblighi tributari a lui spettanti davanti al Fisco. Si tratta di un fenomeno che, o si colloca in un momento successivo ad un esatto adempimento dell’obbligazione tributaria e dipendente dalla forza 17 Giova da ultimo precisare che le definizioni date dalla dottrina dell’elusione fiscale sono sempre pesantemente influenzate dalla economica e contrattuale, oppure, quando è oggetto di specifica previsione normativa, rientra nei meccanismi giuridici della stessa imposta. Pertanto essa riguarda principalmente la scienza delle finanze. In dottrina si usa distinguere due tipi di traslazioni, la prima è detta “economica” od “occulta” ed è relativa a quei casi in cui il valore finale del negozio è calcolato aumentando il valore del bene oggetto dello stesso, di un importo a titolo di reintegrazione dell’imposta che il soggetto passivo, rimanendo l’obbligato (principale o perfino unico) davanti al Fisco, dovrà pagare. Pensiamo ai contratti dei calciatori professionisti, i quali negoziano il proprio ingaggio “al netto”, trasferendo l’onere sulla società. La seconda tipologia di traslazione è quella detta “giuridica” o “trasparente”, e si verifica nel caso in cui il “quid pluris”, rappresentato dal carico tributario, viene evidenziato in modo esplicito con apposite clausole del negozio e faccia quindi espresso riferimento alle imposte da pagare da parte del soggetto obbligato in base alla normativa tributaria. Sulla libertà contrattuale delle parti di porre a carico dell’una o dell’altra il sostenimento dell’onere fiscale, mediante traslazione “occulta” come sopra definita, la dottrina è pressoché concorde nel ritenerla lecita e connaturata alla struttura del mercato concorrenziale. Sulla traslazione giuridica invece vi è ancora grande contrasto di opinioni sia in dottrina che in giurisprudenza, specialmente con riferimento all’articolo 60 del DPR 634/72, trasfuso senza alcuna modifica sostanziale nell’art. 62 del DPR 131/86 in materia di imposta di registro, sul quale diffusamente vedasi Bisignano, La nullità dei patti di traslazione delle imposte, in Il fisco n. 35/01 pag. 11563. Le maggiori perplessità espresse da alcuna parte della dottrina, sono di natura costituzionale in ordine alla presunta lesione dei principi di uguaglianza, art. 3, e di capacità contributiva, art. 53. Peraltro, la Corte Costituzionale si è più volte espressa in modo chiaramente contrario a tale supposta illegittimità, in una serie di sentenze che hanno dato un valido contributo allo studio del principio di capacità contributiva, vedasi: C. Cost. 06/07/1972 n. 120; C.Cost. 10/11/1982 n. 178; C. Cost. 08/02/1984 n. 25; C. Cost. 19/03/1985 n. 67; C. Cost. 19/03/1985 n. 68; C. Cost. 19/04/1985 n. 112, in Boll. Trib. 1985 pag 1680; C. Cost. 05/02/1996 n. 26 in Riv. di dir. Trib. 1996/II pag. 341; C. Cost. 20/04/1989 ord. n. 219, in Riv. di dir. trib. 1995/II, pag. 801; C. Cost. 04/05/1995 n. 143, in Riv. di dir. trib. 1995/II, pag. 470; e l’ordinanza di remissione della Corte di Cassazione n. 690 del 06/04/1983, in Boll. trib. 1984, pag. 4750. In senso favorevole alla traslazione delle imposte si è espressa anche la Cassazione, sez I civ, 05/05/1992 n. 5308; Cass. S.U. 18/12/1985, n. 6445, a cui è seguita la Ris. Min. n. 617 del 13/08/1988; Trib. Roma, sez I 14/12/1978, sent. n. 12039; Falsitta, “Spunti in tema di capacità contributiva e di accollo convenzionale delle imposte”, in Riv. di dir. trib. 1985, I, pag. 128. In senso contrario: Cass. 22/08/1981, n. 4974 sez lav.; 05/01/1981, n. 5, sez civ.; 06/04/1983, n. 690; 20/11/1992, n. 6037; Cass. S.U. 23/04/1987 n. 3935. A tal proposito l’obbligo di rivalsa ex art. 18 DPR 633/72 in materia di IVA:1) Il soggetto che effettua la cessione di beni o la prestazione di servizi imponibile deve addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o committente.2) omissis.3) omissis.4) E’ nullo ogni patto contrario alle disposizioni dei commi precedenti. Il divieto di trasferimento dell’imposta di cui all’art. 27 del DPR 643/72 in materia di INVIM: “E’ nullo qualsiasi patto diretto a trasferire ad altri l’onere dell’imposta” che ai sensi dell’articolo 4 dello stesso decreto, “è dovuta dall’alienante a titolo oneroso o dall’acquirente a titolo gratuito”. Meno chiaro è l’articolo 62 del DPR 26/04/1986 n° 131 in materia di registro (vds Bisignano “La nullità ... op. cit.): “I patti contrari alle disposizioni del presente testo unico, compresi quelli che pongono l’imposta e le eventuali sanzioni a carico della parte inadempiente, sono nulli anche fra le parti”. 18 normativa vigente all’epoca. Infatti gli interventi normativi in chiave specificamente antielusiva, spostando i confini di liceità dei risparmi di imposta29, hanno costretto a nuove interpretazioni del fenomeno, facendo talvolta cadere intere costruzioni di dottrina e giurisprudenza, affermatesi proprio a causa dei vuoti normativi presenti nella legislazione tributaria, quegli stessi vuoti che hanno generato e alimentato l’elusione30. 29 “…la linea di demarcazione fra il lecito risparmio d’imposta e la elusione, non è fissa e determinata, ma tende anzi a spostarsi per l’effetto combinato di due fattori: l’impostazione accolta dall’interprete e il grado di evoluzione raggiunto dall’ordinamento giuridico.” Così S. Cipollina, nel suo lavoro “L’elusione fiscale”, op. cit., pagg. 125 e ss.. 30 Vedasi al riguardo, Lupi, Elusione e legittimo risparmio d’imposta nella nuova normativa, in Rass. Trib. 5/1997, pagg. 1099 e ss. all’indomani dell’approvazione del Dlgs 358/97. 19 CAPITOLO II LE ORIGINI DELL’ELUSIONE §1) Premessa Una volta accettata una definizione dell’elusione che ponga in primo piano l’uso di espedienti formalmente legittimi, senza false rappresentazioni della realtà, ma con scappatoie squisitamente giuridiche, manovrando accortamente tra le varie disposizioni legislative, in modo da conseguire in maniera anormale un risultato economico equivalente, il quale però, proprio a causa dell’utilizzo di uno strumento giuridico diverso da quello tipizzato dal legislatore, finisce per rispettare la lettera ma non la ratio della norma, diviene consequenziale iniziare la ricerca delle possibili cause del fenomeno, partendo dall’interno, esaminando cioè la struttura dell’ordinamento tributario, con particolare riferimento all’atteggiamento del legislatore e dell’Amministrazione finanziaria di fronte al diffondersi di pratiche elusive. La storia dei sistemi tributari moderni, negli ultimi decenni, è contrassegnata da due fenomeni che costituiscono senza ombra di dubbio le motivazioni di fondo dell’aumento della propensione non solo all’elusione, ma anche all’evasione fiscale. Mi riferisco alla crescita della pressione fiscale e alla crescente complessità delle norme fiscali e dell’ordinamento tributario nella sua interezza considerato. 20 La prima agisce sulla convenienza ad eludere (ed evadere), la seconda invece determina il grado di difficoltà di attuazione del disegno elusivo/evasivo. Chiaramente quanto maggiore è il carico tributario tanto più conveniente sarà tentare di evitarne l’integrale sostenimento tenuto conto, se si utilizza “l’arma” dell’elusione, della “bontà” della propria interpretazione, ovvero qualora si opti per l’utilizzo di sistemi illeciti (evasione), delle possibilità di essere scoperti, eventualità questa che a sua volta dipende dalla efficienza dell’Amministrazione Finanziaria in termini di rapporto tra il numero dei controlli e quello dei contribuenti, e di affidabilità dei controlli stessi, rappresentata dalla percentuale di soccombenza in giudizio dell’Amministrazione finanziaria. §2) La pressione fiscale come indicatore della convenienza alla elusione (ed all’evasione) delle imposte. Venendo ai dati relativi alla pressione fiscale, la situazione, per quanto riguarda le imprese italiane, è davvero sconfortante31, esse infatti scontano da tempo, uno dei livelli più alti di imposizione societaria, sia con riferimento alle aliquote nominali, sia a quelle effettive. Nel 1996, la legislazione italiana prevedeva, all’interno della Unione Europea, una delle più elevate aliquote d’imposta sui redditi societari (cfr tavola 1). 31 Usa aggettivi ben più coloriti il Falsitta nel capitolo intitolato “ La persecuzione fiscale delle imprese “, nel suo “ Per un fisco civile “ op. cit.. 21 Tavola 1 Aliquote Aliquote Aliquote legali legali legali 1991 1994 1996 Austria 39 34 34 Belgio 39 40,17 40,17 Danimarca 38 34 34 40,2 28 28 34 33,33 36,67 Paese Finlandia Francia Germania 56,5 (44,3 54,9 (42,6) 56 (42) sugli utili distribuiti) Grecia 46 35 35 Irlanda 43 40 38 Italia 47,8 52,2 53,2 Lussemburgo 39,4 39,4 39,4 35 35 35 39,6 39,6 38,8 34 33 33 Spagna 35,3 35,3 35,3 Svezia 30 28 28 39,8 37,5 37,6 Paesi Bassi Portogallo Regno Unito Media UE Fonte : Banca d’Italia 22 23 Questi dati32, ancorché risalenti33, evidenziano chiaramente che, nel nostro paese, la convenienza a sottrarsi in vario modo, lecito 32 Occorrerebbe inoltre, a mio avviso, rapportare tali dati alla qualità e quantità di beni e servizi ottenuti/ottenibili, a fronte di tale imposizione. Per questa via il risultato sarebbe indubbiamente peggiore. 33 Ma che, purtroppo, non sono variati in modo significativo. 24 o no, all’imposizione è comunque sempre molto elevata34, soprattutto ove si consideri la cronica deficienza dell’Amministrazione finanziaria nel contrastare tali pratiche. §3) La struttura dell’ordinamento tributario italiano. E’ stato già chiarito il ruolo dell’elusione all’interno del sistema tributario, come quella modalità di esercizio della propria libertà di scelta, variamente configurata (acquistare o prendere in locazione, consumare o no un dato bene od un suo succedaneo, stipulare un unico contratto ovvero più contratti collegati ecc.) mediante la quale si viene a risparmiare in termini di imposta, e che tale condotta è, in linea di principio, lecita. La possibilità di eludere è connaturata alla stessa esistenza di regole, e queste regole non sono altro che l’insieme delle norme, sostanziali e non, che costituiscono l’ordinamento tributario. Appare quindi chiaro che il grado di difficoltà di porre in essere un tale comportamento dipende anche dalla qualità e quantità delle citate regole35. 34 A voler tacere delle ulteriori implicazioni negative, infatti, un’elevata pressione fiscale può incidere negativamente sui grandi “stabilizzatori automatici” delle variabili macroeconomiche rallentando il loro aggiustamento. Vi sono poi le ripercussioni socioeconomiche della “concorrenza fiscale” tra Paesi (e Governi), fenomeno in espansione in una economia sempre più globalizzata e delocalizzata, e già da tempo all’attenzione degli organismi comunitari, vedasi il ‘Rapporto Ruding’, risultato del lavoro svolto dal Comitato istituito nel dicembre 1990 dalla Commissione CEE e presieduto da Onno Ruding, ove sono evidenziate le principali differenze nelle legislazioni fiscali degli Stati membri che costituiscono elementi generatori di distorsioni nella concorrenza. Dai dati pubblicati in esso, si apprende che il 48% di un campione di 8.000 imprese insediate in 17 Paesi di cui 12 Stati membri, ha dichiarato di prendere decisioni sulle modalità di insediamento di un’unità di produzione, in base ai fattori fiscali; nel caso di un centro di ricerca la percentuale è del 41% e di una società finanziaria del 78%. 35 Cfr. S. Cipollina “La legge civile e la legge fiscale, il problema dell’elusione fiscale”. Cedam 1992, pagg. 125 e ss. ove si approfondisce la connessione esistente tra la struttura normativa e l’elusione fiscale. 25 Non è questa certamente la sede per elencare pregi e difetti della nostra legislazione in materia tributaria, mi limiterò pertanto ad una disamina delle principali (a parere di chi scrive) caratteristiche del sistema delle imposte che si pongono in relazione di causa ad effetto nei confronti dell’elusione. Non posso comunque esimermi dal dare una veloce rassegna storica dell’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano. Volendo tralasciare gli albori della imposizione in Italia, passando direttamente al periodo successivo all’entrata in vigore dell’attuale Carta Costituzionale, si osserva, nel nostro ordinamento come in quello di tutti i paesi interessati (sin dal diciannovesimo secolo) dagli effetti della rivoluzione francese e della diffusione dei principi dell’illuminismo, ad una decisa tendenza verso la predeterminazione di regole che assicurassero ai cittadini una adeguata conoscenza (rectius conoscibilità) delle conseguenze delle proprie azioni, e quindi dei comportamenti consentiti e di quelli vietati. Questo principio generale di civiltà, imprescindibile in ogni stato di diritto, venne ritenuto giustamente fondamentale anche nel campo dell’imposizione fiscale, nel quale vi era inoltre l’ulteriore esigenza di assicurare che il soggetto attivo, essendo parte integrante dell’esecutivo e dotato di poteri anche molto penetranti nei confronti della sfera patrimoniale dei singoli, non abusasse di questa sua posizione, e la discrezionalità non sconfinasse nell’arbitrio36. Per questo si ritenne necessario riprendere, nell’articolo 23 della Costituzione del 1947, quel principio di legalità già consacrato 36 Non reputandosi sufficiente allo scopo il solo principio di imparzialità di cui all’articolo 97 della Costituzione. 26 nell’articolo 30 dello Statuto Albertino37, adattandolo alla nuova forma repubblicana dello Stato italiano. Le incertezze sull’ambito di operatività della riserva di legge38 soprattutto, per ciò che qui interessa maggiormente, in relazione al maggiore o minore ambito entro il quale è possibile delegificare, con orientamenti non sempre univoci della stessa Corte Costituzionale39, hanno finito con il “confondere” il processo di delegificazione stesso, nonostante la riconosciuta relatività della riserva di legge40. Infatti, da una parte la norma che doveva solo impedire al potere esecutivo di invadere le competenze del potere legislativo (attraverso il riconoscimento della sola discrezionalità tecnica41), ha 37 “Nessun tributo può essere imposto o riscosso se non è stato consentito dalle camere e sanzionato dal Re” espressione del principio classico delle democrazie liberali : “nullum tributum sine lege” che negli stati parlamentari si esprime “no taxation without representation”. 38 Non è questa la sede adatta per una analisi dettagliata del problema, si rimanda pertanto a Bartholini : Il principio di legalità in materia delle imposte, Padova 1957; L. Antonini: Riserva di legge e prestazioni patrimoniali imposte: la problematica parabola dell’antico istituto, in Giurisprudenza costituzionale 1996, 1674; M.A. Grippa Salvetti: Riserva di legge e delegificazione nell’ordinamento tributario, Milano 1998; A. Cerri: Problemi generali della riserva di legge, in Giur. Cost. 1968, 2234; L. Carlassare: Legge (riserva di), in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XVIII, Roma, 1990; De Sena, Esposito, Ficari, Fransoni, Rossi, Vantaggio: Casi e materiali di diritto tributario, Cedam 1997; L. Perrone : Appunti sulle garanzie costituzionali in materia tributaria, in Riv. di dir. Trib. 1997, I, pagg. 577 e ss. 39 Cfr. Corte Cost. sent. 129/69 e sent. 236/94. 40 L’atto normativo deve comunque fissare presupposti, soggetti passivi, aliquote (minima e massima almeno) e criteri per la determinazione dell’imponibile in modo da delimitare la discrezionalità dell’organo amministrativo a discrezionalità tecnica. 41 La discrezionalità tecnica, secondo una risalente dottrina, sarebbe ipotizzabile nel caso in cui, dopo aver accertato i presupposti sulla base di criteri tecnici e scientifici, la Pubblica Amministrazione goda anche della discrezionalità amministrativa, potendo valutare l’opportunità ed il contenuto dell’atto da emanare; più recentemente invece, la dottrina (Sandulli) ritiene che la discrezionalità tecnica si ha solo nell’ipotesi in cui la valutazione dei presupposti avvenga in base a criteri tecnici ma non anche nel caso in cui a tale apprezzamento consegua un potere discrezionale circa il contenuto e l’emanazione dell’atto. Viene allora giustamente da chiedersi dove stia in ciò la discrezionalità, e se non sia invece più corretto parlare di accertamento tecnico quando i criteri tecnici si riducano all’applicazione di esatte norme matematiche. In sostanza, 27 provocato anche l’effetto opposto, e ciò che potrebbe essere efficacemente disciplinato con regolamenti (ex art. 17 legge 400/88), continua in molti casi ad essere previsto da norme di legge, ovviamente meno flessibili dei primi. Dall’altra, laddove si è effettivamente verificato un depotenziamento della riserva di legge (soprattutto negli ultimi anni e nell’ordinamento degli enti locali territoriali), la rivalutazione della fonte regolamentare aumenta lo stato di confusione in cui si trova il contribuente, non fosse altro perché la moltiplicazione delle fonti normative provoca un aumento esponenziale delle norme ed una correlativa maggiore difficoltà di riconduzione delle fattispecie economiche verificatesi alle fattispecie legali previste. Con ciò non intendo assolutamente criticare il mezzo regolamentare, bensì evidenziarne il maldestro utilizzo che fino ad ora se ne è fatto. Le conseguenze di una tale concezione sono state aggravate, nel corso degli anni, da una impostazione del legislatore tributario sempre più orientata verso una legislazione casistica, venendosi ad innescare un circolo vizioso, che ha favorito una gemmazione di leggi tributarie42 le quali, se da una parte rispondono all’esigenza di assicurare una “base legislativa” ad ogni prestazione imposta, dall’altra hanno reso l’ordinamento tributario quel coacervo di regole legislative che, nel (vano) tentativo di prevedere qualsiasi situazione rilevante ai fini fiscali, ha implicitamente abilitato i soggetti passivi a ritenere irrilevanti fiscalmente le fattispecie non previste, garantendone in un certo senso l’immunità da successive come rileva il Guarino, la discrezionalità tecnica, nella valutazione giuridica, deve considerarsi attività vincolata e non discrezionale. 42 Vds Tremonti-Vitaletti, “Le cento tasse degli italiani”, Falsitta, “Per un fisco .. “ op. cit. capitolo III, “Il flagello della legificazione tributaria, la semplificazione e la codificazione “. 28 contestazioni. Il legislatore fiscale ha infatti adottato, (in maniera maggiormente marcata a partire dall’emanazione dell’attuale Testo unico delle imposte sui redditi approvato con DPR 917/86), la tecnica delle norme a “fattispecie esclusive”43, intendendosi con ciò un passaggio, nella tecnica legislativa, dalle formule sintetiche, che individuano le categorie tassabili per via concettuale, ad una previsione per casi e sottocasi, e cioè la soggezione ad imposta di tutte e sole le fattispecie previste come imponibili, senza possibilità di integrazione analogica ex articolo 12 delle Disposizioni preliminari44, senza cioè possibilità di aggiunte, neppure se si tratta 43 Si pensi che nel Testo unico del 1877, venivano elencate le fonti dei redditi tassabili (l’imposta era quella di ricchezza mobile), ma il concetto di reddito (mobiliare) non veniva definito. Nel successivo Testo unico del 1958, non vi erano cambiamenti radicali del concetto di reddito, affermandosi che il reddito di ricchezza mobile derivava da capitale o da lavoro o dal concorso di capitale e lavoro ovvero da qualsiasi altra fonte. Anche nel Testo unico del 1973 la formulazione dell’articolo 1 appare più l’enunciazione di un principio, infatti: “presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi, in denaro o in natura, continuativi od occasionali, provenienti da qualsiasi fonte”. Sostanziale appare quindi la differente formulazione dell’articolo 1 dell’attuale Testo unico, per il quale il presupposto si identifica nel “possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6”. Non è stata inoltre riprodotta la disposizione di cui all’art. 80 del Dpr 597/73, che assoggettava a tassazione “ogni altro reddito non espressamente considerato”. Benché per taluni all’interno della categoria dei “redditi diversi” la prevista imponibilità dei redditi derivanti dalle “obbligazioni di fare, non fare o permettere” avrebbe nell’attuale normativa, funzione sostanzialmente analoga. Ma il problema che sta alla radice, è la qualificazione di “reddito”, infatti, analogamente a quanto avveniva in vigenza dei precedenti ordinamenti delle imposte sui redditi, né la legge delega per la Riforma Tributaria (legge 9 ottobre 1971 n° 825) né le norme delegate hanno fornito una definizione di reddito, in quanto è risultato estremamente arduo codificare un concetto che è proprio della scienza economica. Altro problema rilevante è il concetto di “possesso”. Questo, almeno considerando il contenuto della relazione ministeriale all’art. 1 del DPR 597 del 1973, ove era precisato che “più che alla titolarità giuridica dei redditi, la norma intende riferirsi alla loro materiale disponibilità da parte del soggetto d’imposta” non deve essere pertanto inteso nell’accezione civilistica di cui all’art 1140 del c.c., vale a dire come situazione di fatto o sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale, bensì come mera disponibilità del reddito stesso, vale a dire come effettiva possibilità di fruire del reddito anche senza averne la titolarità giuridica. 44 Sulla possibile applicabilità, nell’interpretazione delle norme tributarie, dell’analogia legis, problema che riguarda soprattutto la qualificazione o meno delle stesse tra le norme eccezionali di cui all’articolo 14 delle Disposizioni preliminari al codice civile (che esclude l’applicabilità dell’analogia), non vi è, in dottrina un orientamento univoco e consolidato, mentre la giurisprudenza appare maggiormente coesa nel ritenerle tali. 29 di un fatto che esprime altrettanta o maggiore capacità contributiva di un altro considerato tassabile. Il principio ispiratore forse, era proprio quello di assicurare la certezza del diritto, limitando l’attività dell’interprete e del giudice a meccanico sillogismo, in tal modo però distaccandosi nettamente dalla realtà. Un’altra chiave di lettura dell’eccessiva produzione legislativa potrebbe essere quella che il legislatore, di fronte ad un fenomeno evasivo ed elusivo di proporzioni oramai imbarazzanti, abbia preferito la soluzione più facile, ma meno efficace ed efficiente45, delle “leggi tampone” e dei condoni e concordati vari, piuttosto che affrontare il problema alle sue radici, cioè rifondare da una parte l’intero sistema impositivo e dall’altra una Amministrazione finanziaria che da decenni versa in condizioni di assoluta inefficienza, razionalizzando entrambi. Sembra quindi che il legislatore abbia preferito la soluzione della legificazione46, ossia la massiccia fabbricazione di leggi a getto continuo, con invenzioni di presunzioni legali talvolta anche assolute47, equiparazioni antielusive, divieti di deducibilità di costi, coefficientazione nella determinazione del reddito di impresa e di lavoro autonomo, decadenze, preclusioni ecc, soluzione che nel breve periodo “paga” Contrari, per violazione della riserva di legge, A.D. Giannini, I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956 e A. Berliri, Principi di diritto tributario, vol. I Milano 1952, Tarello, “L’interpretazione della legge”, Milano 1980, pagg. 351 e seguenti, Tesauro, “Istituzioni ...”, op. cit. pagg. 42 e ss., Fantozzi, “Diritto ...”, op. cit. pagg. 182 e ss, A. Lovisolo, L’evasione e l’elusione op. cit., al quale si rimanda anche per le indicazioni bibliografiche. In particolare sull’interpretazione della norma tributaria di agevolazione, (Cass. sent. nn. 1832/1974 e 179/1971 ), V. Ficari in Casi e materiali ... op. cit. pag. 177. 45 Soprattutto in un’ottica di lungo periodo. 46 Cfr. Tremonti, “Scienza e tecnica della legislazione” in Riv. di sc. delle fin. e dir. Fin., 1992/I pag. 51. 47 Sovente bocciate dalla Corte Costituzionale, cfr. C.Cost. 15/07/1976, n. 200; 25/03/1980, n. 42; 25/02/1999, n. 41. 30 di più in termini politici48, ma che nel lungo periodo49 è destinata ad accrescere l’incertezza, e anche la diffidenza verso il fisco. Lo scopo dell’approccio “casistico” è quello di prevedere e tipizzare tutte le situazioni suscettibili di apprezzamento in termini di capacità contributiva, e dunque a contenuto economico, ma la sfera delle relazioni economiche è caratterizzata da una veloce espansione e da una ancora più rapida trasformazione50. Le attività produttive e gli stessi fattori della produzione sono stati e sono ancora interessati da un rapido processo di delocalizzazione e dematerializzazione che hanno fatto cadere dei “punti fermi” sui quali la legge tributaria faceva affidamento per il collegamento fatto economico/fattispecie giuridica/fattispecie fiscale; (anche) a tal fine nuovi strumenti negoziali vengono approntati, usufruendo di quella libertà negoziale prevista dall’art. 1322 c.c.51 che costituisce l’estrinsecazione del principio di libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 della Costituzione, rapporti che vengono talvolta 48 Dare concreta attuazione ad una vera riforma dell’apparato fiscale, necessita di un coraggio ed una forza politica non comunemente presenti nella maggior parte dei governi degli ultimi decenni, in quanto si tratta necessariamente di interventi che confliggono con gli interessi di categorie numerose e protette, dai semplici (ma numerosi) impiegati, agli alti burocrati strettamente legati al potere politico (basti pensare alle vere e proprie ‘epurazioni’, legalizzate con lo spoil system, attuate ad ogni cambio di legislatura. 49 Soprattutto quando comincia a consolidarsi un orientamento contrario della giurisprudenza. 50 Talvolta proprio per motivi elusivi, rendendo così ancora più evidente la continua rincorsa legislatore/elusore nella quale il primo è destinato cronicamente all’inseguimento. Al riguardo appaiono conferenti le osservazioni di due studiosi americani, S.A. Gutkin e D. Beck, i quali nell’introdurre un loro lavoro sull’elusione ed evasione delle imposte scrissero: “Non appena una legge tributaria viene emanata si evidenziano in essa delle lacune. I contribuenti le sfruttano. Vengono allora adottati nuovi provvedimenti che aprono nuove smagliature, che a loro volta inducono alla redazione di ulteriore materiale legislativo, e così via in una spirale infinita...”. 51 Che riconosce alle parti la libertà di determinare il contenuto del contratto (nei limiti imposti dalla legge), e anche di concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela. 31 scomposti in più negozi collegati fra loro creando ampi spazi all’elusione e connessi problemi interpretativi non più risolvibili con gli ordinari criteri ermeneutici previsti dagli articoli 1362 e seguenti del c.c.52. Un significativo esempio di difficoltà del legislatore tributario a stare al passo con il mondo dell’economia reale è ben rappresentato dal problema della tassazione del commercio via internet53, che negli USA54 si è scelto di risolvere, o meglio differire, con una moratoria fiscale temporanea (recentemente prorogata), problema che ha rimesso in discussione, in tutti gli ordinamenti 52 L’argomento dell’autonomia negoziale, dell’interpretazione dei contratti ai fini civilistici e del potere dell’Amministrazione finanziaria di riqualificarli ai fini fiscali, sarà approfondito nella parte ad essa dedicata del presente lavoro. 53 Per chi volesse approfondire l’argomento vedasi: Comunicazione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni “Un’iniziativa europea in materia di commercio elettronico” COM (97) 0157 del 15/04/1997; la Relazione sulla stessa, della Commissione per i problemi economici e monetari e la politica industriale, relatrice: on. Erika Mann 04/05/1998 tutte reperibili sul sito: http://www.ispo.cec.be./Ecommerce; Il sole 24 ore: 06/12/1999, “E-commerce: incertezze sul prelievo”; 13/12/1999, “Internet e imposte: è l’e-commerce il nemico numero 1“; 20/12/1999 “L’Ocse si adegua all’e-commerce”; 27/03/2000 “ Il fisco mette in regola l’e-commerce”; 27/03/2000, “Iva: regimi delle operazioni sul web”; 18/04/2000 “Resta ancora in attesa di istruzioni il trattamento dell’Iva per i “beni virtuali””; 18/04/2000“Il fisco aggiusta il tiro sull’e-commerce”;18/04/2000 “La concorrenza sleale cresce in rete”. “Internet. Ipotesi di tassazione del reddito transnazionale e virtualità del cyber(tax)planning” in Il fisco 30/97, pag 8504. “World Wide Web. Problemi fiscali legati all’uso commerciale di internet” Il fisco 30/97, pag 8514; “Internet. Sfide e opportunità del commercio elettronico nelle iniziative della Commissione europea” Il fisco 9/98, pag 3139; “Problematiche Iva relative all’acquisto di un software via Internet o via modem” Il fisco 6/99, pag 1759; “Siti Web. Imprese virtuali o effettive?” Il fisco 14/99, pag 4827; “Bit tax, ultima frontiera nella società dell’informazione?” Il fisco 16/99, pag 5514; vedasi inoltre la “Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del consiglio relativa a taluni aspetti giuridici del commercio elettronico nel mercato interno” del 18/11/1998 COM(1998) 586 def., la successiva “Relazione” della Commissione giuridica e per i diritti dei cittadini, relatrice on. Christine Margaret Oddy del 23/04/1999; la “Relazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo” del 28/01/2000 COM(2000) 28 def.. Infine, all’indirizzo: http://www.cestec.org è consultabile. tra l’altro, il documento del 21/04/2000: “Gli aspetti fiscali del commercio elettronico” a cura del Centro Europeo di Studi Tributari e sull’Electronic Commerce. 54 Da ricordare che la Costituzione americana esenta dall’imposizione le vendite per corrispondenza cui le vendite via internet sono attualmente assimilate. 32 giuridici dei paesi maggiormente sviluppati, aspetti tributari oramai consolidati come quelli inerenti la territorialità delle operazioni. Si è innestata così una spirale perversa: le innumerevoli leggi fiscali devono tra loro coordinarsi, cosa che non sempre riesce possibile, anche a causa della mancata abrogazione esplicita delle vecchie norme, aggrovigliando ancora di più la giungla legislativa55; il legislatore adotta delle tecniche di produzione normativa assai discutibili, come testimoniato dall’abuso dello strumento dei Decreti legge, con i conseguenti problemi nei molti casi in cui gli stessi non vengono convertiti56, pratica prima avvallata dalla Corte Costituzionale57, e successivamente (finalmente) censurata dalla 55 Per rendere l’idea del fenomeno, si reputa utile riportare a titolo esemplificativo alcuni dati commentati da A. Cherchi, in La stagione delle deleghe, su Il sole 24 Ore del 19 gennaio 1998 : “durante l’attuale legislatura ( XIII, dal 9 maggio 1996,), dei 274 provvedimenti approvati dal Parlamento, solo 46 contengono abrogazioni esplicite di vecchie leggi (in 10 casi è prevista la cancellazione completa della normativa), mentre sono 14 i provvedimenti che contengono formule di abrogazione generica, tali da far decadere le vecchie disposizioni incompatibili con le nuove. Né miglior risultato ha ottenuto il Governo con i decreti legislativi: dei 28 emanati, solo 10 contengono abrogazioni mirate (di cui quattro per cancellare un intero provvedimento), mentre altri quattro decreti prevedono abrogazioni indirette”. Per quanto riguarda i decreti legge “ a fronte di 308 sinora approvati... ne sono stati abrogati interamente solo 17 e parzialmente 80”. 56 Si è trattato di una vera e propria escalation, infatti, tra il 1° gennaio 1972 ed il 30 maggio 1984 ( meno di 12 anni e mezzo ) sono stati presentati nel complesso 609 Decreti-legge, dei quali 105 in materia tributaria. Di questi ultimi, 66 convertiti con modifiche, 20 senza modifiche, 15 sono decaduti, due sono stati respinti e due erano pendenti ( dati tratti da A. Berliri, Ancora sulle cause della mancanza di certezza nel diritto tributario, Giur. Imp. 1984 ). Nel periodo 1° giugno 1984, 20 ottobre 1992, in meno di 8 anni e mezzo, il numero dei decreti legge contenenti disposizioni di natura tributaria si porta a 255, dei quali, 83 convertiti con modifiche, 14 convertiti senza modifiche e 148 non convertiti ( dati tratti da V. Uckmar, L’incertezza nel diritto tributario, in La certezza del diritto. Un valore da ritrovare, Milano 1993 ). Nel periodo aprile 1992, aprile 1994, ne sono presentati 490, convertiti 119, decaduti 363 ( e reiterati 328 ), respinti 8. Dall’aprile 1994 al maggio 1996, presentati 734, convertiti 121, decaduti 603 ( e reiterati 589 ), respinti 10. Dal 6 maggio 1996, presentati 340, convertiti 87, decaduti 247 ( e reiterati 162 ), respinti 6 (da Il sole 24 Ore del 27 aprile 1998 su dati del Servizio studi della Camera dei Deputati). 57 Si vedano le sentenze della Consulta nn 173 del 15/05/87, 243 del 6/7/87, e 1033 del 15/11/88 nelle quali il principio espresso era quello per cui “ le censure di legittimità costituzionale concernenti l’asserita mancanza dei presupposti della decretazione d’urgenza” dovessero considerarsi “sanate” per effetto dell’avvenuta conversione in 33 stessa per la violazione dell’art. 77 Cost.58. Altra tecnica assai discutibile e foriera di difficoltà interpretative è quella del rinvio, con l’indicazione (numerica) dei riferimenti ad altra norma, rendendo arduo il compito dell’interprete che si perde nei meandri dei riferimenti normativi. L’intera intelaiatura dell’ordinamento tributario è soggetta a continui mutamenti, perché, alla inevitabile alternanza politica, si aggiungono da una parte le esigenze di cassa, e dall’altra i continui aggiustamenti delle citate “fattispecie esclusive” derivanti dall’emersione di pratiche elusive consentite dalla lacunosa stesura della norma originaria, ed anche a causa dell’utilizzo di termini talvolta ambigui od oscuri. La fisiologica instabilità del diritto tributario si è accentuata per effetto dell’incremento delle norme comunitarie, anche di formazione giurisprudenziale, in materia tributaria. E’ stato spesso utilizzato il mezzo delle leggi interpretative59, con il secondo fine di modificare (in pejus) il regime giuridico delle fattispecie con efficacia ex tunc60, in quei casi nei quali legge. In questo modo la Corte Costituzionale ha eluso il proprio dovere di sindacare i presupposti della decretazione d’urgenza. 58 Sentenza n. 29 del 27 gennaio 1995 nella quale la Corte inverte di 180 gradi la precedente opinione interrompendo la suddetta pratica, che sviliva il principio della separazione del potere politico/amministrativo da quello legislativo, basilare in una democrazia parlamentare. Vedasi il paragrafo III°.1 “Primi passi verso il tramonto dell’abusivismo governativo nella decretazione d’urgenza”, in G. Falsitta, “Per un fisco ...” op. cit. Giuffrè 1996. 59 Molto spesso abusandone per ottenere effetti retroattivi a danno dei contribuenti e del requisito di attualità che la capacità contributiva deve necessariamente possedere. Sulle diverse tesi in ordine alla reale natura delle leggi interpretative vds da ultimo, G. Carli, Il legislatore interprete, Milano, 1997 60 Dall’ipotesi della introduzione di una nuova forma impositiva in relazione a presupposti verificatisi prima della pubblicazione della legge, a quella della proroga dei termini di accertamento già scaduti, a quella infine di modifica dei criteri di determinazione dell’imponibile in tributi di durata allorquando il periodo di imposta non si è ancora concluso. Cito due esempi: l’art. 11, comma 9 della l. 413/91, avvallato dalla giurisprudenza adducendo la oggettiva prevedibilità dell’imponibilità, vedasi la 34 l’orientamento giurisprudenziale si era consolidato su posizioni “scomode”61, contribuendo così alla incertezza del diritto ed a quella percezione di scorrettezza del legislatore tributario da parte dei contribuenti, che tanto contribuisce a rendere il rapporto tra soggetto attivo e soggetti passivi, improntato sulla diffidenza reciproca. A parere di chi scrive inoltre, il sistema tributario italiano perseguirebbe troppi obiettivi, e ciò mi pare possa essere desunto dall’eccessivo numero di regimi speciali, particolari, agevolativi, sentenza C.Cost. n 10056 del 1/8/2000, che pare aver messo fine alla questione più volte oggetto di giudizi presso le Commissioni di merito; e più recentemente l’art. 1 del DL 669/96. Sui profili di incostituzionalità di quest’ultima novella, vedasi Marongiu, “Dubbi di legittimità costituzionale sulla nuova disciplina fiscale degli ammortamenti finanziari dei beni gratuitamente devolvibili”,in Dir. e prat. Trib., 2000, I, pag. 3 e ss. Per la tesi della oggettiva prevedibilità si vedano le sentenze della Corte Costituzionale 11 aprile 1969 n 75, in Dir. e prat. Trib., 1969, II pagg. 349 e ss.; sent. n 315 del 20 luglio 1994, in Il fisco n 30/94 pagg. 7235 e ss. sent. n 14 del 19 gennaio 1995, in Il fisco n 8/95, pag 1824. Per il connesso aspetto relativo alla presunta lesione dell’art. 53 della Cost. vedasi : Corte Costituzionale, sent. 27 luglio 1982, n 143, in Giur. Cost., 1982, I, pagg. 1256 e ss.; ordinanza n 365, del 29 dicembre 1983, in Il fisco n. 5/84, pag. 662; ordinanza n 342 del 13 dicembre 1985, in De Mita , “Fisco e Costituzione”, Milano 1996, pagg. 343 e ss.; ordinanza n 263 del 13 luglio 1987, in De Mita “Fisco e ...”op. cit. pagg. 642 e ss; ordinanza n. 542 del 17 dicembre 1987, in De Mita “Fisco e ...” op cit. . Decisamente contrario alla tesi della prevedibilità, e con argomentazioni a mio avviso estremamente convincenti, si veda, G. Falsitta, “Per un fisco...”, op. cit. paragrafo II°.1 intitolato (ironicamente) “L’illegittimità costituzionale delle norme retroattive imprevedibili, la civiltà del diritto e il contribuente Nostradamus”. Cfr anche G. Spaziani Testa nel commento all’ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 11 commi 5, 6, 7, 8 e 9 della l. 413/91, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione. Comm. I° di Treviso, sez. II del 01/07/1994. 61 Mascherando in pratica il carattere innovativo della norma mediante l’utilizzo “strumentale” di espressioni quali “ l’articolo xy va interpretato nel senso che..” od altre sostanzialmente equivalenti. Emblematica è stata la vicenda relativa alla natura del termine di cui all’art. 36-bis del DPR 600/73, essendosi consolidato l’orientamento sfavorevole all’erario, di perentorietà del termine in questione, con (da ultime) le sentenze della Corte di Cassazione n. 7088 del 29/07/97, in Il fisco n 32/97, pag. 9524; e n. 12442 del 9/12/97, in Il fisco n. 11/98 pag. 3637; a distanza di pochi giorni da questa ultima sentenza, con l’articolo 28 della legge 449/97, la norma veniva interpretata (autenticamente e quindi retroattivamente) nel senso dell’ordinatorietà del termine citato.Altri esempi : articolo 21 l. 133/1999 in relazione all’art. 38 comma 2 D.Lgs. 546/92 ed ordinanza della Corte di Cassazione n 1004 del 3 luglio 1999, in “Corriere tributario” 2000, pagg. 1685 e ss., oggetto inoltre di giudizio innanzi la Corte Costituzionale che ne ha dichiarato la illegittimità costituzionale, proprio nella parte in cui dispone l’efficacia retroattiva, sent. n. 525, del 15/11/2000 in “Rass. Trib.”, 6/2000, pagg. 1889 e ss.. Si veda anche la recente sentenza della Suprema Corte, n. 267 del 10/01/2001 35 forfetari ecc. che contribuiscono non poco a complicare il sistema nel suo complesso. Infine, come se non bastassero i difetti attribuibili al legislatore, la stessa Amministrazione finanziaria, introduce talvolta elementi di incertezza con le sue circolari, le quali, benché siano destinate ad essere vincolanti per i soli uffici periferici, in virtù del vincolo di subordinazione gerarchica cui sono soggetti questi ultimi, sono inevitabilmente percepite (erroneamente) dai contribuenti alla stregua di una interpretazione autentica, ingenerando un affidamento spesso tradito a posteriori, in seguito all’emanazione di successive circolari di indirizzo contrario62. §4) Fisco e contribuenti: un rapporto difficile. Come reagisce il contribuente di fronte ad una situazione come quella appena descritta ? La risposta è abbastanza semplice ed immediata, si sentirà vessato, non solo e non tanto per quanto si trova a dover pagare, ma 62 Sul valore giuridico delle circolari ed interpretazioni ministeriali, e sulle possibilità che l’affidamento del contribuente sia tutelato mediante l’operatività delle “obiettive condizioni di incertezza” quale causa di inapplicabilità delle sanzioni, si rimanda a Lupi, “Manuale professionale di ...”, op. cit., pag 53 e ss.;F. Benatti : Principio di buona fede e obbligazione tributaria, in Boll. Trib., 1986, pagg. 947 ss.; G. A. Micheli, Corso di diritto tributario UTET 1992, pag. 59 e ss.; M. Bertolissi, Le circolari interpretative dell’Amministrazione finanziaria, in Rass. Trib. I/1987, pag. 435; G. Falsitta, Rilevanza delle circolari interpretative e tutela del contribuente, in “Studi in onore di E. Allorio”, II, Milano, 1989, pag. 1819; Russo, Manuale di diritto tributario, Giuffrè 1999, pag. 97 e ss; Falsitta, Manuale di diritto ... op. cit., pagg. 176 e ss . La più recente giurisprudenza della Cassazione, sez. trib. (sentenza n° 2133 del 14/02/2002) ha avuto modo di chiarire quanto segue : “Le circolari ministeriali in materia tributaria non costituiscono fonte di diritti ed obblighi, per cui, qualora il contribuente si sia conformato ad un'interpretazione erronea fornita dall'amministrazione in una circolare (successivamente modificata), e' esclusa soltanto l'irrogazione delle relative sanzioni, in base al principio di tutela dell'affidamento (come ora espressamente sancito dall'art. 10, comma secondo, della legge 27 luglio 2000, n. 212, c.d. statuto del contribuente)”. Si veda inoltre Cass. Sez. trib. N° 14619 del 08/06/2001; C.Cost., N° 416 del 04/11/1999; Cass. Ord. 01/03/2000; C.Cost. N° 229 del 07/06/1999; C.Cost. N° 586 del 28/12/1990. 36 soprattutto per quella che è la percezione di ciò che riceve come contropartita nel momento in cui si trova ad avere la necessità di utilizzare un qualsiasi servizio pubblico trovandosi così di fronte a strutture fatiscenti, personale spesso scortese e poco preparato e tempi di attesa biblici, che non di rado (soprattutto trattandosi di salute) inducono alla decisione di rivolgersi al settore privato per avere (a pagamento ovviamente) un servizio che si ha così l’impressione di aver pagato due volte. E’ andata per questa via consolidandosi l’idea che la spesa pubblica sia in larghissima parte caratterizzata da un’enorme spreco di denaro, che venga utilizzata per scopi politici (leggasi voto di scambio), che gli impiegati pubblici siano troppi e non siano altro che una categoria di fannulloni incapaci. Che sia o no un luogo comune, deve riconoscersi un fondamento di verità, e ciò che più importa è che un sentimento come quello appena descritto è radicato e generalizzato al punto da rendere truffaldino il rapporto Fisco/contribuenti, minando alla base quel rapporto di fiducia indispensabile in un sistema basato sull’autodeterminazione delle imposte. L’elevata pressione fiscale determina un atteggiamento generale di comprensione nei confronti di chi si sottrae al pagamento di quanto dovuto, non c’è quella riprovazione nei loro confronti che sarebbe lecito aspettarsi (in un paese civile). Chi non ha assistito a scene nelle quali è lo stesso cliente che per un sentimento di solidarietà/complicità, esorta il commerciante a “non fare lo scontrino”? Salvo poi essere il primo a lamentarsi dell’imposizione 37 fiscale troppo alta, senza rendersi conto di trovarsi a pagare anche per quelle somme che ha contribuito lui stesso a fare evadere63 . Da un atteggiamento di comprensione si passa addirittura ad uno di profonda ammirazione nei confronti di chi riesce a sottrarsi al pagamento delle imposte e tasse sfruttando le imperfezioni delle norme, ideando delle architetture contrattuali elaborate e geniali, in una parola, eludendo. Anche la complessità dell’intero sistema impositivo, ha portato ad una percezione di costante precarietà, nel senso che il contribuente non si sente mai completamente in regola, il che giustifica, secondo quest’ordine di idee l’elusione/evasione perché, rendendo fisiologica la sensazione di irregolarità e di paura nei confronti di eventuali accertamenti e controlli, si tenterà almeno di guadagnarci qualcosa, considerando anche la remota possibilità di subire effettivamente un controllo fiscale. La via dell’evasione sarà intrapresa soprattutto dalle piccole e medie imprese, artigiani e piccoli commercianti che, trovandosi ad intraprendere affari con soggetti consumatori finali (business to consumer), sfruttano la carenza di interesse di questi ultimi alla certificazione fiscale del corrispettivo pagato, talvolta, allettandoli con una riduzione di prezzo64. Le imprese di maggiori dimensioni, o comunque chi si trova ad operare con altri operatori economici (business to business), tendono ad utilizzare maggiormente lo strumento elusivo, anche 63 Con questo non intendo ridurre il problema dell’elusione/evasione delle imposte ad una questione di “scontrini”, ma evidenziare l’atteggiamento mentale che si ha nei confronti dell’intero rapporto di imposta, basato sulla sfiducia reciproca legittimando (quasi) le scorrette reazioni di entrambe le parti. 64 Tipico il caso dei dentisti, e, più recentemente, delle imprese di lavori edili, a seguito dell’introduzione della detrazione del 36% (prima 41%) sui lavori di ristrutturazione edilizia. 38 perché questo richiede l’assistenza e consulenza di tributaristi esperti e preparati che raramente le piccole imprese possono permettersi. In conclusione si deve constatare la quasi inesistente cultura del sacrificio fiscale inteso come presupposto indispensabile per l’attuazione del principio di solidarietà nel concorso alle spese necessarie per l’attuazione degli obiettivi indicati nella Suprema Legge, e la responsabilità maggiore ancorché non esclusiva, di questa carenza non può che essere attribuita ai pubblici poteri. §5) Conclusioni Riassumendo quanto esposto in questi primi due capitoli, possiamo evidenziare che l’essenza dell’elusione può in prima battuta essere identificata nel (precario) rapporto di equilibrio esistente tra i due principali fondamenti costituzionali in materia tributaria, la riserva di legge e la capacità contributiva. Questi ultimi si trovano talvolta in conflitto, allorquando venga posta in essere una fattispecie che, dal punto di vista economico costituisce una espressione di capacità contributiva, ma che, dal punto di vista strettamente giuridico non è esplicitamente prevista come tassabile da alcuna norma impositiva, atteso che il principio della riserva di legge importa la tipicità ed esclusività delle fattispecie impositive. Si viene così a creare una sorta di attrito, testimoniato dalle diverse posizioni della dottrina, da cui si originano le diverse impostazioni di fondo che caratterizzano lo studio dell’elusione fiscale. Abbiamo infatti da una parte coloro i quali, difendono strenuamente la riserva di legge e la connessa certezza del diritto, e dall’altra chi vorrebbe far prevalere un approccio maggiormente 39 basato sulla sostanza economica degli accadimenti, in stretto ossequio del principio di capacità contributiva e del connesso principio di solidarietà. Questi ultimi hanno cioè interpretato l’articolo 53 quale limite al libero svolgimento dell’autonomia privata, così ritenendo il precetto costituzionale direttamente applicabile e pertanto invocabile davanti a comportamenti ritenuti elusivi65. A parere dello scrivente, occorre ricordare la funzione che ciascuno dei cennati principi ha all’interno dell’ordinamento. La capacità contributiva, come la migliore giurisprudenza costituzionale ci insegna, deve essere intesa quale parametro di riferimento, garanzia per il privato cittadino e limite per il legislatore il quale, osservando il principio di legalità, deve individuare con legge i fatti e gli atti ritenuti espressivi di capacità contributiva per assoggettarli a tassazione66. Questo non deve però necessariamente condurre ad una esasperazione della ricerca e codificazione di ogni minimo fatto che si intende assoggettare a tassazione, come può ben testimoniare l’esperienza di un paese certamente attento ai diritti ed alle libertà personali come gli Stati Uniti, nel cui ordinamento tributario, ispirato anch’esso al principio di legalità, gli elementi base della imposizione sui redditi sono compresi in poche disposizioni a 65 Si tratta fondamentalmente degli autori, della dottrina minoritaria, che ritengono l’articolo 53 quella “norma imperativa” (tributaria), la cui violazione determinerebbe la nullità del negozio per frode alla legge ex art. 1344 c.c., come il Gallo in “Brevi spunti in tema di ...” op. cit. 66 Di questa opinione è anche Moschetti in “La capacità contributiva” Padova 1993, pagg. 15 e ss, il quale sottolinea che il principio di capacità contributiva deve necessariamente raccordarsi a quello della riserva di legge, nel senso di escludere che ogni manifestazione di capacità contributiva sia assoggettabile ad imposta, ma solo quelle che si sono concretizzate in un atto legislativo. 40 carattere fondamentale67, e la norma che individua il presupposto dell’imposta68 è seguita da una elencazione a titolo esplicitamente esemplificativo. Relativamente al complessivo impianto dell’ordinamento tributario, il panorama delineato non appare certamente dei più confortanti, ciononostante, a conclusione di questo apocalittico quadro, v’è comunque da riconoscere un rinnovato vigore delle correnti di pensiero più garantiste. Dopo anni di gestazione ha infatti visto finalmente la luce lo Statuto dei diritti del contribuente69, il quale, approvato con la legge70 212/2000, contiene delle importanti 67 G.Zizzo, “ Riflessioni in tema di tecnica legislativa e norma tributaria ” in Rass. Trib. 1988 pag. 183. 68 Sezione 61. 69 Il primo progetto fu presentato nel settembre 1990 alla Camera, poi ripresentato nel 1992, la versione attuale è stata progettata in Parlamento nel 1996 per essere approvata nell’agosto del 2000, nel pieno di una serie di riforme ed innovazioni (anche tecniche, come il debutto, con successo, della trasmissione telematica, della dichiarazione unificata, delle compensazioni ecc.), che hanno sicuramente messo in luce un complessivo ripensamento del rapporto Fisco-contribuenti, anche se talvolta si ha l’impressione che “troppa carne sia stata messa sul fuoco...”. 70 La scelta di non utilizzare lo strumento ben più vincolante della Legge costituzionale, è stato criticato da chi si attendeva un maggior coraggio politico, in considerazione del fatto che, applicandosi allo Statuto gli ordinari criteri relativi alla successione delle leggi nel tempo, una successiva disposizione incompatibile prevarrebbe sulla prima. Da una attenta lettura della legge, si può però collocare questa tra le leggi cosiddette (auto)“rinforzate”, infatti l’articolo 1 comma 1, richiede che le deroghe e le modifiche di quanto da essa disposto, debbano essere necessariamente espresse. Inoltre esso reca perlopiù dei principi generali dell’ordinamento tributario, e le disposizioni in essa contenute sono emanate “in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione”. Quanto sopra, unitamente alla previsione dell’obbligo degli enti territoriali di provvedere all’adeguamento dei rispettivi ordinamenti ai principi medesimi, ci permette di collocare lo Statuto in una posizione sovraordinata rispetto alla legge ordinaria. La caratteristica di fissità, (già nota nel diritto tributario, art. 1 comma 2 della legge 4 gennaio 1929 n° 4) delle disposizioni in questione vuole in sostanza impedire che i relativi principi generali vengano violati, anche in forma implicita, da leggi e leggine; inoltre la modifica o deroga espressa non è mai ammessa con leggi aventi carattere speciale ( limitate cioè a materie o soggetti particolari ). Secondo E. De Mita, Statuto del contribuente, generico eppure utile, in Il sole 24 Ore del 16 marzo 1999, “si tratta di principi che dovrebbero trovare applicazione comunque, anche senza particolari disposizioni di legge. Ad ogni modo, ben vengano disposizioni che nel loro insieme, sia pure nella loro portata limitata, sembrano rappresentare un grosso mutamento di prospettiva... questo statuto può essere considerato un contenitore che 41 enunciazioni di principio che hanno di mira molti dei difetti dell’ordinamento appena esposti71. Ancora non è possibile valutarne appieno l’efficacia e l’impatto, anche a livello psicologico, in quanto si stanno lentamente adeguando le previgenti disposizioni contrarie ai suddetti principi, ma la Suprema Corte di Cassazione72 ha già avuto modo di rimarcare l’importante funzione dello Statuto all’interno dell’ordinamento tributario, sentenziando che, “Le disposizioni dello Statuto costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario, tendenti ad attuare gli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, ed assumono... un inequivocabile valore interpretativo”. Lo Statuto diventa quindi uno strumento che “deve aiutare l’interprete a ricavare dalle norme il senso che le renda compatibili con i principi costituzionali”. Sicuramente rilevante, e già operativo, è l’istituto dell’interpello generalizzato di cui al V° comma dell’articolo 11 dello Statuto. Tra le fondamenta del nuovo “edificio” deve essere incluso un effettivo recupero di immagine, che consenta di riportare il rapporto Fisco/contribuenti, da posizioni di scontro, sfiducia ed assoluta incomunicabilità dovuta all’utilizzo di linguaggi diversi ed incompatibili, verso i binari di una fattiva reciproca collaborazione. con il tempo potrebbe diventare la tanto sospirata legge generale sull’applicazione delle imposte e sui principi sostanziali sui quali fondarle”.G. Falcone: “Il valore dello Statuto del contribuente”, in Il fisco 36/2000, pag. 11038. 71 E’ comunque importante rimarcare che una legge è un buon segno ed un buon inizio, ma per poter risolvere (rectius attenuare) i gravi problemi che abbiamo velocemente rassegnato, occorre un intervento su più fronti. Ridurre la spesa pubblica razionalizzandola è un obiettivo primario che, unitamente ad un allargamento della cerchia dei soggetti passivi potrebbe consentire una riduzione del carico fiscale e quindi della stessa convenienza ad evadere/eludere. 72 Sentenze della sez. tributaria nn. 4760 del 30/03/01 e 5931 del 21/04/01. Cfr. G. Bernoni : Sentenze della Cassazione e Statuto del contribuente. In Il fisco n. 28/2001 pag 9508. Cass. sez. trib. N° 14588 del 26/01/2001; Comm. trib. reg. Umbria, N° 728 del 29/11/2000; Comm. trib. prov. Ravenna N° 129 del 28/11/2001. 42 E’ sicuramente da apprezzare l’accresciuto ricorso, in varie fasi procedimentali, al contraddittorio tra le parti, ed in generale ad una impostazione di fondo tendente alla ricerca del dialogo. Anche dal punto di vista sanzionatorio alcuni netti miglioramenti sono stati fatti, dalla diminuzione dell’entità dei minimi edittali relativi alle violazioni sostanziali73 alla non punibilità per le violazioni “meramente formali”. Più in generale, è apprezzabile l’impostazione dell’impianto sanzionatorio74, sui binari del diritto penale, dalla previsione del principio del favor rei75 a quello della personalizzazione della pena ecc.. La semplificazione tributaria è l’altro improcrastinabile settore di intervento, in quanto oltre a facilitare lo spontaneo adempimento, agevola altresì l’attività di controllo76. Occorre infine procedere ad una rifondazione dell’intero apparato dell’Amministrazione Finanziaria, partendo da un adeguato programma di gestione delle risorse umane che fino ad ora ha costituito, a mio sommesso avviso, uno dei problemi principali del settore77. 73 74 Decreti legislativi 471 e 473 del 18 dicembre 1997. Decreto legislativo 472 del 18 dicembre 1997. 75 Decretando finalmente la fine dell’odioso istituto dell’ultrattività prevista nella legge n. 4 del 7 gennaio 1929. 76 Quello che preoccupa maggiormente è il fatto che quanto appena detto è diventato ormai una banalità che abbiamo sentito e sentiamo ad ogni cambio di governo, e questo potrebbe rendere difficile la percezione che un vero cambiamento stia effettivamente avvenendo. 77 Sarebbe ora di finirla con le progressioni di carriera determinate in larga misura dall’anzianità di servizio e cominciare a dare maggiore risalto alla preparazione giuridica, evitando di porre sullo stesso piano una laurea in filosofia con una in giurisprudenza o in economia, come ancora avviene. La recente istituzione delle Agenzie Fiscali, aldilà delle modifiche di forma, non ha ancora dato prova di essere quella riforma che molti impiegati delusi come il sottoscritto si aspettavano, ma questa forse è l’ulteriore prova che è proprio la volontà politica di avere un’apparato fiscale efficace ed efficiente a mancare. 43 PARTE SECONDA CONTRASTARE L’ELUSIONE FISCALE Capitolo I §1)Una precisazione di metodo In questa parte di lavoro si darà conto sinteticamente di come il legislatore abbia tentato di contrastare l’elusione fiscale, privilegiando la correzione delle norme ‘strumentalizzate’, ovvero introducendone alcune dirette a colpire fattispecie specifiche, descrivendo sinteticamente alcune disposizioni. Il discorso principale riguarderà invece i tentativi fatti dall’Amministrazione finanziaria di combattere le medesime ‘strumentalizzazioni’, nelle more dell’intervento legislativo, ovvero, successivamente ad esso, di come essa abbia tentato talvolta di estenderne la portata fino a desumere da queste dei principi di tipo generale che la dotassero di un penetrante potere di ingerenza sull’attività dei privati, cioè travalicando il principio dell’autonomia negoziale ed entrando nel merito delle scelte imprenditoriali sindacando l’economicità delle stesse. 44 §2) Gli strumenti di contrasto del fenomeno elusivo. Premessa Come già in precedenza rilevato, il fenomeno elusivo ha cominciato ad essere considerato dal legislatore tributario foriero di iniquità economiche e sociali, allorché ha raggiunto livelli non più sostenibili in termini di distorsione dei più importanti principi sui quali la natura e la entità dell’imposizione si fondano. Mi riferisco ovviamente ai principi costituzionali più facilmente riconducibili all’imposizione fiscale ed all’attività della Pubblica Amministrazione in generale (artt. 3, 23, 53 e 97 Cost.), ma anche a quei principi costituzionali per i quali la leva fiscale funge da mezzo per agevolarne l’attuazione concreta (att. 4, 9, 31, 32, 33, 34, 36, 38, 41, 44, 45 e 47 Cost.). Così, il dibattito parlamentare circa i possibili modi di contrastare i fenomeni di sottrazione agli obblighi fiscali, ha cominciato a tenere in considerazione non più solamente l’evasione, ma anche l’elusione. Di fronte alla diffusione delle pratiche elusive, il dibattito principale ha riguardato soprattutto l’opportunità di introdurre o meno una norma antielusiva di carattere generale, secondo l’approccio seguito in altri paesi, Germania in testa, ovvero norme che andassero a colpire singole fattispecie elusive, oppure ancora evitare gli abusi e le strumentalizzazioni attraverso la correzione delle imperfezioni normative che li consentivano. 45 §3) Le reazioni del legislatore alle pratiche elusive: la correzione delle imperfezioni normative Nel primo capitolo ho cercato di riassumere brevemente le varie definizioni di elusione fiscale, proposte dai più autorevoli studiosi del diritto tributario. L’obiettivo non era ovviamente quello di individuare la definizione “perfetta”, o “vera” che dir si voglia, bensì quello di fornire delle motivazioni sostenibili, a suffragio della tesi oramai consolidata, della liceità di questo particolare ed ingegnoso espediente per “mascherare” capacità contributiva, evitando di porre in essere atti o fatti legalmente individuati ed assunti a presupposto di imposta, sfruttando le imperfezioni delle norme, gli spazi interstiziali tra ciò che il diritto positivo individua come imponibile e ciò che gli si avvicina in termini di effetti economici, ma non in termini di qualificazione giuridica, o perlomeno non abbastanza da essere in esso ricompreso. Detto questo, potrebbe sembrare più che logico che la prima cosa da fare per contrastare questa erosione di gettito sia la semplice correzione delle stesse norme che l’hanno consentita78. Le norme correttive però, intervenendo ad elusione compiuta, tendono ad evitare che la strumentalizzazione si ripeta, colpendo un fenomeno con dei sintomi già evidenti. In ciò sta la differenza fondamentale con le norme antielusione vere e proprie di portata più o meno ampia, le quali invece, lasciando invariata la legislazione, comprese le norme strumentalizzate, attribuiscono all’Amministrazione finanziaria la possibilità di disconoscerne i 78 In tal senso E. Grassi, “L’elusione tra la certezza del diritto e le ragioni …”. op. cit.. 46 naturali effetti fiscali ogniqualvolta se ne verifichino i presupposti di applicabilità, anch’essi legislativamente definiti79. Emerge quindi con chiarezza il limite più evidente di un siffatto approccio, evidenziato sin da subito dalla più attenta dottrina, ovvero la circostanza che l’efficacia di questa metodologia è condizionata dal tempo necessario perché il legislatore prenda coscienza della possibile, ma molto più spesso già verificatasi, elusione ed approntare le correzioni del caso. Aggiungasi che il più delle volte il primo “segnalatore” delle possibilità elusive di una norma è rappresentato dalle contestazioni dell’Amministrazione finanziaria in sede di accertamento80, e successivamente la tesi di quest’ultima passa al vaglio dei vari gradi della giustizia tributaria. In conclusione, accade di frequente che solo il consolidarsi di un orientamento contrario all’amministrazione spinge il legislatore a prendere i provvedimenti del caso. Può dunque agevolmente comprendersi la serietà della critica. Avviene infatti che la norma venga corretta, ma quando una parte ingente di perdita di gettito si è già verificata, come può agevolmente rammentarci il caso delle cosiddette “società di comodo”, con la correzione della norma che permetteva l’abuso81, avvenuta quando ormai numerose operazioni aventi tale scopo avevano già sottratto ingenti capitali all’imposizione; ovvero l’utilizzo dello strumento dell’usucapione per acquistare la proprietà di un bene immobile o di un diritto reale di godimento sullo stesso, per eludere l’imposta di registro gravante 79 Cfr. Lupi, “ Modifiche normative ... “ op. cit., pagg. 409 e ss. 80 Accertamenti che il più delle volte rincorrono i lunghi termini di prescrizione, notificati quindi a distanza di anni dalla commissione del fatto. 81 Avvenuta definitivamente con la legge finanziaria per il 1995, L. n° 724 del 23/12/1994. 47 sugli acquisti a titolo oneroso, lacuna colmata con la modifica normativa avvenuta ad opera del DL 2 marzo 1989, n. 69, ovvero infine come testimoniato dalle vicende del dividend washing, sul quale si tornerà ampiamente nel prosieguo. Una ulteriore fonte di critiche è rappresentata dalla possibilità che un simile approccio si accompagni a degli effetti collaterali ancora più pericolosi. Difatti, la spasmodica ricerca di una perfezione testuale irraggiungibile, implica necessariamente che appena un possibile spiraglio elusivo dovesse intravedersi, la norma dovrebbe essere nuovamente corretta. Il rischio, per nulla remoto, è chiaramente quello di amplificare la già eccessiva instabilità dell’ordinamento, soggetto in questo modo a modifiche a getto continuo, a fronte della possibilità che nonostante la correzione, restino comunque aperte delle strade all’elusione82. Una possibile alternativa è rappresentata dalla previsione di fattispecie assimilate o surrogatorie, che riconducano situazioni per così dire equivalenti, dal punto di vista della potenzialità economica manifestata, a quelle esplicitamente previste come imponibili83. In questa direzione era l’Hensel84 il quale affermava appunto che il mezzo più ovvio per opporsi alla premeditata non effettuazione della fattispecie considerata dal legislatore come tipica, è la creazione di fattispecie surrogatorie di imposizione; tale mezzo, tuttavia, si dimostra insufficiente a combattere l’elusione, 82 Anzi talvolta aprendone di nuove. Cfr. Lupi, Diritto tributario, op. cit. pag. 123, il quale evidenzia l’ulteriore e connesso pericolo della possibilità che vengano ad essere pregiudicate anche situazioni estranee all’elusione e meritevoli di tutela. 83 Sono ad esempio quelle norme che limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario. Cfr. art. 14, comma 7bis Tuir, di cui, ampiamente, più avanti, argomentando del dividend washing. 84 Hensel : Diritto tributario, Giuffré, 1956. 48 trattandosi di una soluzione che forzatamente è destinata ad inseguire il problema senza mai risolverlo definitivamente. §4) L’interpretazione in funzione antielusiva. Premessa La consapevolezza dell’assenza di adeguati strumenti normativi finalizzati al contrasto delle strumentalizzazioni delle regole fiscali attuate a fini elusivi, ha portato parte della dottrina85 ad affermare la possibilità di utilizzare allo scopo l’interpretazione della norma tributaria. §4.1) L’interpretazione della norma tributaria. Generalità. Nell’interpretazione della norma tributaria si è ormai consolidata l’opinione che ritiene che essa debba sottostare anzitutto alle ordinarie regole ermeneutiche86 e quindi alle indicazioni fornite dall’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile87. Il punto di partenza è infatti l’interpretazione letterale della norma, con particolare riguardo all’analisi semantica dei termini utilizzati ed alla 85 Cfr. Tabellini, “L’elusione fiscale”, op. cit., Tesauro, “Istituzioni di diritto tributario”, op. cit., pagg. 120 e ss.. Contro, Morello, “Frode alla legge”, op. cit.. 86 Così, tra gli altri, Micheli, Legge (diritto tributario), in Eci. Dir., XXIII° vol., Milano,1973. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Torino 1987, pag. 26. 87 I° comma :”Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto proprio delle parole secondo la connessione di esse, e della intenzione del legislatore” . 49 sintassi del testo, tenendo altresì conto del luogo e del tempo in cui il legislatore ha posto la norma. Soffermandoci brevemente sull’analisi del significato delle parole, occorre rilevare che accade non di rado che il legislatore utilizzi dei termini la cui origine è esterna al diritto tributario e che, schematicamente possiamo distinguere in tecnici e volgari. I primi possono essere a loro volta suddivisi a seconda che si tratti di termini giuridici, soprattutto mutuati dal diritto civile e commerciale, e non giuridici, tra i quali prevalgono quelli di derivazione economica e aziendale. I termini volgari, sono semplicemente quelli cd “di uso comune88”. Talvolta avviene che uno stesso termine abbia significati differenti, uno “tecnico” ed uno di “uso comune”. È intuitivo che in casi del genere, il significato tecnico sia quello inteso dal legislatore, e pertanto prevarrà su quello volgare89. Possono essere considerate superate le arcaiche teorie le quali ritenevano che, nel dubbio, la norma tributaria andasse interpretata a favore del fisco “in dubio pro fisco” ovvero del contribuente“in dubio contra fiscum”. Altrettanto dicasi per altre due correnti ermeneutiche, quella “autonomistica90” e quella “antiautonomistica91”. Secondo il primo 88 Si potrebbe obiettare che un termine, ancorché di provenienza “volgare”, per il solo fatto di essere utilizzato dal legislatore, dovrebbe assurgere a termine “tecnico”. 89 Ad esempio, l’espressione “lavoratore autonomo” ha, nell’uso comune, un significato tale da ricomprendere in pratica tutti coloro che non sono lavoratori dipendenti, e quindi molto più ampio di quanto invece sia nelle leggi tributarie. Non ci sono in ogni caso dubbi sulla prevalenza del secondo sul primo. 90 Tra i più autorevoli sostenitori di tale tesi, detta anche ‘sincretica’, Griziotti, “L’autonomia del diritto finanziario rispetto al diritto civile nella legge del prestito redimibile e dell’imposta straordinaria immobiliare”, in Riv. di dir. fin. e sc. delle fin., 1938,II, pag. 241; Vanoni, “Natura e interpretazione delle leggi tributarie”, riprodotto in “Opere giuridiche”, Milano, 1961, pag. 133. 50 indirizzo, i termini utilizzati nella redazione delle norme di diritto tributario godrebbero di una sorta di autonomia, tale per cui il significato da attribuire loro non dipenderebbe assolutamente da quello del settore giuridico di provenienza. All’interno di questa corrente di pensiero, merita una menzione a parte la teoria cosiddetta “della interpretazione funzionale” della scuola di Pavia, punto di riferimento determinante per le successive dottrine che si sono ispirate al principio della prevalenza della sostanza sulla forma, nelle diverse accezioni proposte92. L’indirizzo “antiautonomistico”, al contrario, asseriva la prevalenza del significato originario per tutti quei termini usati in diritto tributario e provenienti da altri settori dell’ordinamento, presupponendo cioè una sorta di subordinazione del diritto tributario al diritto civile. Personalmente ritengo che, come spesso avviene, posizioni estreme, nell’una come nell’altra direzione, conducano a risultati fuorvianti93. In quei (numerosi) casi in cui vengono usati termini mutuati da altre branche del diritto occorre pertanto considerare anzitutto il contesto tributaristico all’interno del quale detti termini sono utilizzati94, in tal modo superando il pregiudizio secondo cui una parola mantiene lo stesso significato a prescindere dal contesto in cui è utilizzata, rendendosi altresì superflua la necessità di 91 Detta anche “tesi tradizionalista”, tra i cui sostenitori segnalo, Uckmar, “Principi per l’applicazione delle tasse di registro”, in Dir. e prat. trib., 1937, pag. 388; Berliri, “Corso istituzionale di diritto tributario”, I, Milano, 1985, pagg. 39 e ss.. 92 E sulla quale si ritornerà in seguito. 93 Così anche Batistoni-Ferrara, “Lezioni di diritto tributario”, Giappichelli, Torino 1993, pag. 44. 94 Giova al riguardo precisare che l’importanza del contesto tributario ove i termini sono utilizzati, permea l’intera attività esegetica.. 51 teorizzare una qualche “autonomia del diritto tributario” ogni qualvolta si riscontri una differente accezione, in una norma fiscale, di un termine ad esempio civilistico. Né d’altro canto ha senso parlare di assoluta subordinazione del diritto tributario al diritto civile. A queste stesse conclusioni è giunta la dottrina, italiana95 e non96 e, con qualche differenza, la giurisprudenza Costituzionale97. Quest’ultima ha evidenziato una maggiore propensione verso una interpretazione aderente al diritto civile98, (la legittimità costituzionale delle deroghe e in generale degli scostamenti dagli istituti di diritto civile vengono valutati dalla Corte in ordine ai limiti della ragionevolezza e dei validi motivi99). Si è, con tale scelta, cercato di tutelare la certezza del diritto e la stabilità dell’ordinamento, con chiari fini garantisti. Anche la dottrina, nonostante sia meno interessata a questi obiettivi di tutela ed abbia rilevato in modo più evidente la relatività di una tale subordinazione, riconosce al significato civilistico un ruolo di primissimo piano quale spunto, comunque non insuperabile, dell’interpretazione della norma tributaria. Altre volte non ci si pone neppure il problema della esistenza di significati esterni al diritto tributario, quand’anche giuridici. Ciò avviene quando è il legislatore stesso, che inserisce direttamente nel 95 S. Cipollina : “La legge civile ....” op. cit.. 96 Relativamente all’ordinamento tedesco, L. Osterloh, “Il diritto tributario e il diritto privato”, in “Trattato di diritto tributario, Padova, 1994, I, pagg. 113 e ss. 97 E. De Mita : “Fisco e Costituzione”, I e II, Milano 1984 e 1993. 98 C.Cost , 65/1986, 67/1985, 226/1984, 68/1985. 99 E. De Mita : “Fisco e Costituzione”, I e II, Milano 1984, pagg. 10 e ss. e 1993, pagg. 8 e ss. in particolare le sentenze 42/1980, 87/1986 e 115/1986. 52 corpo normativo le cd “formule definitorie”, mediante le quali esplicita il significato da attribuire ad un dato termine, vincolando ad esso l’interprete. Una volta analizzato “... (il) senso ... fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse...”, il passo successivo consiste nel valutare l’aderenza del significato così ottenuto con quella che l’art. 12 chiama “intenzione del legislatore100”, da intendersi non come intenzione soggettiva dello stesso, “quanto la mens della norma in sé, assunta ormai come entità oggettiva nell’ordinamento e suscettibile di vita propria ed autonoma, sensibile alle vicende delle altre norme dell’ordinamento che con essa si combinano e su di essa incidono”101 . Di fronte ad una data interpretazione, assume notevole importanza la valutazione della sua (eventuale) portata vincolante. Allo scopo, occorre tenere conto del soggetto da cui essa proviene102, potendosi distinguere una interpretazione dottrinale, proveniente dagli studiosi della materia, autorevole ma non per questo vincolante; ufficiale, proveniente dalla stessa Amministrazione finanziaria e vincolante solo all’interno della propria struttura organizzativa, secondo gli ordinari rapporti di subordinazione gerarchica, ben potendo questa interpretare in seguito la stessa norma in modo diametralmente opposto, non restando altro da fare, al contribuente che si sia uniformato al primo orientamento, che invocare la non applicabilità delle sanzioni ex art. 100 Indicata in dottrina solitamente “mens legis” o “voluntas legis” ovvero “ratio legis”. 101 Così il Fantozzi in “Diritto tributario”,op. cit. pag. 371. 102 Per approfondimenti sull’interpretazione dipendente dai soggetti da cui proviene, si rimanda a Lupi, Diritto tributario, op. cit. pagg. 126 e ss. e Manuale professionale di diritto tributario, op. cit. pagg. 63 e ss.. 53 6 del D.Lgs. 472/97 per il ricorrere delle obiettive condizioni di incertezza103; c’è poi quella giurisprudenziale, la quale, in aderenza al principio generale dell’efficacia del giudicato solo inter partes, a sua volta diretta conseguenze dell’essere, il nostro, un ordinamento civil law, non è vincolante per gli interpreti successivi104; abbiamo infine la interpretazione autentica, proveniente dallo stesso legislatore ed avente l’obiettivo di meglio chiarire una disposizione precedente; essa ha efficacia erga omnes, ma ciò che più rileva, è la sua valenza retroattiva. Si tratta di uno strumento del quale il legislatore ha fatto talvolta un uso improprio, soprattutto nel passato105, quale utile espediente per introdurre norme impositive nuove a tutti gli effetti, con efficacia retroattiva, eludendo il principio di attualità che la capacità contributiva deve possedere, interpretando correttamente l’art. 53 della Costituzione106. 103 Vds nota 62 Parte I^, pag. 36, paragrafo 3). In soccorso del contribuente, e dell’interprete in generale, è la procedura dell’interpello. Mi riferisco all’interpello ( cd generalizzato ) previsto dallo Statuto dei diritti del contribuente, avendo questo portata vincolante nei confronti della successiva attività accertatrice, contrariamente a quanto avviene nel caso dell’interpello ex art. 21 della L. 413/91, . 104 Al riguardo ritengo utile precisare che quanto detto riguarda solo la vincolatività in senso stretto, e non implica automaticamente che una “giurisprudenza consolidata” o “costante” non abbia alcun peso. Vi sono poi delle interpretazioni ad efficacia vincolante, seppur limitata al caso concreto esaminato, come le sentenze con le quali la Cassazione cassa una sentenza con rinvio, indicando appunto i criteri ai quali i giudici (di merito) del rinvio debbono uniformarsi. 105 E, si spera, abbandonato, molto dipende dalla concreta ed effettiva attuazione degli artt. 1 II° comma e 3 della L. n° 212 del 27/07/2000. 106 Si vedano le sentenze : C.Cost. n 75 del 11/04/69; C.Cost. n 315 del 20/07/94; C.Cost. n 14 del 19/01/95; Cass. sez 5 n 12442 del 09/12/97; Cass. sez 5 n 7088 del 29/07/97; Cass. sez 5 n 1004 del 03/07/1999; C.Cost. n 525 del 15/11/2000; Cass. sez trib n 267 del 10/01/2001. 54 §4.2) L’interpretazione l’interpretazione e funzionale, l’elusione: l’integrazione e l’analogia. Le due all’interpretazione contrapposte della correnti norma di tributaria pensiero relative (autonomistica ed antiautonomistica), erano spinte da due visioni diametralmente opposte e che influenzavano in maniera determinante il loro atteggiarsi nei confronti dell’elusione e del modo di contrastarla. Infatti, per la prima (autonomistica), la qualificazione tributaria della fattispecie deve avvenire sulla base della sostanza economica dell’affare, indipendentemente dalla veste giuridica degli atti e/o fatti posti in essere, garantendo per tale via, anzitutto che un fatto espressivo di capacità contributiva fosse assoggettato a tassazione, esaltando così, nell’attività interpretativa, la ricerca della ratio del tributo. Il riferimento normativo, addotto come prova dell’esistenza di un tale principio nel nostro ordinamento, era l’art. 8 della legge di registro del 1923 ( ora art. 20 T.U. 131/86)107. 107 Regio Decreto che approva il testo unico delle leggi sulle tasse di registro 20 maggio 1897 (Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del regno il 10 luglio 1897, n° 150) (Omissis.) Legge 13 settembre 1874, n° 2076, art. 6 Art. 6 Le tasse sono applicate secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti o dei trasferimenti, quando risulti che non vi corrisponda il titolo e la forma apparente. Quando un atto che per la sua natura e per i suoi effetti risulti soggetto a tassa proporzionale o graduale, non si trovi esplicitamente contemplato dalla tariffa, sarà gravato con la tassa dell’articolo di tariffa che più si accosterà alla natura ed agli effetti dell’atto stesso. 55 L’esigenza perseguita invece dall’approccio “antiautonomistico” è, al contrario, quella ben nota della certezza del diritto, che preferisce poter contare su precisi riferimenti formali a maggior tutela dell’interesse del contribuente ad essere posto al riparo da pretese tributarie non previste esplicitamente. Entrambe le teorie, estremizzate, hanno dei rilevanti risvolti nella qualificazione elusiva o meno di una data fattispecie e quindi nel modo di contrastarla. All’interno della corrente autonomistica, la più rappresentativa in tal senso è senza dubbio la teoria della “interpretazione funzionale” delle leggi tributarie sostanziali, sviluppatasi nell’ambito della scuola pavese a cura del Griziotti. Essa riteneva, nella sua formulazione più radicale, che l’interpretazione delle norme tributarie si dovesse adeguare alla “causa impositionis“ desumibile avuto riguardo ai profili politici, Regio Decreto 30 dicembre 1923, n° 3269 (Omissis.) Art. 4 Le tasse di registro sono progressive, proporzionali, graduali o fisse. La tassa progressiva si applica ai trasferimenti di beni a titolo gratuito. La tassa proporzionale si applica alle trasmissioni a titolo oneroso di proprietà, di usufrutto, uso e godimento di beni immobili, o di qualsiasi altro diritto reale, ed agli atti che contengono obbligazione o liberazione di somme o prestazioni.. La tassa graduale si applica agli atti i quali non contengono obbligazione o liberazione, ma semplice dichiarazione o attribuzione di valori o di diritti senza che ne operino la trasmissione. La tassa fissa si applica a tutti gli atti che possono servire di titolo o documento legale. (Omissis.) Art. 8 Le tasse sono applicate secondo l’intrinseca natura e gli effetti degli atti o dei trasferimenti, se anche non vii corrisponda il titolo o la forma apparente. Un atto che, per la sua natura e per i suoi effetti, secondo le norme stabilite nell’art. 4, risulti soggetto a tassa progressiva, proporzionale o graduale, ma non si trovi nominativamente indicato nella tariffa, è soggetto alla tassa stabilita dalla tariffa per l’atto col quale per la sua natura e per i suoi effetti ha maggiore analogia. D.P.R. 26/04/1986 n° 131, art. 20 : Interpretazione degli atti L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente. 56 giuridici, economici e tecnici del fatto. Emblematica al riguardo l’osservazione dello stesso Griziotti, secondo il quale “la legge non può essere rigidamente limitata entro i confini della sua formula, quale fu intesa da chi la elaborò”, ma deve essere interpretata tenendo conto della dinamica economica. Ciò che essa propugnava era dunque una interpretazione flessibile, la quale, legittimando l’interprete ad effettuare una indagine sulla funzione (soprattutto economica e sociale) della prestazione imposta, gli consentiva di cogliere la sostanza economica prescindendo dalla sua veste giuridica apparente, rivelandosi così, agli occhi della dottrina che in tale teoria si riconosceva, uno strumento direttamente applicabile ogniqualvolta il soggetto passivo adottasse, strumentalizzando il principio dell’autonomia negoziale, una forma giuridica diversa da quella espressamente prevista come imponibile, per raggiungere un risultato economicamente equivalente, limitando o perfino sottraendosi al carico fiscale. L’idea della “causa impositionis“, secondo la quale gli studiosi della scuola di Pavia ritenevano che fosse compito del giudice la verifica dell’esistenza di quella correlazione tra il presupposto del tributo e la capacità contributiva (per il Griziotti la causa impositionis appunto) che il legislatore ha posto a fondamento della norma tributaria108, è indubbiamente quella che ha prestato maggiormente il fianco alle critiche della dottrina avversa, la quale ha avuto modo di evidenziare che un siffatto approccio era in palese contrasto con il principio della riserva di legge ex art. 23 Cost.. In tal 108 G. Falsitta : “Osservazioni sulla nascita e lo sviluppo scientifico del diritto tributario in Italia”, in “L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano”, atti del convegno “I settanta anni di ‘Diritto e pratica tributaria’” (Genova 2-3 luglio 1999), coordinati da Victor Uckmar, Cedam, Padova, 2000. 57 senso, e molto esplicitamente, il Giannini109, “Quest’apprezzamento della capacità contributiva110, quale giustificazione dell’imposizione, è già stato fatto dal legislatore, bene o male poco importa, con l’istituzione delle varie imposte e con la precisa determinazione dei relativi presupposti; e se costituisce, per ciò, la ragione della norma legislativa, da cui scaturisce il debito d’imposta, non può poi rivivere come elemento essenziale del debito stesso111.”. Appartengono sempre all’area dei sostenitori delle teorie “sostanzialistiche”, anche coloro i quali sostengono l’efficacia dello strumento interpretativo per scongiurare le possibilità di eludere le norme impositive112, attribuendo all’interprete il potere di riqualificare opportunamente i comportamenti elusivi113. Le obiezioni ad una tale impostazione sono molteplici, anzitutto occorre tenere conto della riserva di legge ex art. 23 Cost., 109 Questi aveva aderito alla tesi della scuola di Pavia per quanto riguardava il principio di tassazione in base agli effetti economici commentando l’art. 8 della legge di registro, “Ma la disposizione in esame, quando dichiara che le tasse sono applicate secondo ‘gli effetti degli atti o dei trasferimenti’, prevede anche una terza ipotesi, quella, cioè in cui il risultato economico conseguito mediante l’adozione d’una data forma giuridica è quello stesso che normalmente si ricollega ad una forma diversa, la quale appunto è stata prevista dal legislatore tributario come produttiva di quel risultato. Appare giusto che, in questo caso, l’imposta debba essere stabilita, non per il negozio giuridico prescelto dalle parti, ma per il negozio previsto dalla legge come produttivo del risultato che si è effettivamente raggiunto.” Ma con la precisazione che “S’intende che nell’applicazione di questo criterio occorre adoperare la massima circospezione, per evitare di sostituire il proprio apprezzamento soggettivo alla norma posta dal legislatore.”A.D. Giannini, Istituzioni”, 1951, Milano, Giuffrè, pagg. 124 e 125. 110 L’originario concetto di causa impositionis fu corretto in quello di capacità contributiva a seguito dell’entrata in vigore dell’attuale Costituzione. 111 A. D. Giannini : “ Istituzioni”, v. ed. aggiornata, 1951, Milano, Giuffrè, pagg. 62 e 63. Così scrivendo, la posizione dell’Autore di cui alla nota si discosta da quella estremistica del Griziotti. 112 A. Fantozzi, “Diritto tributario”, op. cit. pagg. 122 e 178. 113 Così Tabellini, “L’elusione fiscale”, op. cit.; Tesauro “Istituzioni ...”, op. cit. pagg. 120 e ss. 58 la quale, ancorché ne sia stata riconosciuta la relatività114, e quindi la possibilità che la legge definisca dei “confini” entro i quali il Governo, nell’ambito della sua potestà normativa secondaria115 possa muoversi, non gli consente sicuramente di “creare diritto”, né materia imponibile, tanto meno vale ad attribuire tali poteri all’Amministrazione finanziaria. Per lungo tempo si è continuato a discutere sulla possibilità di estendere l’ambito di applicazione dell’articolo 8 della legge di registro del 1923 (ora art. 20 Dpr 131/1986) fino al punto di ricavarne un potere generalizzato di interpretazione degli atti/fatti, basato sulla sostanza economica del risultato ottenuto per mezzo di questi, travalicandone la forma giuridica (il c.d. nomen juris) del negozio prescelto dalle parti. Si è cercato per tale via di contrastare alcune fattispecie, indubbiamente elusive, ma che risultavano inattaccabili dalle norme antielusive, analitiche o “settoriali”, presenti nell’ordinamento, ritenendo tali comportamenti lesivi del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., e di quelli di solidarietà e parità di trattamento a quest’ultimo ricollegabili, ristabilendo un certo equilibrio, almeno nelle intenzioni, tra capacità contributiva ed imposizione, ma sollevando nel contempo numerosi interrogativi sui fondamenti giuridici di un siffatto comportamento. La tesi di cui sopra appare oggi non più utilizzabile essendosi formato un orientamento pressoché univoco sulla affermazione della 114 È ormai dominante l’opinione che la riserva di legge sia rispettata quando sono sufficientemente predeterminati/predeterminabili i soggetti passivi, la base imponibile e il limite minimo e massimo all’interno del quale individuare l’aliquota applicabile. 115 Non gli uffici accertatori, infatti solo con i regolamenti governativi può essere assicurata una sufficiente uniformità di trattamento. 59 limitatezza del principio esposto alla sola imposta di registro116, con l’ulteriore precisazione che la disposizione che autorizza l’interprete ad effettuare una indagine sulla intrinseca natura e sugli effetti degli atti, si riferisce comunque agli effetti giuridici e non economici117 degli stessi. Blumenstein, nel trattare dei c.d. metodi di interpretazione del diritto delle imposte, pone un particolare accento sui rapporti con il diritto civile, in relazione proprio alla elusione delle imposte. L’Autore, pur riconoscendo la rilevanza del metodo di interpretazione secondo il criterio della realtà economica, dominante 116 A. Uckmar :Principi per l’applicazione delle ..., op. cit.; L. V. Berleri, Interpretazione ed integrazione delle leggi tributarie,in Riv. di dir. fin., 1942, pagg. 16 e 28; Antonini: Evasione ed elusione d’imposta (Gli atti simulati e le imposte di registro e delle successioni). In Giur. It. 1959, IV, pag. 97; A. Berliri: Le leggi di registro,Milano, 1960, pagg. 141 e 161. 117 La scuola di Pavia, in contrasto con l’opinione dominante affermava invece che la norma si riferiva agli effetti economici. Griziotti, Il principio della realtà economica negli artt. 8 e 68 della legge di registro. Riv. di dir. fin. e sc. delle fin., 1939, II, 202, e “Il potere finanziario e il diritto finanziario nello studio autonomo delle finanze pubbliche, in Riv. di dir. fin. e sc. delle fin., I, pagg. 134 e 138; Vanoni, in “Natura ed interpretazione delle leggi tributarie, op. cit., I, Milano, pagg. 210 e ss. e 246. Caleffi, “Manca la volontà politica di eliminare le distorsioni tributarie, in Il Sole 24 ore, 21/06/1987, pag. 19. Jarach in “Principi per l’applicazione delle tasse di registro”, nel 1937 scriveva che le imposte di registro “... si devono applicare secondo la loro natura ed i loro effetti economici, a seconda del loro valore. Due atti economici sostanzialmente identici, se pur rivestono forme civilistiche diverse, per il principio di uguaglianza devono essere sottoposti ad identici tributi”.A questi ribatté efficacemente Uckmar in “La legge di registro”, pagg. 194 e ss. “... è vero proprio il contrario: le imposte di registro non colpiscono l’atto economico, ma il negozio giuridico: due negozi giuridici diversi, anche se producono sostanzialmente identici effetti economici, possono scontare aliquote diverse.”. E ancora: “...la legge e le tabelle allegate contemplano negozi giuridici, e non atti economici, e (che) le aliquote variano a seconda della forma nel negozio giuridico, indipendentemente dagli effetti economici;... La dottrina e la giurisprudenza prevalenti, concordemente ritengono che le parti sono libere di scegliere, per raggiungere gli effetti voluti, la forma del negozio giuridico che loro più conviene, e l’ufficio tassatore non può pretendere l’aliquota gravante un contratto, se le parti ne hanno posto in essere un altro, quand’anche i due negozi producano gli stessi effetti economici.... Se fosse vero che l’imposta di registro colpisce gli effetti economici anziché quelli giuridici, la tariffa allegata alla legge sarebbe composta di tre o quattro voci, perché tanti sono gli effetti economici delle convenzioni, mentre gli allegati alla legge contengono una dettagliata elencazione di convenzioni, per ciascuna delle quali fissano una determinata aliquota.” 60 nel diritto delle imposte tedesco, ritiene lo stesso in antinomia con il principio della eguaglianza giuridica , che richiede a sua volta una considerazione attenta dei presupposti di fatto nei singoli casi diversamente configurati. Partendo infatti dalla considerazione che il diritto fiscale collega il sorgere dell’obbligazione tributaria al verificarsi di determinati presupposti di fatto, Blumenstein ritiene che per impedire la possibilità dell’elusione e stroncarne l’effetto economico-finanziario e sociale, il legislatore debba introdurre delle fattispecie supplementari, le quali si riferiscono all’oggetto dell’imposta nel senso che a quello propriamente indicato si affiancano o si sostituiscono altre situazione o eventi, che conducono alla stessa imposizione dell’altra. Poiché una tale procedura riesce al massimo a limitare le elusioni, mai ad escluderle del tutto, l’Autore ritiene necessario combattere l’elusione delle imposte attraverso adeguate misure dirette, presenti solo in alcune imposte; in base a dette norme i negozi giuridici, conclusi per evitare maliziosamente in casi concreti la soggezione al potere di imposizione o la prestazione d’imposta, non hanno alcuna efficacia per il diritto delle imposte. Il rapporto esistente tra interpretazione ed elusione fiscale è stato efficacemente e molto sinteticamente individuato dal Lupi, per il quale “....l’elusione nasce laddove finisce l’interpretazione118.”. L’Autore intendeva porre in evidenza la circostanza, determinante ai fini della nostra indagine, che l’interpretazione può operare prima che il disegno elusivo si concretizzi, nel senso che, una data 118 Lupi, Elusione fiscale: modifiche normative e ..., op. cit., pag. 411. O, con argomentazione “a contrario”, ma di identico significato, lo stesso Autore in Diritto tributario, Giuffrè, 1999, pag. 122: “Il problema dell’elusione nasce quando il comportamento del privato non può essere contrastato in via interpretativa. 61 interpretazione della norma impositiva119 può precludere le possibilità che la stessa sia aggirata120, ma che, se ciò non dovesse rivelarsi possibile, dovrebbe concludersi per la liceità del comportamento posto in essere121. Particolarmente dibattuta è anche la questione dell’analogia nel diritto tributario; in generale essa è un’espressione del principio di uguaglianza di trattamento, che è alla base di tutto l’ordinamento giuridico: i casi simili devono essere regolati da norme simili122. Essa cioè riguarda la possibilità data all’interprete, nei casi in cui l’interpretazione secondo gli ordinari criteri non sia sufficiente, di integrare la lacuna così formatasi, mediante l’applicazione di norme che regolano casi simili o materie analoghe ovvero, qualora i dubbi persistano, secondo i principi dell’ordinamento (art. 12 II° c. disp. prel. Cod. civ.). Una legge, infatti, per quanto ottimamente redatta, 119 Comunque aderente ai dettami ermeneutici sopra ricordati. 120 Prevalendo sulla interpretazione che consente tale aggiramento, implicitamente riconosciuta scorretta. 121 Almeno fino a quando nel sistema manca una norma/clausola/principio antielusivo di carattere generale. Così Lupi, Elusione fiscale : modifiche normative.... op. cit., 411, quando afferma :” ... la norma non si può stiracchiare oltre certi limiti, e l’interprete non può riscrivere le regole...una interpretazione in chiave antielusiva può spesso impedire che l’elusione si verifichi, ma, una volta che si sia verificata, non serve ad eliminarla. Quando, nonostante gli spazi interpretativi, il disegno elusivo è inattaccabile, il giudice deve arrendersi...”. 122 L’Amministrazione finanziaria concorda con tale affermazione, cfr. da ultimo la Ris. Min. n. 7 del 10/01/2002, (reperita in “documentazione tributaria” sul sito http://www.finanze.it/), nella quale, dopo aver affermato in questi stessi termini il principio, ha negato il ricorso all’analogia nel caso sottoposto al suo parere preventivo ex art 11 della 212/2000. L’istante, rilevata l’assenza, fra le disposizioni del D.Lgs. 124/93 e del D.Lgs 47/2000, di una specifica disciplina che regolasse la retrodatazione ai fini fiscali degli atti di concentrazione o fusione tra fondi pensione, nella soluzione interpretativa riteneva che di fatto, l’operazione descritta realizzasse una sorta di fusione per incorporazione, ritenendo pertanto applicabile, per analogia, il comma 7 dell’art. 123 Tuir.La risposta negativa è stata motivata dalla rilevata differenza strutturale delle due ipotesi e quindi della incompatibilità degli elementi dei due istituti che si pretende di regolare con la medesima disposizione. In altri termini è stata accertata la differente ratio della normativa dalla quale si vuole mutuare la disciplina, rispetto alla fattispecie prospettata facendone da ciò derivare l’impossibilità del procedimento analogico. 62 non può mai contemplare tutti i casi che si verificano nella pratica, ovvero, come spesso avviene, è l’evoluzione dei rapporti fra privati che, nel suo incessante evolversi, presenta nuove situazioni che non sono espressamente contemplate dalla legge. Eppure il sistema giuridico è completo. L’utilizzabilità di questo strumento strettamente connesso all’uso dell’interpretazione come strumento di contrasto all’elusione, è stata richiamata dai sostenitori di quest’ultima tesi, scontrandosi però, oltre che con le critiche esposte in precedenza, con censure specifiche riguardanti il particolare strumento. Il problema deve essere affrontato distinguendo le varie tipologie di norme facenti parte dell’ordinamento tributario123. Infatti, per quelle impositrici124, la possibilità di travalicare quelli che sono i confini segnati dalla lettera della norma, pare doversi escludere a priori, sia che la si veda come contrastante con la riserva di legge125, o con la struttura “a fattispecie esclusive126” delle stesse norme, ovvero infine e più precisamente, con il fatto che, partendo dal presupposto che il 123 Tralasciando, per dovere di sintesi, quelle processuali e procedurali per le quali l’analogia è sicuramente possibile. 124 Stesso dicasi per le norme che stabiliscono agevolazioni ed esenzioni. 125 Cfr. A.D. Giannini, “Istituzioni di diritto tributario”, 1968, pag 44. L’Autore reputa comunque possibile l’interpretazione estensiva della norma tributaria, affermando che con essa “... non si sottopone al tributo una situazione di fatto non prevista dalla legge, ma semplicemente si applica l’imposta a situazioni già comprese nel reale contenuto della norma, sebbene la inesattezza o improprietà delle espressioni adoperate possano fare apparire il contrario.”. Favorevoli invece all’uso dell’interpretazione analogica, Griziotti, in numerosi scritti, tra i quali, “Questioni metodologiche per l’applicazione dello speciale diritto di licenza all’importazione delle navi mercantili”, in Riv. di dir. fin. e sc. delle fin., 1941, I, pagg. 199 e ss., “La trasformazione finanziaria della tassa per l’occupazione di aree pubbliche e l’interpretazione autonoma e funzionale del diritto finanziario”, in Riv. di dir. fin. e sc. delle fin., 1942, II, pagg. 138 e ss.. 126 Cfr. M.S. Giannini, “L’analogia giuridica”, in Jus, 1941, pagg. 516 e ss. 63 ricorso all’analogia è possibile (ove consentito127) in presenza di lacune, può affermarsi che il legislatore, se non ha previsto un fatto come tassabile128, ancorché agli occhi dell’interprete esso esprima uguale o perfino maggiore capacità contributiva di un altro fatto invece imponibile, ciò equivale ad una valutazione di indifferenza del primo, e non evidenzia la presenza di alcuna lacuna da colmare. Tutto ciò in ossequio a quello che per alcuni autori costituirebbe un dogma, cioè il principio di completezza, secondo il quale le norme impositrici sono poste dal legislatore con l’intento di indicare con completezza oggetti e soggetti tassabili, escludendo la tassazione di soggetti od oggetti non espressamente contemplati. Per tali norme cioè, non è ipotizzabile alcuna lacuna e quindi il ricorso all’analogia129. È infatti compito esclusivo del legislatore la valutazione (ideologica, politica e sociale) dell’oggetto e dei destinatari di una norma impositrice, e se questa “esenzione”, non era effettivamente stata voluta da questi, si renderà eventualmente necessaria una modifica legislativa. Può al più ritenersi possibile che, accertata l’imponibilità di una fattispecie, ma residuando dei dubbi sulle modalità di calcolo dell’imposta, si applichi l’analogia a 127 Art. 14 disp. prel. Cod. civ. 128 Od un soggetto passivo d’imposta. 129 Tesauro, Istituzioni... op. cit. pagg. 53 e 54 ove argutamente osserva, facendo un parallelo tra norme tributarie e penali (per le quali l’esclusione dell’analogia è esplicita) che “....quando è violata una norma tributaria impositrice..., risulta violata, al tempo stesso, anche la norma che punisce l’evasione (con sanzione penale o amministrativa). Perciò il divieto di analogia delle norme tributarie impositrici combacia con il divieto di analogia delle corrispondenti norme sanzionatorie. Se così non fosse, ed estendessimo analogicamente un’imposta a casi non previsti espressamente dalla legge tributaria, dovremmo poi considerare non punibile l’evasione, non potendo parallelamente estendere la norma punitiva”. Favorevole all’utilizzo del procedimento analogico come regola di interpretazione, Tarello, “L’interpretazione della legge”, op. cit., pagg. 351 e ss.. 64 quest’ultima, ma la lacuna in questo caso è esclusivamente tecnica130. È stata anche tentata la via di far prevalere, in una ipotetica ‘competizione’ fra norme costituzionali, i principi di uguaglianza, solidarietà e capacità contributiva su quello di riserva di legge, in modo da consentire la soddisfazione dei primi anche a costo del secondo, mediante appunto l’analogia e l’integrazione delle fattispecie imponibili, ma una corretta lettura sistematica di tali principi, porta alla conclusione che essi, congiuntamente alla riserva di legge in funzione garantista, concorrono a modellare la cornice costituzionale dell’intero diritto tributario. In effetti, è proprio il considerare sullo stesso piano tali principi che impone al legislatore un continuo lavoro di ampliamento ed aggiornamento dei testi normativi, onde colmare quelle lacune che, in un sistema così disegnato, necessariamente si evidenziano, ora per l’affermarsi di nuove prassi negoziali, ora proprio a causa delle manovre elusive attuate (evidentemente con successo) dagli stessi contribuenti. Ma a questo punto, come ‘il cane che si morde la coda’, dobbiamo altresì ricordare che questo meccanismo è stato largamente ricondotto dagli studiosi del diritto tributario, tra le principali cause di quell’‘ipertrofia normativa’ che determina da una parte la perdita della prevedibilità dell’imposizione a sua volta fondamento della certezza del diritto (tributario), e dall’altra incrementa le possibilità stesse dell’elusione fiscale. 130 Così Lupi, Diritto tributario, op. cit. pagg. 115 e ss.. 65 §5) L’evoluzione della normativa antielusione in Italia. Dal dibattito sull’introduzione di una norma antielusiva generale all’articolo 37-bis del DPR 600/73. L’opportunità o meno dell’introduzione nel nostro ordinamento di una norma antielusiva di tipo generale non è stata scartata a priori dal legislatore, al contrario, l’argomento è stato oggetto di un vivace dibattito soprattutto intorno ai primissimi anni ’70, in occasione della riforma tributaria di quegli anni, e la sua mancata adozione risponde ad un preciso orientamento di fondo. Per inquadrare correttamente i termini della questione, pare opportuno cercare di definire più compiutamente il concetto ed il ruolo che una norma antielusiva a carattere generale dovrebbe possedere. Ruolo primario, ed allo stesso tempo caratteristica saliente, dovrebbe essere quella di riempire i “buchi”, gli interstizi necessariamente presenti in una legislazione casistica. Essa pertanto opererebbe prima che l’elusione si sia concretizzata, diversamente dalla correzione delle imperfezioni normative e dalle clausole antielusive analitiche131. Potrebbe configurarsi come una norma di chiusura, come nell’ordinamento tributario tedesco132 o francese133. 131 Anche queste sono spesso la reazione a dei comportamenti elusivi non previsti inizialmente, ma rilevati in fase di applicazione concreta della norma. 132 Paragrafo 42 della “Abgabeordnung”: “... la norma fiscale non può essere aggirata mediante l’abuso della varietà delle forme giuridiche. In caso di abuso, la pretesa fiscale sorge nello stesso modo in cui tale pretesa si realizza nel caso di una configurazione giuridica corrispondente alla realtà economica.”. 133 Art. 64 del “Livre des procedures fiscales”: “ ...non possono essere opposti all’Amministrazione fiscale gli atti che dissimulano l’effettiva portata di un contratto o di una convenzione mediante clausole: a) che conducono all’applicazione di un’imposta di registro o una tassa di pubblicità fondiaria meno elevata, o 66 Eppure, proprio la struttura a “fattispecie esclusive” del nostro sistema fiscale viene portato come fattore di incompatibilità con una norma di tal fatta, affermando infatti che la certezza dell’imposizione, garantita (almeno nelle intenzioni) da una elencazione tassativa ed esaustiva delle situazioni considerate fiscalmente rilevanti, sarebbe compromessa dalla presenza di una norma antielusiva di portata generale che finirebbe in sostanza per rimettere tutto nuovamente in discussione. Viceversa, la struttura casistica delle norme impositive, richiederebbe essa stessa degli interventi mirati, di fronte al presentarsi di fattispecie elusive. E’ intorno a queste obiezioni che si è articolato il dibattito in dottrina, che ha infine visto “soccombente” quella parte di essa che propendeva per l’introduzione di una clausola generale134. Favorevole era soprattutto Gallo, probabilmente per coerenza rispetto alla sua posizione in ordine alla presunta esistenza nell’ordinamento tributario italiano di un principio generale che, ove riconosciuto, avrebbe potuto contrastare l’elusione. Egli è stato infatti uno dei più tenaci sostenitori dell’applicabilità dell’art. 1344 del codice civile, e più in generale degli istituti civilistici dei quali ha sempre enfatizzato la portata. Riteneva inoltre che in mancanza di una norma antielusiva generale, l’autonomia negoziale di cui all’art. b) che mascherino un conseguimento o un trasferimento di benefici o di ricavi, o c) che consentano di evitare in tutto o in parte il pagamento delle imposte sulla cifra d’affari corrispondente alle operazioni effettuate. L’Amministrazione ha il diritto di restituire all’operazione controversa il suo effettivo carattere”. 134 Favorevoli all’introduzione di una norma antielusiva generale, Gallo, Elusione senza rischio: il fisco indifeso di fronte ad un fenomeno tutto italiano ”, in Dir. e prat. Trib. 1991/I, pag. 257 e ss.; Lupi, in Il fisco 31/95 pag 7625, Tabellini, Libertà negoziale ed elusione d’imposta”, Padova 1995, pag 1. Contrario Trivoli “Contro l’introduzione di una clausola generale antielusiva nell’ordinamento tributario vigente”, in Dir. e prat. Trib. 1992/II pagg. 1337 e ss.. 67 1322 del codice civile rendesse perfettamente lecita, oltre che ovvia, l’elusione delle imposte, e che l’unico metodo efficace per contrastarla non poteva che essere un rimedio di carattere generale che “ricoprisse”, per così dire, la fattispecie economica al di là della qualificazione negoziale costruita dai contribuenti e consentita appunto dal 1322 c.c., evitando il gap temporale che si verifica allorché il legislatore deve correggere le norme eluse o introdurre una specifica disposizione antielusiva dopo che però l’elusione si è verificata135. Per la verità il Gallo riteneva efficace una combinazione dei due strumenti, congegnati in modo da colpire con le norme analitiche, le fattispecie più vistose e/o conosciute, lasciando alla norma generale, il compito di colpire tutte le possibili evoluzioni del fenomeno non ancora previste e/o prevedibili, funzionando come una sorta di “coperta”. Contro una tale impostazione si schiera la dottrina dominante, le cui argomentazioni in merito possono farsi risalire, come detto in precedenza, alla struttura casistica, cioè all’abbandono, da parte del legislatore, della tecnica legislativa “per principi”, astenendosi dal formulare definizioni di carattere generale, come si rileva esplicitamente nella relazione ministeriale che accompagna la bozza di testo unico136, e sulla scarsa fiducia 135 Gallo : “ Elusione senza rischio: ... op. cit. pag. 257, in cui sottolinea la presenza in altri ordinamenti, come quello tedesco e francese, di clausole generali. Per completezza deve comunque aggiungersi che lo stesso Autore riconosceva la difficoltà di concreta utilizzazione dello strumento della frode alla legge in campo tributario in quanto spesso avrebbe condotto ad un effetto eccessivo quale appunto la integrale rimozione del negozio posto in essere, e non solo dei vantaggi fiscali conseguiti. 136 Nella relazione ministeriale che accompagna la bozza di testo unico, commentario all’articolo 1 dell’Irpef, si legge tra l’altro : “ Il fiscale, come l’esperienza dimostra, è uno dei campi in cui massimamente deve tendersi alla certezza del diritto, anche ai fini dell’auspicato miglioramento selettivo dell’azione amministrativa di accertamento. Da ciò l’opportunità che il legislatore fiscale, quando il pericolo di perdita di gettito o quello di aggravio per i contribuenti è marginale, abbia di mira soprattutto l’esigenza di certezza del diritto. L’osservazione della normativa sulle imposte dirette e del suo 68 accordabile all’apparato dell’Amministrazione finanziaria137, tenuto conto che una clausola generale ha come corollario l’attribuzione ad essa di ampi poteri di disconoscimento degli effetti fiscali dei negozi giuridici e quindi di qualificazione/riqualificazione degli stessi. La spinta alla codificazione analitica di qualsiasi ipotesi valutata come imponibile, spinge alla creazione di figure che nulla più hanno a che fare con istituti o figure di cui al diritto civile138. Non è questa l’unica obiezione al riguardo che sia stata sollevata nei dibattiti sul tema; la Commissione per lo studio della riforma tributaria del 1971 si espresse negativamente sulla ipotesi di evolversi nel tempo, mostra che l’individuazione delle fattispecie reddituali non ha tanto obbedito, se non inizialmente, ad una concezione teorica unitaria del reddito, quanto ad obiettivi via via avvertiti nella crescente complessità della vita e del traffico economici (da ciò la presenza dei polivalenti appigli testuali sopraccennati). Si è così progressivamente pervenuti, inoltre, ad una articolazione del complesso normativo tanto ricca e dettagliata da attenuare l’importanza di una norma residuale, che certamente era necessaria, invece, in presenza di una normativa sintetica e generica come in passato. Conviene quindi non mantenere la disposizione residuale dell’articolo 80, eliminando con essa una fonte di dubbi e controversie, e preoccuparsi invece di arricchire ulteriormente l’elencazione dei cosiddetti “redditi diversi” non rientranti in altre categorie, aggiungendovi – come si vedrà a suo luogo – tutte le fattispecie che allo stato sono ipotizzabili anche sulla scorta dell’esperienza amministrativa e giurisprudenziale. In questo modo, pur non potendo escludersi con assoluta sicurezza l’eventualità pratica di fattispecie reddituali non considerate, il rischi della perdita di materia imponibile diviene talmente limitato da poter essere sacrificato all’obiettivo della certezza giuridica: tanto più che sarà sempre possibile prevedere in via legislativa altre fattispecie se e quando se ne ravvisi la necessità. Ciò detto risulta evidente che nella prospettiva della certezza del diritto conviene modificare anche la disposizione definitoria del presupposto dell’imposta, di cui all’art. 1: nel senso non di conformarla ad un concetto teorico unitario di reddito, alla cui enunciazione legislativa conviene rinunciare, ma, al contrario, di sfrondarla da specificazioni, come quelle relative al carattere di continuatività od occasionalità e alla provenienza da qualsiasi fonte, che possano essere intese come indicative di una nozione espansiva tale da giustificare se non addirittura imporre la ricerca, in sede interpretativa, di redditi diversi da quelli espressamente considerati nel testo unico”. 137 Vedasi lo scritto di Gallo, “Elusione senza rischi:...”, op. cit., pagg. 257 e ss. e la critica di Victor Uckmar, riportata in postilla. 138 Cfr. Trivoli: “Contro l’introduzione di una clausola generale antielusiva ...“, op. cit., pag. 1337. 69 introdurre una norma generale che, come definita dal Cosciani139 avrebbe “...consentito la ricerca del motivo determinante di un dato negozio, allorché questo consegue il mutamento di una particolare situazione giuridica, realizzando la totale o parziale inapplicabilità di una determinata norma tributaria“. La Commissione ritenne invece che, “affrontare il problema dell’evasione legale attraverso una enunciazione di principio né facile né equa, è praticamente impossibile, come dimostra l’esperienza di qualche altro Paese che ha cercato di seguire questa strada“. L’aspetto che più degli altri preoccupava era rappresentato dal fatto che la norma generale avrebbe accresciuto in modo esponenziale i poteri accertativi dell’Amministrazione finanziaria la quale non veniva e non viene tuttora giudicata in grado di esercitare senza arbitrio dei poteri così ampi e penetranti, in aggiunta alle alte probabilità di una lesione, per tale via, della riserva di legge che copre la definizione delle fattispecie imponibili. Si riaffermava così la preminenza dell’intervento legislativo nella disciplina di contrasto ai fenomeni elusivi, attraverso la predisposizione di norme analitiche che colpiscono singole fattispecie elusive. La dottrina favorevole alla norma generale si ripresentò con vigore nei primi anni ’80, il Progetto di legge Reviglio n° 1507 del 1980, aveva di mira una delle fattispecie elusive più imbarazzanti per quel periodo, a motivo dell’entità della perdita di gettito e della tranquillità e naturalezza con la quale veniva attuata, e cioè attraverso la costituzione di società di comodo, società costituite al solo fine di beneficiare per via indiretta, di detrazioni che altrimenti non sarebbero spettate. Il progetto non ebbe seguito, avversato da 139 Cosciani, Lo stato dei lavori della Commissione per lo studio della riforma tributaria, Milano, 1964. 70 chi vi oppose l’esigenza del rispetto delle forme e le incertezze applicative che avrebbero potuto condurre all’applicazione della norma antielusiva anche a situazioni perfettamente legittime. La proposta di legge 4 febbraio 1986140, n. 3461, presentata dagli onorevoli Piro, Formica, Ruffolo, Colucci, Borgoglio, alla Camera, conteneva una norma di portata generale la quale avrebbe dato la possibilità agli uffici delle imposte dirette di ritenere ad essi inopponibili, gli atti compiuti per ottenere un vantaggio fiscale, salvaguardando gli effetti civilistici e così le esigenze di stabilità e certezza dei traffici. Si trattava indubbiamente di un notevole passo in avanti, che si scontrava però con i problemi di sempre. Era ormai chiaro che una norma di portata così ampia, ha come presupposti indefettibili per la sua corretta attuazione, una definizione positiva dell’elusione fiscale141, un ordinamento tributario flessibile, cioè più semplice e meno formalistico, un apparato amministrativo dotato di funzionari aventi un elevato grado di preparazione giuridica ed obiettività, caratteristiche purtroppo troppo poco diffuse in Italia. Inoltre l’impostazione di fondo degli studi in materia, aveva assunto come dogma irrinunciabile il principio dell’autonomia negoziale, vista come una delle più grandi conquiste dei moderni ordinamenti giuridici, per cui l’attribuzione ai singoli uffici periferici del potere 140 Si trattava di aggiungere un articolo 41-bis al DPR 600/73 :“Gli uffici delle imposte dirette, in base ad autorizzazione motivata del competente Ispettorato compartimentale delle imposte dirette, possono considerare irrilevanti, agli effetti della determinazione del reddito complessivo, gli atti che hanno la loro causa esclusiva o principale nella riduzione dell’onere tributario... (omissis)”. 141 Non hanno avuto molta fortuna i tentativi di elaborare e codificare in legge la definizione di elusione fiscale. Un tentativo concreto in tal senso, unitamente all’introduzione di una norma a carattere generale, esente dal pericolo di attribuire una eccessiva discrezionalità agli uffici periferici del Ministero delle Finanze, attribuendo alla potestà regolamentare di quest’ultimo il compito di fissare dei criteri cui gli uffici devono attenersi in virtù della soggezione gerarchica, fu quello contenuto nell’art. 31 del disegno di legge n° 1301 del 5 agosto 1988 di cui nel prosieguo. 71 discrezionale di riqualificare i negozi ai fini fiscali, in aggiunta al pericolo di avere orientamenti diversi e persino contrastanti all’interno della stessa Amministrazione finanziaria avrebbe potuto avere una valenza sostanzialmente definitoria, nell’ambito della potestà amministrativa di accertamento, dei presupposti imponibili, in violazione della riserva di legge. Fu inoltre criticata l’operatività limitata al solo comparto delle imposte dirette, che rifletteva le circostanze contingenti che hanno accompagnato la norma, la cui necessità si era resa palese in seguito alla proliferazione della pratica delle fusioni di società sane con società (bare) aventi, quale unica “dote” appetibile, bilanci recanti perdite fiscalmente riportabili142. Un successivo tentativo è rappresentato dal disegno di legge del 5 agosto 1988, n. 1301, presentato dal Ministro delle Finanze Colombo, di concerto con il Ministro del Bilancio e della programmazione economica Fanfani, col Ministro del Tesoro Amato e col Ministro dell’Industria Battaglia, che per primo tentò la codificazione del fenomeno elusivo, definendolo nel comma 1 dell’articolo 31, nel modo che segue: “Si ha elusione del tributo quando le parti pongono in essere uno o più atti giuridici tra loro collegati al fine di rendere applicabile una disciplina tributaria più favorevole di quella che specifiche norme impositive prevedono per la tassazione dei medesimi risultati economici che si possono ottenere con atti giuridici diversi da quelli posti in essere”. 142 A tale scopo venne approvato il 18 giugno 1986, il Decreto Legge n 277 che dispose l’indeducibilità delle perdite eccedenti il patrimonio netto della società partecipante alla fusione. Si trattò di una soluzione sostanzialmente compromissoria, in quanto il Governo cadde dopo la presentazione del disegno di legge relativo alla normativa antielusione generale e prima della sua discussione, per cui fu ritenuto preferibile convertire il Decreto Legge. Vds. M. Trinco, “Analisi storico-critica dei progetti di norma generale antielusione”, in Il fisco 22/91 pagg.3690 e ss.. 72 La relazione governativa143 dichiarava esplicitamente l’intenzione di ritenere opportuno seguire la direzione intrapresa da altri paesi europei. Nonostante avesse il pregio di contenere alcuni concetti validi, come il riferimento ad uno o più atti giuridici collegati, la considerazione della finalità elusiva, prevalente od esclusiva, del comportamento e la valutazione dei risultati economici144, la 143 “...il nostro ordinamento è uno dei pochi, tra quelli dei Paesi occidentali, a non avere una disposizione di carattere generale che abbia una specifica finalità antielusiva. Ed infatti nella Repubblica federale tedesca è stabilito che, allorquando costruzioni giuridiche vengono utilizzate per evadere l’imposta, tali costruzioni devono essere ignorate. Esiste abuso di diritto ogni volta che la costruzione giuridica non corrisponde al fatto economico o comunque non è quella che i contraenti avrebbero scelto se non avessero considerato l’elemento fiscale. In Francia, l’art. 1649-quinquies-b del codice generale delle imposte prevede che gli atti che dissimulano la portata vera di un contratto o di una convenzione per diminuire l’imposta, non sono opponibili all’Amministrazione. L’onere della prova spetta a quest’ultima, salva l’ipotesi di ricorso al Comitato consultivo speciale. Il suindicato art. 1649-quinquies-b trova larga applicazione in caso di fusioni di società, di creazione di filiali, di cessioni di imprese ed in materia di brevetti e prestiti senza interessi agli associati. Nel Regno Unito di Gran Bretagna, pur non esistendo una norma specifica, il fenomeno dell’elusione d’imposta viene contrastato in base al principio della prevalenza della sostanza sulla forma nell’interpretazione della norma tributaria. In Australia le transazioni fatte per scopi non commerciali e destinate alla fruizione dei benefici d’imposta o di agevolazioni fiscali, previsti per altri casi da specifiche leggi, sono nulle e comportano sanzioni pecuniarie pari al 200 per cento del beneficio d’imposta invocato o preteso. Al contribuente spetta l’onere di provare che la transazione aveva scopo commerciale. In Austria, gli atti che non comportano nessun cambiamento reale rispetto alle situazioni preesistenti ed hanno il solo effetto di ridurre l’imposizione, devono essere considerati nulli dall’Amministrazione fiscale. Quando il testo delle disposizioni suscita interpretazioni divergenti o quando la forma giuridica dell’operazione è incompatibile con i suoi effetti economici, l’Amministrazione fiscale è tenuta ad analizzare la sostanza dell’atto. Infine negli Stati Uniti d’America vi è un’esplicita disciplina in materia di acquisizione di partecipazioni di controllo in un’altra società. Se tale acquisizione ha per scopo principale quello di chiedere l’applicazione di una deduzione o di altra agevolazione, o comporta un diverso meccanismo di riporto delle perdite, le agevolazioni e deduzioni non vengono concesse. Nel caso in cui una società si costituisca per far fruire agli associati, con più del 10 per cento del capitale sociale, particolari agevolazioni fiscali, esse vengono concesse solo se sarebbero comunque spettate.” 144 Non è stato da poco un tale riferimento egli effetti economici, trattandosi del primo progetto di legge nel quale si enfatizza non più un principio di valutazione fondato sull’analisi formale della fattispecie, bensì sull’effetto economico di essa. E’ significativo il passaggio della Relazione al disegno di legge nel quale tra l’altro si legge che il trattamento da riservare alle ipotesi di elusione “...(omissis) deve essere quello già previsto dal legislatore ... (omissis) per fattispecie assimilabili sotto il profilo della 73 definizione fu giudicata (correttamente) insufficiente, anche se avrebbe potuto, a mio avviso, costituire un punto di partenza da tenere in considerazione; insufficiente è sicuramente lo stretto collegamento con agli atti giuridici, ben potendosi ipotizzare fattispecie elusive attuabili senza porne in essere alcuno145. Altro problema ermeneutico fu sollevato in ordine all’espressione “collegati”, e più precisamente intorno ai limiti fino ai quali due negozi devono essere considerati collegati ai fini della norma in oggetto146. Per quanto riguarda l’aspetto prettamente procedurale, l’articolo 31, commi 2 e 3 così recitava : “Con decreto del Ministro delle Finanze, su conforme parere del Consiglio di Stato, sono indicate le categorie di atti e le condizioni in presenza delle quali si ha elusione del tributo. Gli uffici applicano alle fattispecie indicate nel decreto ministeriale di cui al secondo comma lo stesso trattamento tributario previsto dalla disposizione elusa147”. Una seconda formulazione148 fu invece: “Il Ministro delle Finanze, sulla base dei dati e degli elementi forniti dal Secit e dagli uffici finanziari, sentito il Consiglio di Stato, indica con decreto da sostanza economica”. Per chi volesse leggere l’intera relazione al disegno di legge n. 1301, Senato, può farlo in Boll. Trib. 1988 pagine 1332 e seguenti. 145 Ho già in precedenza ricordato, che in passato era possibile eludere l’imposta di registro gravante sull’acquisto a titolo oneroso di beni immobili o di diritti reali di godimento sui medesimi beni, acquistando gli stessi per usucapione. Tale pratica è stata resa inefficace (rectius illecita), attraverso la parificazione fiscale dei diversi modi di acquisto del diritto ad opera dell’articolo 23 del D.L. 2 marzo 1989 n. 69. 146 M. Trinco : “Analisi storico critica dei progetti… ”, op. cit.. 147 Si tratta della versione approvata in Consiglio dei Ministri il 5 agosto 1988. 148 Versione trasferita alla Presidenza del Senato il 1° settembre 1988. 74 emanarsi annualmente, le categorie di atti e le condizioni in presenza delle quali si ha elusione del tributo. Gli uffici applicano alle fattispecie rispondenti al decreto ministeriale di cui al secondo comma, ancorché verificatesi anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge e sempre che non sia maturata prescrizione o decadenza, lo stesso trattamento tributario previsto per la norma elusa”. Si intendeva in tal modo demandare al dicastero delle Finanze il compito di elaborare una sorta di definizione del comportamento elusivo in diretta relazione a categorie precise di atti e fatti. Lo scopo della norma così congegnata era indubbiamente quello di evitare comportamenti contrastanti nei diversi uffici periferici mediante una uniformazione proveniente “dall’alto149”, ma le perplessità in ordine alla eventuale lesione della riserva di legge, rimasero. Aggiungasi il sostanziale irrigidimento della norma antielusiva che, per funzionare efficacemente come norma generale deve essere dotata di una flessibilità che una siffatta formulazione riduce fortemente a causa soprattutto della mediazione di una pluralità di organi, addirittura accresciuta nella seconda versione presentata in Senato. Giova da ultimo sottolineare che l’intervento degli uffici periferici che, stando al tenore del comma terzo, deve considerarsi meramente esecutivo, diviene contraddittorio con la definizione stessa di elusione di cui al precedente comma uno, infatti la suddetta definizione postula l’individuazione di motivazioni imprenditoriali, e quindi una valutazione caso per caso, in ordine alle finalità elusive 149 Si legge infatti nella relazione al disegno di legge : “ Al fine di garantire la massima uniformità e legittimità del comportamento degli uffici impositori, di ridurre al minimo il contenzioso in materia e di tutelare l’esigenza di certezza del diritto particolarmente sentita nel campo tributario, sui è ritenuto preferibile che l’individuazione delle categorie di negozi e delle condizioni in presenza delle quali si realizza l’elusione d’imposta sia effettuata con decreto ministeriale previo parere del Consiglio di Stato.” 75 dell’operazione, che una regolamentazione ministeriale, generale per definizione, e vincolante per espressa previsione, impedirebbe. Il DL 69/1989, convertito con modificazioni nella legge n° 154 del 27 aprile 1989, non recepì la norma generale antielusione prevista dall’articolo 31 del Ddl 1301/1988. L’articolo 30 dello stesso decreto, aggiunse all’articolo 37 del DPR 600/73 il terzo comma disciplinante l’ipotesi della interposizione soggettiva sulla cui natura antielusiva sono stati da subito sollevati numerosi interrogativi150. Si pensò che fosse allora più opportuno lo strumento della delegazione al Governo, per superare le critiche derivanti dall’eccessivo peso del Ministero nel procedimento come sopra descritto. Nel progetto di legge delega n° 3705151, presentato dal Governo l’8 maggio 1989, si riscontrano in effetti alcuni 150 E’ stata soprattutto l’Amministrazione Finanziaria a forzarne l’applicazione, tentando, con risultati pessimi, di utilizzarla contro alcune specifiche pratiche ritenute elusive, come il dividend washing, l’usufrutto su azioni e le società di comodo delle quali si parlerà in seguito. 151 Art. 38 : 1. “ Il Governo è delegato ad emanare norme dirette a combattere l’elusione tributaria in materia di imposte sui redditi, di imposta sul valore aggiunto, di imposta sulle successioni e donazioni secondo i seguenti criteri e principi direttivi : a) saranno considerati elusivi gli atti e i negozi giuridici, singoli o funzionalmente collegati, posti in essere dai contribuenti al solo fine di eludere l’applicazione di norme tributarie, ovvero al fine di conseguire una tassazione più favorevole di quella che specifiche disposizioni impositive prevedono per atti e negozi diversi ma che producono i medesimi risultati economici che i contribuenti intendono perseguire; b) saranno indicati gli atti e i negozi che, ferma restando la loro efficacia tra le parti e nei confronti dei terzi, saranno considerati non opponibili all’Amministrazione Finanziaria se i contribuenti li hanno posti in essere al solo fine di eludere l’applicazione di norme tributarie. In tale caso sarà altresì previsto l’onere per la stessa Amministrazione Finanziaria di provare, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che il predetto fine è l’unico che i contribuenti intendevano perseguire; gli uffici procederanno all’accertamento, sentito il competente Ispettorato compartimentale; (omissis)...; c) sarà previsto che la disciplina recata da specifiche disposizioni impositive concernenti le predette imposte si applica anche agli atti e negozi giuridici, singoli o funzionalmente collegati, che i contribuenti pongono in essere al fine di 76 miglioramenti rispetto al disegno di legge precedente, ad esempio la sua portata è ampliata anche all’IVA ed all’imposta sulle successioni e donazioni, ma il riferimento “al solo fine di eludere l’applicazione di norme tributarie”, escludendo qualsiasi graduazione delle finalità concrete del comportamento tenuto e delle scelte effettuate, rendeva di fatto facilmente “eludibile” la norma stessa, o comunque di difficile applicazione. Il successivo passaggio al Senato compromise definitivamente la già precaria validità della disposizione, sia perché lasciò invariata l’esclusività del fine elusivo, ma anche e soprattutto perché riformulò in modo assolutamente errato la definizione dell’elusione. Il Senato ritenne infatti elusivi i comportamenti diretti ad occultare il presupposto, imputarlo ad altri soggetti, ovvero a dissimulare atti sottoposti ad un regime impositivo più gravoso o a conseguire scopi corrispondenti alla funzione economico-sociale di altri atti o negozi fiscalmente più onerosi152. Ma dissimulare od occultare fanno più propriamente parte della casistica e terminologia collegata al fenomeno dell’evasione vera e propria, non certo dell’elusione. Con il successivo disegno di legge presentato alla Camera in data 29/09/1990, si abbandonarono i tentavi di introdurre una norma a carattere generale, evidenziando un approccio verso una portata conseguire una tassazione più favorevole di quella che le specifiche disposizioni impositive prevedono per atti e negozi diversi ma produttivi dei medesimi risultati economici che i contribuenti intendono perseguire. 2. Le disposizioni previste nel comma 1 saranno emanate...(omissis), con uno o più decreti aventi valore di legge ordinaria, su proposta del Ministro delle Finanze, di concerto con il Ministro del Tesoro...(omissis). 3. Il Servizio centrale degli ispettori tributari e gli ispettori compartimentali delle imposte dirette e delle tasse, riferiscono al Ministro delle Finanze, con relazione da presentarsi entro il mese di luglio di ciascun anno, dati ed elementi utili per la predisposizione dei decreti di cui al comma due.” 152 S. Cipollina, La legge civile e la legge fiscale.... op. cit., pag. 245. 77 limitata ad alcune tipologie di operazioni, quelle di finanza straordinaria di impresa, e che sfociò nell’approvazione dell’articolo 10 della legge 29 dicembre 1990, n° 408, prima norma antielusiva “settoriale” in quanto può essere logicamente collocata a mezza via tra una ipotetica norma generale e le disposizioni applicabili a specifiche singole fattispecie. Le lacune di quest’ultima disposizione, portarono alla sua sostituzione con l’articolo 37-bis del DPR 600/73, introdotto dall’articolo 8 del Dlgs 358/97, simile nelle intenzioni, ma dotato di maggiori possibilità di trovare concreta applicazione153, stante la sua indubbia migliore formulazione. §6) Le norme antielusione analitiche. Il transfer pricing. Generalità e rinvio. E’ stato già parzialmente anticipato come l’approccio italiano nella lotta all’elusione fiscale abbia deluso i sostenitori di una norma generale, preferendole la correzione delle imperfezioni normative ovvero l’introduzione di norme le quali, specificamente applicabili a singole manifestazioni di risparmi d’imposta altrimenti leciti (ancorché disapprovati dal sistema), rispettano l’impostazione casistica nell’individuazione delle fattispecie considerate rilevanti ai fini fiscali, rispettando al tempo stesso la riserva di legge. E’ stato altresì rilevato che il limite principale di un siffatto approccio, risiede nel pericolo che la norma antielusiva (così come quella risultante dalla correzione) venga a sua volta elusa, ovvero che la proliferazione degli interventi legislativi in tale direzione, finiscano con il contribuire ad accentuare la complessità e 153 Entrambe le disposizioni da ultimo citate saranno approfondite in seguito. 78 l’instabilità del sistema, caratteristiche queste annoverate tra le cause della diffusione delle pratiche elusive. Ciò non toglie che possa rivelarsi molto efficace, ove predisposta con chiarezza e semplicità. Vi è infine da considerare che una norma antielusiva analitica, deve comunque essere redatta in modo tale da essere collegata a situazioni oggettive. Il più delle volte vengono fissati a tale scopo dei parametri i quali, oltre ad essere per loro natura rigidi, spesso si rivelano, nell’applicazione pratica, mal congegnati, finendo così per rendere la norma, da un lato eccessivamente rigorosa, risultando applicabile anche a situazioni perfettamente legittime ma che, trattandosi di casi limite, ricadono comunque entro i confini segnati dalla disposizione antielusiva154; ovvero, al contrario, ben può accadere che la fissazione di confini sempre più netti e tassativi, finisca paradossalmente per stimolare e facilitare la ricerca di nuovi espedienti elusivi essendo sufficiente collocarsi in una posizione appena al di fuori dei (nuovi) confini così segnati, implicitamente confermando la posizione di autorevole dottrina, la quale individua una stretta forma di correlazione tra il fenomeno elusivo e la quantità e qualità delle “regole fiscali155”. Non resta che domandarsi quali siano stati i motivi che hanno indotto il legislatore ad adottare questa strategia, riconducibili alle già note esigenze di certezza del diritto e di rispetto della riserva di 154 Ad esempio, una repentina e profonda crisi di mercato, può deprimere gli indicatori di bilancio assunti come parametro di valutazione dell’effettiva operatività di una società in vista di una fusione, secondo il disposto del quinto comma dell’art. 123 del DPR 917/86, impedendo all’incorporante di riportare le perdite dell’incorporata, a meno di ottenere, attivando la procedura di cui all’VIII° c. dell’art. 37 bis del DPR 600/73, la disapplicazione della disposizione limitativa, dimostrando la validità delle ragioni economiche dell’operazione. 155 Cfr. R. Lupi “L’elusione come strumentalizzazione ...” in Rass.Trib. 2/94 pagg. 225 e ss.; S. Cipollina “La legge civile e la legge fiscale,...”. op. cit., pagg. 125 e ss. ove si approfondisce la connessione esistente tra la struttura normativa e l’elusione fiscale. 79 legge, ma anche alla cronica sfiducia nei confronti degli organi deputati all’accertamento che si risolve in una cautela che talvolta appare eccessiva verso l’attribuzione di poteri discrezionali all’Amministrazione finanziaria, soprattutto per quanto concerne il sindacato sul merito delle scelte imprenditoriali. Numerosi sono gli esempi di norme antielusive analitiche, introdotte nel corso degli anni nel Testo Unico delle Imposte Dirette, ad esempio l’art. 14, cc. 6-bis e 7-bis (contro dividend washing e dividend stripping); l’art. 55, c. 5, contro le possibili strumentalizzazioni delle quali sono suscettibili i contratti di leasing; l’art. 67, cc. 10 e 10-bis i quali prevedono la deducibilità nella misura del 50% per tutta una serie di beni suscettibili di utilizzo promiscuo dei quali è difficile od impossibile l’accertamento oggettivo della percentuale di uso privato e imprenditoriale; l’art. 62, c. 3, che in deroga al principio di competenza, subordina la deducibilità dei compensi agli amministratori al loro effettivo esborso; l’art. 73 c. 4, teso ad impedire che vengano “inventati” fondi per rischi ed oneri oltre a quelli previsti dal Capo VI del Tuir; l’art. 74 c. 2, che limita la deducibilità di alcuni costi, la cui inerenza o meno all’attività imprenditoriale è molto difficile da provare, per cui il legislatore ha preferito, similmente all’art. 67 commi 10 e 10bis, prevedere una deduzione forfetaria di 1/3; l’art. 76, c. 5, sul transfer pricing, cc. 7-bis e ter applicabili alle operazioni intercorse con società estere residenti nei cosiddetti “paradisi fiscali”; l’art. 102 recante dei limiti alla deduzione delle perdite pregresse; l’art. 121bis, che prevede requisiti e limiti di deducibilità dei componenti negativi riferiti a talune categorie di mezzi a motore; l’art. 123, c. 5, regolante l’ipotesi del riporto delle perdite in seguito a fusioni societarie; e, ultimamente, l’introduzione, sulla scorta di analoghe 80 esperienze di vari Stati membri dell’OCSE156, dell’art. 127-bis recante la nuova disciplina in tema di tassazione delle imprese partecipate estere (Controlled foreign companies). Soprattutto negli ultimi decenni, la naturale evoluzione del sistema capitalistico occidentale, ha subito una repentina accelerazione, che gli ordinamenti giuridici157 dei vari paesi hanno dovuto con fatica inseguire. Lo scenario economico è profondamente mutato, vi è l’affermazione della logica del gruppo di società e quindi di una visione più ampia quando si tratta di elaborare le strategie d’impresa, non solo dal punto di vista economico (produzione, approvvigionamenti, marketing ecc.) e finanziario (collocamento dei titoli in mercati regolamentati, capitalizzazione, indebitamento ecc.), ma anche di efficiente ripartizione del carico tributario, con la predisposizione di una vera e propria pianificazione fiscale. Il panorama imprenditoriale italiano è ormai caratterizzato dalla presenza di numerosi gruppi societari. Nonostante una sostanziale identità soggettiva dal punto di vista economico158, il gruppo di società non ha ancora raggiunto un riconoscimento giuridico che consenta di considerarlo unitariamente159, sia come 156 Ad esempio il Canada, la Danimarca, la Finlandia, la Francia, la Germania, la Spagna, il Giappone, il Portogallo, la Svezia, il Regno Unito e gli USA. 157 Non solo tributari, si pensi ai problemi connessi con la tutela del consumatore per quanto riguarda i nuovi prodotti immateriali commercializzati via internet, e la disciplina dei relativi contratti. 158 Cfr. Campobasso, “Diritto commerciale, vol II° Diritto delle società”, IV^ ed. Utet 1999, pag.271. 159 In Italia infatti, diversamente che in molti altri paesi, comunitari e non, non esiste, se non in ipotesi del tutto marginali, la possibilità di compensazioni fiscali all’interno del gruppo. Solo nella normativa civilistica il gruppo assume una certa rilevanza, essendo prescritto l’obbligo del bilancio consolidato, nei casi e con le modalità previste dagli artt. 25 e seguenti del Dlgs 127/91, attuativo delle Direttive comunitarie nn 78/660/CEE e 83/349/CEE. Le sole norme fiscali nelle quali il gruppo assume una 81 realtà che meriterebbe una più specifica regolamentazione sotto il profilo del diritto societario, sia, e soprattutto, come soggetto dotato di una certa autonomia sotto il profilo tributario. Perciò l’attuale sistema impositivo vigente in Italia160 può dar luogo ad alcune “distorsioni”, essendo basato sulla tassazione isolata dei redditi conseguiti dalle singole società, senza possibilità di compensazione tra gli utili di alcune e le perdite di altre. Quando le persone giuridiche dell’agglomerato si trovano dislocate in differenti stati, nasce il problema del transfer pricing ovvero del controllo delle transazioni interne al gruppo, al fine di verificare che non vi siano operazioni finalizzate ad allocare utili verso paesi esteri, spesso a fiscalità ridotta161, o comunque privilegiata. qualche rilevanza sono, l’articolo 43-ter, del DPR 602/73 relativo alla cessione delle eccedenze di imposta infragruppo; la liquidazione IVA di gruppo prevista dall’art. 73, del DPR 633/72; ed infine la deroga al divieto del riporto delle perdite previsto dall’art. 102 del DPR 917/86. il cui comma 1-ter dispone che il disconoscimento delle perdite, previsto in via ordinaria quando il controllo della società con perdite riportabili sia trasferito e venga altresì modificata l’attività che la società svolgeva nel momento in cui le perdite si sono generate, non si applichi se il trasferimento del controllo avviene a favore di un’altra società facente parte del medesimo gruppo. Questa ultima disposizione, introdotta dall’art. 8 del Dlgs 358/97, ha lo scopo, come si rileva nella relazione governativa “ di arginare il fenomeno noto come commercio delle bare fiscali, riconducendo l’istituto del riporto delle perdite alla sua naturale funzione, evitandone il patologico uso come strumento di elusione fiscale” precisando che, “qualora questo passaggio si verifichi all’interno del medesimo gruppo, non vi è motivo per penalizzarlo, considerata la sostanziale identità del soggetto economico in questione.” Vedasi il lavoro di A. Lovisolo: “L’imposizione dei gruppi di società: profili evolutivi”, in “L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano”, atti del convegno “I settanta anni di ‘Diritto e pratica tributaria’” (Genova 2-3 luglio 1999), coordinati da Victor Uckmar, Cedam, Padova, 2000, pagg. 313 e ss.. Per quanto riguarda la giurisprudenza sul concetto di gruppo, Vds le sentenze della Corte di Cassazione nn° 2708 del 24/04/1985; 1567 del 2/3/1983; 5597 del 26/10/1982; 3822 del 22/6/1982; 561 del 13/3/1964; 472 del 2/3/1964 e 382 del 18/2/1963. 160 La tassazione consolidata dei gruppi di imprese è regolata all’estero in modo assai variegato, per una analisi comparata delle legislazioni delle più importanti economie mondiali, si consiglia la lettura di P. Valente:”Tassazione consolidata nei gruppi di imprese”, in Rass. di fiscalità int. n. 3/2001. 161 Il confronto della pressione fiscale può non essere sufficiente, da solo, a spiegare la spinta alla localizzazione in un dato paese, per esempio, di uno stabilimento produttivo, intervenendo nella scelta anche la normativa sul lavoro, in termini di costo e di produttività dello stesso, ovvero di assenza delle stesse regole. 82 È in questa ottica che si inserisce la problematica dell’elusione internazionale in generale, e del transfer pricing in particolare162. Quest’ultimo si identifica con tutte quelle pratiche che hanno come obiettivo esclusivo, quello di un’allocazione efficiente dei redditi in una ottica complessiva di gruppo, tenendo conto della differente struttura dei sistemi impositivi dei diversi paesi ospitanti le imprese del gruppo. Il sistema adottato è, in prima approssimazione, molto intuitivo, può infatti accadere che, nei rapporti infragruppo, la fissazione dei prezzi avvenga non già in base agli ordinari criteri, bensì in modo da determinare uno spostamento di utili tassabili, dalla società che risiede in un paese a più elevata pressione fiscale, ad una residente dove il fisco è meno esoso. Poiché tali espedienti coinvolgono paesi diversi, si è resa necessaria l’introduzione di linee guida per cercare di armonizzare le diverse procedure, e ciò è avvenuto ad opera dell’OCSE163. Pur lasciando sostanzialmente alla sensibilità dei legislatori nazionali l’onere della predisposizione delle norme relative ai criteri di individuazione delle fattispecie cui si rende applicabile la normativa del transfer pricing, l’OCSE ha inteso uniformare i principi per quanto riguarda i metodi di determinazione dei prezzi 162 Le implicazioni che conseguirebbero ad un approfondimento di entrambi gli aspetti citati, porterebbero il presente lavoro fuori dei binari di una organica rappresentazione del fenomeno elusivo in una ottica prettamente interna e di rapporti tra Amministrazione finanziaria italiana ed imprese residenti nell’esercizio della loro autonomia negoziale verrà così affrontato solamente il secondo e più particolare aspetto. 163 “Transfer pricing and Multinational Enterprises”, Parigi, 1979, recepito in Italia con la circolare ministeriale 32/9/2267 del 22 settembre 1980; “Transfer pricing and Multinational Enterprises. Three Taxation issues”, Parigi, 1984; ”Thin capitalization”, Parigi, 1987; “Tax Aspects of Transfer Pricing within Multinational Enterprises – The United States Proposed Regolation”, Parigi, 1994; “Transfer Pricing guidelines For Multinational Enterprises and Tax Administrator”, 1995. 83 di trasferimento, garantendo ai singoli paesi lo spazio per alcune alternative164, tenendo altresì presente l’esigenza di evitare le doppie imposizioni. A tale scopo, l’ultimo rapporto del 1995 ha ribadito che il criterio cardine è quello del principio di “libera concorrenza” (arms lenght) ovvero, brevemente, quel prezzo che sarebbe stato convenuto tra imprese indipendenti per operazioni identiche o similari, in condizioni di libera concorrenza. In Italia la normativa di riferimento è costituita dall’articolo 76, comma 5°, del DPR 917/86, il quale dispone una presunzione (assoluta?165) di cessione a valore normale (ex articolo 9 DPR 917/86) per le operazioni infragruppo transfrontaliere. L’impostazione dell’amministrazione fiscale italiana166, in conformità alle direttive Ocse, ha interpretato la legislazione nazionale nel senso di privilegiare espressamente metodi oggettivi di valutazione, primo fra tutti quello del confronto della transazione interna “sospetta” con quelle, oggettivamente assimilabili, effettuate con imprese 164 Vi sono tre criteri base, il metodo del “confronto del prezzo”, del “prezzo di rivendita” e del “costo maggiorato”,ai quali l’Amministrazione Finanziaria ha affiancato altri quattro metodi per le ipotesi in cui nessuno dei precedenti fosse applicabile: il metodo della ripartizione degli utili globali, della comparazione dei profitti, della redditività del capitale investito e del margine lordo del settore economico. 165 È stato lo stesso Ministero delle Finanze, con la circolare n. 32 del 22 settembre 1980, a considerare assoluta la presunzione. Nettamente contraria la giurisprudenza, Comm. Trib. Reg. Piemonte, sez. XXXV, 18 gennaio 1999, n° 164. Per la dottrina favorevole si veda M. Piazza, Guida alla fiscalità internazionale, Il sole 24 Ore, Milano 1997. La dottrina contraria ha criticato la tesi osservando che la norma sul transfer price è una norma sostanziale, e non una norma sulle prove : il valore normale costituisce il valore tassabile degli scambi infragruppo per espressa disposizione legislativa. In tal senso : G. Tremonti, Gruppi di società : i vincoli e le architetture fiscali, in AA.VV., La fiscalità industriale, Bologna, 1998, pag. 48; Lupi, Manuale professionale di diritto tributario, Milano 1998, pag. 365; Tosi, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale; S. Cipollina, La legge civile e la legge fiscale: il problema…, op. cit., afferma la “…erroneità e la contraddittorietà insite nella creazione per via extralegislativa di una presunzione legale,…”, pag. 202. 166 Circolare n. 32 del 22 settembre 1980. 84 esterne al gruppo, indipendenti. Il maggiore problema riscontrato in sede di applicazione pratica della norma, riguarda la possibilità, molto frequente nella pratica, che l’impresa fornitrice abbia come unico cliente il gruppo cui appartiene, essendo stata creata appositamente per le esigenze del gruppo, rendendo così impossibile un confronto oggettivo. I presupposti di applicabilità della norma in oggetto, possono distinguersi in soggettivi ed oggettivi. I primi riguardano la necessità di accertare che le operazioni “incriminate” avvengano tra due imprese167, delle quali una italiana ed una estera, le quali, direttamente o indirettamente: - controllano l’impresa; - ne sono controllate, o – sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa168. 167 La più volte citata circolare del 1980, affronta l’interpretazione del termine “impresa”, in modo sufficientemente chiaro ed esaustivo, partendo dalla definizione civilistica di cui all’art. 2082, tenendo però conto della presunzione di produzione di reddito d’impresa contenuta nell’art. 87 I° c. lett. a) e b) del DPR 917/86, giungendo per tale via a ricomprendere sostanzialmente qualsiasi soggetto che svolge o può svolgere attività imprenditoriale (art. 2195 cc.), assoggettabile a tassazione ex. Tuir, senza che rilevi la natura e la forma dello stesso, se non per la successiva verifica del rapporto di controllo eventualmente intercorrente tra i soggetti. Possono così ritenersi sottoposti alla normativa in esame sia le società che le ditte individuali e le stabili organizzazioni di società estere, considerata la mancanza di autonomia giuridica dalla casa madre, sicché le operazioni da essa poste in essere sono riconducibili direttamente alla società dalla quale promana. le quali sono tassate in Italia a norma degli artt. 20, 87 e 112 del DPR 917/86. 168 Sulla nozione di controllo, l’opinione dominante, è quella che parte dal presupposto dell’esistenza di una indipendenza (non assoluta) del diritto tributario da quello civile. Ciò non significa che la valutazione di tale parametro sia completamente avulsa dalla definizione civilistica di cui all’art. 2359. Che il dato civilistico sia da superare è dichiarato espressamente dall’Amministrazione Finanziaria, nella circolare 32/1980 (“… poiché il meccanismo di alterazione dei prezzi di trasferimento è costituito spesso dalla influenza di un’impresa sulle decisioni dell’altra, che va ben oltre i vincoli contrattuali od azionari, sconfinando in considerazioni di fatto di carattere meramente economico”), ove elenca, ampliando quelle civilistiche, alcune circostanze dalle quali si desumono delle situazioni di controllo. La posizione ministeriale finisce per coincidere sostanzialmente con quella espressa dalla VII^ direttiva CEE sui conti consolidati ovvero dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia relativamente all’abuso di posizione dominante sul mercato ex art. 86 del Trattato Istitutivo della Comunità. Non si discosta di molto la giurisprudenza italiana, la quale però tende a precisare che le fattispecie di cui ai numeri 1 e 2 del I° comma del 2359, configurano sicuramente 85 Per quanto concerne i presupposti oggettivi, la norma in commento rimanda espressamente alla nozione di valore normale di cui all’art. 9, III° comma DPR 917/86, il quale lo definisce come “il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni e servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi.” Aggiungendo inoltre che, se possibile, il valore vada determinato in conformità “ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi …”. Come per l’elusione fiscale in genere, anche nello specifico ambito del transfer price vi è un problema di distinzione dei fenomeni leciti da quelli illeciti, in questo caso relativi alla legittimità o meno della pianificazione fiscale internazionale, richiedendosi quindi una approfondita conoscenza della legislazione fiscale interna dei vari Paesi, senza tralasciare le convenzioni internazionali eventualmente stipulate dagli stessi per evitare le doppie imposizioni169. ipotesi di controllo anche ai fini tributari, negli altri casi occorrerà invece una ulteriore indagine sul caso concreto, onde verificare l’eventuale sussistenza di interessi comuni nella alterazione dei prezzi. La C.T. di I° di Alessandria, sez. I^, del 28/11/1995, sent. n. 1416, non ha ritenuto sussistente l’ipotesi del controllo di una società italiana rispetto alla partecipata inglese al 50%, che commercializzava nel Regno Unito i prodotti della prima. Contrariamente alla tesi dell’ufficio, la Commissione adita, ha ritenuto invece sussistere “una forma partecipativa di collaborazione, assurta a rango societario, del che ne era riprova la compartecipazione paritaria al 50% del soggetto inglese e del soggetto italiano nella joint venture”. In appello la C.T.R. del Piemonte ha sostanzialmente confermato la sentenza di primo grado, ribadendo implicitamente, che le ipotesi ultronee rispetto alle fattispecie di dominio delle assemblee ordinarie (numeri 1 e 2 del comma I°), le varie ipotesi di dominio (o di comunanza di interessi) derivante da rapporti contrattuali od extracontrattuali, potranno al più costituire dei semplici indizi. 169 Vedasi A. e A.C. Musselli, “Transfer pricing”, ed. Il Sole 24 Ore, 2001 pag. 8, ove viene proposta una doppia verifica per la valutazione della liceità di tali operazioni. 86 Un ultimo punto da rimarcare riguarda il riferimento dell’articolo 76, 5° c. alle “procedure amichevoli” previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, le quali, ove previste, rendono applicabili le disposizioni in argomento anche nell’ipotesi in cui ciò comporti una diminuzione del reddito170. §7) Le norme antielusive “settoriali”. Premessa Ho già avuto modo in precedenza171 di evidenziare l’evoluzione legislativa che, a partire dagli anni ’80, ha contribuito a definire più compiutamente il fenomeno elusivo nel tentativo di arginarne gli effetti negativi più volte ricordati. In quella sede è stata altresì evidenziata la scelta del legislatore di non inserire nell’ordinamento una norma antielusiva di tipo generale, bensì un gran numero di norme applicabili a singole fattispecie e, quasi a voler “accontentare” anche i sostenitori della tesi disattesa, una disposizione per taluni versi “a mezza via” tra una norma generale ed una specifica, l’art. 10 della L. 408 del 29/12/1990, applicabile nell’ambito delle operazioni di riorganizzazione societaria. Non ci sono voluti molti anni perché, emersi i suoi limiti, anche grazie alla 170 La rettifica derivante dall’applicazione dei principi del transfer price, può talvolta determinare problemi di doppia imposizione giuridica od economica, la prima si verifica allorché uno stesso reddito viene tassato, in capo allo stesso soggetto, da più amministrazioni fiscali; la seconda invece, quando uno stesso reddito viene tassato ad esempio al momento della sua formazione ed in quello della sua percezione da parte dello stesso soggetto. Con la procedura amichevole, si tende alla risoluzione principalmente di problemi di interpretazione della norma convenzionale e l’eliminazione della doppia imposizione nei casi in cui la norma non sia efficace nel dirimere una specifica fattispecie. Nell’impossibilità di raggiungere un accordo, si potrà ricorrere all’arbitrato, ma solo se entrambi i Paesi coinvolti, hanno accettato tale procedura. 171 Si veda il precedente paragrafo 5. 87 copiosa giurisprudenza in materia, dopo alcune modifiche, per il vero poco efficaci, quest’ultima norma sua stata completamente abrogata e sostituita dal D.Lgs 8 ottobre 1997, n° 357, con il quale è stato introdotto, nel corpo normativo del decreto sull’accertamento delle imposte sui redditi (DPR 600/73), l’art. 37-bis. §7.1) L’art. 10 della L. 29/12/1990, n° 408. Premessa L’essenza di una norma antielusiva in senso stretto, è quella di attribuire, all’organo deputato all’accertamento delle imposte, al verificarsi di determinati presupposti, il potere di disapplicare la norma che sia stata strumentalizzata al fine di ottenere un vantaggio altrimenti non riconosciuto dal sistema (e sostanzialmente disapprovato), e ciò ai soli fini fiscali, fermi restando cioè gli ulteriori effetti giuridici. Essa quindi non modifica la legislazione sostanziale. Per lungo tempo il legislatore ha preferito optare per la diretta modifica delle singole norme strumentalizzate. Con la L. 408/90 ha invece introdotto una disposizione, antielusiva nei termini sopra accennati, applicabile ad una pluralità di operazioni, tutte di finanza straordinaria172. L’articolo 10, nella sua veste originaria, consentiva infatti all’Amministrazione finanziaria di disconoscere i vantaggi tributari conseguiti in dipendenza di talune operazioni di riorganizzazione aziendale173 172 Prima delle modifiche di cui alle leggi 724/1994 e 662/96. 173 Operazioni di fusione, concentrazione, trasformazione, scorporo e riduzione di capitale sociale e, a seguito della interpretazione autentica effettuata mediante la norma contenuta nel comma 16 dell’articolo 123-bis Tuir, anche di scissione. 88 poste in essere senza valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo174 di ottenere, fraudolentemente175, un risparmio di imposta. 174 Data la perentorietà dell’espressione utilizzata, non è stata pressoché mai posta in discussione l’interpretazione della stessa nei termini di unicità di tale scopo e, dunque, di incompatibilità con l’eventuale esistenza di uno seppur infimo scopo ad esempio commerciale. Dalla lettura della proposta di legge originaria inoltre, si evince chiaramente che l’impostazione data è stata frutto di una scelta consapevole del legislatore, “...Gli uffici..., possono considerare irrilevanti agli effetti della determinazione del reddito complessivo, gli atti che hanno la loro causa esclusiva o principale nella riduzione dell’onere tributario.”. Le differenze con la norma in seguito approvata sono evidenti, abbiamo anzitutto l’esclusione dell’aggettivo “principale”, che risponde probabilmente all’esigenza di limitare (rectius escludere) margini di discrezionalità nella valutazione della condotta tenuta, infatti non c’è dubbio sulla assolutezza di tale concetto, come da orientamento pressoché unanime della dottrina (per tutti, S. Cipollina “La legge civile e..” op. cit. pag. 244: “... nelle intenzioni del Parlamento, l’elusione dovrebbe risultare in modo netto e inconfutabile dalla totale assenza di scopi commerciali effettivi nell’operato del contribuente. Si esclude per questa via, qualsiasi valutazione comparativa tendente ad ordinare, secondo criteri di prevalenza, gli scopi perseguiti. Ciò significa che la presenza di un solo interesse commerciale ulteriore rispetto allo scopo di risparmiare un’imposta è sufficiente a rimuovere il sospetto dell’elusione.”).Cfr. Comm. trib. I°, Milano, 06/05/1996, n. 239,“Le parole ‘scopo esclusivo’ vanno interpretate per quello che sono, cioè nel senso di unico e non di principale o prevalente; ciò anche sulla scorta del generale atteggiamento di cautela mostrato dal legislatore nell’adozione di rimedi antielusivi che non siano automatici e predeterminati.”.); Secit (Del. Secit 105 del 5/07/1994 : “... l’esclusività dello scopo non può essere intesa che come sottolineatura del rigore con il quale deve valutarsi la sussistenza della prima condizione ( le valide ragioni economiche). In secondo luogo abbiamo l’inserimento, nel testo definitivo, delle “valide ragioni economiche” congiuntamente allo scopo esclusivo. Valutate complessivamente, le modifiche possono essere viste come assenza di fiducia nelle capacità degli organi preposti al controllo di effettuare (in modo imparziale) valutazioni discrezionali, ovvero come espressione della volontà di tutela della certezza del diritto.Vero è che, questa (corretta) interpretazione, unita alla richiesta fraudolenza, contribuirono non poco alla scarsa fortuna della norma, la cui applicazione fu talvolta “forzata”. 175 L’avverbio “fraudolentemente”, è stato oggetto di controversia in dottrina, circa la sua eventuale derivazione, e quindi anche accezione, penalistica. Nel diritto penale infatti, con tale espressione, si intende una condotta caratterizzata da artifici e raggiri, indubbiamente dolosa, e quindi tendente all’occultamento di fatti veri ovvero alla falsa rappresentazione di essi in modo da ingannare gli organi deputati all’attività di controllo. La dottrina immediatamente dominante, rilevò anzitutto che una tale accezione avrebbe reso la norma praticamente inapplicabile. Ciò era particolarmente vero soprattutto nella versione ante L. 724/94 (nella quale si sottolinea la presenza della congiunzione “e” : “ ... poste in essere senza valide ragioni economiche e allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente ...”.), infatti, cercare di colpire un fenomeno che per sua natura si verifica strumentalizzando le norme, ma rispettandole formalmente, con una disposizione che richiede invece la sussistenza di comportamenti artificiosi come ad esempio la produzione di documentazione contabile falsa, non poteva che essere giudicato illogico e pertanto il termine andava interpretato diversamente. In questo senso il Secit, il quale nella delibera 105/94 escluse la possibilità che “l’avverbio ‘fraudolentemente’ esprima qualcosa di più della connotazione complessiva dell’operazione come abuso dello 89 Tale prima versione venne innovata dalla legge 23/12/1994, n° 724, che modificò l’elenco delle fattispecie alle quali poteva applicarsi la norma in commento, aggiungendo le operazioni di liquidazione, escludendo le fusioni, in conformità alle modifiche, dalla stessa legge apportate176, alla disciplina delle fusioni e strumento negoziale. ... esso non introduce nella fattispecie alcun ulteriore elemento riconducibile all’accezione penalistica dell’’artificio’ o del ‘raggiro’.”. Così pure il Gallo (“Prime riflessioni ...”, op. cit., pag. 1778; Trivoli, “Contro l’introduzione ...”, op. cit. pag. 1366; M. Nussi, “Elusione tributaria ed equiparazioni al presupposto nelle imposte sui redditi: nuovi (e vecchi) problemi”, pag. 526; Tabellini, “Libertà negoziale...”op. cit. pag. 210., il quale argutamente rilevò che se così non fosse stato inteso, la disposizione sarebbe stata facilmente elusa, semplicemente dichiarando apertamente che l’operazione veniva posta in essere con il solo fine del risparmio fiscale, così facendo, da un lato si verificava la condizione dell’assenza delle valide ragioni economiche, ma nel contempo veniva esclusa la ricorrenza della fraudolenza. La corretta interpretazione del termine era, secondo tale Autore, nel senso dell’”impiego distorto e l’abuso dello strumento negoziale.”.Cfr. anche Lupi (“Elusione fiscale: modifiche ...”, op. cit. pag. 418), il quale sottolinea che talvolta può avvenire che il contribuente effettui una data operazione al solo fine del risparmio fiscale, ma ciò non determina immediatamente l’illiceità dell’operazione (L’Autore cita, tra gli altri esempi, l’inizio di una impresa individuale per fruire del favorevole regime forfetario per ‘i giovani imprenditori’, ovvero all’ incasso di compensi al primo gennaio per differirne l’inclusione nel reddito imponibile, l’anticipo di un investimento per fruire di una agevolazione e così via); P. Valente, “L’elusione nelle operazioni di riorganizzazione societaria: problemi esegetici dell’art. 10, legge 408/1990 e confronto con esperienze straniere”, in Riv. di dir. fin. e sc. delle fin. LVI, 1, I, pagg. 115 e ss., soprattutto pagg. 134 e ss., in quanto “Quando la normativa fiscale, in via strumentale e per scelta di sistema, privilegia un certo comportamento rispetto a un altro, ed il contribuente adotta quello più favorevole, non esistono ancora strumentalizzazioni, manipolazioni o artifici. Quando il sistema consente due alternative aventi pari dignità normativa, non elude chi sceglie la più conveniente...”. Secondo l’Autore quindi il termine, lungi dall’essere inteso nel senso penalistico, servirebbe proprio a facilitare la distinzione tra “la applicazione strutturale, ovvero la strumentalizzazione e manipolazione delle regole tributarie.” Nella stessa direzione la Comm. trib. I°, Milano, 04/05/1996, n. 239, la quale puntualmente afferma che l’avverbio vada interpretato “nella sua accezione più lata, scevra ormai dal concetto di dolo, tipico di un’ottica penalistica, toccando significati più sfumati, quali quelli di furbizia, malizia astuzia,...”. Tra le opinioni contrarie, con dovizia di argomentazioni, segnalo il Nuzzo, il quale sostiene l’erroneità della tesi del Secit secondo la quale il temine, nella sua accezione penalistica, sarebbe una contraddizione in termini rispetto al fenomeno che la norma intende colpire, il quale si verifica “alla luce del sole”, e deve pertanto essere identificato con “l’abuso dello strumento negoziale”. L’autore sostiene anzitutto che se così fosse, il legislatore avrebbe potuto semplicemente omettere l’avverbio in discussione evitando controversie inutili, richiamandosi inoltre alla tesi per cui, per la certezza del diritto e dell’unità dell’ordinamento, deve riconoscersi la costanza di significato (salvo esplicita diversa indicazione fornita dallo stesso legislatore) delle definizioni giuridiche da qualunque campo giuridico esse provengano (tesi peraltro mai dimostrata.). 176 Con l’articolo 27, è stata infatti modificata la disciplina fiscale delle fusioni contenuta nell’art. 123 del Tuir, rendendo impossibile l’utilizzo in franchigia di imposta del 90 facendole infine perdere la connotazione di norma applicabile alle (sole) operazioni di riorganizzazione societaria, con l’inserimento delle operazioni di valutazione di partecipazioni, cessione o valutazione di beni mobiliari e di operazioni di finanza ordinaria come le cessioni di crediti. Infine l’art. 3, comma 27 della l. 662 del 23/12/1996, aggiunse la ‘cessione d’azienda’. L’elenco delle fattispecie oggetto della disciplina, sia prima che dopo le modifiche, è sempre stata pacificamente qualificata come tassativa e non meramente esemplificativa. Nel merito vennero sollevate delle perplessità in quanto la norma richiamava sia alcuni istituti ben delineati giuridicamente, come la fusione, sia delle operazioni conosciute nel più ampio ambito delle scienze economico-aziendalistiche, come ad esempio la concentrazione, e come tali dai contorni giuridici molto vaghi. L’aspetto però probabilmente più controverso ruotava invece attorno agli altri presupposti di applicabilità ovvero: - le valide ragioni economiche, - la fraudolenza, - lo scopo esclusivo e - il risparmio di imposta177. disavanzo di fusione da annullamento della partecipazione, per iscrivere l’avviamento o rivalutare i beni della incorporata. 177 Ulteriore fonte di problemi interpretativi ed applicativi, erano le nozioni di “vantaggi tributari” e “risparmio d’imposta”, non definite nella norma stessa e neanche in altra parte dell’ordinamento tributario. Anzitutto deve rilevarsi l’inopportunità di una loro considerazione come sinonimi, infatti ben può aversi un vantaggio tributario nel differimento dell’imposizione di un componente positivo di reddito, o anticipazione della deduzione di uno negativo, senza che ciò comporti un risparmio d’imposta strictu sensu. Che il risparmio di imposta poi non si identifichi tout court con l’elusione fiscale è stato già chiarito, resta da aggiungere che esso, se non è accompagnato da tutte le ulteriori condizioni di cui all’art. 10 in commento, non può, nel contesto della stessa disposizione, essere considerato illecito. Occorre pertanto che l’operazione posta in essere, la quale deve rientrare tra quelle elencate, sia preordinata esclusivamente al conseguimento di un concreto “risparmio d’imposta” e non di un generico quanto indecifrabile “vantaggio tributario”. Pertanto, se è oggettivamente riscontrabile la presenza di un qualche interesse extrafiscale, non importa se prevalente o meno rispetto a quello fiscale, ciò significa implicitamente che il contribuente, dovendo effettuare una data operazione economicoaziendale, di fronte ad una pluralità di opzioni sulle modalità concrete di attuazione della stessa, ancorché attraverso strumenti atipici, ha scelto quella che, complessivamente, ha 91 §7.2) L’articolo 37-bis del DPR 600/73 Premessa Lo scopo perseguito dal legislatore della norma sopra commentata, era quello di perseguire, vanificandone gli effetti negativi in termini di gettito, gli abusi perpetrabili nell’ambito di talune operazioni connotate da elevata complessità, come tali non univocamente collegabili ad una determinata fattispecie impositiva, valutato essere la più efficace ed efficiente, e quindi anche, ma non solo, per ragioni fiscali. Dubbi interpretativi sorsero inoltre sulla necessità o meno di valutare il menzionato risparmio tenendo conto o meno degli eventuali altri tributi sopportati in conseguenza del comportamento disconosciuto. La lettura della norma non lasciava comunque molti spazi, dovendosi escludere la rilevanza degli “altri tributi”. Le conseguenze derivanti dal mancato scomputo di questi ultimi, comunque assolti, come propugnato dal Secit che si basava sulla specificità della disposizione tenuto conto dell’espresso riferimento alla normativa sulla riscossione delle imposte dirette contenuto nel comma 2 (art. 15 DPR 602/73), non sono di poco conto, potendosi infatti considerare questo ulteriore prelievo, come una sorta di sanzione impropria (Così Dus, “Norme antielusive in materia di operazioni societarie”, in Il fisco 1991, pagg. 1222-1223; Fiorentino, “Il problema dell’elusione tributaria nel sistema tributario positivo”, in Riv. di dir. trib., 1998, I, pag. 821; Gallo, “L’elusione fiscale nelle operazioni di concentrazione e scorporo”, in Il fisco, 1992, pag. 670; Lupi, “Società senza impresa, detrazione IVA e ‘fiscalità dell’imprevedibile’”, in Riv. di dir. trib., 1992, pag 877.) con il corollario che meno tributi si riusciva a pagare con il comportamento elusivo, minore sarebbe stata implicitamente la sanzione in caso di contestazione.Le poche volte che l’Amministrazione finanziaria ha tentato l’applicazione dell’art. 10, l’esito della (inevitabile) fase contenziosa è stato per essa prevalentemente negativo. Per tutte, Cassazione sez. tributaria, sentenza N° 14776 del 15/11/2000. La Cassazione cita inoltre la sentenza della Corte di Giustizia C-28/95 del 17/7/1997 la cui massima ritengo utile riportare: “Ai fini dell’applicazione del trattamento fiscale comune relativo alle operazioni societarie stabilito dalla direttiva 90/434 CEE non è necessario che la società acquirente sia titolare dell’esercizio di impresa, e neppure è richiesta la riunione durevole, da un punto di vista finanziario ed economico, in una stessa entità, dell’impresa di due società. Una fusione per scambio di azioni può pertanto avvenire anche quando una stessa persona fisica che era l’unico azionista e amministratore delle società acquistate assuma gli stessi ruoli nella società acquirente.”. Sulla differenza tra ‘risparmio fiscale’ ed elusione, nel senso voluto dalla L. 408/90, Comm. trib. prov. di Milano citata, ove si legge che “... indubbiamente la ricorrente abbia conseguito un notevole risparmio d’imposta e che ciò non sia sfuggito agli amministratori della società”, ciononostante essa ha ritenuto che l’operazione in esame non dovesse ritenersi elusiva in quanto “si ritiene che questo non sia affatto lo scopo esclusivo ... che ha spinto la società.”. Si ha così l’ulteriore conferma dell’assurdità di interpretazioni che costringano alla scelta della via fiscalmente più onerosa, allorché sia l’ordinamento stesso a prevedere due o più alternative per la realizzazione di una operazione genuinamente motivata. In tal modo infatti verrebbe ostacolata non già l’elusione, bensì la libertà economica del soggetto d’imposta. 92 e pertanto suscettibili di essere manifestate in modo tale da ricadere sotto regimi maggiormente favorevoli, indipendentemente da una volontà legislativa in tal senso. La tecnica legislativa utilizzata, ha però comportato una sostanziale inutilizzabilità della stessa, sia prima che dopo le modifiche178, tanto che le (poche) pronunce giurisprudenziali sono intervenute a distanza di anni dalla sua introduzione179. Ulteriore implicazione negativa fu che l’accresciuta incertezza nel campo delle operazioni di riorganizzazione aziendale, frenò l’utilizzo di questo strumento imprescindibile per un sistema economico-produttivo che già di per sé stentava a tenere il passo di una economia mondiale sempre più ‘globale’. In altre parole la disposizione esaminata ha causato molti disagi ai contribuenti a fronte dei quali il gettito per l’Erario non ha tratto alcun vantaggio apprezzabile, neppure indirettamente non essendo stata capace di disincentivare180 le “grandi elusioni” da parte di quei (pochi ma di rilevanti dimensioni) soggetti che si potevano permettere consulenti 178 Da rilevare la circostanza che dette modifiche non sfiorarono minimamente le questioni che, sotto il profilo interpretativo ed applicativo, erano risultate particolarmente critiche: non quella della “fraudolenza”, dello “scopo esclusivo”, né quelle relative all’utilizzo di espressioni atecniche come “concentrazione e scorporo”, non è stato poi chiarito come dovevano essere determinati i “vantaggi tributari” indebiti, ovvero i termini di confronto, le imposte da considerare, il periodo temporale. 179 Comm. Trib. Prov.le Milano, sez. I, 4/5/96, n. 239. Comm. Trib. I° grado di Modena, sez. II, 14/12/95, n. 22. Comm. Prov.le Udine, sez. IX, 21/04/1997, n. 105. Cass. sez. trib. 15/11/2000, n. 14776. Parere del Cons. di Stato, sez. III n. 1535, del 13/2/96. 180 Per correttezza occorre precisare che lo scopo di una norma antielusiva non è (principalmente) quello di conseguire maggior gettito, quanto quello di “educare” il contribuente (e l’amministrazione finanziaria) disincentivando il ricorso a strumenti elusivi. Così Lupi: “Si tratta di norme di chiusura, destinate ad impedire di perdere gettito, rendendo più difficili i comportamenti elusivi. Si può, giungendo al paradosso, considerare tanto più raggiunto l’obiettivo di queste norme quanto meno numerose sono i casi cui applicarle.” in “Diritto tributario. Parte generale”, Milano, 1994, pag. 95. 93 di rango superiore, in grado di “aggirare” la stessa norma (sedicente) “antiaggiramento”. Una concreta applicazione dell’istituto dell’interpello di cui all’art. 21 della legge 413/91 avrebbe sicuramente contribuito positivamente, diminuendo anche il contenzioso, ma questi allo stato attuale sono argomenti al più dottrinali, essendo nel frattempo intervenute profonde modifiche che spostano (anche) la nostra attenzione sui nuovi istituti di cui all’articolo 37-bis e dell’interpello generalizzato introdotto con lo Statuto del contribuente. La distinzione tra il risparmio d’imposta accettato come fisiologico e quello invece considerato patologico non può essere tracciata in modo netto, deciso e perciò univoco, e ciò è tanto più dimostrato quanto più si tenti di raggiungere questo risultato con una norma giuridica. È stato ampiamente discusso quanto tale confine possa essere raffigurato non già come una linea di confine, talché si possa versare nell’una o nell’altra condizione (liceità/illiceità), quanto in una “zona”, una “fascia” dai limiti incerti e talvolta variabili, che costituisce quella “zona grigia” ove l’elusione si annida e prospera. Con un approccio “matematico”, esso può assimilarsi ad un sistema di n equazioni con n incognite, dove n è un numero elevatissimo, tale per cui tentare di trovarne la soluzione (rectius le soluzioni!) sarebbe compito improbo anche per un novello Einstein. Al minimo mutamento di una delle variabili infatti, si potrebbe passare dall’uno all’altro “campo”. Allo stesso modo anzi, a maggior ragione, trovare una definizione legislativa che tenga conto di tutte le variabili, può agevolmente considerarsi compito sostanzialmente impossibile. 94 La soluzione di second best, adottata dal legislatore italiano, è stata quella di introdurre norme specifiche e/o correttive delle norme eluse, in quei casi in cui le possibilità elusive derivavano da “distrazioni” del legislatore che non aveva “previsto” le possibilità di un loro uso strumentale, ed infine una norma di più ampio respiro che tendesse ad impedire (rectius limitare) le fattispecie maggiormente ricorrenti e “pericolose” in termini di “peso” per l’Erario, ma che, al tempo stesso, non potevano essere considerate tout court elusive, diventandolo solo al verificarsi di talune condizioni, non necessariamente oggettive, ed in quanto tali bisognevoli di una valutazione. Del primo tentativo in tal senso ho dato conto nel precedente paragrafo, evidenziando la difficile utilizzabilità in concreto dello strumento approntato con l’art. 10. Il successivo tentativo ha dato come risultato l’introduzione, all’interno del decreto sull’accertamento delle imposte sui redditi, dell’art. 37-bis. §7.3) Generalità dell’art. 37-bis DPR 600/73 e rapporti con l’art. 10 l. 408/90. Per meglio apprezzare le caratteristiche peculiari della norma in commento dobbiamo necessariamente tenere conto della delega legislativa che l’art. 3, comma 161, lettera g, della legge 23 dicembre 1996, ha concesso al Governo, al fine di emanare uno o più decreti delegati per una modifica, sistematica ed organica, delle disposizioni in materia di imposte dirette concernenti le operazioni di riorganizzazione delle attività produttive, con la revisione inoltre dei criteri di individuazione delle operazioni di natura elusiva di cui 95 all’art. 10 della l. 408/90, anche in vista di un miglior coordinamento con le nuove disposizioni comunitarie in materia di operazioni straordinarie (in Italia D.Lgs. 544/92). Notevoli contributi possono infine trarsi dalla lettura della relazione governativa al decreto 358/97181. L’esperienza dell’art. 10 ha infatti indotto il legislatore ad intervenire, a distanza di pochi anni, per “aggiustare il tiro” contro i comportamenti elusivi che nel frattempo erano ulteriormente cresciuti, dando prova del fatto che il fisco non era ancora in grado di arginarli in alcun modo. Allo stesso modo, si è accennato all’importanza delle riorganizzazioni societarie ed all’incapacità della citata disciplina di garantire un sufficiente grado di conoscibilità delle conseguenze fiscali delle stesse, mentre l’evoluzione dei consumi e dei mercati, richiedeva un ripensamento delle strutture produttive le quali per lungo tempo avevano seguito di pari passo l’evoluzione della normativa fiscale, nel senso che, le imprese, anziché adattare le proprie strutture produttive al mercato, tendevano principalmente ad adottare la configurazione ottimale dettata dalla contingente situazione della normativa tributaria, la quale si evolveva su un binario diverso rispetto a quello della evoluzione dei rapporti economici, essendo ‘comandata’ dalle 181 “La finalità principale delle disposizioni che formano oggetto del decreto in esame è la rimozione degli ostacoli di carattere tributario all’assunzione, da parte dei comparti produttivi nazionali, della struttura aziendale e giuridica più soddisfacente in relazione agli obiettivi imprenditoriali da conseguire. È noto, infatti, che la normativa tributaria ha sistematicamente, ancorché forse involontariamente, deformato l’assunzione di tali strutture privilegiando, di volta in volta, alcuni negozi giuridici rispetto ad altri; con il risultato di spingere le imprese interessate ad indossare ‘l’abito’ fiscalmente più agevolato, anziché quello operativamente più appropriato, per conseguire il risparmio d’imposta che ne conseguiva.” Così la relazione allo schema di decreto legislativo sulle riorganizzazioni societarie. 96 esigenze di gettito, che la spingevano ad incentivare ora le aggregazioni, ora le disaggregazioni dei complessi produttivi182. La riconosciuta natura di coordinamento183 della delega contenuta nella l. 662/96, ed esplicitamente la relazione ministeriale di accompagnamento al decreto, affermano la preferenza accordata alla continuità dei termini utilizzati nella precedente disposizione antielusiva, in quanto compatibili, in modo da evitare il più possibile di disorientare gli operatori economici, con modifiche esclusivamente lessicali, ma soprattutto per il rispetto delle norme costituzionali in materia di delegazione legislativa. Assumono pertanto rilevanza le espressioni divergenti, tra le quali, ai nostri fini, una posizione di primo piano è senza dubbio occupata dalla circostanza che, a differenza della previgente norma, l’art. 37-bis è maggiormente articolato, prevedendo il potere (rectius poteredovere) di disconoscere184 i vantaggi tributari conseguiti nel comma 2 e l’effetto dell’inopponibilità della condotta elusiva nei confronti del Fisco (prima assente) nel comma 1. Sempre nel primo comma viene data una definizione generale del fenomeno che si intende 182 Cfr. L. 18/03/1965, n. 170; L. 1089 del 1968; L. 2/12/1975, n. 576; L. 16/12/1977, n. 904; L. 29/04/1981, n. 163; L. 30/07/1980, n. 218. Si è trattato di disposizioni che agevolavano ora l’uno ora l’altro tipo di operazioni/localizzazione. 183 Cfr. Zoppini, “Fattispecie e disciplina dell’elusione nel contesto delle imposte reddituali”, in Riv. dir. trib. 2/I/2002, pagg. 54 e ss. 184 Il passaggio dall’espressione ‘è consentito all’amministrazione finanziaria’ all’attuale ‘disconosce’, pare semplicemente strumentale alla precisazione che l’esercizio del potere in discussione è una estrinsecazione dell’ordinario ‘poteredovere’ caratteristico dell’attività amministrativa allorché si versi in situazioni nelle quali l’Amministrazione finanziaria debba valutare fatti od interpretare norme, il cui corollario è la possibilità di non applicare la disposizione antielusiva quando ciò contrasti con i principi di buon andamento ed economicità dell’azione amministrativa, ad esempio se la differenza d’imposta può essere considerata trascurabile (cd discrezionalità vincolata). 97 colpire, e nel terzo sono espressamente elencate le operazioni nel cui ambito può applicarsi la norma. È proprio nella lettura del primo comma che l’aspetto di norma sostanziale è stato rilevato da parte della Dottrina185, laddove sono dichiarati ‘inopponibili’ all’Amministrazione finanziaria le operazioni reputate elusive sulla base di un procedimento accertativo disciplinato dai commi successivi della stessa norma. L’art. 10, non solo aveva natura procedimentale, in ciò (anche) differenziandosi dal 37-bis, ma difettava proprio di una disposizione sostanziale di oggettivo riferimento186. In altre parole, il potere amministrativo ivi previsto e disciplinato, non incideva sulla normativa sostanziale ma, piuttosto, rendeva inapplicabile, limitatamente alla fattispecie concreta, il ‘vantaggio’ derivante dall’ordinario rapporto tra singolo fatto e presupposto, non procedendosi ad alcuna riqualificazione del fatto ai fini tributari, complicando ancora di più, se possibile, l’individuazione dei citati ‘vantaggi tributari’. Quello che veniva infatti censurato dalla norma, non era tanto la violazione di un presupposto d’imposta, quanto il fatto di averlo maliziosamente eluso, e a tale comportamento doloso veniva ricollegata una norma accertativa che prescindeva dalla ricostruzione del singolo fatto imponibile. 185 Cfr. Piccone Ferrarotti: “Riflessioni sulla norma antielusiva introdotta dall’art. 7 del D.Lgs 358/97”, in Rass. trib. 4/97, pag. 1150; Lunelli, “Normativa antielusione”, in Il fisco 30/97, pagg. 8489 e 8490. Contro, Cociani, “Spunti ricostruttivi delle tecniche giuridiche di contrasto all’elusione tributaria. Dal disconoscimento dei vantaggi tributari all’inopponibilità al fisco degli atti, fatti e negozi considerati elusivi’, in Riv. dir. trib. 7/8 2001, I, pagg. 705 e ss.; Nussi, “Elusione tributaria ed equiparazioni al presupposto nelle imposte sui redditi:...”, op. cit. pag. 514. 186 La natura procedimentale della norma, ha fatto sorgere anche dei dubbi in relazione alla configurabilità stessa di una violazione sostanziale da parte del contribuente e, di conseguenza, alla stessa possibilità di applicazione delle corrispondenti sanzioni amministrative. 98 Dunque, ponendo l’attenzione al solo aspetto volitivo del/dei soggetto/i che compiono l’operazione societaria, risultavano implicitamente estranei all’ambito di applicazione della norma, le fattispecie elusive plurisoggettive, consentendo così ai soggetti giuridicamente ‘terzi’ rispetto all’operazione, di conseguire impunemente quegli stessi vantaggi tributari. L’impostazione della nuova norma invece, come evidenziato dalla relazione governativa, indirizza il controllo di elusività di un comportamento, verso un confronto oggettivo tra i regimi fiscali, escludendosi la necessità di sindacare i comportamenti soggettivi dell’‘uomo d’affari medio’. La novità rappresentata dall’introduzione dell’inopponibilità, oltre a contribuire a qualificare la norma come sostanziale, sommandosi al passaggio dall’espressione ‘è consentito disconoscere’ alla più tassativa ‘disconosce’, pare indicare che il legislatore abbia inteso passare da un atteggiamento possibilista ad un vero e proprio divieto di opponibilità. Tale considerazione, a prima vista incontestabile, andrebbe maggiormente ponderata sulla base della indisponibilità dell’obbligazione tributaria, la quale implica che gli uffici accertatori, di fronte ad un comportamento elusivo (constatato in base alla norma), non hanno grandi possibilità di scelta, dovendo procedere alla rideterminazione della imposta per richiedere il pagamento di quella eventualmente ancora dovuta. Non deve quindi sopravvalutarsi la portata innovativa della nuova norma, se non limitatamente ad una miglior definizione positiva del fenomeno elusivo, con l’abbandono del concetto di fraudolenza a favore di quello che la relazione di accompagnamento commenta come “l’utilizzazione di scappatoie formalmente legittime allo scopo di aggirare regimi fiscali tipici, ottenendo vantaggi che ordinariamente il sistema non 99 consente e indirettamente disapprova.”, viene altresì fornita una più corretta elencazione delle operazioni assoggettate alla norma e la considerazione delle fattispecie complesse (il disegno elusivo). Può insomma rinvenirsi in essa una distinzione, più corretta ed aderente ai principi dell’ordinamento, tra comportamenti considerati elusivi e quelli di mero risparmio di imposta. In altri termini, con l’esplicito riferimento ai comportamenti diretti ad aggirare obblighi e divieti previsti dall’ordinamento tributario187 e strumentali all’ottenimento di risparmi d’imposta altrimenti indebiti, si deve ritenere che il legislatore abbia implicitamente affermato che le norme tributarie avrebbero natura precettiva, almeno nel senso che, verificatasi la fattispecie, sorgono determinati obblighi, mentre i divieti sono da desumere, ma con argomentazione a contrario, dalle disposizioni attributive di diritti, le quali sono formulate in termini positivi (ad esempio il diritto al riporto delle perdite e quello al credito d’imposta sono soggetti a 187 Intorno all’esistenza, nell’ordinamento tributario, di obblighi o divieti, per la verità non c’è accordo in dottrina, persistendo l’opinione che ritiene che le norme tributarie sostanziali, non abbiano valenza precettiva non imponendo ad alcun soggetto obblighi o divieti per così dire “autonomi”, bensì collegati al compimento, da parte di questo, di determinati atti o fatti che il legislatore ha assunto a fattispecie originanti l’obbligazione tributaria, e quindi, ma solo a posteriori, imponendogli obblighi o divieti a quest’ultima conseguenti. Così, Russo: “Brevi note in tema di disposizioni antielusive”, in Rass. trib. 1/99, pag 70; Piccone Ferrarotti: “Riflessioni sulla norma antielusiva...”, op. cit., pag. 1155. Entrambi rafforzano la propria tesi citando la consolidata opinione che ha ravvisato proprio in tale carenza di imperatività, l’impossibilità di applicazione dell’istituto di cui all’art. 1344 cod.civ.. In senso conforme anche Cipollina, “La legge...”, op. cit., pag. 149, anche se in riferimento all’art. 10 della 408/90; Bucci: “La norma ‘generale’ antielusiva nell’interpretazione del Comitato Consultivo: alcune considerazioni.”in Rass. trib. 2/2002, pag 509. Contro, Micheli, “Legge”, in Enc. del diritto, XXIII, Milano, 1979, pag. 1079; Pacitto, “Attività negoziale, evasione ed elusione tributaria: spunti problematici”, in Riv. di dir. fin., 1987, I, pag. 742; Gallo: “Brevi spunti ...”, op. cit. pagg.17 e ss.. 100 determinate condizioni, se esse non si verificano, sorge il divieto ad esercitare tali diritti188). La recente giurisprudenza di legittimità pare orientata invece diversamente, ad esempio la sentenza della Cassazione n. 11351 del 2001, ha affermato che le norme tributarie sarebbero inderogabili, ma non imperative, non ravvisandosi in esse “il carattere proibitivo”, in quanto “non pongono divieti, ma assumono un dato di fatto quale indice di capacità contributiva189”; né quello di tutela di “interessi generali che si collochino al vertice della gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento giuridico190” poiché esse risultano, piuttosto, poste a difesa “di interessi pubblici di carattere settoriale.”. Si constata inoltre la consapevolezza che il risparmio d’imposta ritenuto da perseguire in quanto elusivo, è quasi sempre il frutto di una pluralità di atti e comportamenti coordinati o comunque collegati, in vista del disegno elusivo, potendo facilmente accadere che ogni singolo atto non sia perseguibile in sé191. 188 Esplicitamente in tal senso Tesauro, “Istituzioni...”, op. cit. VII° ed. 2000, pag 231: “Che l’ordinamento tributario preveda obblighi non è cosa che ha bisogno di spiegazioni. ... ,il divieto, riferito alle norme tributarie, è da intendersi in senso debole, ossia come previsione che esclude che, ad una determinata fattispecie, segua un effetto fiscale vantaggioso per il contribuente. ... ad esempio quando, ..., non attribuisce la possibilità di dedurre un costo, di conseguire un credito d’imposta ecc.”. da notare la circostanza che lo stesso Autore, a pag. 221 dello stesso testo sostiene l’inapplicabilità dell’art. 1344 cod. civ. concordando che le norme tributarie non sono imperative, ma specificando che non lo sono “nel senso (civilistico) dell’art. 1344”, citando inoltre Carraro, “Frode alla legge”, in Novissimo digesto italiano, vol, VII, Torino 1961, pag. 647; Santonastaso, “I negozi in frode alla legge fiscale”, in Dir. e prat. trib., I, 1970, pag. 505. 189 Così anche Cass. n. 12327/1999, n. 11598/1995, n. 4024/1981. 190 Così anche Cass. n. 11598/1995. 191 È stato acutamente rilevato che le condotte elusive si possono suddividere in due categorie, a) “quella del ricorso a figure negoziali che consentono di raggiungere un 101 Il riferimento poi agli atti, fatti e negozi, vale inoltre a riconoscere che l’attività negoziale (ed il contratto in particolare) ancorché sia il principale, non è l’unico strumento per la realizzazione dell’elusione, ben potendo a tal fine essere utilizzati i fatti ovvero i comportamenti non negoziali ed anche unilaterali192. Così impostato il ragionamento, può altresì ribadirsi che sia stato recepito l’orientamento della Dottrina assolutamente dominante, secondo il quale non elude chi, tra due strumenti negoziali che gli consentono il raggiungimento di un dato fine (ovviamente lecito secondo gli ordinari criteri civilistici), posti dal legislatore sullo stesso piano della dignità giuridica, sceglie quello fiscalmente meno oneroso193. Questa libertà di scelta dello strumento negoziale ritenuto più efficace ed efficiente dal contribuente è infatti il corollario del principio di libertà negoziale a sua volta connesso a quello costituzionale di libertà di iniziativa economica. Sotto questo profilo, la precedente norma antielusiva era stata fortemente criticata per la presenza dell’avverbio “fraudolentemente”, quale caratteristica richiesta in aggiunta allo “scopo esclusivo” (requisito determinato risultato economico attraverso una scansione contrattuale insolita od inutilmente complessa ed articolata rispetto agli strumenti tipici a disposizione del contribuente per perseguire i medesimi effetti economici”; b) quella che consiste soltanto “nel procedere ad una operazione preordinata ad ottenere un vantaggio fiscale, che si pone in palese contrasto con la funzione tipica dell’istituto nel quale essa si inquadra” .Russo “Brevi spunti ...”, op. cit., pag. 74. 192 Ad esempio la valutazione delle partecipazioni, (comma 3, lett.g). 193 “Non c’è aggiramento fintanto che il contribuente si limita a scegliere tra due alternative che in modo strutturale e fisiologico l’ordinamento gli mette a disposizione. Una diversa soluzione finirebbe per contrastare con un principio diffuso in tutti gli ordinamenti tributari dei paesi sviluppati, che consentono al contribuente di ‘regolare i propri affari nel modo fiscalmente meno oneroso’, e dove le norme antielusione scattano solo quando l’abuso di questa libertà dà luogo a manipolazioni, scappatoie e stratagemmi, che pur formalmente legali, finiscono per stravolgere i principi del sistema.”Così si legge nella relazione governativa al D.Lgs 358/97. 102 anch’esso fonte di problemi applicativi e non riproposto nella nuova disposizione) perché il comportamento fosse ritenuto illecito, con i problemi già affrontati e che non ripeto194. L’innovazione ha reso in tal modo superflua l’indagine soggettiva riferita alla concreta finalità perseguita dal soggetto, essendo al contrario sufficiente l’accertamento che questi abbia ottenuto un vantaggio tributario cui non avrebbe avuto diritto in base all’applicazione del regime “ordinario”, evitato grazie ad uno o più atti/fatti/negozi che, senza che vi fossero motivazioni extrafiscali, sono stati in grado di aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento. Aggirare è poi altra cosa rispetto a “violare” (frodare), anche qui concordando, il legislatore, con la dottrina pressoché unanime nel ritenere che, con il comportamento elusivo, non viene violata alcuna norma sostanziale ma, quando si verificano i presupposti di applicabilità della norma in esame, è quest’ultima ad essere violata e, dal momento che si tratta di norma sostanziale195, la condotta diviene illecita, qualificando come indebito il vantaggio fiscale derivatone. In altre parole ancora, quando il legislatore ha usato l’espressione “altrimenti indebiti” intendeva evidenziare il ruolo a tale scopo ricoperto, dall’abuso dello strumento negoziale che si estrinseca nell’aggiramento di obblighi e divieti, ed al contempo legittimare la facoltà di optare per l’uso di uno strumento alternativo a quello tipico, ancorché 194 Vds. Paragrafo precedente. 195 Sulla natura sostanziale e non meramente procedimentale della norma, non appaiono esservi oramai più dubbi, atteso che essa assoggetta ad imposizione fattispecie che, in sua assenza, non lo sarebbe o lo sarebbe in misura inferiore. Inoltre, se fosse stata concepita come norma procedimentale, non si spiegherebbe la sua irretroattività. Nel vigore dell’art. 10, tale distinzione non aveva trovato unanimità di consensi in dottrina, a causa della formulazione della norma, la quale al I° comma enunciava i requisiti per considerare elusiva una operazione, ma anche attribuiva il potere accertativo della elusione stessa all’Amministrazione finanziaria. 103 costituito da una pluralità di negozi collegati, ma comunque riconosciuto od ammesso, implicitamente o esplicitamente, dallo stesso legislatore196. Una differenza particolarmente importante risiede inoltre nella riscrittura del ruolo dell’Amministrazione fiscale, la quale non deve (e non può) limitarsi ad un ruolo ‘distruttivo’ della fattispecie elusiva, dovendo procedere anche ad una vera e propria ‘riqualificazione fiscale’ dell’istituto giuridico utilizzato dal contribuente per poter applicare la ‘giusta imposta197’. Resta comunque fermo il principio che sancisce la sopravvivenza del/degli istituti civilistici utilizzati, operando la citata riqualificazione, nel solo ambito della normativa tributaria e fatti pertanto salvi gli ulteriori e differenti effetti, civilistici in primis. Un’ultima annotazione sintetica, riguarda l’aumento delle fattispecie potenzialmente elusive ed in quanto tali soggette alla nuova norma198, che non riguardano più le sole operazioni di finanza straordinaria come nella precedente norma, includendo infatti operazioni di ordinaria amministrazione come la cessione di crediti, l’acquisto, ma anche la semplice valutazione delle partecipazioni. Lo spettro di applicabilità della disposizione è ora talmente ampio che qualche autore le ha attribuito, se non nella 196 Cfr. le considerazioni alle quali si è pervenuti nella parte del presente scritto relativamente alla definizione di elusione fiscale. 197 Esplicitamente corrispondente al differenziale (a sfavore dell’Erario) tra imposta assolta in base al comportamento ritenuto inopponibile e quella dovuta in base alla norma elusa. Ovvero ciò che nella precedente disposizione si intendeva (implicitamente però) con il termine ‘vantaggio tributario’. Sugli aspetti controversi di tale potere/dovere di riqualificazione si tornerà in seguito. 198 Per chi volesse approfondire questo aspetto, si veda Lunelli, “Normativa antielusione”, op. cit., pagg. 8489 e 8490. 104 forma almeno nella sostanza, la caratteristica di norma antielusiva (quasi) generale. La limitazione delle possibilità di innovare la sostanziale portata della nuova normativa è stata, ribadisco, limitata dalla natura stessa della delega, altrimenti censurabile in sede di sindacato di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 76 Cost. Fra le differenze immediatamente percepibili rispetto alla norma precedente, vi è senza dubbio l’apprezzabile presa di coscienza del legislatore, che una normativa che potenzialmente limita l’autonomia negoziale dei privati, inverte l’onere della prova inserendo una sorta di presunzione di elusività di talune operazioni e attribuisce un (in)certo grado di discrezionalità agli organi deputati all’accertamento, deve necessariamente essere accompagnata da previsioni legislative ed amministrative che disciplinino il procedimento attuativo in modo da garantirne (almeno) la tendenziale equità (commi IV°, V°, ma anche VIII°, vera e propria forma di interpello preventivo “speciale”). 1) Il “disegno” elusivo. Cenni e rinvio. Come detto in premessa, il legislatore ha inteso meglio calibrare la portata della norma con il riferimento agli “...atti, i fatti e i negozi, anche collegati fra loro ...”, con ciò intendendo riferirsi alla possibilità, tutt’altro che remota nel fenomeno elusivo, che questo sia attuato mediante un vero e proprio “disegno” preordinato199 all’aggiramento 199 di obblighi e divieti La interpretazione della concatenazione rinvenibile all’interno del ‘procedimento elusivo’ come ‘preordinazione’ non è invero accettata unanimemente dalla dottrina. Favorevoli Tabellini, Il progetto governativo antielusione”, in Boll. Trib., 1997, pag. 1063; Id. “Fusioni di società ed elusione fiscale”, op. cit., pagg. 1142-1144; Lupi, 105 dell’ordinamento al fine di conseguire un vantaggio tributario altrimenti indebito. Esempio classico di comportamenti di questo tipo sono quelle operazioni ‘circolari’, nel senso che vengono poste in essere delle operazioni di per sé legittime, annullate in seguito mediante operazioni di segno opposto, in modo da riportare la situazione economico-giuridica alla posizione di partenza, salvo aver fruito di benefici di natura esclusivamente fiscale. Altra figura di abuso di più strumenti negoziali a fini fiscali elaborata dalla dottrina è quella dei cosiddetti ‘contratti a gradini’, fattispecie nota da lungo tempo con riferimento all’interpretazione degli atti ai fini dell’imposta di registro200 ex art. 20, norma nella quale alcuni autori vedevano sancito un principio generale di “Elusione e legittimo risparmio d’imposta nella nuova normativa”, op. cit., pag. 1106; Valente, “Riorganizzazioni societarie: prime osservazioni allo schema di decreto legislativo.” in Il fisco 32/97 pagg. 9407 e ss. Contrario, Anello Di Domenico, “Profili applicativi della nuova norma antielusiva”, in Corr. Trib., 1998, pagg. 1366 e ss. Verosimilmente la corretta accezione dovrebbe essere nel termine di ampliare la possibilità di contrastare le operazioni poste in essere mediante più atti/fatti/negozi, fermo restando la necessità di provare (anche) il collegamento tra essi. 200 Esempio celebre di un siffatto operato, fu il caso, sottoposto al giudizio della Corte di Cassazione, di un genitore in età molto avanzata, che donò ai figli delle obbligazioni (in esenzione d’imposta) e, a distanza di pochi giorni, cedette degli immobili agli stessi ricevendo come corrispettivo le stesse obbligazioni. Il risultato finale complessivo è chiaramente stato quello di donare gli immobili, ma così congegnata, l’operazione ha consentito di scontare la sola imposta sul trasferimento a titolo oneroso degli immobili stessi evitando la più gravosa imposizione prevista per le donazioni immobiliari. Lo Jarach nel commentare la sentenza della Cassazione che affermò il carattere elusivo dei due negozi o, per meglio dire, la riconduzione ad unità del negozio indiretto, trasse delle conclusioni che spesso vengono riproposte dagli studiosi che prendono in considerazione la possibilità di interpretare unitariamente quei negozi che, nella loro concatenazione di causa, sono impiegati a fini di risparmio fiscale, anche al di fuori dell’imposizione indiretta, consentendo all’Amministrazione finanziaria di ‘riqualificarli’ (rectius qualificarli) ai fini fiscali in tal modo assoggettandoli all’imposizione cui sarebbero stati sottoposti se si fosse posto in essere il negozio avente come causa quella risultante dal risultato (economico-giuridico) complessivo dei negozi ‘parziali’. Jarach, “I contratti a gradini e l’imposta”, in Riv. di dir. fin., 1982, II, pagg. 79 e ss. commento a sent. Cass. sez. civ. I, n. 2658, 09/05/1979. Più di recente, si vedano le sentenze della Suprema Corte, nn. 2713 del 25/02/2002, n. 14900 del 23/11/2001. 106 interpretazione dei negozi ai fini fiscali in base alla sostanza economica, travalicante la sola imposizione indiretta201, autori questi, tutti riconducibili sostanzialmente alla teoria della ‘scuola di Pavia’ del Griziotti, che, come detto in precedenza, appare ormai superata, anche se talvolta appaiono rivivere taluni aspetti di essa. In effetti, è proprio quanto si è verificato in sede di discussione dell’art. 37-bis, che nell’inciso ‘anche collegati fra loro’, pare attribuire appunto al fisco il potere di interpretare unitariamente la causa negoziale quale risultato di una lettura complessiva di una complessa attività negoziale del contribuente, nella quale sia ravvisabile una interdipendenza funzionale delle singole operazioni che, poste in essere in apparente casualità ed autonomia, nella realtà perseguono un fine unitario, riconducibile appunto all’elusione di obblighi o divieti dell’ordinamento. Ciò non significa comunque che in sede di accertamento possa farsi una valutazione a posteriori collegando “atti, fatti o negozi” che invece, per il modo che si sono verificati, appaiono assolutamente autonomi tra loro. È la concatenazione di essi in vista di un determinato obiettivo, ravvisabile nell’ottenimento di vantaggi di natura fiscale, che deve essere stata decisa sin dal momento di attuazione del primo atto202, con questo intendendo che l’attualità del vantaggio, non contribuisce alla qualificazione della condotta 201 Così Jarach, “Principi per l’applicazione delle tasse di registro”, Padova, 1937, pagg. 41 e ss.; Griziotti, “Il principio della realtà economica ...”, op. cit., pagg. 202 e ss.; più di recente, Falsitta, “Manuale di diritto tributario”, op. cit., pag. 204; ID., “Usufrutto su azioni e contratto in maschera”, op. cit. pag. 1193. Contro, Tremonti, “Autonomia contrattuale...”, op. cit. pag. 375; Tesauro, “Istituzioni ...”, op. cit. pag. 248; Santamaria, “Registro (imposte di)”, in Enc. dir., 1998, pag. 533. 202 Tabellini in “Il progetto governativo antielusione”, in Boll. Trib. 1997, pag. 1062 e ss. afferma che, “i vantaggi tributari prodotti dal comportamento elusivo non devono essere meramente ipotetici e, comunque, proiettarsi nel futuro, sì che diventi lecito supporne di inesistenti: essi devono essere reali, attuali, apprezzabili, poiché sono rilevanti, in quanto disconoscibili, solo i vantaggi effettivamente ‘conseguiti’” 107 come elusiva o meno, ma debba essere semplicemente intesa come condizione di applicabilità del potere di disconoscimento. Una diversa accezione, porterebbe a conseguenze potenzialmente portatrici di un intollerabile grado di incertezza, potendosi verificare che una operazione originariamente non elusiva, possa diventarlo in un secondo momento, allorché si concretizzino degli effetti favorevoli al contribuente (ancorché imprevedibili a priori). 2) Il requisito dell’assenza di valide ragioni economiche. Cenni e rinvio. Una corretta interpretazione dell’art. 37-bis, deve necessariamente partire non solo dalla individuazione puntuale dei suoi presupposti di applicabilità, ma anche dal procedimento da seguire per la verifica della loro sussistenza secondo un preciso ordine che ne garantisca la piena aderenza alla ratio dell’istituto. Schematicamente, e seguendo la lettera della norma, ricordiamo che i presupposti sono quattro: 1) assenza di valide ragioni economiche; 2) aggiramento di obblighi o divieti previsti dall’ordinamento; 3) preordinazione di siffatti comportamenti all’ottenimento di vantaggi tributari (minori imposte/maggiori rimborsi) altrimenti indebiti; e 4) inclusione delle operazioni ‘sotto esame’ in quelle comprese nell’elencazione (tassativa) di cui al III° comma, ancorché la concretizzazione del comportamento censurabile sia avvenuta per mezzo (anche) di atti, fatti o negozi estranei all’elenco di cui al comma 3. La dottrina concorda sulla circostanza che all’ordine di elencazione sopraesposto, non corrisponda un analogo ordine 108 logico/interpretativo, ritenendo che, in primo luogo si debba verificare che l’operazione, la cui legittimità si intende accertare con la disposizione in esame, sia compresa nell’elencazione, poi se questa sia stata attuata con mezzi che, lungi dall’essere previsti, ancorché implicitamente, dallo stesso legislatore, siano invece diretti ad aggirare obblighi o divieti, al fine di ottenere vantaggi fiscali indebiti, anch’essi da verificare (e quantificare). Solo allorché tutte le precedenti verifiche abbiano dato esito positivo il comportamento tenuto dal contribuente potrà essere considerato elusivo, ma perché sia censurabile, o meglio affinché possa essere considerato illecito, occorre che l’indagine venga estesa al controllo dell’insussistenza delle valide ragioni economiche, finendo per apparire queste ultime, più che un presupposto di applicabilità, un condizione esimente203, nel senso che, con una inversione dell’onere della prova, il contribuente che dimostri l’esistenza di esse, potrà evitare l’applicazione della disposizione antielusiva. Non sono in accordo con quest’ultima interpretazione quegli Autori204 che ritengono invece comunque incombente sugli organi accertatori l’onere di provarne l’assenza ancorché potendo far ricorso allo strumento presuntivo, ritenendo che il requisito in commento sia un elemento costitutivo della fattispecie e valga a qualificare la condotta come elusiva. Nonostante possa ritenersi preferibile quest’ultima impostazione, occorre rilevare che se così fosse, il Fisco si vedrebbe gravato dell’onere di fornire una probatio diabolica, essendo 203 In tal senso Russo, “Brevi note...”, op. cit., pag. 75. 204 Cfr. Zizzo, “Prime riflessioni sulla nuova disciplina antielusione” Lupi, “Elusione e legittimo risparmio d’imposta nella nuova normativa” pagg. 1105 e ss. 109 pressoché impossibile per esso fornire la prova di un fatto negativo. Anzi, e più correttamente, non si dovrebbe neanche parlare di ‘prova’, se, come ritengo corretto, ci troviamo di fronte ad una attività valutativa, per sua natura insuscettibile di essere provata205. Nella concreta applicazione, l’Amministrazione finanziaria ha spesso attribuito al requisito in parola una valenza maggiore, limitando l’indagine alla sola sussistenza o meno di esso, onde qualificare un comportamento come elusivo; in altre parole l’indagine amministrativa, di fronte ad una operazione ex III° comma art. 37-bis comportante l’applicazione di un regime fiscale vantaggioso, accertata la insussistenza delle motivazioni economiche a suffragio dell’opzione scelta, qualificava la condotta dell’autore come elusiva. Una tale analisi non è semplicemente superficiale, ma proprio errata nella metodologia, omettendo la ricerca di quegli “aggiramenti”, quelle “strumentalizzazioni” delle norme che non violano direttamente queste ultime, bensì principi, piegando la ratio di esse allo scopo di rientrare in fattispecie previste da altre disposizioni che garantiscono un vantaggio in termini fiscali206. Nella realtà, per una corretta valutazione, tutti i presupposti devono essere considerati congiuntamente, anche perché sono 205 Così Consolo, “I pareri del comitato per l’applicazione della normativa antielusiva e la loro sfuggente efficacia”, in Dir. e prat. trib. 1993, I, pagg. 960 e ss. Analogamente Garbarino: “Riporto delle perdite ed elusione”, in Dir. e prat. trib. I/2001, pag. 106, che così si esprime sull’argomento: “In base ai principi generali, è l’amministrazione che deve provare l’assenza di valide ragioni economiche; gli è che le valide ragioni economiche non sono un fatto suscettibile di prova diretta od indiretta, bensì una valutazione, risultato di scelte necessariamente discrezionali dell’imprenditore, ancorché rapportabili a parametri oggettivi di gestione aziendale. 206 La pericolosità di un tale approccio, è data dalla conseguenza che, se così fosse, anche quando l’ordinamento consente di arrivare ad uno stesso risultato attraverso due diversi regimi giuridici, dovrebbe comunque scegliere in base alle valide ragioni economiche, le quali potrebbero così imporgli il comportamento più oneroso. 110 spesso strettamente collegati fra loro, in modo tale che non si può pienamente apprezzare la portata dell’uno se non si considera anche l’altro, soprattutto allorché si debba esaminare una operazione complessa, attuata per mezzo di una pluralità di atti dei quali taluni senza alcuna valida ragione economica che però, al contrario, appare in tutta evidenza guardando al disegno complessivo oppure, viceversa, negozi che, singolarmente considerati, appaiono giustificati dal punto di vista economico, ma che in realtà non lo sono, se li si guarda nell’ottica del risultato in concreto ottenuto attraverso il collegamento di essi, come tipicamente accade nelle operazioni ‘circolari’, ove gli effetti di esse si annullano reciprocamente in quanto preordinate proprio al fine di evitare il rischio di eventuali perdite, avendo così come unico effetto, quello di far nascere un beneficio di natura fiscale, senza quindi comportare alcuna modifica della situazione economico-giuridica del contribuente. L’Amministrazione finanziaria ha inoltre dimostrato una carenza di fondo circa la valutazione del requisito in commento, riconducibile ad una scarsa sensibilità e conoscenza delle dinamiche produttive e finanziarie di una concreta gestione societaria e, più in generale, del mercato nel suo complesso, finendo per considerare non rilevanti talune motivazioni solo perché non rientranti in schemi aprioristici da essa stessa delineati in relazione alle varie operazioni assoggettate alla norma. Ad esempio, nella recente risposta ad una richiesta di parere preventivo, l’Agenzia delle Entrate ha giudicato elusiva una operazione di fusione per incorporazione tra due società in procinto di essere poste in liquidazione, di cui una ricca di perdite pregresse. Con la ris. n. 62 111 del 28/02/2002207, ha affermato che, per quanto riguarda l’elusività dell’operazione, questa andasse individuata nell’aggiramento di un supposto principio generale di divieto di compensazione ‘intersoggettiva’ delle perdite, mentre le disposizioni che regolano fusioni e scissioni (artt. 123 e 123-bis del Tuir) pongono dei limiti al riporto delle perdite allorché, secondo degli indici previsti dalla legge, si possa configurare nella fattispecie, quel ‘commercio delle bare fiscali’, a contrasto del quale tali disposizioni sono volte. Pertanto, al di fuori di tali casi, la compensazione intersoggettiva degli utili e delle perdite, appare conseguenza inevitabile, non vietata e dunque lecita. Nel caso esaminato inoltre, le società facevano parte dello stesso gruppo, nel cui ambito può dirsi tendenzialmente accettato un comportamento tendente all’ottimizzazione nel riporto delle perdite, infatti, l’art. 102 Tuir, Ibis, vieta il riporto delle perdite in caso di trasferimento di partecipazioni societarie (e di modifica dell’attività esercitata), a meno che ciò avvenga nell’ambito di un gruppo di società. Riduttiva infine l’affermazione dell’Agenzia secondo la quale una operazione di fusione “...rappresenta uno dei mezzi per giungere alla crescita delle dimensioni dell’impresa ed alle conseguenti economie di scala...” e “...nell’intento di aumentare la produttività o, in vista di un allargamento del mercato, di acquisire nuovi vantaggi concorrenziali, o semplicemente di acquisire particolari conoscenze tecnologiche o professionalità che appaiono necessarie in vista dei cambiamenti in atto”, e che pertanto nella fattispecie sarebbero state insussistenti vista la successiva dichiarata volontà di porre in liquidazione la società risultante dalla fusione, mancando l’obiettivo di aumentarne quindi la vitalità economica. Nella 207 Reperibile in “documentazione tributaria” sul sito http://www.finanze.it/. 112 fattispecie invece, si sarebbero ottenuti innegabili riduzioni nei costi della liquidazione stessa, in ciò dunque sussistendo la reale motivazione economica dell’operazione suddetta. Due considerazioni ritengo poi importanti, la prima è che l’indagine non deve essere condotta come se si trattasse di dare un giudizio soggettivo dell’operato dell’imprenditore, dovendosi fare riferimento a dei parametri oggettivi, ci si deve in sostanza chiedere se questi avrebbe comunque posto in essere la/le operazioni allorché non fossero stati presenti quei vantaggi tributari invece scaturenti, inoltre, il parametro di riferimento deve considerarsi quello dell’imprenditore medio, oggettivizzando così l’analisi. In tale direzione esplicitamente la relazione ministeriale, ove si legge tra l’altro che “l’espressione ‘valide ragioni economiche’, non sottintende ... una ‘validità giuridica’, che in questo contesto non avrebbe senso, ma un’apprezzabilità economico-gestionale. ... consistendo in un confronto oggettivo tra regimi fiscali, e non certo nella necessità di sindacare i comportamenti soggettivi dell’‘imprenditore medio’ o dell’ ‘uomo d’affari medio’. Per concludere, possiamo dare una risposta al quesito che è stato talvolta posto nelle discussioni, sulla necessità o meno che il “collegamento” debba sussistere tra atti i quali siano tutti menzionati nell’elenco del comma tre e privi tutti di valide ragioni economiche, rispondendosi che ciò non sarebbe richiesto, nel senso che l’assenza delle motivazioni economico-gestionali, debba essere rilevata riguardo l’operazione nel suo insieme, indipendentemente dalla loro sussistenza in alcune o anche tutte le parti (gli atti) di cui essa si compone. Si precisa infine, che i concetti da ultimo sommariamente esaminati, verranno ripresi in seguito essendo connessi, il primo 113 alla presunta possibilità che l’Amministrazione finanziaria possa, nell’ambito di un generale potere di riqualificazione contrattuale, interpretare unitariamente una pluralità di negozi, ed il secondo all’altrettanto eventuale possibilità che essa possa sindacare il merito e l’economicità di alcune scelte imprenditoriali. §8) Le reazioni dell’Amministrazione finanziaria alle pratiche elusive Premessa Dopo avere rapidamente passato in rassegna le principali tipologie di reazioni del legislatore di fronte all’erosione di gettito causate dall’elusione delle imposte, occorre esaminare il concreto uso che l’Amministrazione finanziaria ha fatto degli strumenti legislativi così apprestati, soprattutto quando la loro applicabilità alla fattispecie concreta è stata ‘forzata’, ovvero quale sia stato l’atteggiamento dell’organo amministrativo prima dell’intervento legislativo. 114 §9) Il contrasto all’elusione dell’Amministrazione finanziaria da parte prima della correzione delle imperfezioni normative. Premessa Nella parte del presente scritto dedicata all’individuazione dei fattori strutturali dell’ordinamento tributario che facilitano l’ottenimento di vantaggi tributari non previsti dal legislatore attraverso la strumentalizzazione delle regole e sfruttando la libertà negoziale, ho già avuto modo di rimarcare quanto l’avvilupparsi di regimi di tassazione differenziati, fattispecie escluse od esenti, abbia dato un contributo suo malgrado determinante all’esplosione dei fenomeni elusivi i quali si trovano costantemente in agguato, pronti ad individuare all’interno di un siffatto groviglio normativo, uno spiraglio ove intrufolarsi, una limitatissima area che la “coperta” delle fattispecie imponibili, positivamente individuate, inevitabilmente non riesce a coprire. Quando ciò avviene, l’accertamento delle imposte da parte dell’Amministrazione finanziaria diviene una sorta di laboratorio, ove talvolta vengono sperimentate le più ardite interpretazioni, il più delle volte rivelatesi in seguito velleitarie, ma che non le impediscono di arroccarsi nelle proprie convinzioni, talvolta corroborate da altrettanto fantasiose sentenze di alcuni giudizi di merito. 115 §10) L’articolo 37, III° comma del DPR 600/73, l’interposizione fittizia, uso (ed abuso) come strumento di contrasto del dividend washing. Prima che una norma esplicitamente ne impedisse l’uso a fini elusivi, era divenuta pratica comune che un soggetto, titolare di azioni solitamente quotate, le cedesse dopo la delibera di approvazione del dividendo ma prima dello stacco della cedola, per riacquistarli subito dopo l’incasso della stessa (con il relativo credito di imposta) ad opera della controparte. I prezzi concordati per le due cessioni venivano fissati ad arte, tenendo adeguatamente conto sia del dividendo che del relativo credito d’imposta il quale veniva in tal modo incassato immediatamente dal primo cedente, ancorché sotto forma di plusvalenza su titoli, avendo riacquistato gli stessi ad un prezzo inferiore. L’operazione non comportava alcun indebito vantaggio di tipo fiscale allorché vi era perfetta “simmetria fiscale” tra i due soggetti attivi dell’operazione, risolvendosi in vantaggi prettamente finanziari. Solitamente infatti, il primo cedente, era a credito nei confronti dell’Erario, per cui aveva maggior interesse a monetizzare, cedendolo, il credito d’imposta sui dividendi, mentre il primo acquirente, nell’opposta situazione fiscale, scomputava il credito d’imposta dal proprio debito Irpeg. L’operazione, da fisiologica diveniva patologica quando il primo cedente era soggetto a particolari regimi che lo escludevano dalla fruizione del beneficio del credito d’imposta, come tipicamente avveniva per i fondi comuni d’investimento mobiliare o le Sicav208. Questi infatti, cedendo il titolo per il solo tempo necessario 208 L. n. 77 del 1983. 116 all’incasso della cedola, monetizzavano il credito non spettantegli, appunto perché, con l’operazione sopra descritta, lo “trasformavano” in plusvalenza su titoli. È stato solo con l’intervento diretto del legislatore nel 1992 con l’introduzione del comma 1 lett. a) dell’art 7-bis del DL 372/92, convertito dalla l. 429/92, che si è concretamente posto quantomeno un freno a questo “commercio del credito d’imposta”, attraverso l’aggiunta del comma 6-bis all’art. 14 del Tuir, il quale dispone la non spettanza del credito in questione, quando è un Fondo comune od una Sicav che cede azioni o quote di partecipazione in società od enti soggetti all’Irpeg dopo la delibera di distribuzione degli utili e prima della loro effettiva distribuzione. Analoga operazione veniva altresì attuata mediante l’istituto dell’usufrutto su azioni, operazione di per sé lecita e ben conosciuta nel diritto commerciale, ma la cui natura elusiva appariva in tutta evidenza quando un soggetto non residente (e senza stabile organizzazione in Italia) cedeva il diritto di usufrutto su azioni di una società residente, ad altro soggetto residente. Anche in questo caso infatti, il credito d’imposta, non spettante al soggetto non residente, veniva incassato, attraverso l’usufruttuario, e retrocesso al nudo proprietario con la fissazione ad hoc del corrispettivo per la cessione del diritto d’usufrutto209. Come per la prima operazione descritta, il legislatore è direttamente intervenuto con l’introduzione, sempre nell’art. 14 del 209 Il corrispettivo pattuito era tendenzialmente corrispondente al valore attuale dei dividendi futuri, relativi alla durata dell’usufrutto. Tale simmetria, consentiva all’usufruttuario di iscrivere in bilancio gli utili via via incassati, neutralizzando tale appostazione positiva con la quota di ammortamento del costo sostenuto per il diritto stesso, ma lucrando dell’intero credito d’imposta sugli stessi che in tal modo costituiva il valore degli interessi per l’anticipazione dei dividendi al nudo proprietario che in sostanza non otteneva “a spese dell’Erario”, l’anticipazione di utili futuri. Varie clausole di salvaguardia erano infine poste per garantire la “fissità” dei valori concordati e per l’eventuale recesso. 117 Tuir, del comma 7-bis ad opera della stessa l. 429/92. Che si trattasse di risparmio d’imposta non voluto né previsto dal legislatore apparve immediatamente chiaro risalendo alla ratio della disposizione sul credito di imposta, il quale come noto, assolve la funzione di evitare la doppia imposizione, vietata dagli articoli 127 del Tuir e 67 del DPR 600/73 ed ancora prima dai principi costituzionali. Si era quindi in presenza di una chiara breccia nel sistema a fattispecie esclusive di cui al Tuir, che consentiva, attraverso una semplice operazione210, la trasformazione di un dividendo in plusvalenza, di pagare meno imposte211. Infatti in entrambi i casi sopra descritti, anche se per motivi differenti, non poteva verificarsi quella doppia imposizione che l’art. 14 del Tuir mirava ad evitare212. Quanto detto però, lungi dal sancirne l’illiceità, ne fa esclusivamente apparire l’elusività; e l’assenza di una norma antielusiva, generale o specifica che sia, comportava l’impossibilità di contrastare il descritto abuso, a meno di travalicare principi 210 Prova ne è il fatto che, operazioni cosiddette di “girocedole”, venivano eseguite, nelle società finanziarie e commissionarie di borsa, non dai consulenti finanziari quanto direttamente dai loro assistenti e ragionieri per prassi. 211 O, più precisamente, di ottenere un ‘rimborso d’imposta’, anche se “l’Erario rimborsava fior di miliardi pur non avendo alcun precedente debito da saldare”, così Fava in “Contratto in maschera. Elusione e interposizione”, in Il fisco 43/95, pag. 10375. 212 Nell’usufrutto Estero-Italia, infatti, il nudo proprietario non è soggetto passivo delle imposte sui redditi, trattandosi di soggetto estero senza stabile organizzazione in Italia, quindi non potrebbe godere del credito di imposta. Il fatto che questi riuscisse comunque a fruirne, ancorché in via indiretta monetizzandolo, con la cessione dell’usufrutto al soggetto residente prima dello stacco della cedola (per periodi solitamente compresi fra i tre e cinque anni, ma a volte anche a entro un anno e mantenendo il diritto di voto), rendeva assolutamente evidente la strumentalizzazione della regola del credito d’imposta. Così, nell’ipotesi dividend washing il Fondo comune o la Sicav, essendo assoggettati ad un regime particolare (addirittura di favore), non erano soggetti alle norme del Tuir e quindi neppure all’art. 14, ma con la cessione del titolo ad un prezzo comprensivo dell’utile già deliberato ma non incassato, per poi riacquistarlo ad un prezzo inferiore, nella sostanza riuscivano a godere di un risparmio non voluto né previsto dal legislatore. 118 giuridici altrettanto, se non maggiormente, importanti di quello del divieto di doppia imposizione, come puntualmente è accaduto quando tali operazioni sono entrate nel mirino del Secit. L’Amministrazione finanziaria, con delibera del Secit213, individuate le potenzialità elusive delle operazioni in argomento, nella consapevolezza che la legislazione vigente non recava alcuna disposizione che consentisse di contrastare in modo diretto il fenomeno, tentò di “forzare” l’applicazione di due istituti, quello dell’interposizione fittizia, di cui all’art. 37 III° comma del DPR 600/73, e quello della sostituzione dei redditi ex art. 6 II° comma del Tuir. Diramate istruzioni in tal senso214, nelle motivazioni degli avvisi di accertamento emessi dagli uffici, si contestava la illiceità del comportamento del contribuente, basandosi quasi sempre o sull’ipotesi di una negoziazione/usufrutto simulazione o comunque dei contratti sull’ipotesi di di una interposizione fittizia tra i soggetti che, a diverso titolo, risultavano interessati. Le varie ricostruzioni che venivano fatte, erano riconducibili alle seguenti: • si partiva dal ragionamento per cui il (primo) cessionario del titolo (nell’usufrutto l’usufruttuario) fungeva da interposto per incassare, per conto del (primo) cedente (il nudo proprietario nell’usufrutto), il credito di imposta che altrimenti al primo non sarebbe spettato perché non soggetto alla ordinaria disciplina Irpef/Irpeg (come un fondo comune o Sicav nel dividend washing o soggetto non residente 213 Vedasi la relazione del 06/10/1993. 214 Circolare 1692 del 13/10/1993, derivata dalla relazione Secit delibera 137 del 1993. 119 nell’usufrutto). Secondo questa ipotesi, il contratto fatto palese, sarebbe stato in realtà simulato e, più precisamente, si tratterebbe di simulazione (relativa) soggettiva, ritenendo quindi applicabile il III° comma dell’art. 37 del DPR 600/73; • altro tentativo esperito, verteva sull’ipotesi che il comportamento del contribuente integrasse quella fattispecie di sostituzione di un reddito ex art. 6 comma 2 Tuir; • infine si riteneva di poter ricorrere alla riqualificazione del negozio giuridico indiretto, valutando cioè in modo complessivo l’economia dei diversi negozi, nell’ottica del risultato ultimo conseguito/voluto, implicitamente attribuendosi un potere in tal senso arrivando, per tale via, a creare nuove e singolari figure negoziali, come ad esempio quella di “scambio di reddito a scopo di guadagno fiscale215”, definita come negozio atipico o indiretto. L’indirizzo amministrativo traeva al proprio interno la sua legittimazione, muovendo dall’interpretazione del Secit che attribuiva all’art. 37 III° c. DPR 600/73, la natura di norma generale antielusiva, in tal modo consentendone il ricorso anche nei casi di interposizione reale, spingendosi fino ad attribuire al fisco la possibilità di verificare la credibilità sotto l’aspetto economico, a prescindere dal profilo fiscale, per individuare il reale possessore del reddito. Le conseguenze non si fecero attendere, legittimando avvisi di accertamento dalle motivazioni più curiose, applicando detta disposizione anche alle erogazioni di compensi “abnormi” ai soci 215 Cfr. Comm. trib. prov. Milano, sez. XXXIV, 20/07/1999, n. 85. 120 amministratori, ritenendo costoro come soggetti interposti delle società. La giurisprudenza di merito, limitatamente alle prime decisioni sull’argomento, aderì allo schema ministeriale216, per mutare rapidamente di 180° il proprio convincimento confermato poi dalla giurisprudenza di legittimità, la dottrina fu invece maggiormente pronta a coglierne l’insussistenza di presupposti giuridici217. Può 216 Comm. Trib. Prov. Parma, 20/07/1998, n. 264; Comm. Trib. Prov. Roma, 16/10/1998, n. 187; Comm. Trib. Prov. Cuneo, 08/10/1997, n. 61; Comm. Trib. I° Milano, 30/03/1996, n. 190 e Comm. Trib. Reg. Milano, 08/05/1997, n. 72, (queste ultime sono sfociate nel giudizio (contrario all’A.F.) della Cassazione nella nota sentenza 3979 del 26/01/2000); Comm. Trib. I° Verona, 20/04/1993, n. 47; Comm. Trib. I° Napoli, 25/10/1993, n. 3230, annullata dalla successiva decisione dalla Comm. Trib. II° Napoli, 29/06/1994, n. 126; menzione a parte merita la sentenza della Comm. Trib. Reg. Torino, 22/09/1998, n. 167, la cui motivazione lascia a dir poco sconcertati, ove si legge che, “Il dividend washing è contratto esclusivamente motivato dal fine di elusione fiscale, ed è pertanto nullo per contrarietà della causa contrattuale ai principi del buon costume. La nullità del dividend washing, ai sensi dell’art. 1421 c.c., può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice tributario” per le critiche a quest’ultima vedi D. Stevanato: “Dividend washing, nullità del contratto per contrarietà al buon costume e ‘giustizialismo fiscale’, in Rass. Trib. 3/1999, pagg. 863 e ss.. Contrarie alle prime anche Comm. Trib. I° Ivrea, 28/06/1995 n. 159; Comm. Trib. I° Udine, 12/07/1995, n. 79; Comm. Reg. Piemonte, 06/05/1997, nn. 185 e 186; Comm. Prov. Torino, sez. XXXIV, 03/07/1997, n. 180; Comm. trib. prov. Roma, sent. n 9/48/00 dell’11/01/2000, e soprattutto Cass. sez. trib. 26/01/2000, n. 3979 ha sancito la liceità delle operazioni di dividend washing, attuate mediante cessione del titolo o dell’usufrutto prima dell’entrata in vigore delle modifiche di cui alla l. 429/92, chiarendo la portata dell’articolo 37, ritenuto applicabile alle sole ipotesi di interposizione fittizia, e cioè simulata, nel possesso del reddito; per cui non può trovare applicazione allorché si verifichi un effettivo trasferimento della fonte produttiva del reddito stesso, nello stesso senso, Comm. trib. Reg. Lombardia sez. LIII, sent. n. 101, 03/05/2001 e Cass. n. 3345 del 18/12/2001. 217 Tra le rare e poco condivisibili opinioni contrarie, Fava, “Sostituzione di redditi, interposizione soggettiva e patti d’imposta fra dividend washing e usufrutto su azioni” in Il fisco 33/93 pag. 8533 e Rai che, nel commento alla sentenza 159 del 28/06/1995 della Comm. I° Ivrea in Il fisco 33/95, pag. 8247, scrive: “Verosimilmente doveva essere accertato se il vero scopo dell’operazione era quello di cedere il credito d’imposta, altrimenti non utilizzabile, soprattutto con riferimento al prezzo da comparare al dividendo riscosso più il guadagno fiscale... allorquando la vendita dell’usufrutto avvenga tra un soggetto legittimato ed uno viceversa non legittimato all’utilizzazione del credito d’imposta, l’operazione potrebbe prospettare un negozio in frode alla legge fiscale...”. Verosimilmente la fattispecie esaminata andrebbe più correttamente inquadrata in un negozio in frode a diritti di terzi, in questo caso ai creditori (l’Erario). Dunque, non esistendo nell’ordinamento alcuna norma che sancisca la nullità del contratto in frode a terzi, i diritti di questi ultimi saranno tutelati dalla 121 così dirsi consolidato l’orientamento secondo il quale la norma contenuta nel decreto sull’accertamento delle imposte sui redditi non ha la funzione di quella norma antielusiva generale da taluni costantemente ricercata all’interno dell’ordinamento, anzi essa avrebbe la natura di norma anti-evasione218. Poco chiaro apparse immediatamente il procedimento attuato per l’imputazione del reddito ai presunti interponenti, che pareva fondarsi sulla riqualificazione di negozi ritenuti oggettivamente simulati, ma convertiti in rapporti tra soggetti diversi dagli originari contraenti. Tra le argomentazioni maggiormente ricorrenti, nelle critiche all’interpretazione ministeriale, vale la pena di evidenziare quella per cui la stessa lettura dell’art. 37 III° c. impone di limitarne la portata alla sola ipotesi dell’interposizione fittizia, rimanendo totalmente estranea, dalla fattispecie normativa, l’interposizione reale219. possibilità di far dichiarare l’inefficacia del negozio a loro danno mediante le azioni revocatorie o pauliane. Cfr Cass. 6239/83; Cass. 3905/81; Cass. 240/77. 218 “L’articolo 37 è una norma antielusione forse sul piano degli obiettivi, ma non è certo una norma antielusione in senso tecnico. Non è cioè una di quelle norme che consentono di disapplicare la normativa esistente a seconda che esistano o meno dei ‘vantaggi fiscali’. L’art. 37 ultimo comma del DPR 600/73 è una disposizione come tutte le altre: o si applica sempre a tutte le fattispecie di trasferimento del dividendo, oppure non si applica mai a tali operazioni”. Così Lupi in “L’elusione come strumentalizzazione ...”, op. cit. pag. 229, ove concorda sull’elusività delle operazioni di usufrutto “estero-Italia” e dividend washing ma ne contrasta la illiceità con la circostanza, decisiva a mio avviso, che nell’usufrutto ad esempio è proprio l’usufruttuario il titolare effettivo dei dividendi ed il nudo proprietario ha realmente incassato un prezzo per la cessione del diritto, non ravvisandosi cioè nulla di simulato. 219 Cfr. Gallo “Prime riflessioni...” op. cit. pag 1769; Magnani “Interposizione fittizia ed imputazione del reddito” in Le nuove leggi civ. comm., 1990, pag. 1247. Lovisolo “Possesso di reddito ed interposizione di persona” in Dir. e prat. trib. 1993, I, pag. 1665. sulla tradizionale distinzione tra le due figure nel diritto civile, Scardulla,”Interposizione di persona”, in Enc. del diritto, XXII, Milano 1972, pag. 143; Gatti, “Interposizione reale e interposizione fittizia (una distinzione ancora valida), in Rivista di dir. comm., 1974, I, pag. 217; e anche Cass., 6/12/1984, n. 6243, in Giust. Civile, 1985, I, pag. 719. 122 La prima figura riguarda infatti, per dottrina consolidata, il caso in cui l’interposto agisce come effettivo contraente, mentre in quella reale è l’interponente che contratta, l’interposto fingendo di volere in proprio. Accettata una tale distinzione si è unanimemente individuata, tra le caratteristiche esteriori dell’interposizione fittizia, la trilateralità dei soggetti intervenuti nell’accordo simulato, mentre in quella reale è assolutamente irrilevante la conoscenza del terzo del rapporto tra interponente ed interposto, non ravvisandosi una ipotesi di vera e propria simulazione. Nella prima figura infatti il terzo ha l’indispensabile compito di garantire la segretezza dell’interponente e legittimare formalmente l’interposto, mentre nella seconda una sua partecipazione attiva non è necessaria né richiesta, basta l’accordo fra interposto ed interponente, in quanto le parti del contratto continuano ad essere quelle tra le quali si è formato il consenso. In altre parole, si esplica una ipotesi di interposizione fittizia allorquando il contratto stipulato tra terzo ed interposto, produca i propri effetti direttamente nella sfera giuridica dell’interponente, che però non partecipa al negozio dissimulante, se non per interposta persona. L’attenta dottrina non si è fatta poi sfuggire la circostanza, decisiva, che una corretta interpretazione dell’art. 37, doveva necessariamente partire dall’altrettanto corretto significato da riconoscere alla nozione di “possesso del reddito”, nel senso di effettiva titolarità della fonte produttiva riconosciuta dalla legge civile, contro le attribuzioni in via di fatto o convenzionali ovvero della mera disponibilità materiale, garantendo l’intangibilità 123 dell’autonomia negoziale e la libera creatività delle forme rispetto alla qualificazione materiale e di fatto220. Il Secit, nel tentativo di legittimare l’applicazione della disposizione da ultimo citata anche all’interposizione reale, avendo egli stesso riconosciuto la piena validità civilistica dell’operazione, si era spinto oltre, interpretando come combinato disposto, gli articoli 37 III° c. DPR 600/73 e 6 II° c. Tuir (il quale postula la conservazione della categoria per i redditi percepiti in sostituzione di altri, già classificati in una determinata categoria nei confronti del percipiente) in guisa da rendere applicabile all’acquirente del titolo “gravido” del dividendo, titolare (apparente) del reddito, lo stesso regime che sarebbe stato applicato al cedente, titolare effettivo. A parte l’incontestabile impossibilità di una tale interpretazione, a meno di ignorare i legittimi mezzi ermeneutici a disposizione dell’interprete, ci si è chiesto quale potesse essere il collegamento tra due norme che tra loro non condividono neppure la natura, essendo l’una procedimentale (non a caso inserita nel decreto sull’accertamento delle imposte sui redditi) e l’altra sostanziale. Anche il ricorso alternativo ad una delle due disposizioni al di fuori della precedente interpretazione “combinata”, appare agevolmente criticabile, non fosse altro per l’evidente circostanza che fondi comuni e Sicav trovavano la loro specifica disciplina tributaria al di fuori delle norme del Testo unico DPR 917/86. Non essendo titolari di reddito d’impresa, non poteva loro applicarsi né l’art. 6 Tuir, né l’art. 37 DPR 600/73 in quanto applicabili ai soli soggetti passivi Irpeg/Irpef. La più recente giurisprudenza di 220 In tal senso Gallo in “Prime riflessioni...”, op. cit. pag. 1762. 124 legittimità221, ha palesato un orientamento consolidato avverso alla posizione espressa dall’organo dell’amministrazione statale, la quale, preso atto dell’elevata probabilità di soccombenza delle cause ancora pendenti incentrate sulla sua interpretazione, è di recente corsa ai ripari impartendo, con la circolare n. 87 del 30/12/2002222, le istruzioni per la gestione di tali cause. È comunque significativo che, l’Agenzia delle Entrate, non abbia cambiato la propria convinzione laddove infatti si legge che, “Le motivazioni poste a base dell’orientamento della Suprema Corte non appaiono integralmente condivisibili. Tuttavia, considerato che l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità di cui si tratta si deve ormai considerare consolidato, è opportuno abbandonare le liti nelle quali si controverta solo in via di principio della illiceità tributaria del dividend washing sulla base delle tesi respinte con le due sentenze in esame (3979/2000 e 3345/2001), che si sono occupate della posizione dei soggetti acquirenti dal fondo. Pertanto, l’opportunità di abbandonare o di continuare il giudizio va valutata caso per caso.” La circolare dunque, parte dalle considerazioni fatte dai giudici di legittimità nelle due sentenze da ultimo citate, per esortare gli uffici ad abbandonare solo le controversie nelle quali la tesi dell’accertamento si basa o sull’applicazione dell’art. 37 III° c. ad ipotesi nelle quali non è stata però sufficientemente dimostrata la 221 222 Per tutte, Cass. sent. n. 3979 del 26/01/2000 e n. 3345 del 18/12/2001. Consultabile nella banca dati “Documentazione http://www.finanze.it/ . 125 tributaria”, sul sito fittizietà delle operazioni223, oppure sulla disposizione contenuta nell’art. 6 II°c. Tuir in riferimento a società di capitali224. Isolate e rare infine, appaiono le opinioni in dottrina che in qualche modo aderivano alla precedente tesi ministeriale, ravvisando nell’usufrutto azionario Estero-Italia come sopra congegnato, la “mancanza di tutti gli elementi che dovrebbero caratterizzare un “vero” usufrutto azionario.”225 La contestazione più ricorrente in tal senso, verteva sulla clausola pattizia di riservare il diritto di voto al nudo proprietario anziché all’usufruttuario, tenendo conto del dettato degli artt. 981 e 984 del Codice Civile. Per tale via si pretendeva di considerare fittizio il contratto posto in essere, considerato quale “schermo per mascherare il vero patto: negoziare una parte del patrimonio dell’Erario, sotto forma di credito d’imposta, allo scopo di pagare gli interessi alla società ‘apparente’ usufruttuaria per il capitale da questa anticipato alla società ‘apparente’ concedente l’usufrutto, e, all’un tempo, di consentire a quest’ultima di non pagare alcun interesse su tale capitale”226, in quanto pagato dall’Erario stesso. Si faceva altresì leva sull’inesistenza del possesso 223 La sent. 3979/2000 aveva infatti esplicitamente asserito l’inapplicabilità del 37 III°c., considerato che “tale norma, stabilendo l’imputabilità al possessore effettivo del reddito di cui appaia titolare altro soggetto in base ad interposizione di persona, inequivocamente si occupa del caso dell’interposizione di fittizia in senso proprio, caratterizzata dalla divaricazione fra situazione esteriore e situazione sostanziale, rispettivamente riferibili all’interposto e all’interponente, non anche al caso dell’interposizione cosiddetta reale, quale quella accertata dalla sentenza impugnata, ove la forma e la sostanza coincidono.”. 224 La sent. 3345/2001 ha ribadito la posizione già espressa anche nella 3979/2000, aggiungendovi l’inapplicabilità dell’art. 6, comma 2 Tuir, in quanto “... tale norma è inoperante quando il soggetto che sostituisce un reddito con un altro è una società di capitali, poiché la commercialità della forma societaria comporta che tutti i ricavi ed i proventi siano indistintamente considerati quali componenti del reddito d’impresa.” 225 Così Fava in “Contratto in maschera....”, op. cit. pag. 10374. 226 Fava, op. cit. pag. 10375. 126 materiale dei titoli oggetto del contratto, adducendo che ciò avrebbe impedito la circolazione del diritto di usufrutto, ritenendo (erroneamente), detto possesso, condizione inderogabile dell’usufrutto azionario. Una tale ricostruzione, che finiva sostanzialmente per legittimare la ‘qualificazione’ del contratto come cessione di credito227, in conformità allo schema proposto dal Secit, trascurava che la disciplina del diritto di usufrutto non si esaurisce negli artt. da 978 a 1020 del Codice Civile, i quali costituiscono solo la disciplina base dello stesso, ma occorre altresì considerare la sua caratterizzazione in funzione della destinazione economica del bene oggetto del diritto e della specifica disciplina di quest’ultimo, che ha la funzione di completare, adattandola alla funzione del caso in concreto, tale disciplina generale. D’altro canto non lasciano dubbi la semplice lettura degli articoli 2352 cod. civ. e 1 del R.D. 29/03/1942, n. 239228. La prima disposizione citata, al I° comma infatti, riferendosi all’attribuzione “naturale” del diritto di voto all’usufruttuario, con l’inciso “salvo convenzione contraria...”, conferisce legittimità 227 “... l’attribuzione all’usufruttuario del diritto di voto, in quanto principale espressione del diritto ad amministrare la quota concessa in usufrutto, è più rispondente ai principi dell’istituto di quanto non sarebbe la soluzione opposta, la quale rischierebbe, invece, di privare l’usufrutto dei suoi essenziali caratteri di realità, finendo per far degradare la posizione dell’usufruttuario a quella di titolare di un mero diritto di credito.”Cass. sez. I civ., 12/04/1996, n. 7614. Tale sentenza è stata da qualche autore citata a suffragio di questa tesi, omettendo però sia che l’esame della Corte riguardava quote di Srl, sia il richiamo da essa fatto all’art. 2025 c.c. “Chi ha l’usufrutto del credito menzionato in un titolo nominativo ha diritto di ottenere un titolo separato da quello del proprietario.” Non essendoci un tale diritto incorporato in un titolo azionario, tale non potendosi qualificare le somme dal socio versate a titolo di sottoscrizione del capitale sociale, né a maggior ragione possono ritenersi crediti i dividendi futuri, che potrebbero inoltre non venire ad esistere. 228 Norme interpretative, integrative e complementari del R.D.L. 25/10/1941, n. 1148, conv. in l. 9 febbraio 1942, n. 96, riguardante la nominatività obbligatoria dei titoli azionari 127 anche all’usufrutto su azioni prive del diritto di voto; il III° comma della seconda disposizione, esplicita che, “Chi ha l’usufrutto ha diritto di ottenere dalla società emittente, un titolo separato da quello del nudo proprietario.” È stata tentata anche la via della simulazione per dichiarare la nullità del contratto, ma con scarsa fortuna. È stato già detto come nei contratti in questione non si possa parlare di “apparenza”, essendo gli effetti palesi di essi esattamente quelli voluti dalle parti, e non essendoci neppure indizio della presenza di un accordo segreto, tant’è che le parti neppure tentano di occultare in qualsivoglia modo il favorevole risvolto fiscale, risultando l’effetto naturale delle pattuizioni, rafforzando, se ce ne fosse ancora bisogno, la convinzione della realità degli accordi così come palesemente manifestati. Altrettanto pretestuoso è apparso il collegamento tentato tra la simulazione (relativa) e l’interposizione (reale), che aveva il non troppo occulto scopo di attribuire agli organi deputati all’accertamento delle imposte, il potere di far valere tale simulazione evitando il passaggio obbligato della rimozione degli effetti civili di atti o negozi per la corretta imputazione del reddito. In una direzione analoga, ma con argomentazioni meritevoli di attenzione, la tesi secondo cui l’Amministrazione finanziaria ed il giudice tributario possono accertare, ai soli fini della corretta applicazione della normativa tributaria, la simulazione relativa di un negozio posto in essere a fini elusivi229. Questo potere di qualificare il negozio, discenderebbe non già da norme presenti nell’ordinamento tributario quali ad esempio l’art. 20 dell’attuale 229 Così Falsitta nel commento della sentenza Comm. Trib. I° Udine, sez. I, 12/07/1995 in Dir. e prat. trib. 1996, II, pag 63. 128 legge di registro (ed i suoi precedenti), o l’art. 37 DPR 600/73, bensì dalla disposizione civilistica (art. 1417 c.c.) che consente a qualunque “terzo” rispetto al rapporto contrattuale, l’azione di accertamento della simulazione (assoluta o relativa che sia). Resta ancora però da dimostrare che l’Amministrazione finanziaria possa far prevalere il supposto “vero” accordo in sede di giurisdizione civile ovvero direttamente in sede di accertamento e di contenzioso tributario230. Che l’amministrazione fiscale avesse un potere di “riqualificare” il contratto di usufrutto su titoli azionari fu esplicitamente affermato nel corso di un giudizio penale di rilevante interesse a livello nazionale. Il tribunale di Pordenone231 infatti, nel processo “De Benedetti”, se da un lato prosciolse232 tutti gli imputati dal delitto di “frode fiscale ex art. 4, lett. f) della legge 516/82233”, dall’altro ha disposto la trasmissione degli atti al Ministero delle Finanze per una ulteriore valutazione dell’operazione, potendo essere quest’ultima riqualificata come mera operazione di mutuo concesso da società italiana a società estera, garantiti da cessioni di 230 In questa direzione il Gallo “Prime riflessioni... “, op. cit. pag. 1767, per il quale l’art. 37 costituirebbe la riaffermazione del potere dell’A.F. di dimostrare, anche in base a presunzioni, l’esistenza di una simulazione relativa soggettiva. E l’atto strumentale a ciò sarebbe la motivazione dell’avviso di accertamento. 231 Sent. del 12/07/1997, n. 125. 232 Con formula piena, “perché il fatto non costituisce reato”, ovvero “per non aver commesso il fatto”. 233 Per avere indicato, nella dichiarazione dei redditi e nel bilancio allegato di Olivetti il componente positivo di reddito ‘dividendo Zanussi’ e del componente negativo ‘costo di ammortamento’, difformi al reale in quanto pertinenti all’effettivo titolare “Chase” e non al dichiarante ‘persona interposta’, tramite il comportamento fraudolento idoneo ad ostacolare l’accertamento dei fatti materiali consistente nell’occultamento della reale operazione di anticipazione finanziaria sui futuri dividendi attuato con un procedimento negoziale avente contenuti obbligatori fra le parti non opponibili in sede tributaria ex art. 37 DPR 600/73 e precostituito alla indebita detrazione del credito d’imposta da parte diversa dell’effettivo proprietario. 129 credito, aventi ad oggetto dividendi azionari realizzate da società nazionali controllate dalle società estere mutuatarie ed in quanto tali non assoggettabili alla disciplina recata dall’articolo 14 Tuir, in materia di credito d’imposta. Nella motivazione della sentenza viene effettuata una approfondita indagine di tipo tributario, che, per gli aspetti che qui propriamente possono dirsi conferenti, porta i giudici ad affermare: 1. l’assenza di qualunque ipotesi simulatoria, e/o di interposizione, con argomentazioni sostanzialmente coincidenti con quelle riportate supra; 2. riguardo alla prospettiva che afferma la nullità del contratto ex art. 1344 cod. civ. per frode alla legge in quanto volto ad eludere l’applicazione di norme imperative fiscali, “può solo rilevarsi che per pacifica e consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, la frode fiscale costituisce un illecito che trova sanzione solo nel sistema tributario e non importa la nullità del negozio mediante il quale viene commessa234”; ma l’affermazione di maggior rilievo ai fini del presente studio è che: 3. “Lo strumento per intervenire nel caso in esame è .... la riqualificazione contrattuale235: e proprio questo 234 Cass. sez. I, 20/08/1987, n. 6970; 27/10/1984, n. 5515; 24/10/1981, n. 5571; 28/06/1976, n. 2464; 18/06/1975, n. 1459. Recependo il consolidato orientamento giurisprudenziale (e dottrinale) il legislatore ha espressamente disposto che “Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto”, art. 10, comma 3, l. 27/07/2000. n. 212, Statuto dei diritti del contribuente. 235 Il profilo della (ri)qualificazione giuridica del negozio, è inoltre, sempre secondo quanto affermato nella sentenza, da distinguersi dalla interpretazione del contratto, la quale avrebbe come obiettivo la ricostruzione del contenuto negoziale con il metro della volontà delle parti e degli altri criteri di cui agli artt. 1362 e seguenti del cod. civ., mentre la qualificazione sarebbe logicamente operazione successiva a questa, avente lo 130 ultimo strumento consente, .... , di configurare direttamente il cedente quale effettivo titolare del reddito dividendo, senza necessità di superare strutture interpositive con strumenti normativi esterni al contratto stesso. E ancora: “Una volta determinato il contenuto concreto del rapporto negoziale alla stregua della comune volontà delle parti, la qualificazione giuridica di esso – cioè l’inquadramento della fattispecie concreta nello schema legale corrispondente, indipendentemente dal nomen juris o dalla forma apparente utilizzata dai contraenti – è attività che, sostanziandosi nell’applicazione di norme di diritto, è sottratta all’autonomia esclusiva delle parti e può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse (parte, terzo ed anche amministrazione finanziaria). La “fonte d’innesco” di tale approccio, sarebbe costituita da una ricostruzione (alquanto sostanzialistica) dell’operazione, il cui perno centrale sarebbe costituito dalla asserita carenza di quegli elementi ritenuti da una parte imprescindibili, dall’altro carenti nello specifico caso dell’usufrutto azionario del tipo di quello emerso nel corso delle indagini preliminari e del dibattimento, per potersi configurare un “vero” usufrutto236. scopo di verificare se il contenuto negoziale così ricostruito, sia compatibile con il regime giuridico invocato dalle parti ovvero se corrisponda ad un diverso modello legale. 236 Nel caso in esame si tratta quindi di stabilire, attraverso la riqualificazione contrattuale, se l’operazione fosse un vero usufrutto oppure se le pattuizioni contrattuali avessero talmente snaturato il rapporto da farlo ritenere un mutuo garantito dalla cessione del credito ai dividendi. 131 Come detto in precedenza, anche qui veniva contestata la carenza del possesso materiale del titolo da parte dell’usufruttuario e la riserva del diritto di voto in capo al nudo proprietario, ancorché siano riservati al primo alcuni limitati diritti di voto237 (i quali, sempre secondo la presente opinione, sarebbero essi stessi strumentali alla realizzazione dell’operazione, consentendo una sorta di potere di controllo dell’usufruttuario sulla effettiva distribuzione dei dividendi nella misura concordata, eventualmente deliberando la distribuzione di riserve di utili in caso di insufficienza degli utili di periodo, essendo i dividendi e non gli utili la controprestazione pattuita). Ma oltre a ciò, si contestava la circostanza che, la predeterminazione della remunerazione in capo all’usufruttuario faceva perdere quell’alea che secondo i giudici veneti costituisce una caratteristica assolutamente inderogabile e discriminante appunto la figura dell’usufrutto azionario da quella del mutuo assistito da garanzia formata da cessione di credito, cosicché il cessionario non percepirebbe utili, ma somme corrispondenti agli utili, da qui la carenza del diritto al credito d’imposta. Più di recente, l’attenzione dell’Agenzia delle Entrate, è rivolta verso il presunto utilizzo elusivo da parte di professionisti, di società di servizi. Si è infatti constatata la tendenza a costituire società di servizi (il cui unico socio era lo stesso professionista), per la gestione di alcune tipologie di prestazioni accessorie, non coperte da divieto di esercizio in forma societaria. 237 Solitamente per l’approvazione del bilancio e per la distribuzione dei dividendi. 132 Le potenzialità elusive sono evidenti nella sottrazione per tale via, dei redditi, spesso ingenti, alla progressività dell’IRPEF, benché comunque personalmente conseguiti. A prescindere dall’elusività o meno dell’operazione, questa per poter essere censurata, deve comunque potersi assoggettare ad una qualche disposizione che consenta il superamento della barriera formale costituita dal soggetto societario. Di recente l’Agenzia delle Entrate, si è trovata, in sede di risposta ad una istanza di interpello ex atr. 21, comma IX della legge 413/91, a sostenere l’applicabilità della disposizione sull’interposizione ad una fattispecie del tipo come sopra descritto, ritenendo la società quale soggetto interposto per mezzo del quale il professionista conseguiva gli stessi redditi, pagando meno imposte. La cautela della risposta, manifestata con la Ris. 305 del 27/09/2002238, rispecchia la delicatezza della questione, che involve il principio costituzionale secondo il quale ciascuno deve essere messo nelle condizioni di poter svolgere la propria attività economica secondo le modalità organizzative e giuridiche che ritiene maggiormente confacenti allo scopo perseguito. L’Agenzia ha tentato di evitare di generalizzare eccessivamente la risposta, consapevole probabilmente della circostanza che, in tale ipotesi, la conseguenza sarebbe stata l’implicita declaratoria di illiceità di ogni società unipersonale, benché prevista dall’ordinamento. Allo scopo, ha affermato la necessità che la società così costituita, fosse dotata di talune caratteristiche che palesassero la sua reale funzione economico-gestionale, in modo da evitare che l’unica Reperibile in “documentazione tributaria” sul sito http://www.finanze.it/. Commentata in Corr. Trib. n. 41/2002, pagg. 3743 e ss.. 238 133 giustificazione plausibile venisse rinvenuta sostanzialmente in quella di sottrarsi ad un regime impositivo più gravoso. Nel caso sottoposto al vaglio dell’Agenzia, il professionista non aveva adeguatamente posto in evidenza eventuali motivazioni extrafiscali, consentendo all’organo amministrativo di pronunciarsi in senso negativo, ritenendo che la società così costituita non esistesse se non sulla carta, non essendo state definite con chiarezza sotto il profilo organizzativo ed operativo-contabile le due sfere di attività. Occorre adeguatamente rilevare che la tesi amministrativa si fonda essenzialmente sulla asserita carenza di valide ragioni economiche ultronee rispetto ai vantaggi fiscali, dalla stessa istante posti a motivazione del proprio intendimento, benché l’operatività dell’art. 37 non sia subordinata ad essa, bensì all’esistenza, anche sulla base di presunzioni qualificate, che facciano ritenere sussistente una fattispecie di interposizione fittizia. Per ‘salvare’ la pronuncia dell’Agenzia, non resta allora che ritenere che la stessa abbia considerato la insussistenza di valide ragioni economiche quale presunzione talmente grave, precisa e concordante da consentirle la declaratoria di illegittimità della fattispecie come rappresentata nell’istanza. Attenta dottrina239 non si è lasciata sfuggire l’occasione per sollevare legittimi dubbi su un tale utilizzo della disposizione in commento nei confronti di un soggetto societario, rilevando che la scelta di operare attraverso una società configura necessariamente una ipotesi interpositoria prevista e, come tale, tutelata dall’ordinamento. Per gli stessi motivi non convince l’assunto in 239 Cfr. V. Ficari, “Ragioni economiche di una società professionale e rischio di interposizione fittizia nell’imposizione sul reddito”, in Boll. Trib. 21/2002, pagg. 1525 e ss.. 134 base al quale i redditi restano nella disponibilità del professionista, in quanto la titolarità giuridica di essi, in assenza di un accordo simulatorio nella fattispecie non rilevato, è indiscutibilmente di spettanza assoluta della società, la quale, dopo aver adempiuto alle disposizioni fiscali in materia di determinazione del reddito d’impresa cui è sottoposta, provvederà alla distribuzione degli utili, circostanza questa che ribadisce l’assenza assoluta di alcuna ipotesi simulatoria, nella quale il soggetto interposto ritrasferisce in modo occulto i redditi dei quali, ai soli fini fiscali, egli era titolare. Si concorda pertanto con le conclusioni cui è giunta la citata dottrina240 la quale ha individuato nella insufficienza delle argomentazioni, di cui all’istanza presentata, relativamente a semplici motivazioni plausibili, come un miglior assetto organizzativo, la possibilità di associare al professionista soggetti terzi ecc., che avrebbero indubbiamente inibito l’Agenzia dal formulare parere negativo. Conclusioni Le vicende del dividend washing nelle sue diverse manifestazioni, ha ancora una volta posto all’attenzione dei commentatori, i problemi in termini di perdita di gettito241, derivanti da una legislazione che ha il presuntuoso obiettivo di prevedere ogni fattispecie che evidenzi quella “ricchezza novella” da assoggettare a prelievo in ragione del principio di capacità contributiva. 240 Cfr. Gavelli, “L’interposizione fittizia realizzata attraverso l’utilizzo della società di servizi”, in Corr. Trib. 41/2002, pagg. 3743 e ss.. 241 Una stima (prudenziale) riferita alla sola fattispecie appena citata, l’ha quantificata tra i 500 e i 1000 miliardi di vecchie lire, basti pensare che nel solo caso “Olivetti”, si discuteva di una presunta evasione di circa 38 miliardi di lire. 135 È inoltre ormai definitivamente tramontata la tesi dell’esistenza nell’ordinamento tributario italiano di una clausola generale applicabile di fronte a comportamenti elusivi, prevalenza della sostanza sulla forma, simulazione, frode alla legge ecc.. È lo stesso atteggiamento del legislatore a deporre implicitamente a sfavore di tali orientamenti, quando introduce disposizioni analitiche specificamente antielusive, presunzioni legali e non, norme antielusive “settoriali” ma mai generali, ovvero quando corregge direttamente le disposizioni che venivano aggirate242. Ciò sarebbe infatti superfluo, in contraddizione persino con un ordinamento nel quale vigesse una disposizione del genere. Il comportamento della Guardia di Finanza, del Secit e degli uffici periferici, è (parzialmente) giustificato dalla consapevolezza, di trovarsi sostanzialmente disarmati di fronte ad un fenomeno indiscutibilmente e palesemente fonte di iniquità sociali (consentendo a pochi grandi soggetti, di sottrarsi al pagamento della “giusta imposta”, attraverso sofisticati cavilli giuridici che non alterano però la sostanza dei fatti). È pur vero che l’incremento del contenzioso tributario derivatone ha ulteriormente aumentato il danno per l’Erario, ma nel contempo ha da un lato stimolato l’azione del legislatore verso la correzione delle imperfezioni normative e/o l’introduzione di specifiche misure di contrasto, dall’altro ha talvolta disincentivato, nelle more dell’intervento legislativo, l’uso di tali espedienti, non fosse altro per i costi e l’alea che comunque la via del contenzioso comporta. 242 Come appunto è avvenuto per l’art. 14 del Tuir, completato con l’introduzione dei commi 6-bis e 7-bis. 136 §11) segue, il Transfer pricing. L’operato dell’Amministrazione finanziaria di fronte a fattispecie di Transfer pricing cosiddetto ‘interno’. Premessa Il sistema più sopra sommariamente descritto243, di ottimizzare il carico fiscale complessivo del gruppo di società, attraverso manovre sui prezzi di trasferimento infragruppo, non esaurisce le proprie potenzialità elusive nel solo ambito del gruppo multinazionale, e di ciò gli organi deputati all’accertamento delle imposte erano consapevoli. D’altra parte, per quanto riguarda i destinatari della norma in commento, la lettera della stessa pare non lasciare dubbio alcuno circa la sua applicabilità alle (sole) operazioni intercorse tra imprese residenti e società estere244 facenti parte del gruppo (o più precisamente controllate, controllanti ovvero soggette a controllo da parte del medesimo soggetto), facendo esplicito riferimento alle “…operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato...”. 243 Precedente paragrafo 6. 244 È stato solo con la circolare N. 53 del ’99, che l’A.F. ha “cambiato rotta”. 137 §11.1) Gli strumenti di contrasto utilizzati dall’Amministrazione finanziaria. Nonostante la chiarezza della norma su quali fossero i destinatari del particolare regime di (ri)determinazione dei prezzi di trasferimento, l’Amministrazione finanziaria ha per lungo tempo preteso di applicare la normativa sul transfer price anche alle operazioni infragruppo tra imprese residenti. La tesi amministrativa, espressa nella circolare 32 del 22/09/1980, ammetteva esplicitamente la possibilità per gli uffici, di far riferimento al valore normale anche in ipotesi diverse da quelle contemplate dalla norma sul transfer pricing245, precisando che, in tali ipotesi, la presunzione dell’ufficio non avrebbe potuto assumere valore di presunzione assoluta246, bensì relativa247. Nelle motivazioni degli avvisi di accertamento emessi in conformità all’orientamento ministeriale, il criterio del ‘valore normale’, da norma derogatoria della determinazione 245 Ammettendo infatti “...che gli uffici possano far ricorso, in sede di accertamento, al criterio del ‘valore normale’ anche in ipotesi diverse da quelle del successivo art. 75 (ora art. 76 Tuir).” 246 L’Amministrazione finanziaria ha più volte sostenuto che la disposizione contenuta nel V° c. dell’art. 76 Tuir sarebbe assistita proprio da una presunzione assoluta che, ogni qualvolta esista un collegamento tra le due società e possa stabilirsi un valore normale superiore a quello fatturato, imporrebbe la rettifica di quest’ultimo, a nulla rilevando effettivi o conclamati minori prezzi di vendita praticati, rispetto ai valori normali dei prodotti ceduti, in questo senso si esprimeva soprattutto la Ris. Min. 01/03/1982, n. 9/198. 247 Da questa ultima affermazione contenuta nella circolare, Lupi desume l’equivoco di fondo nel quale parrebbe caduta l’Amministrazione finanziaria, cioè l’aver confuso il rapporto fra il transfer pricing e le presunzioni, essendo l’art. 76 norma sostanziale in quanto modifica i criteri di calcolo dell’imponibile (dal corrispettivo pattuito al valore normale), e non norma sulla prova di una diversità fra corrispettivo dichiarato e corrispettivo conseguito. In questo senso Lupi, “Manuale professionale di diritto tributario”, op. cit., pagg. 409 e 410. 138 dell’imponibile sulla base dei corrispettivi pattuiti, è stato disinvoltamente elevato al rango di principio generale. La giurisprudenza si è mostrata immediatamente critica, con argomentazioni inopinabili, ad esempio, la Commissione tributaria di Milano, nella sentenza 18/03/1998, n. 577, dopo aver escluso la possibilità di estendere l’applicazione dell’art. 76, V° c. Tuir, al transfer pricing interno, afferma che “Pur se in via di principio non si può negare all’Amministrazione finanziaria, in sede di accertamento di raffrontare i prezzi convenuti tra le parti con quelli praticati dal mercato, il ricorso al criterio del valore normale risulta possibile soltanto se, in presenza di presunzioni gravi, precise e concordanti, l’amministrazione stessa sia in possesso di elementi comprovanti che i corrispettivi dichiarati siano inferiori a quelli effettivamente conseguiti;...”. I giudici di merito avevano così correttamente evidenziato, che il ricorso al valore normale costituisce deroga all’ordinaria rilevanza dei corrispettivi pattuiti, ed è legittimo, al di là dei casi tassativamente e positivamente individuati dalla legge248, nei soli casi di assenza di un corrispettivo249, sia che ciò derivi da assenza originaria250, sia che invece consegua all’accertamento della falsità del corrispettivo indicato rispetto a quello reale. Ebbene, non solo 248 Ad esempio artt. 9, II°c., 55, V° c., 48, III°c., 53, I°c, lett. e, e II°c, e 76 Tuir, art. 13, II°c, lett. c, DPR 633/72. 249 Cfr. Leo-Monacchi-Schiavo, “Le imposte sui redditi nel Testo Unico”, Milano, 1999, a pag. 793, confermano che la stessa Direzione Generale delle imposte dirette, con la risoluzione 10/03/1982, n. 9, ha espressamente limitato il riferimento al criterio del valore normale all’attività di accertamento, in tal senso valendo come presunzione relativa. Sempre all’attività di accertamento deve essere ricondotta la tesi che sancisce l’indeducibilità dei costi economicamente non giustificati per difetto del requisito dell’inerenza di cui all’art. 75 del DPR 917/86, infatti ,anche in tal caso, l’antieconomicità ha valore presuntivo in merito alla mancata inerenza dei costi. 250 Es. cessioni gratuite, assegnazioni a soci o autoconsumo. 139 questa ipotesi simulatoria sarebbe tutta da provare, ma al tempo stesso sarebbe incompatibile con la natura stessa dell’appartenenza al medesimo gruppo nazionale, che esclude l’ipotesi dell’occultamento o della simulazione del corrispettivo. Che nella fattispecie non potesse rilevarsi una simile situazione, era confermato dallo stesso operato dei verificatori, i quali infatti non procedettero ad alcuna contestazione di sottofatturazione, la quale avrebbe quindi avuto riflessi anche ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, per la quale non è stato invece emesso alcun avviso di accertamento. Infine, se questa fosse la corretta interpretazione della norma, essa sarebbe antievasiva e non antielusiva, ma questa accezione contrasterebbe con la ratio dell’istituto. I corrispettivi dichiarati infatti, sono esattamente quelli voluti, e se non rispondono alla logica di mercato, non è perché una parte dell’operazione è stata occultata agli occhi del fisco, bensì perché il rapporto che lega i soggetti tra i quali l’operazione viene posta in essere è tale da aver influenzato in modo determinante i corrispettivi realmente praticati, sottraendoli alle regole del mercato. In senso contrario deve però rilevarsi la recente sentenza della Cassazione n. 10802 del 24/07/2002251, che ha accolto la tesi dell’ufficio, legittimando l’uso del criterio del valore normale quale parametro generale di riferimento per la valutazione della congruità di una transazione infragruppo tra società residenti. La Suprema Corte, stravolgendo un orientamento che andava ormai consolidandosi, ricostruisce l’operazione, tipicamente di transfer price interno, attribuendo all’ufficio il potere utilizzare lo 251 Commentata in Corr. Trib. n. 39/2002, pagg. 3545 e ss., ed in Riv. di dir. fin. e sc. delle fin., LXI, 3, II, pagg. 68 e ss.. 140 strumento di cui all’art. 39, I°c., lett. d), sul presupposto di un asserito comportamento contrario ai canoni dell’economia, valutato attraverso lo strumento del valore normale. Inoltre respinge la tesi della società resistente secondo la quale incomberebbe sull’Amministrazione finanziaria, l’onere di provare l’incongruenza tra il costo sostenuto ed il valore della prestazione ottenuta secondo un orientamento, questo sì, consolidato252 e condivisibile, secondo il quale l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare i fatti su cui si fonda l’atto impugnato (presupposto del tributo, elementi posti a base per la determinazione dell’imponibile, ecc.), mentre il contribuente deve provare i fatti dai quali derivino delle riduzioni dell’imponibile o dell’imposta, ovvero la soggezione a particolari regimi agevolativi/esentativi. Il punto maggiormente criticabile della decisione in rassegna, risiede comunque nell’elevazione del concetto di valore normale, a rango di strumento di tipo generale, utilizzabile dall’Amministrazione, mentre la precedente giurisprudenza, e la dottrina pressoché unanime, avevano già approfondito, giungendo ad opposte conclusioni, la disposizione contenuta nell’art. 9 del Tuir. La specialità della disposizione da ultimo citata, è stata infatti rilevata sia dallo specifico riferimento alle componenti reddituali in 252 Cass. sez. trib. Sent. N. 16198 del 27/12/2001; Cass. Sez. Civ. N. 13478 del 30/10/2001; Cass. Sez. civ. n. 11514 del 07/09/2001; Cass. sez. civ. n. 4857 del 02/04/2001; Cass. sez. I, civ. n. 9895 del 11/10/1997. Cass. sez. trib. n. 14570 del 20/11/2001, secondo la quale tra le spese e l’attività d’impresa deve esistere una relazione funzionale che le vincoli teleologicamente le une alle altre, e la dimostrazione della quale incomba sul contribuente. L’onere della prova non potrà inoltre essere assolto dalla sola dimostrazione della corretta iscrizione della spesa in contabilità, ma, e ciò soprattutto qui rileva, il giudizio sull’esistenza in concreto del vincolo dell’inerenza non legittima alcun sindacato fiscale sulla congruità delle spese rispetto all’attività imprenditoriale, la quale rientra nella sola discrezionalità dell’imprenditore. 141 natura, sia dalla centralità, palese, della nozione di corrispettivo, che è valore negoziale e non di mercato. Passando poi ad un esame sistematico, si possono fare diverse osservazioni, anzitutto quella per cui se fosse davvero una regola generale, quella della valutazione a valore normale, ci si dovrebbe interrogare sulla ratio della disciplina recata dall’art. 76, V° c. Tuir. Non si può dunque che dissentire dall’orientamento testé descritto, ribadendo invece la correttezza di quanto affermato dalla precedentemente rassegnata sentenza della Comm. trib. di Milano, sez. I, n. 577 del 18/03/1998, ancorché sia di fonte meno autorevole. Anche la dottrina253 si è immediatamente espressa in senso critico, anch’essa rilevando che una significativa differenza tra corrispettivo dichiarato e valore normale, può costituire un forte indizio di occultamento di materia imponibile, se le parti contraenti sono imprese indipendenti, ma nel caso di operazioni infragruppo, ciò non potrebbe avere lo stesso senso, essendo queste ultime eventualmente indirizzate verso una pianificazione fiscale che rende superfluo l’occultamento di corrispettivi, essendo sufficiente la fissazione ad hoc degli stessi, svincolati dai valori di mercato254. 253 Cfr. Carpentieri, “Redditi in natura e valore normale nelle imposte sui redditi.”, Milano, 1997, pagg. 235 e ss., Lupi, “Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario”, Milano, 1988, pagg. 226 e ss. 254 Cfr. Tremonti, “Gruppi di società: i vincoli e le architetture fiscali”, in AA.VV. ‘La fiscalità industriale’, Bologna, 1988, pagg. 49 e ss.. Sulla natura antielusiva e non antievasiva dell’art. 76, V°c. Tuir, Zizzo, “Regole generali sulla determinazione del reddito d’impresa”, in AA.VV., ‘Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, imposta sul reddito delle persone fisiche, II’, diretta da F. Tesauro, Torino, 1994, pagg. 578 e ss. 142 Il fatto che la ottimizzazione del carico fiscale complessivo nell’ambito di un gruppo, possa avvenire anche fra società tutte residenti255, non può invero consentire di travalicare, nell’interpretazione della norma, il tenore letterale della stessa, almeno se si concorda con la tesi oramai dominante secondo la quale l’interpretazione della norma tributaria non si sottrae agli ordinari metodi ermeneutici256. È infatti indiscutibile che possa ottenersi un risparmio fiscale complessivo all’interno di un gruppo allorché venga effettuata una transazione, tra due imprese residenti, pattuendo un corrispettivo il quale, diverso da quello di mercato, determini lo spostamento di materia tassabile da un soggetto in utile ad uno in perdita, oppure, ad esempio, verso un soggetto che gode, a qualsiasi titolo, di particolari agevolazioni nella determinazione dell’imposta257. §11.2) Il difetto del requisito dell’inerenza. La dottrina, riconosciuta l’erroneità della tesi ministeriale, ma rilevato altresì l’irragionevolezza di una lettura ‘a contrario’ della norma in commento, la quale finirebbe per legittimare, nei rapporti 255 Si veda il contributo di M. Micheli : “ Transfer pricing interno – Traslazione del reddito tra tipi diversi di società “, in Il fisco 13/2000, pagg. 3561 e ss.. 256 È stata infatti dimostrata l’erroneità delle teorie che ritenevano sussistenti, in materia tributaria, i principi in dubio pro fisco, ovvero in dubio contra fiscum, ed anche la tesi della c.d. interpretazione funzionale. Si rimanda a quanto si dirà in proposito in seguito. 257 L’esempio classico è quello dell’impresa residente in zone del Mezzogiorno, ovvero di imprese assoggettate a regimi speciali, non solo ai fini dell’imposizione diretta, ma anche dell’IVA, come ad esempio quando delle due imprese, una è in regime ordinario e l’altra nel regime speciale per l’agricoltura di cui all’art. 34 che, è utile qui rammentarlo, conteneva nel comma 12, prima delle modifiche apportate con il Dlgs 328/97, una disposizione antielusiva che limitava la detrazione dell’imposta nel settore dell’allevamento. 143 fra imprese residenti appartenenti allo stesso gruppo, la fissazione di prezzi anche simbolici ma non simulati, ha proposto lo strumento alternativo del disconoscimento dell’inerenza del costo all’attività dell’impresa, ovvero di una parte del costo per antieconomicità manifesta dell’operazione, in tal modo almeno ribaltando l’onere della prova sul contribuente che dovrebbe cioè spiegare la vendita sottocosto, o l’acquisto a prezzi spropositati. Sulla questione del difetto di inerenza per antieconomicità manifesta si tornerà in seguito, limitandoci qui ad un esame di alcune pronunce della giurisprudenza in tema di inerenza in generale. 1. A proposito di inerenza: le cosiddette spese di regia. Un caso esaminato dalla Cassazione. Abbiamo visto come la concorrenza tra le imprese abbia ormai definitivamente travalicato i confini nazionali, la spasmodica ricerca di economie di costo ha avuto quali corollari l’incremento di pratiche quali l’outsourcing, gli accordi commerciali di vario tipo e, soprattutto, l’affermazione del gruppo di società multinazionale. Abbiamo altresì evidenziato le implicazioni dal punto di vista fiscale e quanto esse siano particolarmente delicate, dal momento che, attraverso operazioni infragruppo, può essere attuata una politica di pianificazione fiscale internazionale. Ci si trova così di fronte ad un problema di non agevole soluzione, occorre infatti da un lato scongiurare il pericolo di una erosione di gettito che dovrà necessariamente essere sostituita da maggiori entrate gravanti sui soggetti che non possono avvalersi di 144 tali espedienti, evitando inoltre che venga falsato il meccanismo della libera concorrenza, ma d’altro canto devono essere evitati i fenomeni di doppia imposizione, e favorito il miglioramento dell’efficienza complessiva delle organizzazioni, non ostacolando quelle operazioni che consentono effettive riduzioni di costo258. Quest’ultimo aspetto è ad esempio rappresentato da quegli accordi che, all’interno del gruppo, attuano una sorta di specializzazione dal lato dei costi, evitandone la duplicazione. Si tratta soprattutto dei costi di amministrazione, marketing, utilizzo di brevetti, marchi e altri diritti immateriali e dei diritti di utilizzazione dei risultati dell’attività di ricerca e sviluppo. Dal momento che si tratta di problematiche riguardanti legislazioni fiscali differenti, o, che è lo stesso, differenze nelle legislazioni fiscali che fanno nascere dei problemi di asimmetrie impositive o, al contrario, di doppie imposizioni, l’approccio ad esse non può che essere di matrice anzitutto sovranazionale. Anche in questo particolare caso è stato compito dell’Ocse259 quello di fissare dei principi, delle linee guida insomma che indirizzassero i legislatori nazionali verso una uniformità di valutazione di queste operazioni, condizione assolutamente imprescindibile per poter tentare di discernere le pratiche elusive da quelle aventi scopi meritevoli, al contrario delle prime, di tutela. Un esempio di accordi nella ripartizione dei costi è quello delle cosiddette spese di regia, oggetto ( anche se non principale ) 258 Ad esclusione degli oneri fiscali. 259 “Transfer pricing and Multinational Enterprises”, Parigi, 1979, recepito in Italia con la circolare ministeriale 32/9/2267 del 22 settembre 1980; “Transfer pricing and Multinational Enterprises. Three Taxation issues”, Parigi, 1984; ”Thin capitalization”, Parigi, 1987; “Tax Aspects of Transfer Pricing within Multinational Enterprises – The United States Proposed Regolation”, Parigi, 1994; “Transfer Pricing guidelines For Multinational Enterprises and Tax Administrator”, 1995. 145 della sentenza n° 14016 del 13 luglio 1999 della sez. I^ della Corte di Cassazione. Si tratta, in breve, di spese che la casa madre sostiene e successivamente riaddebita alle filiali/succursali/controllate estere, a motivo dei benefici da queste ricevuti. Occorrono dei parametri di legge che oggettivizzino il più possibile i termini della questione che sono poi quelli di accertare non solo e non tanto la reale sussistenza delle operazioni, quanto la loro effettiva consistenza economica. Il rapporto Ocse del 1984260 ha affrontato la questione delle “spese di regia”. Dopo averne sottolineato la potenziale pericolosità fiscale in termini di spostamento, a fini elusivi, di base imponibile verso paesi a fiscalità privilegiata (N.B. non necessariamente Paradisi fiscali), ha esplicitato alcuni requisiti che dette operazioni devono possedere per poter essere esenti da censure: • il requisito della funzionalità, nel senso che deve sussistere un effettivo vantaggio per l’affiliata; • il requisito dell’inerenza, infatti, identicamente a quanto in generale avviene per la deducibilità delle componenti negative di reddito, deve sussistere una correlazione tra le spese sostenute, ancorché dalla casa madre, ed i ricavi prodotti dall’impresa ad essa subordinata; • il requisito della congruità, che poi non è altro che quel valore normale della prestazione, che costituisce la linea di discrimine per la valutazione della liceità dell’operazione. Infatti, ferma restando la necessaria 260 “Transfer pricing and Multinsational Enterprises : Three taxation issues”. 146 sussistenza dei precedenti requisiti, solo se il corrispettivo della transazione si discosta dal valore normale, questa potrà essere disconosciuta ( e solo per la differenza )261. Il caso sottoposta alla Suprema Corte, riguardava originariamente l’avviso di accertamento con il quale l’ufficio impositore aveva rettificato il reddito della società italiana, controllata da una società belga, disconoscendo i costi sostenuti da quest’ultima e poi riaddebitati alla prima in quanto, come asserisce la società belga ricorrente, afferivano i servizi centralizzati effettuati a favore delle sedi periferiche. L’ufficio, nella motivazione dell’avviso di accertamento, contestava l’inerenza di tali spese sostenute all’estero e la loro entità. In primo grado il ricorso venne rigettato, la commissione di prima istanza aveva infatti ritenuto sufficiente la motivazione addotta dall’ufficio, per cui l’onere della prova incombeva sulla ricorrente, la quale però non ha fornito idonea documentazione. La Commissione tributaria regionale della Lombardia ha poi invece accolto l’appello affermando sia l’inerenza che la congruità delle spese in contestazione, avendo la ricorrente fornito effettiva e quantitativa dimostrazione delle attività condotte dalla casa madre evidenziando anche le generalità dei funzionari operanti e le spese ad essi riferite. Il Ministero delle Finanze impugnò la sentenza in Cassazione affermandone l’insufficienza della motivazione in quanto ciò che era stato contestato non era “...l’astratta imputabilità alla sede italiana delle spese di regia della sede centrale, ma la misura della 261 Per quanto riguarda il problema della determinazione di un prezzo congruo, si rimanda a quanto detto in precedenza sul transfer price in generale. 147 quota di esse attribuita alla filiale, mentre la Commissione Regionale ha proceduto ad attribuirle a quest’ultima per aver considerato resi i servizi e congrui nella loro entità, non indicando le ragioni della loro imputazione e la relazione di esse con i benefici ricevuti dalla succursale italiana : ... l’ufficio aveva chiesto di provare ... i criteri di imputazione alla succursale italiana della quota di spese sostenute dalla centrale in base al riparto tra le sedi periferiche dei costi sostenuti all’estero”. La Suprema Corte confermò infine la pronuncia d’appello ritenendo “... sufficiente l’analisi dei servizi resi e l’accertamento dei costi degli stessi, incensurabile in sede di legittimità, per accertare l’affermata inerenza emergente dalla sentenza impugnata, ...”. È certamente vero che la Cassazione deduce l’inerenza delle spese con ragionamento induttivo262, ma essa non si è limitata a questo, fissando altresì delle condizioni per stabilire la sussistenza di tale fondamentale requisito; si legge infatti in altro passo della decisione, “... le spese della sede centrale possono qualificarsi ‘inerenti’ ai ricavi delle succursali, purché si siano tradotte in servizi resi a queste ultime e, pur se funzionali al coordinamento, tra le varie filiali e la sede centrale, sempre che non rispondano ad esigenze di governo e gestione dell’impresa multinazionale, dovendo in tal caso detrarsi dalla contabilità centrale e dagli imponibili per i quali l’imposizione già si ha nello Stato estero.” 262 Nel quale è altresì determinante l’operato dell’ufficio e del Ministero in sede contenziosa. Si legge infatti nella sentenza : “La sentenza impugnata, ritenuti provati i servizi resi dalla casa madre alla filiale in difetto di impugnazione di controparte e affermata la congruità dei costi degli stessi sul notorio, implicitamente ne afferma l’inerenza; nel giudizio di merito, esplicitamente l’ufficio aveva ritenuto insufficiente a imputare alla filiale l’eventuale riparto disposto dalla centrale tra le sedi periferiche, che invece per il ricorso (in Cassazione) sarebbe indispensabile.” 148 Occorre comunque sottolineare che la Corte non ha affrontato la questione della congruità degli addebiti, in quanto problema di merito incensurabile in sede di legittimità. Sull’argomento specifico la giurisprudenza, soprattutto di legittimità, è ancora scarsa, ma già da questa sentenza si possono trarre utili indicazioni su come operare. È anzitutto evidente la convenienza a formalizzare per iscritto l’accordo che regola i rapporti tra le compagnie, documentando dettagliatamente i soggetti che hanno prestato i servizi e le spese ad essi riferite, è inoltre stato fornito un parametro sufficientemente chiaro per la valutazione dell’inerenza, escludendola però qualora le spese siano riferibili alle esigenze di governo e di gestione della capogruppo. La stessa sentenza è apparsa però negativa nei confronti dei criteri di ripartizione delle spese non direttamente imputabili, affermando che costituirebbero un indice di mancata inerenza263, e ciò nonostante fossero stati ammessi sia dall’Ocse che dalla stessa Amministrazione finanziaria. Quest’ultima infatti, dopo un iniziale orientamento264 particolarmente restrittivo, che negava in via di principio l’inerenza delle spese di regia, a prescindere da qualsivoglia analisi dell’eventuale sussistenza dei presupposti per la deducibilità, ha successivamente265 invertito indirizzo, riconoscendo l’impossibilità di risolvere la questione con soluzioni aprioristiche o di principio in ambo le direzioni, affermando infatti la necessità di 263 Su quest’ultimo aspetto, successive pronunce della stessa Suprema Corte (citate in nota 266), hanno sancito un orientamento più corretto e convincente. 264 Cfr. Relazione Secit, 31/05/1984, n. 24. 265 Cfr. Delibera Secit, 17/07/1995, n. 60 e circ. 21/10/1997 n. 271. 149 verificare in concreto le condizioni per la deducibilità sotto il duplice aspetto qualitativo e quantitativo. Da rilevare infine che successive pronunce della Corte266 hanno evidenziato una decisa tendenza verso l’ampliamento dei requisiti di deducibilità, come sarà ampiamente argomentato infra discorrendo del requisito dell’inerenza. In conclusione, gli organi accertatori dovrebbero acquisire una maggiore sensibilità nella specifica materia economicoaziendale, onde valutare se, nello specifico caso, alla base dell’attribuzione alla stabile organizzazione di una quota di costi sostenuti dalla casa-madre, vi siano intenzioni elusive legate alla ottimizzazione del carico fiscale, con il dirottamento degli utili ove più conveniente, ovvero sussistano effettive esigenze legate alla natura dello specifico rapporto, le quali raramente si esauriscono nella fase di avvio, ben potendo continuare anche successivamente, basti pensare ad esempio, ad eventuali campagne pubblicitarie internazionali, o al riaddebito di spese relative allo sviluppo, promozione, miglioramento delle attività commerciali dell’impresa nel suo complesso e, quindi anche della sede locale che della prima costituiste una mera promanazione. 266 Cass. 01/08/2000, n. 10062; 05/09/2000, n. 11648; 06/09/2000, n. 11770; 26/01/2001, n. 1133; 07/03/2002, nn. 3367 e 3368; 25/05/2002, n. 7682. 150 §11.3) Le soluzioni proposte dalla circolare 53 del 26/02/1999 per contrastare il transfer pricing interno. L’Amministrazione finanziaria ha solo di recente modificato la sua posizione circa l’applicabilità dell’art. 76, V° c. Tuir alle operazioni tra soggetti residenti, espressa in modo esplicito nella più volte citata circolare n. 32/1980. Infatti, la circolare n. 53 del 26/02/1999267, nell’esporre le pratiche elusive di particolare pericolosità, pone l’accento sulle “manovre attuate sui prezzi di trasferimento interni”, riconosce l’inapplicabilità della disposizione antielusiva di cui all’art. 37-bis del DPR 600, suggerendo, in sua vece, l’utilizzabilità di altri mezzi per contrastare il fenomeno. 1. L’art. 39, I°comma, lett. d) del DPR 600/73. È stato così proposto il ricorso all’art. 39, I° c. lett. d). Quest’ultimo orientamento ministeriale è stato criticato basandosi sull’affermazione che quest’ultima disposizione riguarderebbe solo ipotesi di occultamento di operazioni attive a seguito di irregolarità nelle scritture contabili, in altre parole le classiche ipotesi (evasive) di omessa certificazione, registrazione e dichiarazione di corrispettivi, ovvero di loro indicazione inferiore al reale268. Infatti, 267 Consultabile nella banca dati “Documentazione tributaria” sul sito http://www.finanze.it/ . 268 “È infatti convincimento di questo Collegio, sulla scorta di consolidati orientamenti dottrinari e giurisprudenziali, che la valutazione al valore normale di cessioni di beni fra soggetti residenti, presuppone – di regola – l’assenza di corrispettivi. Il presupposto, infatti, per l’insorgenza dell’obbligazione tributaria ai fini delle imposte sui redditi è costituito dal prezzo pattuito fra le parti e non il valore di mercato. Pur se in via di principio non si può negare all’Amministrazione Finanziaria, in sede di 151 come noto, la disposizione legittima la rettifica del reddito imponibile dichiarato dal contribuente quando l’incompletezza, la falsità e l’inesattezza delle registrazioni contabili risulta dalle ispezioni delle scritture contabili tenuto conto delle fatture e degli altri documenti raccolti in sede di istruttoria. Sarebbero quindi evidenti i vincoli della norma ove si consideri, da un lato l’esclusiva rilevanza delle operazioni imponibili non dichiarate, accertate a seguito dell’esame della contabilità e dei documenti giustificativi, e dall’altro, il richiamo alle presunzioni “gravi, precise e concordanti” il quale richiede, di volta in volta, la valutazione delle argomentazioni probatorie fatte valere dall’ufficio, le quali devono essere particolarmente forti, atteso il diverso riferimento, compiuto nel II° comma dell’art. 39, alle “presunzioni non gravi precise e concordanti” in tema di accertamento induttivo extracontabile. In altri termini, le argomentazioni avanzate dall’ufficio devono essere in grado di dimostrare, in modo inequivocabile, l’esistenza di operazioni non dichiarate. Apparirebbe così evidente che, una volta escluso che vi possa essere anche solo una semplice somiglianza concettuale tra l’occultamento o la simulazione di corrispettivi ed il fenomeno del transfer pricing interno, l’Amministrazione finanziaria non possa contestare il prezzo di trasferimento pattuito tra imprese residenti ricorrendo all’art. 39, I° c. lett. d). accertamento, di raffrontare i prezzi convenuti fra le parti con quelli praticati dal mercato, il ricorso al criterio del valore normale risulta possibile soltanto se, in presenza di presunzioni gravi, precise e concordanti, l’amministrazione stessa, sia in possesso di elementi comprovanti che i corrispettivi dichiarati siano inferiori a quelli effettivamente conseguiti”. Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. I°, 18/03/1998, n. 577. 152 A differenti conclusioni è giunta la più recente giurisprudenza di legittimità269, ritenendo che una ingiustificata sproporzione tra corrispettivo pattuito e valore normale, possa costituire la base di un ragionamento logico-deduttivo come quello tipicamente adottato in sede di applicazione dello speciale strumento accertativo270. È importante sottolineare che il gap deve potersi considerare oggettivamente rilevante, evitando di cadere nell’equivoco, indotto dall’infelice passaggio della citata sentenza della Cassazione 10802/2002, di considerare il valore normale un principio generale tale per cui ogni differenza, di qualunque importo sarebbe automaticamente rettificata271 (induttivamente), inoltre e comunque, il ragionamento presuntivo deve condurre all’emersione di attività non dichiarate o passività inesistenti. Sarà dunque da valutarsi caso per caso, la ricorrenza dei requisiti di cui all’art. 2729 cod. civ. per la legittimità del ragionamento presuntivo, quindi se da una parte non può aprioristicamente escludersi la possibilità che il solo scostamento del corrispettivo pattuito dal suo valore normale272 possa integrare i presupposti richiesti per la validità della presunzione stessa, non può neppure escludersi che detta differenza non possa essere altrimenti motivata, 269 Cfr. Cass. 24/07/2002, n. 10802, nonostante il maldestro utilizzo del criterio del valore normale che taluni hanno desunto dalle infelici espressioni usate nella sentenza, per le cui critiche vedi supra pag. 140. 270 Vedasi quanto esposto infra Parte seconda, capitolo II.2 in tema di legittimità dell’utilizzo dell’accertamento art. 39, I° c. lett. d) di fronte a comportamenti manifestamente antieconomici, le cui argomentazioni sono a questa fattispecie conferenti, e la citata recente giurisprudenza di legittimità. 271 Che si trattasse di una imperfezione relativa alle espressioni usate nella citata sentenza ho già avuto modo di evidenziarlo in precedenza. Vedi supra pagg. 140 e ss. 272 E’ opinione dominante ormai che non sono richiesti una pluralità di fatti noti per legittimare la presunzione, né che il fatto ignoto che si suppone così provato sia l’unico possibile. Il contribuente coerentemente con quanto appena detto, basterà che dimostri la sussistenza, nel caso concreto, delle diverse motivazioni della divergenza contestata. 153 dovendosi tenere in debita considerazione che i benefici che derivano da una transazione, devono essere valutati secondo un’ottica economico-aziendale che travalica il mero riferimento al solo corrispettivo in danaro. 2. L’art. 37, III° comma DPR 600/73. Secondo il Ministero, si potrebbe attribuire all’impresa soggetta alla tassazione ordinaria, che con manovre sui prezzi di trasferimento abbia traslato materia imponibile verso altra impresa residente del gruppo, soggetta a particolare regime agevolativo, la quota di reddito dichiarata da quest’ultima, attraverso l’istituto previsto dall’art. 37 III° comma del DPR 600/73. Secondo la tesi ministeriale, “attraverso la manovra di sottofatturazione, la società alienante trasferisce quote di utili all’acquirente, ma resta titolare effettivo del reddito in qualità di controllante o collegata e, in sede di distribuzione dei dividendi, può attribuirsi dette quote, non tassate, godendo altresì del relativo credito d’imposta.” Non appare però una soluzione convincente in quanto detto strumento si riferisce all’ipotesi della “interposizione fittizia273”, e sarebbe d'altronde improbo dimostrare che l’interponente abbia mantenuto la disponibilità giuridica dell’utile così trasferito, soprattutto nei casi in cui la interposta sia partecipata anche da soggetti esterni al gruppo, i quali si approprierebbero in tal modo di una parte degli utili trasferiti fittiziamente, oppure nel caso in cui la (presunta) interponente sia la controllata anziché la controllante. 273 Relativamente a questo aspetto dell’art. 37, si rimanda a quanto detto nel §10 del presente capitolo. 154 Insomma,data la sua natura antievasiva274, l’art. 37 III° risulta inapplicabile a fattispecie chiaramente elusive come quella in esame. §11.4) negozio Qualificazione misto di dell’operazione vendita e come donazione (o assegnazione ai soci). L’atto ministeriale propone infine di ricondurre il negozio a prezzo “di favore”, alla disposizione contenuta nel II° comma dell’art. 53, del Tuir, il quale prevede l’assimilazione ai ricavi, del valore normale275 dei beni destinati al consumo personale o familiare dell’imprenditore, assegnati ai soci o destinati a finalità 274 Cfr. Gallo, “Prime riflessioni...”, op. cit. pagg. 1769 e ss.; Tabellini, “Prime considerazioni sul progetto antielusione approvato dal Governo”, in Boll. Trib., 1988, pag. 1503; Lupi,”Compensi abnormi agli amministratori: antielusione sì, doppia imposizione no”, in Rass. trib. 1994, pagg. 81 e ss.; Stevanato, “Compensi a soci amministratori e interposizione di persona. Un’ipotesi da scartare”, in Rass. trib. 1994, pagg. 81 e ss.; Cociani, “Usufrutto su azioni ed interposizione fittizia di persona”, in Il fisco 1994, pagg. 2437 e ss.. Per la giurisprudenza si cita, rimandando al paragrafo sul dividend washing ove è stata più estesamente riportata, la recente sentenza n. 3979 della Cassazione del 03/04/2000, nella parte in cui afferma che l’art. 37 III°c. “...inequivocabilmente si occupa del caso dell’interposizione fittizia in senso proprio caratterizzata dalla divaricazione fra situazione esteriore e situazione sostanziale, rispettivamente riferibili all’interposto ed all’interponente, non anche del caso dell’interposizione cosiddetta reale,..., ove la forma e la sostanza coincidono, e si può porre soltanto un problema di validità ed efficacia dell’atto negoziale determinato dalla variazione soggettiva nella titolarità del bene”. 275 Si rammenti inoltre, che le fattispecie alle quali è possibile applicare il criterio del valore normale, come parametro convenzionale per la determinazione del reddito tassabile, è stato dal legislatore esplicitamente limitato alle ipotesi di assenza di un corrispettivo pattuito e ad alcuni casi quali: operazioni infragruppo realizzate tra società residenti in paesi diversi (art. 76, V° t.u.i.r.); sopravvenienze da cessione del contratto di locazione finanziaria (art. 55, V° t.u.i.r.). Al di fuori di ipotesi come queste esplicitate in disposizioni di legge, nel caso di operazioni tra imprese residenti, il ricorso al criterio del valore normale sarà giustificato solo allorché manchi un corrispettivo pattuito, ovvero si (l’A.F.) dimostri che esso sia inferiore al reale. Infatti, il presupposto dell’obbligazione tributaria è il prezzo convenuto, non quello di mercato. 155 estranee all’esercizio dell’impresa, qualificandolo come negozio misto di vendita/donazione. In altre parole, la differenza tra il valore normale e il corrispettivo pattuito, costituirebbe la “donazione” considerata ricavo ex art. 53 II°c. per il suo valore normale276. Nello specifico ambito tributario, si tratta di un approccio già sperimentato nella Ris. Min. 9/198 del 10/03/1982277, in relazione alla fattispecie di cessione intragruppo di azioni, sostanzialmente simile a quella del transfer pricing interno di cui alla circolare qui esaminata, che però utilizza il più ampio riferimento alle ‘finalità estranee all’esercizio dell’impresa’. Anche a voler prescindere dalle difficoltà insite nella stessa identificazione dei profili di quest’ultimo concetto, c’è da rilevare la circostanza che l’attribuzione del bene ad un soggetto collegato a titolo, anche solo parzialmente, gratuito, deve risolversi in un incremento di ricchezza per il cedente. La destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa deve, in altri termini, tradursi nella acquisizione del bene in oggetto al patrimonio personale del dominus dell’impresa, e, cioè, dell’imprenditore, in caso di impresa individuale, o dei soci, in caso di società. Il negotium mixtum cum donatione, è stato oggetto di studio soprattutto nel campo del diritto civile, che lo ha individuato come quella situazione nella quale in un solo negozio, si rinvengono sia le caratteristiche del negozio oneroso, sia quello della donazione. In 276 Art. 53 II° c. DPR 917/86 : “ Si comprende inoltre tra i ricavi il valore normale dei beni ... destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa “. N.B. Vedasi anche l’art. 54 della legge n° 342 del 21 novembre 2000. 277 Consultabile nella banca dati “Documentazione http://www.finanze.it/ . 156 tributaria” sul sito tale ambito, la soluzione ritenuta corretta, è quella di assoggettare ciascuna parte ideale del negozio al regime suo proprio, una volta che possa legittimamente escludersi la possibilità che si versi in una situazione di simulazione. In ordine alla qualificazione in termini di donazione, a parte il fatto che l’art. 782 c.c. richiede l’atto pubblico ad substantiam per le donazioni di non modico valore, si deve sottolineare che la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie, usano distinguere tra atti a titolo gratuito e atti di liberalità278 ed inoltre che la dottrina è divisa sulla inclusione o meno delle cessioni gratuite fra le ipotesi di destinazione dei beni a finalità estranee all’impresa279. Perché si possa parlare di donazione non basta l’arricchimento di un soggetto conseguente all’attribuzione patrimoniale gratuita di un altro soggetto, ma occorre inoltre lo spirito di liberalità280 e il depauperamento del patrimonio del donante. Ebbene, proprio l’appartenenza al gruppo, potrebbe far trasparire la carenza dell’animus donandi, inteso come libera scelta del donante, in assenza di qualsiasi obbligo di natura giuridica o meno. In altre parole, il venditore/donante281, dovrebbe essere mosso esclusivamente da spirito di liberalità verso il compratore/donatario, potendosi verificare casi di obblighi nascenti 278 Cfr. Cass. 29/09/1997, n. 9532; Cass. 13/07/1995, n. 7666. Manzini, “Spirito di liberalità e controllo giudiziario sull’esistenza della causa donandi”, in Contratto e impr., 1985, pagg. 409 e ss.; Cecchini, “L’interesse a donare”, in Riv. di dir. civ., 1976, I, pagg. 254 e ss. 279 Vedasi : L. Carpentieri, Redditi in natura e valore normale ... op. cit., pagg. 131 e ss.. 280 Cfr. Cass. 23/02/1991, sent. N. 1931, in Mass. Foro It. 1991, “...non c’è contratto mixtum cum donatione,quando il prezzo inferiore al valore di mercato non derivi da spirito di liberalità del disponente.” 281 Facciamo qui l’ipotesi della cessione sottocosto, considerazioni speculari valgono ovviamente in quella di acquisto a prezzo spropositato . 157 da politiche infragruppo, che non lascino al supposto donante alcuna possibilità di sottrarsi, essendo questi soggetto al dominus del donatario, inoltre il fatto che il reddito finisce in tal modo per essere solo trasferito, può valere ad escludere qualsiasi ipotesi di depauperamento del patrimonio del donante, almeno con riguardo all’aspetto sostanziale. Illuminante al riguardo, il caso deciso dalla Cassazione relativo ad un atto senza corrispettivo, effettuato da una società controllata, in adempimento di direttive impartitele dalla controllante, a favore di quest’ultima. La Suprema Corte ha così avuto modo di stabilire che “...l’assenza di corrispettivo se è sufficiente a caratterizzare i negozi a titolo gratuito (distinguendoli da quelli onerosi), non basta invece ad individuare i caratteri della donazione, per la cui sussistenza sono necessari, oltre all’incremento del patrimonio altrui, la concorrenza di un elemento soggettivo (lo spirito di liberalità) consistente nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti, e di un elemento di carattere obbiettivo dato dal depauperamento di chi ha disposto del diritto o assunto l’obbligazione.282”. Per cui, prosegue, “ne consegue che quando un atto viene posto in essere da una società controllata, va esclusa la ricorrenza di una donazione..., se l’operazione è stata posta in essere in adempimento di direttive impartite dalla capogruppo o comunque di obblighi assunti nell’ambito di una più vasta aggregazione imprenditoriale, mancando la libera scelta del donante. ...inoltre, al fine di verificare se l’operazione abbia comportato o meno per la società che l’ha posta in essere, un depauperamento effettivo, occorre tenere conto della complessiva situazione che, nell’ambito del gruppo, a quella società fa capo, 282 Cass. 05/12/1998, n. 12325. 158 potendo l’eventuale pregiudizio economico che da essa sia direttamente derivato, aver trovato la sua contropartita in altro rapporto, e l’atto presentarsi come preordinato al soddisfacimento di un ben preciso interesse economico, sia pure mediato e indiretto”. In conclusione, lo strumento de quo, appare molto difficilmente utilizzabile in funzione di contrasto dei fenomeni di transfer pricing interno, ove si consideri la stessa ratio di quest’ultimo, teso all’ottimizzazione del carico fiscale di gruppo, attraverso transazioni “comandate” dalla capogruppo, ma delle quali potrà teoricamente godere (in termini di convenienza economica della operazione-strumento) indifferentemente la controllante o la controllata, a seconda della specifica situazione fiscale del momento. Chi scrive è dell’idea che qualificare un negozio come ‘donazione’ per la sola sproporzione tra corrispettivo pattuito e valore normale, appare scorretto in virtù della possibilità che attraverso una attribuzione di favore, lo stesso (supposto) donante riceva una ulteriore controprestazione, non in moneta, ma in vantaggi economici di altra natura, come appare evidente nell’ipotesi in cui, essendo questi una impresa collocata, all’interno di una filiera produttiva (e/o di un gruppo), a monte o a valle dell’impresa beneficiaria, attraverso un atto apparentemente ‘antieconomico’, ottiene in cambio la conservazione della vitalità di quest’ultima, e dunque salvaguarda i suoi stessi volumi produttivi e le connesse economie di scala e di continuità dei processi produttivi. In altri termini è come dire che l’atto, gratuito, ancorché parzialmente, è stato il mezzo per soddisfare lo scopo sociale fino al punto di rendere possibile la sopravvivenza dell’intera filiera (e/o 159 del gruppo societario), per cui attraverso una valutazione non statica, bensì prospettica, la supposta antieconomicità potrebbe non apparire poi così manifesta. Quanto appena detto rende quindi evidente l’insussistenza del richiesto depauperamento del patrimonio del (supposto) donante il quale, sommato all’assenza di un generalizzato ed autonomo potere di qualificare i negozi giuridici ai fini fiscali, rende la ricostruzione dell’operazione in termini di negozio misto di vendita e donazione, assolutamente illegittima. Infine, anche al di fuori di una ottica ‘di gruppo’, è da rilevare che l’istituto della donazione, intesa come espressione esclusivamente di uno spirito di liberalità, è incompatibile con gli interessi tipici perseguiti dalle società lucrative, e deve essere lo statuto sociale a prevederle eccezionalmente e solo motivate. La prescritta forma pubblica, è inoltre strumentale alla tutela degli interessi dei terzi (soprattutto i piccoli azionisti) nei confronti degli atti a questi contrari. Pertanto, se anche si volesse ritenere sussistente in capo al Fisco un potere di qualificare il negozio come in parte gratuito, ancorché limitato alle ipotesi di oggettiva antieconomicità (anche prospettica) dell’operazione, ci si troverebbe di fronte, facendo qualche estremizzazione relativamente alle società per azioni, ad una lesione di quelle norme codicistiche poste a tutela dell’integrità del patrimonio di queste ultime, la cui competenza è attribuita al giudice civile. 160 §11.5)Conclusioni Considerate le indubbie potenzialità elusive della fissazione ad hoc dei prezzi di trasferimento infragruppo tra imprese residenti, contrastabili, a mio avviso, solo attraverso lo strumento dell’accertamento analitico-induttivo, e solo in quei casi in cui il contribuente non riesca a fornire delle argomentazioni sufficientemente credibili circa i motivi di una operazione che, valutata complessivamente, non appare fondarsi su alcuna motivazione di natura economico-finanziaria valida, e pertanto è stata legittimamente posta a base del ragionamento presuntivo dell’ufficio, sarebbe necessario, a parere di chi scrive, un intervento legislativo che facilitasse una inversione dell’onere della prova come sopra descritto, attualmente fortemente vincolato alla preventiva verifica di una antieconomicità manifesta, non sempre agevolmente esperibile, a motivo delle specificità dei rapporti infragruppo, che rendono spesso difficoltoso il confronto dei prezzi delle transazioni, come avviene per esempio in quei numerosi casi in cui la produzione della controllata, oltre a riguardare prodotti non commercializzati da altre imprese, trattandosi di semilavorati specifici, è destinata unicamente alle altre imprese del gruppo per il quale è stata appositamente costituita-acquisita. Inoltre, tra le operazioni potenzialmente elusive nei rapporti tra imprese dello stesso gruppo nazionale, ve ne sono alcune che non utilizzano le manovre sui prezzi. Ad esempio, nei rapporti contrattuali, è normale la previsione di clausole penali, multe, caparre confirmatorie o penitenziali, a fronte di comportamenti che integrano forme di inadempienza contrattuale. Ebbene risulta assai facile attuare un trasferimento di 161 materia imponibile alla stregua di quanto avviene con il transfer price, mediante la preordinata inadempienza, per legittimare un trasferimento di ricchezza senza problemi di contestazioni da parte del Fisco. Considerato infine che quanto detto vale anche per le imprese assoggettabili al particolare regime di cui all’art. 76, V° c. Tuir, che in tal modo lo “eludono”, si comprende la gravità della carenza rilevata, non potendo essere utilizzato neppure lo strumento previsto dall’art. 37-bis. È stato pertanto proposto di modificare quest’ultima disposizione o, per essere più precisi, si è proposta l’aggiunta fra le operazioni contemplate dalla norma, delle “pattuizioni intercorse tra società collegate ai sensi dell’art. 2359 del codice civile, aventi ad oggetto il pagamento di somme a titolo di clausola penale, multa, caparra confirmatoria o penitenziale.”. In questo modo, come si legge nella relazione di accompagnamento al disegno di legge283, non si attribuiscono nuovi poteri all’amministrazione, “... ma (si) amplia la tipologia di operazioni soggette al meccanismo antielusivo...”, in tal modo, la rettifica non sarà automatica, dovendo sussistere anche gli ulteriori ordinari requisiti richiesti dalla stessa norma e già commentati in precedenza. Anche la prevista riforma del diritto societario, potrà indirettamente portare dei vantaggi ai fini di un più agevole contrasto ai fenomeni descritti, infatti, la L. 3/10/2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario) prevede fra l’altro la istituzione di una apposita disciplina in materia di gruppi 283 Disegno di legge n. 4992, Senato della Repubblica, ad iniziativa dei senatori Albertini, Vigevani, Castellani Pierluigi, Pasquini, Bonavita, Montagna, Ripamonti, Sartori, Marino, Marchetti, Bergonzi, Caponi e Manzi. Comunicato alla Presidenza il 14 febbraio 2001, in Il fisco 10/2001, pagg. 3875 e ss.. 162 di società, ove si legge che: (art. 10) la normativa dovrà ispirarsi ai principi: “a) di trasparenza, in modo da assicurare l’interesse delle consociate singolarmente e come gruppo e dei soci di minoranza delle consociate; b) di motivazione delle operazioni intragruppo; c) di pubblicità del gruppo e di appartenenza delle consociate al medesimo; d) di tutela del socio in sede di ingresso o di recesso dal gruppo.” Nonostante non vengano esplicitamente menzionati gli aspetti fiscali, appare chiaro come l’attuazione dei principi della tutela degli interessi propri delle consociate e della motivazione delle operazioni intragruppo, potrebbe essere la logica premessa per l’introduzione di uno strumento, analogo a quello previsto dal 76 V°, ma applicabile nelle ipotesi di operazioni intragruppo nazionali. Occorre infine rilevare che, la riforma Tremonti dell’imposta sulle società, riconoscendo la rilevanza fiscale del gruppo di società, consentirebbe di superare alcuni dei problemi applicativi e delle distorsioni, attualmente esistenti negli strumenti di contrasto delle maliziose manovre sulle operazioni infragruppo, la valutazione delle quali, avverrebbe attraverso il solo requisito dell’inerenza, senza distinzione tra la libertà di determinazione del prezzo di trasferimento concessa attualmente nelle operazioni “interne” e negata a quelle transfrontaliere. Verrebbe insomma rivalutato sia il limite ‘civilistico’ di cui all’art. 2391 del cod. civ. che vieta alle imprese di gruppo un’attività in conflitto di interessi, sia, di conseguenza il principio per cui l’impresa di gruppo deve operare nel rispetto del proprio 163 scopo di impresa, e cioè la creazione di un utile economico (art. 2082 cod. civ.). Occorre infine che la valutazione di una transazione non si limiti al solo dato relativo al prezzo, rivalutando la rilevanza di motivazioni ulteriori che, in base ad un ragionamento prospettico, possano ragionevolmente assumersi quali ‘valide ragioni economiche’ legittimanti il comportamento discusso, a nulla rilevando la circostanza che, a posteriori, detti vantaggi non si verifichino, potendo tali conseguenze essere ricondotte all’ordinaria alea che permea i rapporti contrattuali, superando il risalente dogma dell’assoluto equilibrio delle prestazioni reciproche stabilite contrattualmente. 164 Capitolo II II) Autonomia negoziale dell’Amministrazione delle Finanziaria parti, di poteri porvi delle limitazioni attraverso la qualificazione dei negozi giuridici ai fini tributari e di sindacare sulla economicità di talune scelte imprenditoriali §1) La qualificazione dei negozi giuridici ai fini fiscali. Premessa I vari e vani tentativi di rinvenire all’interno dello stesso ordinamento, strumenti di contrasto al fenomeno dell’elusione e la successiva introduzione di norme antielusive di portata più o meno ampia, ma mai generale, confermano che nel nostro ordinamento non esiste né una norma né un principio antielusivo generale che possa assurgere alla stregua di un criterio, al limite residuale rispetto alle norme specificamente antielusive, che in ultima istanza riesca ad evitare che una fattispecie, sicuramente espressiva di potenzialità economica e “logicamente” tassabile, sfugga all’imposizione per motivi meramente formali. In questa parte della ricerca si tenterà di esaminare i fondamenti giuridici di un autonomo potere qualificatorio dell’attività negoziale dei privati, da parte dell’organo amministrativo che, per tale tramite, ha talvolta tentato di supplire 165 alla carenza di cui sopra. Isolare i termini della questione non è stato compito agevole, in quanto ‘tracce’ di essa sono rinvenibili negli stessi argomenti trattati in precedenza. Ho tentato in tali casi di rimandarne l’approfondimento specifico in questa sede, perciò, in questa sezione conclusiva verranno spesso richiamati istituti già precedentemente visti in un’ottica allora generale. Sarà soprattutto ripreso il discorso sull’art. 37-bis, principalmente in relazione ai tentativi di applicazione del potere di riqualificare i negozi anche al di fuori di quelli riferibili alle operazioni ivi elencate facendolo apparire, in ultima analisi, espressione di un principio generale anziché di un potere in deroga, opportunamente limitato. Si tornerà sui concetti di ‘disegno elusivo’ e di ‘valide ragioni economiche’, i quali verranno approfonditi in quanto aspetti connessi, il primo alla possibilità che il fisco qualifichi una serie di ‘atti fatti e negozi, anche collegati tra loro,’, come un negozio unitario, disattendendo la forma giuridica che il contribuente ha prescelto per i suoi scopi; ed il secondo, al potere, che l’Amministrazione finanziaria talvolta si attribuisce, di sindacare l’economicità, cioè il merito, delle scelte imprenditoriali. Si rende pertanto necessaria una breve postilla di diritto civile, commerciale e costituzionale sui principi di autonomia privata e libertà di iniziativa economica, i quali saranno spesso richiamati in questa seconda parte di lavoro. 166 §2) Autonomia privata e libertà di iniziativa economica. Generalità. Del principio di autonomia privata, ai nostri fini, rileva l’aspetto, di ambito più ristretto, dell’autonomia negoziale, il quale poggia principalmente su due libertà, quella di contrarre, cioè di costituire, modificare od estinguere situazioni giuridiche, e quella di determinare il contenuto dell’accordo. L’autonomia negoziale a sua volta, “contiene” il concetto di autonomia contrattuale284 (art. 1322 cod. civ.). È proprio quest’ultimo, l’aspetto che qui maggiormente rileva, in riferimento soprattutto alla connessa possibilità di concludere contratti atipici. A questo riguardo, il significato ad essa attribuito, è duplice, da una parte è infatti inteso come “libertà di perseguire finalità diverse da quelle perseguibili con i contratti tipici, dall’altra, come libertà di perseguire con modalità contrattuali atipiche finalità già perseguibili con contratti tipici”285, costituendo inoltre la “libertà di utilizzare contratti tipici per realizzare finalità atipiche - ... – oppure di combinare fra loro varie figure contrattuali, tipiche o atipiche, per realizzare – come nei contratti collegati – interessi ulteriori e diversi da quelli sottostanti a ciascun contratto, isolatamente considerato.”286. I limiti a tale autonomia, sono posti dal legislatore a tutela di interessi generali e talvolta, con atteggiamento ‘paternalistico’, a 284 Cfr. Messineo F. , “Il contratto in genere”, Giuffrè, Milano, 1973, pag. 42: “La libertà (o autonomia) contrattuale (o, in più larga accezione, negoziale) dipende concettualmente (e ne è la principale articolazione) dalla cosiddetta autonomia privata (che, a sua volta, è il riflesso della libertà economica). 285 Così Galgano, “Diritto civile e commerciale”, II/1, Cedam, Padova, pag. 138. 286 Galgano, op. cit., pag. 139. 167 tutela degli stessi contraenti, soprattutto quelli appartenenti a categorie considerate più deboli. Il principio di cui si discorre, ha vissuto momenti di espansione e di contrazione, a seconda che, nel corso di decenni di storia economica, prevalesse una tendenza liberista, più o meno marcata, ovvero di programmazione pubblica e quindi di ingerenza nelle vicende economiche dei privati. La fase attuale, caratterizzata da una elevata tendenza verso la globalizzazione dei mercati, è accompagnata da una forte resistenza contro qualsiasi ipotesi di statalizzazione, come testimoniato dalle politiche di deregulation, privatizzazione e smantellamento dello stato sociale. Si assiste in sostanza ad un rifiuto dell’intervento pubblico nell’economia alimentato dai palesi fallimenti della passata gestione della cosa pubblica. Lo stesso articolo 41 della Costituzione, almeno nella sua accezione più ‘interventista’ riguardo i pubblici poteri, appare in crisi, una crisi accentuata dall’ormai consolidata appartenenza ad un mercato sopranazionale287, quello della Comunità europea, insensibile o quasi alle istanze solidaristiche votata invece all’esaltazione del “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” (art. 4 del Trattato istitutivo della CEE). Da molto tempo si discute se lo scenario economico delineato dalla Costituzione propenda per l’una o l’altra posizione, ma probabilmente entrambe possono essere considerate compatibili con il dato costituzionale, almeno nella misura in cui, coesistendo, consentono la elaborazione di soluzioni e scelte che contemperino gli aspetti potenzialmente conflittuali, delle istanze sociali e delle 287 Cfr. Barcellona, in “Diritto privato e società moderna”, Jovene, Napoli, 1996, pag. 294: “Lo Stato è un frammento di una comunità sovranazionale;il suo territorio politico non è più il territorio del suo mercato e delle sue imprese. I suoi strumenti di controllo, autoritativi o persuasivi che siano, non hanno più la capacità di raggiungere i destinatari, le imprese, perché queste non sono più raggiungibili.”. 168 ragioni del mercato, garantendo altresì il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo. L’orientamento costituzionale in materia di economia infatti, lungi dall’essere descritto dal solo art. 41, è dato dalla sua combinazione con altri precetti, soprattutto quelli delineati negli artt. 1, 2, 3, 36, 42 e 43. Inoltre, il ‘peso specifico’ degli aspetti sopra menzionati, è determinato dalla situazione storica e socio-politica del momento. Non appare dunque possibile tentare di individuare, all’interno della Costituzione, una “Costituzione economica”, quale complesso normativo in qualche modo avulso o comunque estrapolabile dalla Suprema Carta, “isolare una sfera dell’economico rispetto agli altri contesti nei quali si esplicano le attività sociali dell’uomo, è quantomeno problematico, e (...) conseguentemente lo è ancora di più postulare una autonomia delle disposizioni in materia economica all’interno di testi normativi come quelli costituzionali, che hanno l’ambizione di dettare regole fondamentali di un sistema sociale nella sua intierezza288.”. All’interno dello stesso art. 41 possono ravvisarsi entrambe le tendenze, liberista289 e dirigista290 ma, come acutamente osservato da Barcellona291: nell’articolo 41 Cost., la “coesistenza di principi, che sono apparentemente contraddittori, è realizzata....non assumendo nessun principio come assoluto, perché l’assolutezza di uno escluderebbe tutti gli altri.” 288 Così Luciani M. in “Economia nel diritto costituzionale”, 1990, pag. 374. 289 Art. 41, I° comma: “L’iniziativa economica privata è libera.” 290 Art. 41, III° comma: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.” 291 In “Diritto privato e società moderna”, op. cit., pag 164. 169 Per tornare al più conferente aspetto dell’autonomia negoziale, si rileva che la definizione dei suoi limiti, analogamente a quanto detto in proposito dell’art. 41 Cost., non può essere dogmatizzata dal solo art. 1322 cod. civ., “Il codice, così come edifica una regola di libertà contrattuale (artt. 1321 e ss.), così, nello stesso modo, e senza soluzione di continuità, erige una controregola formulata in più articoli (1343 e ss., 1418), che argina la libertà contrattuale a salvaguardia dell’ordine pubblico, della morale, della norma imperativa, ecc.292”. I condizionamenti giuridici posti sulla base di criteri economico-sociali insomma, indicano, in negativo, la misura in cui l’interesse del privato può trovare tutela in un sistema giuridico espressione di interessi generali, non implicando quindi che sia il privato, attraverso i suoi atti, a farsi portatore di questi. È questo, in estrema sintesi, lo scenario all’interno del quale si muove l’autonomia dei privati in materia di atti negoziali in genere e contratti in particolare. I labili confini disegnati dalle disposizioni normative, evidenziano la difficoltà di ricondurre i diritti dei singoli all’interno di specifici canoni di comportamento, rendendo in tal modo arduo accertare l’esistenza di forme di abuso sia nella specifica materia contrattuale civilistica, sia in quella tributaria che da essa deriva. Appare altresì chiaro che la libertà di cui godono i singoli, benché costituisca indubbiamente un valore di fondamentale importanza, non può considerarsi una barriera invalicabile per i pubblici poteri, i quali, nell’esercizio delle proprie funzioni, sono comunque soggetti a disposizioni costituzionali volte a garantirne la tendenziale equità. Per fare un paragone di stampo economico, si pensi alla centralità assegnata al ruolo della concorrenza che però 292 Così Sacco R. in “L’abuso della libertà contrattuale”, in AA.VV., “Diritto privato 1997. III) L’abuso del diritto, Cedam, Padova, 1998, pag. 218. 170 non implica un obbligo assoluto di non ingerenza da parte dello Stato che, attraverso l’autorità garante del mercato e della concorrenza, vigila su di essa, in modo da dare effettività alle istanze di tipo sociale che, unitamente a quelle di tipo più liberista, concorrono a delineare l’orientamento complessivo della nostra Legge Suprema. §3) L’ampiezza dei criteri civilistici di interpretazione dei negozi giuridici tra privati e la loro limitata applicabilità ai fini tributari. Premessa Per valutare appieno le considerazioni, in parte già svolte e in parte da sviluppare sull’interpretazione dei negozi giuridici ai fini tributari, occorre una breve digressione di diritto civile sull’interpretazione e la qualificazione dei negozi giuridici, onde evidenziarne punti di contatto e di contrasto con analoghe attività, svolte però in vista dell’applicazione della normativa tributaria. §3.1) Rapporti tra qualificazione ‘civilistica’ e fiscale delle attività dei privati. L’esame dell’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale dell’interpretazione (in sede ‘civilistica’) del contratto, ha evidenziato un orientamento tendenzialmente travalicante i limiti formali, in guisa da consentire all’interprete di individuare l’effettivo 171 scopo economico perseguito293, anche indirettamente, dai contraenti, avvalendosi inoltre, ex art. 1362 II° c. cod. civ., di un’ampia valutazione del comportamento complessivo delle parti, anche successivo alla conclusione del contratto. Si pone quindi l’interrogativo sulla possibilità ed opportunità che un simile approccio venga impiegato anche in campo tributario, e specificamente in funzione di contrasto dei possibili abusi dell’autonomia privata, talvolta perpetrabili a motivo della fungibilità di alcune figure negoziali in vista del raggiungimento di un medesimo fine (economico). Non si tratta di un dubbio di poco conto, trattandosi di questioni che riguardano l’attribuzione di poteri fortemente limitativi della libertà di scelta delle forme di disposizione dei propri diritti ad un organo amministrativo portatore di interessi diversi, tendenzialmente contrapposti a quelli dei privati. Le tesi ‘sostanzialistiche’, si è più volte evidenziato, attribuiscono un ruolo assolutamente primario al principio di capacità contributiva (ed a quelli ad esso connessi di solidarietà ed uguaglianza), ma la circostanza, unanimemente condivisa, che gli effetti economico-sostanziali dei comportamenti dei privati, stiano alla base di tale giudizio di valore, il quale assicura una giustificazione costituzionale del prelievo, non può far dimenticare che la stessa Costituzione ha assegnato al legislatore ordinario il compito di dare attuazione al citato principio, e quest’ultimo, per innegabili esigenze di oggettività e certezza del diritto, ha optato per l’individuazione delle fattispecie da sottoporre a tassazione attraverso la mediazione di quelli che sono gli aspetti giuridicoformali degli atti posti in essere anziché assumere a presupposto 293 Da un’accezione astratta e tipica della causa contrattuale si è passati all’individuazione in chiave di ‘ragione concreta del contratto’, di ‘funzione economico-individuale’, ovvero di ‘sintesi degli effetti giuridici essenziali’. 172 dell’imposizione direttamente le manifestazioni di capacità contributiva in termini di effetti economico-sostanziali degli atti stessi. Nella determinazione del reddito d’impresa, le disposizioni civilistiche costituiscono la base di partenza, mentre le norme tributarie hanno lo scopo di limitare la discrezionalità del contribuente, fissando parametri oggettivi294, inserendo delle qualificazioni ‘presuntive295’. Volendo ulteriormente rimarcare il rapporto di dipendenza esistente tra il reddito d’impresa (fiscalmente rilevante) e le risultanze del conto economico (civilistico), una lettura “a contrario” dell’articolo 52 del Tuir, evidenzia il principio per cui se non c’è una norma tributaria che espressamente regoli una data fattispecie derogando alla sua regolamentazione civilistica, allora la sua rappresentazione contabile conforme al dettato del codice civile e delle scienze aziendalistiche, funge da criterio-guida anche per la sua considerazione ai fini della determinazione del reddito (d’impresa) imponibile. 294 Si pensi alle disposizioni sull’ammortamento dei beni, l’applicazione del principio civilistico dell’iscrizione dei beni la cui utilità è limitata nel tempo, al valore corrispondente alla residua possibilità di utilizzazione, non sarebbe agevolmente verificabile e sarebbe fonte di incertezze anche per lo stesso contribuente che sarebbe sempre esposto a possibili contestazioni del fisco, pertanto il legislatore tributario ha adottato il metodo imperniato sull’applicazione di precisi coefficienti, con possibilità comunque di derogarvi in casi e in misura limitata. Stesso dicasi per la valutazione dei crediti verso la clientela, il valore di presumibile realizzo non può essere accolto in diritto tributario, per cui è stato prescelto il metodo di iscrizione al valore nominale, con possibilità di procedere alla loro svalutazione ‘forfetaria’, indipendente da effettive difficoltà nella riscossione, e al loro definitivo stralcio, in caso di impossibilità d’incasso, da provare documentalmente. 295 Ad esempio, in materia di Iva e imposte dirette, nelle vendite con riserva di proprietà, non si tiene conto della riserva, così come le locazioni con clausola di trasferimento vincolante per ambedue le parti, si considerano come cessioni di beni. 173 Una ulteriore conferma della correttezza di questa impostazione, può desumersi dalla centralità, attribuita dal legislatore della riforma tributaria296, alla rappresentazione dei fatti di gestione nelle scritture contabili, nonché la loro intrinseca attendibilità in vista di finalità che riguardano la correttezza delle informazioni relative all’attività gestoria per assicurare il rispetto dei diritti dei terzi. Ebbene le disposizioni specificamente tributarie, deroganti o quantomeno specificanti quelle civilistiche, secondo questo modo di intendere, possono considerarsi come regolatrici di quei casi in cui ‘terzo’ è l’Erario. §3.2) Qualificazione e riqualificazione negoziale: differenze concettuali e relativi poteri dell’Amministrazione finanziaria. Per chiarire quale sia il preciso ruolo dell’attività qualificatoria, possiamo asserire che essa funge da trait d’union fra l’atto di autonomia privata e l’intero ordinamento giuridico, in modo da attribuire all’operazione economica voluta dai privati, quelle conseguenze giuridiche contemplate nel complesso normativo approntato dal legislatore per la regolamentazione della fattispecie. Ed è appunto tramite la qualificazione che viene attuato quel processo di verifica di identità-differenza, dell’atto compiuto e della fattispecie contemplata dalla norma tributaria297. 296 Cfr. art. 10, II° c. n. 4, legge 09/10/1971, n. 825. 297 Cfr. Carresi, “Accertamento e interpretazione del contratto”, in Diritto e impresa, 1989, pag. 928, afferma infatti che così come le parti sono sovrane nello stabilire in quale modo vogliono regolare i loro interessi, così l’ordinamento è sovrano nel ricollegare ai regolamenti di privati interessi gli effetti giuridici che reputa più opportuni. 174 Attraverso la qualificazione giuridica, in altre parole, estrapolata da un testo negoziale la volontà delle parti, questa è stata collocata secondo l’istituto cui erano direttamente riconducibili quegli stessi accordi. Preme inoltre sottolineare che la scelta di utilizzare il termine “qualificazione”, anziché “riqualificazione”, non è solamente terminologica, si è infatti dato preferenza all’orientamento della dottrina che ritiene che le parti contraenti, non procedono alla sua qualificazione (da cui la successiva operazione compiuta dal Fisco o dai giudici sarebbe una “riqualificazione”), ma semplicemente gli attribuiscono una denominazione che può non rappresentare l’esatta natura giuridica della volontà estrinsecata nel negozio stesso. Nel suo ruolo di tutore degli interessi erariali, appare dunque doveroso attribuire all’Amministrazione finanziaria la possibilità di operare siffatta qualificazione prescindendo anche dal nomen juris attribuito dalle parti stesse, poiché se così non fosse, la varietà e tassatività dei regimi imponibili si presterebbe a facili distorsioni attraverso un utilizzo disinvolto e ‘malizioso’ dell’autonomia negoziale, ma è altrettanto obbligatorio che a tale potere vengano apposti dei limiti. Ciononostante si è riscontrata la tendenza dell’organo amministrativo verso una qualificazione dei negozi tale da agganciare l’accordo privato alla fattispecie fiscalmente più onerosa, facendo perdere all’accordo stesso le peculiarità sue proprie quale necessaria rappresentazione formale della volontà negoziale, unico e solo punto di riferimento dell’attività ermeneutica e di conseguente imposizione, esercitabile dall’Amministrazione finanziaria al di fuori di quelle fattispecie, positivamente e tassativamente individuate, nelle quali lo stesso legislatore le concede ulteriori mezzi, approntando 175 comunque particolari procedure e limiti affinché si possa ancora parlare di discrezionalità (vincolata) e non di arbitrio, garantendo la tutela del contribuente attraverso la possibilità di fornire la prova contraria e di richiedere l’interpello preventivo. Ad esempio, nel caso del lease-back298, l’impostazione del Secit mirava a disconoscere che nell’accordo concluso dalle parti si verificasse una vendita, qualificandola ‘dazione a garanzia’ e così il corrispettivo dei canoni come rata di mutuo. Ed è in questo che le censure della dottrina e della giurisprudenza coglievano nel segno, avendo il fisco ‘stravolto’ la volontà negoziale. Per riepilogare brevemente con altro esempio, gli organi ispettivi, di fronte ad un accordo denominato dalle parti ‘comodato’, ravvisandovi, nella concatenazione del complesso delle clausole in esso racchiuso, la corresponsione di un canone, hanno il poteredovere di superare la denominazione di parte, applicando alla fattispecie il regime della locazione, ma non possono andare aldilà od all’esterno della volontà negoziale esplicitata, correttamente o meno, nell’accordo. Naturalmente questo non significa che l’ufficio accertatore, nell’analisi dei singoli negozi non possa rinvenire elementi di nullità o intenti fraudolenti, ma queste circostanze devono essere provate nelle singole fattispecie sulla base di fatti certi e non con affermazioni aprioristiche, fondate cioè su principi che essa stessa ha elaborato ovvero, innegabilmente esistenti, ha presunto di poter applicare a difesa dei propri interessi, rammentando che l’organo amministrativo è terzo interessato nel negozio privato, per cui gli è inibito un tale potere, la cui competenza è del giudice ordinario. In ciò può infatti cogliersi una differenza fondamentale tra 298 Sul quale più diffusamente infra II.1.ii). 176 l’interpretazione ‘civilistica’ e quella ‘fiscale’ del negozio giuridico, perché mentre la prima si caratterizza per la neutralità dell’autorità giudiziaria istituzionalmente deputata a dirimere le controversie, nella seconda vi è la mediazione giuridico-formale del presupposto d’imposta, risolvendosi il compito dell’autorità fiscale nell’obbligo di accertare l’obbligazione tributaria corrispondente alla capacità contributiva espressa nell’accordo, e tale relazione è individuata positivamente dalla regola contenuta nella disposizione tributaria sostanziale. Per rendere ancora più evidente la correttezza di queste ultime affermazioni, si può, generalizzando ed estremizzando la questione, pensare ai contratti stipulati dalla Pubblica amministrazione, ed ai pericoli insiti nella eventuale attribuzione a questa del potere di interpretare autoritativamente il contratto. In tali ipotesi, l’interesse pubblico viene già assicurato attraverso la particolare disciplina, in parte derogatoria di quella ordinaria civilistica, che consente all’Amministrazione-parte l’esercizio di particolari poteri. Ma anche in questi casi, tra l’altro individuati positivamente, l’interpretazione della parte pubblica, in ipotesi di conflitto con la parte privata, non potrà autoritativamente essere imposta, e per la soluzione della controversia si renderà comunque necessaria l’adizione del giudice ordinario. A chi volesse ancora sostenere la possibilità di espandere la portata dell’art. 20 del DPR 131/86 all’accertamento delle imposte sui redditi, si potrebbe agevolmente obiettare con due fondamentali aspetti di tale disposizione che si ritiene di condividere, anzitutto il fatto che, in modo coerente con la logica ed il funzionamento dell’imposta di registro, essa mira a sottolineare il presupposto formale, l’atto giuridico sottoposto a tassazione, ancorando il 177 prelievo ai termini giuridici e non a quelli economici299. In secondo luogo, la giurisprudenza della Suprema Corte ha espressamente statuito che “...l’atto deve essere tassato in base alla sua intrinseca natura ed agli effetti (ancorché non corrispondenti al titolo ed alla forma apparente) da individuare attraverso l’interpretazione dei patti negoziali, secondo le regole generali di ermeneutica, con esclusione degli elementi desumibili aliunde300.” Quindi anche nell’ambito della stessa imposta per la quale è stato previsto, lo strumento di cui alla norma in commento soffre di una limitazione che impedisce all’ufficio del Registro di procedere a qualificare il negozio sulla base del comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione dello stesso, dovendosi limitare all’esame delle clausole dei negozi sottoposti a tassazione. L’inapplicabilità dell’istituto de quo, potrebbe fornire l’argomentazione anche per sostenere che, al di fuori dell’ambito dell’imposta di registro, gli elementi extratestuali potranno essere utilizzati, ricorrendone i presupposti di gravità, precisione e concordanza, quali elementi presuntivi per l’attività di accertamento di cui agli artt. 39301 del DPR 600/73 per le imposte dirette e 54 del DPR 633/72 per l’IVA. Infine, e correttamente, è stato messo in evidenza da attenta dottrina come sia diverso l’ambito applicativo dell’art. 20 citato rispetto a quello dell’art. 1362 cod. civ.. Per quest’ultimo infatti occorre ricercare l’effettiva intenzione delle parti, senza limitarsi al 299 Significativa in tal senso la circostanza che nel testo vigente è stato espressamente escluso l’originario riferimento agli effetti economici delle pattuizioni negoziali. 300 Cass. 06/05/1991, n. 4994. Nello stesso senso anche, Cass. 09/05/1997, n. 4064. 301 Nei casi di cui al comma 2 possono essere utilizzate presunzioni prive di tali caratteristiche. 178 senso letterale delle parole, invece nell’imposta di registro i contratti vanno considerati per gli effetti giuridici che sono idonei a produrre potenzialmente, anche se essi non sono voluti dalle parti, purché siano riconducibili allo schema negoziale astratto, in cui le parti si sono uniformate302. §3.3) L’interpretazione del contratto nel diritto civile. Diversità delle finalità e dell’ambito all’interno del quale si muove l’analoga attività in sede tributaria e limiti alla qualificazione negoziale. L’interpretazione ‘civilistica’ dei contratti, trae la sua fonte normativa dalle disposizioni contenute negli articoli da 1362 a 1371 del codice civile, applicabili, per l’espresso rinvio operato dall’art. 1324 anche agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale. È stato già parzialmente anticipato nel precedente paragrafo che il procedimento dell’interpretazione inizia con l’accertamento, per mezzo di prove, degli elementi di fatto, ovvero ciò che è o non è accaduto, ciò che è o non è vero. La fase successiva riguarda la determinazione dell’effettivo contenuto come atto di volontà, interpretando cioè gli elementi di fatto precedentemente provati. Infine, il fatto, la cui esistenza e veridicità è stata provata, ed il cui 302 Cfr. D’Amati, “Rilevanza e vizi degli atti ai fini dell’imposta di registro”, secondo il quale: “la mancata coincidenza tra l’art. 1362 del codice civile e l’art. 20 del testo unico (Dpr 131/86), dunque, trova fondamento nei diversi limiti dell’indagine. Infatti, secondo la disposizione civilistica, l’interpretazione investe il comportamento antecedente e successivo alla conclusione del contratto. La norma della legge sul registro, invece, permette di interpretare l’atto in riferimento alla sua intrinseca natura e agli effetti giuridici. 179 significato accertato, deve trovare collocazione nel sistema del diritto positivo, attraverso appunto la qualificazione giuridica di esso, fase quest’ultima sottratta all’autonomia privata, per questo motivo si dice che l’interprete non è vincolato dal nomen juris dato dalle parti all’accordo. Occupandoci della interpretazione ‘legale’, condotta secondo i criteri dalla legge stabiliti, la norma fondamentale, l’art. 1362 cod. civ., sottolinea la necessità di non limitarsi al senso letterale delle parole. Deve evitarsi l’equivoco di interpretare questo criterio alla stregua dell’art. 12 delle disp. preliminari, a motivo della differenza di oggetto dell’attività ermeneutica e di fine della stessa. Nell’interpretazione di una norma, la necessità di andare oltre il significato delle parole discende direttamente dalla circostanza che essa deve trovare collocazione sistematica all’interno di un ordinamento fatto di altre norme e anche principi, con i quali si deve fondere in maniera armonica, con il corollario che, un mutamento di essi può far cambiare anche drasticamente303 la stessa disposizione benché immutata nel testo (interpretazione sistematica ed interpretazione evolutiva). Nell’attività negoziale invece, l’interprete non mira direttamente a determinare il significato delle parole usate, benché si avvalga di esse per ricercare l’effettiva volontà, pertanto non è vincolato dalla formula usata che rappresenta quindi solo il mezzo attraverso il quale le parti hanno inteso esprimere la volontà negoziale, ben potendo questa “formula”, essere stata utilizzata in modo maldestro, più o meno maliziosamente. Per ‘volontà’ non deve restrittivamente intendersi l’intenzione o scopo intimamente perseguito dall’uno o dall’altro contraente, ma il ‘voluto’ così come 303 Fino alla sostanziale abrogazione (implicita) per desuetudine. 180 tradotto dall’accordo palesato. Si darà allora prevalente rilevanza all’affidamento, partendo dal comportamento esteriore ed anche posteriore delle parti, dovendosi giungere al punto di intersezione delle loro volontà inerenti la disposizione dei propri diritti quali potevano apparire alle stesse dal reciproco comportamento. In quest’ottica, in altre parole, si darà prevalenza alla ricerca del senso che la parte poteva ragionevolmente aspettarsi di fronte alla dichiarazione ed al comportamento dell’altra. Quanto detto risulta intuitivamente, ove si consideri che l’oggetto della ricerca interpretativa del giudice, il quale deve risolvere un concreto dubbio interpretativo sulle formule usate o sul contegno tenuto, è proprio l’interpretazione della parte. Si comprende così anche l’impossibilità di applicare l’analogia e l’interpretazione evolutiva. Individuati a grandi linee i criteri di interpretazione, piuttosto ampi, del negozio giuridico ai fini civilistici, resta da stabilire se essi possano essere integralmente recepiti dall’interprete ‘fiscale’. Una prima osservazione è che tali principi esprimono delle nozioni di diritto comune, e come tali applicabili anche in campo tributario. Le finalità ed il contesto all’interno del quale si estrinseca “l’interpretazione fiscale” però, sono profondamente diverse da quelle che caratterizzano il sistema civile, la prima essendo diretta all’accertamento dell’obbligazione tributaria corrispondente alla capacità contributiva espressa dall’accordo. Altri elementi depongono a favore della necessità di limitare la discrezionalità ermeneutica in campo fiscale evidenziando altresì i pericoli insiti in un’accezione contraria. Anzitutto la posizione super partes del giudice civile, e quella invece di terzo interessato (e portatore di interessi contrastanti) 181 dell’Amministrazione finanziaria, inoltre la circostanza che il procedimento interpretativo contiene in sé un accertamento di fatto304 implicante una valutazione legittimamente suscettibile di una conclusione non univoca, è poi pacifico che la discrezionalità amministrativa sia caratterizzata dalla possibilità che l’organo amministrativo possa compiere delle valutazioni e quindi delle scelte motivate da giudizi di opportunità, ma tale discrezionalità non si esprime solo a livello decisionale, essendo ipotizzabili funzioni vincolate in relazione all’atto finale che esprime la scelta, ma discrezionali per quanto riguarda l’individuazione dei presupposti della stessa305, sembra allora opportuno ribadire che la vincolatività dell’attività di accertamento delle imposte non vada ricercata solo nell’ovvia impossibilità che gli uffici emettano giudizi di opportunità, ma anche nel conseguente compito del legislatore di predisporre procedimenti interpretativi legali tali da garantire la (tendenzialmente) assoluta univocità dei fatti da accertare. Prova decisiva al riguardo, nell’ordinamento è tributario, fornita di dalla norme stessa che, presenza, attribuendo espressamente speciali poteri accertativi (ed interpretativi in deroga quindi a quanto prima detto) che consentono il superamento delle strutture formali private, implicitamente restringono l’ambito di quelli ‘ordinari’. Dunque, per ricapitolare brevemente, l’Amministrazione finanziaria non può, di fronte ad una presunta discordanza tra forma e sostanza negoziale, procedere ad una ‘qualificazione’ in via 304 Infatti, l’interpretazione del contratto quale giudizio di fatto è censurabile in sede di legittimità solo per errata applicazione delle norme che la disciplinano, artt. 1362 e ss. cod. civ. 305 In tal senso, Piras, “Discrezionalità amministrativa”, in Enc. Giur., 1990, XIII, 1964, 87 e ss.. 182 interpretativa, mentre potrà esercitare la propria attività di accertamento su base presuntiva (o perfino indiziaria ex art. 39 II°c. DPR 600/73) qualora ne ricorrano i presupposti di legge e, nell’ambito di tale procedimento, sottoporre a tassazione la concreta sostanza dell’affare. In questa stessa direzione la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale, nella sentenza n. 12794, del 04/06/2001, ribadendo l’orientamento espresso precedentemente con le sentenze 09/05/1997, n. 4064 e 28/07/2000, n. 9944, ha escluso che, “...in mancanza di una norma che tale possibilità specificamente prevedano, l’Amministrazione finanziaria possa determinare la natura di un contratto prescindendo dalla volontà concretamente manifestata dalle parti e magari in contrasto con essa.”. §3.4) Il collegamento negoziale come strumento elusivo e i poteri interpretativi del Fisco come mezzo per contrastarlo. Occorre infine fare un passo avanti per dare conto delle possibilità e dei limiti che l’Amministrazione finanziaria incontra nell’interpretazione non di un singolo accordo, bensì di un complesso negoziale nel quale, il raggiungimento di un fine unitario, viene perseguito attraverso una pluralità di atti, fatti o negozi ovvero, per dirla con altri termini, quali presupposti devono verificarsi affinché, nell’ambito dell’attività interpretativa da parte dell’organo amministrativo, questi possa ricondurre ad unità, in quanto considerati teleologicamente collegati, più attività negoziali e non. 183 È chiaro il riferimento al ‘disegno elusivo’ di cui all’art. 37bis ed all’inciso ivi contenuto degli ‘atti, fatti e negozi, anche collegati tra loro...’. Con tale inciso il legislatore ha volutamente attribuito all’Amministrazione finanziaria la possibilità di ricercare la causa originaria, per qualificarla eventualmente elusiva, di una concatenazione causale di eventi, da cui siano scaturiti i supposti vantaggi tributari. Questi ultimi potranno essere infine qualificati indebiti, e pertanto disconosciuti, allorché detta concatenazione venga ritenuta anormale in vista del raggiungimento del risultato economico palesato, e qualora essa difetti di alcuna plausibile ragione che non sia esclusivamente quella di conseguire per il suo tramite un certo vantaggio306tributario, o infine quando possa rilevarsi una interdipendenza funzionale delle singole operazioni che, poste in essere in apparente casualità ed autonomia, nella realtà perseguono un fine unitario. Quanto detto, se appare corretto visto in riferimento ad una norma antielusiva come l’art. 37-bis, non può, al di fuori di essa, assurgere a criterio generale di interpretazione utilizzabile in sede di accertamento delle imposte in un ordinamento tributario come il nostro, nel quale abbiamo già detto non trova dimora il principio di prevalenza della sostanza sulla forma. Numerosi sono invece gli esempi di tentativi in tale direzione esperiti da zelanti verificatori delle fiamme gialle o degli uffici fiscali. In uno di essi307, l’ufficio tributario, pretendeva di ricondurre ad unità una complessa operazione di leasing nella quale l’ordinaria prestazione del concedente era stata ripartita in due distinti contratti, 306 Cfr. Falsitta, Manuale..., op. cit. pagg. 181 e ss. 307 È il caso esaminato in Cass. sez. I, sent. N. 5935 del 03/03/99. 184 in base ai quali la società di leasing concedeva al proprio cliente il bene-automobile, e la società finanziaria (appartenente allo stesso gruppo) provvedeva, oltre all’assicurazione del bene per rischi diversi dalla responsabilità civile, a garantire (per un corrispettivo diverso da quello dell’assicurazione, pagato anticipatamente dall’utilizzatore al momento della stipula del contratto di leasing) l’adempimento degli obblighi dell’utilizzatore verso la concedente, mediante una cauzione pari al costo del bene eccedente i canoni anticipati e con una fideiussione illimitata. L’Amministrazione finanziaria nella fase contenziosa ha sostenuto che: - per qualificare un contratto, occorre accertare quale interesse esso è concretamente volto a realizzare, cosicché non basta verificare se lo schema usato dalle parti sia compatibile con uno dei modelli contrattuali, ma occorre ricercare il significato pratico dell’operazione con riguardo a tutte le finalità che, sia pure tacitamente, il contratto è diretto a realizzare; - le varie obbligazioni nascevano da un unico contratto di leasing, e non poteva accettarsi che l’attività delle parti fosse riconducibile invece ad una serie di contratti autonomi giustificandola con l’autonomia delle parti nel compiere tali attività, risultando in pratica le parti coinvolte in un meccanismo contrattuale di obbligazioni reciproche che si attivava in occasione dell’unica manifestazione di autonomia contrattuale ipotizzabile, cioè la conclusione del contratto di leasing tra concedente ed utilizzatore. 185 A queste argomentazioni la Suprema Corte ha ribattuto, per quanto in questa sede conferente308: - che ogni utilizzatore stipulava due distinti contratti aventi ciascuno una propria individualità ed una propria causa, pertanto doveva ritenersi che, avendo le parti regolato univocamente il proprio assetto di interessi attraverso distinti ed autonomi contratti fra loro teleologicamente collegati, il vincolo di collegamento non valeva a sottrarre ciascun contratto al proprio regime giuridico e fiscale. Una (ri)qualificazione di essi come contratto unitario (misto o complesso) era dunque palesemente contrastante con la comune intenzione delle parti; - che a tale scopo non può neppure addursi la circostanza che complessivamente l’operazione realizzata economica dalle parti fosse equivalente a quella sottesa ad un normale contratto di leasing, perché il principio di autonomia contrattuale enunciato dall’art. 1322 cod. civ. consente alle parti di scomporre in più contratti funzionalmente collegati un’operazione economica conseguibile mediante un unico contratto; - che non è altresì consentito all’Amministrazione finanziaria, di prescindere dallo schema negoziale validamente scelto dalle parti e dalla sua configurazione giuridica civilistica e ricondurre la 308 A prescindere cioè dalla sussistenza di motivazioni economico-organizzative comunque affermate nella sentenza. 186 fattispecie concreta ad altra fiscalmente più onerosa in base ad un’ottica meramente economica; - che solo eccezionalmente tassativamente consente indicate, la e per normativa all’Amministrazione operazioni tributaria finanziaria di disconoscere i vantaggi tributari conseguiti in determinate operazioni, ma solo se queste, in aggiunta, rispettano le ulteriori condizioni di applicabilità dalle stesse norme enunciati. Una fattispecie che si è trovata spesso ad essere oggetto di sindacato da parte degli organi accertatori, è quella relativa a plurime e successive cessioni di beni aziendali, riqualificate ai fini tributari quale unitaria cessione di azienda. Nonostante si tratti di una questione che non tocca problematiche legate all’imposizione diretta, riguardando infatti l’imposta di registro e l’Iva, le sentenze di legittimità che le riguardano sono comunque significative ai fini della presente indagine, consentendo di trarre dei principi generali statuiti dalla Suprema Corte309, ed in quanto tali validamente utilizzabili anche oltre i confini del singolo caso. L’orientamento della Cassazione può dirsi consolidato, nella direzione che il potere di qualificare un contratto non sia affatto precluso all’Amministrazione finanziaria. Sul punto è stato autorevolmente osservato in dottrina310 che “l’unico strumento attraverso il quale l’amministrazione può pervenire ad una riqualificazione del fatto o negozio elusivo, indipendentemente dalla 309 Cass. sez. I, sent. n. 4319 del 28/04/1998. 310 Fantozzi, “Diritto tributario”, op. cit. pag. 188. 187 sua previa invalidazione sul piano sostanziale, è costituito... – in assenza o indipendentemente dalla previsione di specifiche clausole antielusive – da una interpretazione logica della norma che dia adeguato rilievo alla sostanza economica della fattispecie, all’interesse del Fisco a scoraggiare l’elusione ed in definitiva ad una realizzazione effettiva del principio di capacità contributiva espresso dalla ratio del tributo.” Abbiamo però più volte evidenziato, che l’unica norma dell’ordinamento che conferisce all’Amministrazione finanziaria un potere interpretativo di tale ampiezza è l’art. 20 del DPR 131/86 che, per la stessa dottrina ha una portata limitata all’interpretazione degli atti soggetti a registrazione, non riguardando quindi l’interpretazione della norma tributaria, la quale si ripete, non si sottrae agli ordinari criteri ermeneutici. In altre parole, può affermarsi il principio per cui l’Amministrazione finanziaria ha il potere di individuare gli effetti degli atti negoziali dei contribuenti, anche prescindendo dalla volontà delle parti, ma tale potere trova un insuperabile limite nella stessa norma di legge che lo conferisce, se si concorda come me, con chi ha affermato che “...la regola dell’art. 20 è, per così dire, a fattispecie esclusiva perché applicabile solo all’imposta di registro e non pure per le imposte sui redditi e l’Iva.311”. L’importanza di un corretto utilizzo del criterio del collegamento negoziale ai fini dell’interpretazione complessiva di un rapporto negoziale del quale occorra valutarne le eventuali potenzialità elusive, è posto adeguatamente in evidenza da alcune recenti risoluzioni ministeriali emesse a seguito della procedura di 311 Così Nuzzo, “Lease-back, elusione, poteri degli organi ispettivi.”, in Rass. trib. 12/1990, pagg. 801 e ss.. 188 interpello preventivo. Si è infatti constatato dalle risposte dell’Agenzia delle Entrate, che spesso, qualificata una fattispecie come non elusiva, la sua regolarità viene comunque ad essere in un certo senso condizionata da particolari ed ulteriori tipologie di operazioni, le quali, se poste in essere a monte o a valle della fattispecie descritta nell’istanza, farebbero transitare la stessa tra quelle suscettibili di contestazione in sede di accertamento tributario. Ad esempio, la Ris. Min. n. 28 del 30/01/2002312, ha giudicato non elusiva una operazione di scissione parziale e proporzionale di una società preesistente in una società beneficiaria di nuova costituzione alla quale sarebbero stati assegnati beni immobili, strumentali all’esercizio dell’attività dell’impresa della società scissa, e successiva stipulazione di un contratto di locazione, a prezzi di mercato, avente per oggetto i medesimi beni immobili, tra società scissa e società beneficiaria. Nella pronuncia ministeriale, si legge però che “... nel caso in cui i soci della società istante dovessero cedere, a qualsiasi titolo, il controllo della società scissa a terzi, anziché limitarsi alla stipulazione di accordi di joint venture, e, successivamente, i nuovi soci dovessero per qualsiasi ragione risolvere il contratto di locazione con la società beneficiaria facendo assumere alla stessa natura di mera società ‘contenitore’, la serie di operazioni poste in essere sarebbe preordinata a svuotare più che ad alleggerire la società istante dei beni immobili, prima della cessione del controllo, usufruendo indebitamente del regime di neutralità d’imposta tipico della scissione.” Situazioni analoghe si riscontrano soprattutto in quei numerosi casi sottoposti all’interpello preventivo, nei quali potrebbe 312 Tratta dalla banca dati ‘Documentazione http://www.finanze.it/ 189 tributaria’, presso il sito rinvenirsi l’espediente di trasformare le plusvalenze sui singoli beni (o talvolta i ricavi), in plusvalenze su partecipazioni attraverso la cessione di azioni o quote di società alle quali si erano precedentemente assegnati determinati beni, solitamente immobili. È stato più volte ribadito che, per la correttezza dell’operazione complessa, assumono particolare rilevanza i tempi e le condizioni della stessa, affinché possa essere escluso che nella fattispecie concreta sottoposta a parere, possa ravvisarsi l’intento (elusivo) di creare una società ‘contenitore’ attraverso la quale trasformare i beni in beni di secondo grado, in vista di una cessione. La qualificazione dell’operazione come elusiva viene anche in questo caso a dipendere dal comportamento successivo delle parti313. §4) La qualificazione “amministrativa” del presupposto: aspetti critici di un potere limitativo dell’autonomia negoziale delle parti. Il caso del lease-back. Il (nuovo) ruolo dell’Amministrazione finanziaria nell’ambito della normativa antielusione disegnata dall’art. 37-bis, è, come detto in precedenza, quello di procedere, oltre alla ‘distruzione’ (ai fini fiscali) dell’impianto negoziale posto in essere dai soggetti agenti, quello di effettuare una vera e propria ‘qualificazione’ giuridica onde individuare la norma elusa, in modo da poter correttamente 313 Per la rilevanza dei comportamenti ulteriori, prodromici o successivi, in ordine alla qualificazione elusiva o meno di una operazione vedasi ad esempio le risoluzioni ministeriali nn. 183 del 14/11/2001; 53 del 21/02/2002 e 224 del 09/07/2002, in banca dati dell’Agenzia, http://www.finanze.it/ , documentazione tributaria. 190 calcolare (per differenza) quel risparmio d’imposta ritenuto indebito del quale richiedere il pagamento314. Accertata la sussistenza di un potere (rectius dovere) in tal senso nell’ambito delle operazioni censurabili in base alla citata norma, ci si può interrogare sulla legittimità di un suo utilizzo anche in casi estranei ad essa. In effetti gli organi ispettivi, sia prima che dopo l’introduzione della disposizione più volte citata, hanno tentato la via (impervia) della ‘qualificazione’ negoziale a fini fiscali. I tentativi fatti, naufragati in sede contenziosa, hanno talvolta evidenziato la assoluta pretestuosità delle contestazioni sollevate, ovvero, nella migliore delle ipotesi, posto in luce effettive lacune nella scrittura delle norme stimolandone la correzione, il tutto però accompagnato da costi enormi in termini sia di spese (per gli accertamenti ed il contenzioso), sia per la perdita di certezza dell’imposizione e di immagine della stessa Amministrazione finanziaria, e, importante conseguenza, senza essere riusciti ad evitare l’emorragia di gettito nel frattempo concretizzatasi, a parte i (pochi) casi nei quali la certezza di subire contestazioni da parte degli uffici fiscali ha inibito qualche operatore economico dal compiere quel tipo di operazioni. Il più delle volte le pretese dell’organo tributario non si incentravano ‘direttamente’ ed esplicitamente sull’affermazione e quindi l’esercizio del potere di qualificare i negozi ovvero di accertare essa stessa cause civilistiche di invalidità degli atti, benché nelle proprie affermazioni si rinvenissero ‘in ordine sparso’ argomentazioni tipicamente utilizzate nei diversi e inconciliabili 314 Art. 37-bis, II° comma DPR 600/73: L’amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti e i negozi di cui al comma 1, applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all’amministrazione. 191 contesti ‘civilistici’, a sostegno di tali tesi, e questo lo si desumeva dalle motivazioni di avvisi di accertamento (spesso clamorosi, per le somme in gioco e per la notorietà dei soggetti interessati), talvolta corroborate da alcune sentenze emesse da quelle Commissioni tributarie formate spesso da giudici privi della necessaria preparazione nella specifica materia non dedicandosi ad essa a tempo pieno, preoccupati più del danno patito dall’Erario (benché fosse talvolta innegabile e molto evidente), che della ricerca di fondamenti giuridici alle loro decisioni. La dottrina che si è occupata dell’elusione, sempre molto restia nell’attribuire poteri estremamente penetranti all’Amministrazione finanziaria, quali quelli connessi ad un autonomo potere reinterpretativo/qualificatorio del negozio giuridico, ha talvolta preso in considerazione questa eventualità, limitandola però attraverso l’abbinamento ad altri strumenti giuridici presenti nell’ordinamento. Per la verità, invertendone l’ordine logico, nelle argomentazioni circa il possibile utilizzo di istituti tipici del diritto civile per contrastare le pratiche elusive, alcuni autori315 hanno visto nella qualificazione del negozio a fini fiscali, il ‘completamento’ dell’opera distruttiva del negozio operato dalla norma civile, alla stregua di quanto detto supra sul 37-bis, sia essa la simulazione o la frode alla legge, un potere quindi subordinato al preventivo accertamento giurisdizionale dell’invalidità, con le conseguenze che essa giuridicamente comporta. Nel caso ad esempio dell’istituto civilistico del negozio in frode alla legge, anche la dottrina che si è schierata per un suo 315 Cfr. Pacitto, “Attività negoziale,evasione ed elusione tributaria....”. op. cit., pagg. 730 e ss. 192 possibile utilizzo a fini antielusivi316, ha dovuto riconoscere alcuni suoi limiti, tra i quali, per quanto qui rilevante, la sua portata distruttiva dell’intero negozio (rectius contratto) il quale, dichiarato nullo, sarà improduttivo di effetti erga omnes, ovvero come mai esistito, in guisa da far riemergere la situazione giuridica preesistente. Appare quindi evidente, che l’istituto de quo sarebbe appropriato nei soli casi nei quali lo scopo di eludere l’imposta sia il solo (od al limite il prevalente), per cui la sua completa rimozione non avrà, per così dire, ‘effetti collaterali’. Diversamente, nel caso in cui il contratto regoli altresì interessi meritevoli di tutela, la sua completa rimozione sarebbe sicuramente eccessiva nei riguardi delle parti contraenti, ma al tempo stesso insufficiente per l’Erario. Infatti in casi del genere, che sono tra l’altro la maggioranza, l’efficace ed efficiente utilizzo di questo mezzo non viene assicurata dalla semplice rimozione del negozio, ma richiede una sua vera e propria ‘qualificazione’ a fini tributari. In altre parole, sarebbe in questi casi necessario che l’organo accertatore possedesse l’autorità di considerare irrilevante ai soli fini fiscali il negozio elusivo, convertendolo al tempo stesso in un altro il quale dovrebbe avere gli stessi effetti economici e rientrare nella fattispecie prevista dalla norma che si è inteso eludere la quale lo sottopone a tassazione più gravosa. In senso conforme a quest’ultimo approccio, il giudizio della Cassazione317, molto noto in dottrina e già precedentemente citato, riguardante una permuta di immobili con titoli di stato precedentemente donati dallo stesso proprietario degli immobili, risolto dai giudici di legittimità evitando 316 Cfr. Gallo, “Brevi spunti...”, op. cit., pagg. 11 e ss.. 317 Sent. Cass. sez. civ. I, n. 2658, 09/05/1979. Vedasi nota 200. 193 una dichiarazione di nullità318 (del trasferimento immobiliare effettivamente voluto dalle parti ed espressione di un interesse innegabilmente meritevole sostanzialmente il di procedimento tutela) pur logico, ed seguendone attribuendo all’Amministrazione finanziaria il potere di sottoporre a tassazione il negozio (ri)qualificato come donazione immobiliare. Questa sentenza non solo contraddiceva il precedente orientamento della stessa Corte, ma inoltre non fornì alcun fondamento normativo a legittimazione di un siffatto potere e rimase comunque isolata. La Suprema Corte, molto probabilmente era partita dall’erroneo convincimento che, nella fattispecie in esame, si fosse già verificato il presupposto d’imposta, al quale il contribuente si era sottratto mascherandolo, ma se così fosse saremmo di fronte ad un fenomeno riconducibile all’evasione e non all’elusione fiscale, dalla quale quindi i giudici di legittimità non avevano, nell’occasione, compreso la sostanziale differenza. A conclusioni non molto differenti sono pervenute sia la dottrina che la giurisprudenza, per quanto riguarda la simulazione, come è stato già dedotto in sede di discussione circa la (im)possibilità di applicare l’art. 37 III° c., per contrastare il fenomeno del dividend washing. Determinante per la soluzione del dubbio, la circostanza per cui la norma riguarda le (sole) ipotesi di interposizione fittizia, che a sua volta presuppone una simulazione negoziale, che nella fattispecie non veniva integrata, a motivo della reale volontà delle parti di concludere quel dato negozio con quegli effetti. L’Amministrazione finanziaria ha invece evitato il più delle volte il ricorso diretto agli istituti civilistici appena citati, tentando di 318 L’art. 1344 non viene difatti menzionato nella sentenza. 194 raggiungere risultati ad essi fungibili, con la qualificazione negoziale a fini fiscali appunto, in tal modo bypassando il ricorso all’autorità giudiziaria ordinaria. Mantenendoci entro i confini segnati dall’oggetto del presente lavoro, i diversi espedienti ideati dagli organi ispettivi per contrastare i comportamenti elusivi attuati mediante quelle (presunte) ingegnerie negoziali che consentivano di raggiungere un fine (palese) lecito, con l’utilizzo ‘anormale’ di strumenti negoziali di per sé leciti, sono a mio avviso sostanzialmente riconducibili nell’alveo della ormai risalente e pressoché abbandonata teoria dell’interpretazione funzionale che ravvisava la possibilità di far prevalere la reale sostanza economica dell’affare, travalicando la forma negoziale prescelta dalle parti. Il Secit infatti, ha reiteratamente tentato di contrastare alcune pratiche (presunte) elusive, evitando il ricorso all’istituto della simulazione o della frode alla legge, ma reinterpretando gli accordi raggiunti dalle parti. Gli esempi maggiormente rappresentativi dell’impostazione dei ‘superispettori’, trasfusa con solerzia in circolari agli uffici periferici, sono sicuramente quelli legati alle vicende del dividend washing e del sale and lease back. Del primo mi sono già occupato, evidenziando l’impossibilità di procedere alla qualificazione dell’operazione sia nella sua forma della doppia vendita che dell’usufrutto, riconoscendo comunque la sua portata evidentemente elusiva testimoniata anche dal preciso intervento legislativo correttivo della norma eludibile a tutela degli interessi erariali, implicitamente concludendo che, benché fosse palese, ed eventualmente anche esclusivo, l’intento di eludere determinate disposizioni della legge tributaria e quindi un regime fiscale più oneroso, per poter procedere ad una qualificazione a fini fiscali del 195 negozio-strumento, occorre una precisa disposizione normativa che l’autorizzi. Se nel caso del dividend washing quindi, la reazione degli ispettori poteva in parte essere giustificata dalla sua reale potenzialità elusiva, incomprensibile appare l’accanimento contro l’operazione di lease-back, la quale veniva contestata più per l’aspetto formale che essa evidenziava che per un effettivo danno per l’Erario. Infatti, riepilogando brevemente data la notorietà dell’argomento, i sospetti sorsero inizialmente perché il negozio (complesso) era a struttura bilaterale, in ciò (solo) differenziandosi dall’ordinario contratto di leasing, sovrapponendosi le figure dell’alienante e dell’utilizzatore il bene oggetto del contratto, quasi sempre un immobile. L’organo amministrativo nonostante avesse ravvisato in questa differenza una possibile fattispecie simulatoria, ovvero una elusione del divieto di patto commissorio di cui all’art. 2744 cod. civ., ha ritenuto di poter procedere alla qualificazione del negozio attraverso la ricerca dell’‘effettivo assetto dei rispettivi interessi realizzato dalle parti’, in modo da considerare realmente voluta e quindi sottoporre ad imposizione l’ipotizzata operazione di mero finanziamento, ed evitando in questo modo il preventivo accertamento giurisdizionale di nullità. Il Secit poggiava la sua ‘interpretazione’, sull’assunto che il titolo di proprietà del bene venisse trasferito al finanziatore (concedente) a scopo di garanzia, e l’apparente corrispettivo celasse in realtà l’importo del finanziamento, configurandosi di conseguenza i canoni pattuiti come rate di mutuo comprensive di quota capitale e quota interessi. Una volta che, per tale via, veniva escluso il passaggio di proprietà del bene, in quanto considerato dato in garanzia, veniva automaticamente meno qualsiasi riferibilità della 196 fattispecie al divieto di patto commissorio. Le conseguenze fiscali per ambo le parti erano estremamente pesanti, comportando per l’utilizzatore-concedente la perdita del diritto alla detrazione dell’Iva assolta sui canoni corrisposti, e l’indebita deduzione dal reddito dei canoni stessi; specularmente, il concedente-acquirente perdeva il diritto alla deduzione delle quote di ammortamento del bene oggetto del leasing e la detrazione dell’Iva assolta sul suo acquisto. A ben vedere una delle critiche più accanite nei confronti dell’operato del Secit, poggia proprio sull’aspetto testé descritto. Non si riusciva in effetti a comprendere dove si celasse il danno per l’Erario, posto che, nella descritta operazione non si verifica alcun ‘salto d’imposta’ in quanto ciò che era deducibile da una parte era imponibile come ricavo o plusvalenza dall’altra. È pur vero che il venditore-utilizzatore, nel caso in cui il costo fiscale del bene fosse prossimo allo zero, poteva ‘ricominciare’ un processo di deduzione fondato questa volta sui canoni, ma è altrettanto vero ovviamente, che ciò implicava la cessione dello stesso ad un prezzo superiore al valore contabile, realizzando una plusvalenza imponibile pari esattamente alla differenza. Allo stesso modo, il concedenteacquirente, se da una parte deduceva le quote di ammortamento del bene, dall’altra assoggettava ad imposizione, iscrivendoli tra i ricavi di esercizio, i relativi canoni, simmetria divenuta perfetta a seguito dell’adozione, con la legge finanziaria per il 1996 che ha modificato l’VIII° comma dell’art. 67 del Tuir, del metodo ‘finanziario’ per la determinazione degli ammortamenti dei beni concessi in locazione finanziaria. Per quanto concerne l’Iva, ritengo superflua qualsiasi spiegazione sull’assenza assoluta di indebiti vantaggi fiscali, bastando riferirsi al funzionamento tipico di tale imposta, il solo 197 caso limite nel quale potrebbe ravvisarsi una convenienza fiscale è quello di una eventuale incidenza (a favore del contribuente) dell’operazione sul pro-rata di indetraibilità in caso di esercizio anche di attività dalle quali si originino corrispettivi esenti, ad esempio su operazioni di finanziamento. Da altro punto di vista, la tesi del Secit, partendo dal presupposto (corretto), che il nomen juris attribuito dalle parti all’operazione negoziale da essi conclusa non fosse vincolante in termini assoluti, giungeva però a delineare un assetto di interessi che divergeva non solo nella forma, ma anche nella sostanza, da quello voluto dalle parti. L’assunto entrava così in aperto e deciso conflitto con il principio secondo il quale i soggetti, non solo sono liberi di disporre a loro piacimento della propria sfera giuridico-economica, ma nell’ambito di questa libertà di fini (riconducibile alla libertà di iniziativa economica art. 41 Cost.), sono altrettanto liberi di elaborare ed adottare gli strumenti tecnico-giuridici che ritengano più efficaci ed efficienti per la realizzazione dei loro interessi anche al di fuori delle forme tipizzate nel codice civile, ovvero con una combinazione/concatenazione di strumenti negoziali tipici e/o atipici (libertà negoziale art. 1322 cod. civ.). Contenuto dell’accordo negoziale è dunque l’autoregolamentazione dei propri interessi attraverso la fissazione di un insieme di diritti ed obblighi ai quali le parti hanno inteso reciprocamente vincolarsi stipulando il negozio. Di conseguenza l’interpretazione del negozio, si concreta nell’indagine dell’affare concluso, quale forma e fenomeno giuridico, e non quale sostanza economica costituente il fine che attraverso il complessivo accordo si è inteso perseguire. Quanto detto permette di evidenziare l’equivoco di fondo sul quale l’intera ricostruzione operata poggia, ovvero una confusione di 198 ruoli tra interpretazione del contratto, nel cui ambito deve assegnarsi preminenza alla ricerca della volontà delle parti, indipendentemente dal nomen juris da queste indicato, e la qualificazione giuridica dell’accordo stesso, che è operazione successiva e dipendente dai risultati della prima. Altro punto critico della ricostruzione operata dal Secit, è senza dubbio quello relativo alle supposte differenze tra contratto di lease-back e leasing ‘classico’. La bilateralità dell’accordo, anche in questo caso viene sopravvalutata dall’organo ispettivo, secondo il quale infatti, la circostanza che l’utilizzatore fosse già in possesso del bene prima della stipula del contratto, avrebbe cambiato radicalmente la causa sottostante ad esso. Più precisamente, mentre la causa del finanziamento veniva considerata come tratto comune delle due figure, discriminante veniva considerato l’oggetto, il quale nel leasing veniva ravvisato nell’utilitas del bene, nel lease-back invece proprio nella somma di denaro, essendo il bene strumentale già nella sua disponibilità. Nonostante il vuoto normativo che contraddistingue il leasing finanziario, un orientamento del legislatore può desumersi dal D.L. 03/05/1991, n. 143, che all’11° comma dell’art. 6, ancorché non convertito nella L. 05/07/1991, n. 197, così definiva il leasing finanziario, anche nella sua variante del lease-back: “... l’operazione nella quale il concedente mette a disposizione per un tempo determinato e verso un corrispettivo periodico un bene strumentale all’attività dell’utilizzatore, che il concedente fa costruire o acquista anche dallo stesso utilizzatore, che lo sceglie e ne assume tutti i 199 rischi, anche di deperimento, e che può acquistarne la proprietà alla scadenza del contratto con il pagamento del prezzo stabilito319”. Non è questa la sede per approfondire queste tematiche, inoltre ormai risolte soprattutto grazie alla giurisprudenza della Suprema Corte320, accettate dalla stessa Amministrazione 319 Cfr anche il progetto elaborato dall’ABI nel 1980, che proponeva al legislatore nazionale utili suggerimenti al fine di superare taluni problemi ed incertezze che l’adozione del contratto di locazione finanziaria di fatto originava. L’art. 14-bis inoltre, auspicava che il legislatore disciplinasse il contratto di lease-back attraverso il rinvio alla regolamentazione proposta in tema di locazione finanziaria. 320 Nel 1991, già le commissioni tributarie avevano rilevato l’erroneità dell’impostazione ministeriale: Comm. trib. I° Roma, sez. XVIII, 03/06/1991, in Il fisco, 1991, pagg. 5682 e ss.; Comm. trib. II° Alessandria, 03/07/1991, dec. n. 259, in Il fisco 1991, pagg. 8282 e ss.; Comm. trib. I° Como, 21/09/1991, in Il fisco, 1991, pagg. 8283 e ss.; Comm. trib. I° Macerata, 12/12/1991, n. 443, in Il fisco 1991, pagg. 6806 e ss.; Comm. trib. II° Treviso, 30/06/1992, dec. n. 182, in Il fisco 1992, pagg. 11258 e ss.; Comm. trib. I° Treviso, 07/09/1993, dec. n. 191, in Il fisco, 1993, pagg. 11884 e ss.; Comm. trib. I° Venezia, sez. V, 29/11/1993, n. 632, in Rass. trib. 10/94, pagg. 1647 e ss.; Comm. trib. II° Roma, sez. I, 17/01/1996, n. 1034, in Corr. Trib.. 1996, pagg. 1521 e ss.; Comm. trib. I° Venezia, sez. III, 12/02/1994, n. 58, in Rass. trib. 10/94, pag. 1648, con commento di Lupi, “Lease-back, qualcuno ci spieghi dov’è l’elusione”; Comm. trib. I°, Napoli, sez. XXV, 26/03/1996, dec. n. 232, in Rass. trib. 1996, pagg. 445 e ss. ; Comm. trib. I°, Belluno, sez. VI, 22/08/1995, dec. n. 84, in Rass. trib. 1995, pagg. 1898 e ss.; Comm. trib. I° Udine, sez. I, 12/07/1995, dec. n. 79 in Boll. Trib. 1996, pagg. 80 e ss. ; Comm. trib. II° Napoli, sez. I, 13/06/1995, decc. nn. 122 e 124, in Rass. trib. 1996, pagg. 445 e ss.; Comm. trib. I° Sassari, sez. III, 28/12/1993, dec. n. 443, in Boll. Trib. 1994, pagg. 1781 e ss.; Comm. trib. I° Roma, sez. I, 25/01/1993, in Il fisco, n. 9/93, pagg. 2886 e ss.; Comm. trib. I° Napoli, sez. V, 20/11/1992, dec. 5229; Comm. trib. I° Napoli, sez. V, 25/09/1992, dec. n. 4994, confermata da Comm. trib. II° Napoli, sez. XIII, 15/04/1994, dec. n. 37, in Rass. trib. 1996, pagg. 446 e ss.; Comm. trib. I° Monza, sez. IV, 13/05/1995, dec. n. 2832, in Rass. trib. 1996, pagg. 435 e ss.; Comm. trib. II° Lecce, sez. III°, 14/04/1995, dec. n. 97, in Boll. Trib. 1995, pagg. 1762 e ss.; Comm. Trib. I° Napoli, sez. XIX, 01/02/1993, dec. n. 2994, confermata da Comm. trib. II° Napoli, sez. II, 27/02/1995, dec. n. 11, in Rass. trib. 1996, pagg. 440 e ss.; Comm. Trib. I° Roma, sez. XVIII, 03/06/1991, dec. n. 442, in Boll. Trib. 1992, pagg. 469 e ss.; Comm. Trib. I° Firenze, sez. III, 25/06/1991, dec. n. 300, in Rass. trib. 1991, pagg. 1360 e ss.; Comm. Trib. I° Firenze, sez. VI, 14/11/1991, dec. n. 287, in Corr. Trib. 1992, pagg. 2370 e ss.; Comm. trib. Centrale, sez. XXIII, 30/06/1995, dec. n. 2602, in Boll. Trib. 1995, pagg. 1761 e ss.; Comm. trib. Reg. Piemonte, sez. IV, 06/10/1997, n. 134 ; Comm. trib. Centrale, sez. XXIV, 12/05/1997, dec. n. 3187, in Giur. It., 1998, pagg. 186 e ss.; Comm. trib. Centrale, sez. V, 17/11/1993, dec. 2312, in Giur. delle imp. 1994, pagg. 288 e ss.; Comm. trib. Centr., sez. XI, dec. 5338 del 02/07/1999, in Il fisco 1/2000, pagg. 132 e ss.. In seguito numerose sono state le sentenze della Suprema Corte, tutte nella medesima direzione: Cass. 06/05/1991, n. 4994; Cass. 09/04/1991, n. 3726; Cass. 14/04/1998, n. 3791; Cass. 09/05/1997, n. 4064; Cass. sez. civ. 16/10/1995, n. 10805, in Il corriere giuridico, 1995, pagg. 1360 e ss.; 07/05/1998, n. 4612; Cass. sez. civ. sez. III, 19/07/1997, n. 6663, in Foro it. 1997, 200 finanziaria321 e (quasi322) mai posta in discussione dalla dottrina, basti sul punto l’affermazione che nulla porta ad una distinzione di funzione economica tra le due figure, tanto meno il semplice numero di parti contraenti, ben potendo altrimenti farsi partecipare all’accordo un terzo che acquistasse il bene per rivenderlo alla società di leasing evitando così di integrare la fattispecie del leaseback. Tutte le contestazioni mosse dal Secit dunque dovrebbero valere anche nei confronti del leasing ‘ordinario’, ma se il legislatore tributario ha scelto di agevolare il ricorso a tale strumento sottoponendolo ad una normativa che lo rendesse al tempo stesso fungibile al ricorso ‘diretto’ al credito, differenziandolo da questo dal punto di vista fiscale, ciò significa semplicemente che questi ha voluto fornire uno strumento che garantisse agli operatori economici una opzione aggiuntiva, dato che l’assimilazione di esso ad un mutuo (ipotecario) dal punto di vista tributario, ne avrebbe ovviamente comportato lo scarso utilizzo, nonostante la crescente diffusione negli ordinamenti degli altri paesi. Dunque uno strumento pagg. 3586 e ss.; Cass. sez. trib. 28/07/2000, n. 9944, in Riv. di giur. trib. N. 5/2001, pagg. 412 e ss. 321 Dopo l’impostazione iniziale del Secit, nella “Relazione al Ministero delle Finanze sull’attività svolta dal Servizio nell’anno 1988”, e, nella stessa direzione, in quelle del 1989, 1990 e 1992, lo stesso Servizio, con la delibera comitato di coordinamento del 07/06/1999, ha giudicato lecita, sotto il profilo fiscale, l’operazione di lease-back. Già in precedenza, visto il consolidamento della posizione della Corte di Cassazione, alcune Direzioni Regionali avevano impartito istruzioni circa l’abbandono delle controversie in corso sulla materia, vedasi la circolare 98116023 del 21/09/1998 della Dir. Reg. Piemonte. Dopo la delibera Secit, vedasi la circolare 20/E-42441 del 24/05/2000 della Dir. Reg. delle Entrate della Lombardia. 322 Isolato il sostegno dato alla tesi del Secit da parte di Pacifico, “Il leasing e l’elusione fiscale”in Il fisco, 1989, pagg. 431 e ss., “Aspetti civilistici del lease-back”, in Riv. it. del leasing, 1989, pagg. 480 e ss., “Sale and lease-back: i canoni sono deducibili?”, in Il fisco 1989, pagg. 2385 e ss. Si tenga però in debita considerazione che Pacifico è uno degli ispettori del Secit che ha contribuito alla posizione ministeriale. 201 ulteriore, in conformità “alle esigenze di efficienza, rafforzamento e razionalizzazione dell’apparato produttivo323”, rispetto al talvolta più difficoltoso ricorso agli ordinari canali creditizi. Prova ne è, a mio avviso, che i vantaggi fiscali non sono assoluti, ma solo eventuali, cioè valutabili caso per caso dall’operatore economico in base alle condizioni economico-finanziarie della propria azienda; ovvero e indipendentemente dalle motivazioni fiscali, può talvolta essere scelto in virtù di specifiche politiche di bilancio, in quanto strumento che evita l’appostazione dell’indebitamento “implicito”, poiché l’operazione viene rilevata tra i conti d’ordine, ed i successivi movimenti transitano nel conto economico. Proprio questo ulteriore effetto sulla “rappresentazione veritiera e corretta” nel bilancio “civilistico”, ha stimolato le pressioni di taluna dottrina, verso l’abbandono del metodo “patrimoniale”, come sopra succintamente descritto, per l’adozione del metodo ‘finanziario, secondo il quale i beni in locazione andrebbero iscritti nel bilancio dell’utilizzatore e da questi ammortizzati, considerando i canoni come rate di restituzione di un mutuo con interessi. Questa impostazione non varrebbe comunque a discriminare le due diverse tipologie di locazione finanziaria, regolandole invece entrambe. In conclusione possiamo affermare che, se si verifica un vantaggio fiscale, esso rientra nelle possibilità previste dall’ordinamento, traducendosi in un legittimo risparmio d’imposta frutto della possibilità di scegliere all’interno di più soluzioni negoziali, quella fiscalmente meno onerosa. L’esempio di cui sopra permette di trarre delle conclusioni più generali, alle quali è giunta, oltre alla giurisprudenza citata, anche la dottrina assolutamente dominante, ovvero l’impossibilità, per gli 323 Cfr. Art. 2, n. 16 della legge delega per la riforma tributaria 825/1971. 202 organi amministrativi, di procedere ad una qualificazione delle fattispecie contrattuali poste in essere dai privati, ribadendo la pericolosità di un orientamento contrario, il quale potrebbe essere esso stesso riqualificato evidenziandone l’aspetto sostanziale, cioè la sovrapposizione del potere accertativo con quello di enucleazione di fattispecie imponibili, in dispregio della riserva di legge. Alla medesima conclusione si deve giungere anche quando l’Amministrazione finanziaria richiamando, ma solo formalmente, i principi di interpretazione dei contratti, ovvero l’accertamento della “comune intenzione delle parti”, ricorre, nella sostanza, a dei criteri ermeneutici sconosciuti all’ordinamento come quello già in precedenza citato, della ricerca di un “effettivo assetto dei rispettivi interessi delle parti”, nel qual caso inoltre verrebbe svilito il principio di intangibilità degli schemi contrattuali liberamente adottati dalle parti. Defatiganti, inutili e costosi sono anche i tentativi di rinvenire un qualche principio dell’ordinamento che attribuisca la possibilità di esercitare un potere come sopra descritto, il quale dipende evidentemente solo da un intervento legislativo in tal senso, già escluso dal legislatore della riforma tributaria. Qualunque ipotesi, quindi, di simulazione o frode alla legge attuata attraverso strumenti negoziali, deve necessariamente essere sottoposta al vaglio del giudice ordinario e comunque provata dall’Amministrazione ex art. 2697 cod. civ.. 203 §5) Il (presunto) potere dell’Amministrazione finanziaria di giudicare l’economicità delle scelte imprenditoriali. Premessa Nel precedente esame dei presupposti applicativi di quella che a tutt’oggi si presenta come l’unica norma antielusiva avente portata esorbitante una singola fattispecie, l’art. 37-bis DPR 600/73, è stato già evidenziato come l’assenza di valide ragioni economiche sia stato spesso ritenuta condizione non solo necessaria, ma anche sufficiente per operare rettifiche reddituali comunque all’interno dell’ambito di applicabilità della norma da ultimo citata. Dalla lettura di alcune sentenze, si è però constatato che, l’Amministrazione finanziaria in sede di verifica o accertamento tributario, pur trovandosi di fronte a fattispecie estranee a quelle enunciate nel III° comma dell’art. 37-bis, ha in alcuni casi posto a base di talune riprese a tassazione, il giudizio di insussistenza di valide ragioni economiche, intendendolo quale generale parametro in base al quale poter sindacare l’economicità delle scelte imprenditoriali. Gli esempi maggiormente significativi e sui quali in gran parte si baserà questa ultima parte di lavoro riguarda indubbiamente il caso dei compensi agli amministratori. Si accennerà inoltre ai casi relativi alla deducibilità di alcuni costi, negata in base ad una supposta non congruità. Alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione, hanno suscitato, da parte di vari commentatori, il timore che si andasse consolidando un preoccupante orientamento della stessa, verso il 204 riconoscimento agli organi deputati all’accertamento delle imposte, di un autonomo potere di sindacare tout court l’economicità di talune scelte e comportamenti imprenditoriali. In altri termini la preoccupazione era quella che, per tale via, il fisco potesse ‘entrare’ nella gestione ordinaria dell’azienda, valutando, per di più ex post, l’economicità di alcune decisioni imprenditoriali e, giudicate queste ultime contrarie agli ordinari canoni di una proficua gestione, potesse automaticamente rettificarne i valori dichiarati e contabilizzati in una contabilità fra l’altro esistente e non privata di validità (ipotesi questa contemplata nella lett. d dell’art. 39 I°c. DPR 600/73). Il sindacato del Fisco sull’economicità di alcune scelte imprenditoriali, si è spesso concretizzato in accertamenti analitico-induttivi che recuperavano a tassazione alcuni costi dedotti, sul presupposto che, giudicati questi ultimi non congrui, venisse meno il requisito dell’inerenza degli stessi. Il malinteso nel quale pare essere caduta l’Amministrazione finanziaria, è quello incentrato sul corretto significato che deve essere dato al concetto di inerenza. Autorevole dottrina324 ha in effetti affermato, come il concetto di inerenza (art. 75 Tuir) sia talmente ampio da legittimare il sindacato dell’ufficio impositore sulle scelte aziendali soltanto per dimostrare l’esistenza di finalità extraimprenditoriali. L’antieconomicità deve inoltre essere valutata non con riferimento alla singola operazione contestata, bensì avendo riguardo alla concatenazione degli atti di acquisto e di successiva cessione. Deve inoltre trattarsi di antieconomicità rilevabile sin dall’origine, 324 Stevanato, “Rettifiche dei corrispettivi intragruppo e transfer pricing ‘interno’”, in Rass. trib. 1/99, pagg. 235 e ss.; Lupi, “Manuale professionale di diritto tributario”, op. cit., pagg. 411 e ss.. 205 trattandosi di operazioni per le quali fosse palese sin dall’inizio, l’inevitabile chiusura in perdita. Se così non fosse, sarebbe qualificato non inerente qualsiasi componente negativo del reddito che non trovasse immediata e diretta corrispondenza in alcuna “... attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito”, scorrettamente interpretando, in maniera eccessivamente restrittiva, l’art. 75, V° c. Tuir325, tornando in pratica indietro di circa cento anni, quando non potevano dedursi neppure le spese sostenute per avviare una attività, a causa dell’assenza, nell’immediato, di ricavi, ovvero quando vigeva l’indeducibilità delle spese ad esempio generali, in quanto non si correlavano in maniera diretta, oltre che immediata, a ricavi di vendita. Altra parte della dottrina ha però criticato siffatto approccio, nella misura in cui ciò implicherebbe il potere dell’Amministrazione finanziaria di sindacare le scelte economiche del contribuente326. Più corretta, a mio giudizio, la posizione intermedia espressa argutamente dal Lupi327, il quale da una parte ritiene che in generale il Fisco non possa sindacare le scelte imprenditoriali, ma di fronte ad una scelta che, sin dall’inizio, appare destinata inevitabilmente a 325 Prova ne è l’incontestabile deducibilità dei costi ed oneri sostenuti in proiezione futura, in tal senso la Cir. min. 30/9/944 del 07/07/1983, che ha inoltre precisato che il concetto di inerenza non è legato ai ricavi dell’impresa, ma all’attività della stessa. Analogamente la Ris. min. 158 del 28/10/1998. Tutte tratte dalla banca dati “Documentazione tributaria” sul sito http://www.finanze.it/. 326 Barusco, “Considerazioni sulla indeducibilità delle some pagate da una società per la liberazione di un proprio dirigente sequestrato”, in Riv. di dir. trib., 1996, pagg. 365 e ss.. 327 Lupi, “A proposito di inerenza... Il Fisco può entrare nel merito delle scelte imprenditoriali?”, in Riv. di dir. trib., 1992, II, pagg. 940, 941. 206 generare una perdita, questi potrà legittimamente presumere un fine extraimprenditoriale, e sarà il contribuente a dover fornire la prova contraria spiegando quali elementi rendevano l’operazione coerente alla logica imprenditoriale (minimizzazione dei costi- massimizzazione dei profitti). §6) segue, il concetto di inerenza. La sua dimensione qualitativa. Occorre, a questo punto, una breve disamina delle posizioni più di recente assunte dalla dottrina e dalla giurisprudenza, riguardo al generale concetto di inerenza. In generale, occorre partire da quello che è il presupposto del prelievo ovvero la capacità contributiva, della quale una diretta manifestazione è costituita dal reddito che, di conseguenza328, deve essere considerato al netto, ovvero depurato di quelle componenti che ne rettifichino in diminuzione il valore imponibile. Per una corretta determinazione dell’entità da sottoporre a prelievo, occorre quindi la fissazione di alcune regole per l’individuazione di tali componenti negative, ovviamente in coerenza alla ratio dello specifico tributo, ovvero per scelte economico-politico-sociali del legislatore. Questi potrà adottare la tecnica della elencazione tassativa, oppure della descrizione in modo generale, per l’individuazione di criteri omogenei espressivi delle valutazioni sottostanti alla scelta 328 Così, Gaffuri, “L’attitudine alla contribuzione”, Milano, 1969, pag. 180; Moschetti, “La capacità contributiva”, Padova, 1973, pag. 373; in senso critico vedasi, Antonini, “Discrezionalità del legislatore e apriorismo della Corte in materia tributaria”, in Giur. Cost., 1996, pag. 1496; Marongiu, “La crisi del principio di capacità contributiva nella giurisprudenza della Corte Costituzionale nell’ultimo decennio”, in Dir e prat. trib., 1999, I, pag. 1773; De Mita, “Razionalità e fiscalismo nella giurisprudenza costituzionale tributaria”, in “L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano”, AA.VV., Padova, 2000, pagg. 177 e ss.. 207 legislativa, ovvero ricorrere ad una combinazione di fattispecie tipizzate e di una clausola di chiusura diretta a consentire la deduzione anche a fattispecie diverse da quelle espressamente elencate, ma comunque espressive della medesima ratio di queste. Occorre altresì precisare che il concetto di inerenza ha portata generale, non è cioè collegato alle sole poste negative, ma anche a quelle attive, onde evitare spostamenti di questi ultimi, tra le diverse categorie reddituali, le quali, a loro volta, soggiacciono a differenti regimi impositivi329 . L’evoluzione delle disposizioni legislative in materia330, ha portato alla scomparsa dell’esplicito riferimento al termine “inerenza”, facendogli così assumere la caratteristica generalmente detta di “norma senza disposizione331”. 329 Si pensi, ad esempio ai redditi agrari, cui l’art. 29 Tuir, dedica disposizioni particolari, delimitandoli dai redditi d’impresa. 330 Dall’art. 32 del T.U. n. 4021 del 24/08/1877: “Per la classe dei redditi industriali, si terrà conto, in deduzione, delle spese inerenti alla produzione, come il consumo di materie grezze e strumenti, le mercedi degli operai, il fitto dei locali, le commissioni di vendita e simili.”, cui seguì l’art. 23 della L. n. 1 del 5/01/1956: “... sono deducibili, nell’esercizio in cui sono state sostenute, esclusivamente le spese e le passività inerenti a rediti assoggettabili all’imposta stessa, nonché la quota di spese generali imputabile a tali redditi.”, poi l’art. 91 del TU n. 645 del 29/01/1958, “Il reddito netto è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei ricavi lordi che compongono il reddito soggetto all’imposta e l’ammontare delle spese e passività inerenti alla produzione di tale reddito.”, in seguito l’art. 61, III° c. DPR n. 597 del 29/09/1973,”I costi egli oneri diversi da quelli espressamente considerati dalle disposizioni di questo titolo sono deducibili se ed in quanto siano stati sostenuti nell’esercizio dell’impresa e si riferiscono ad attività ed operazioni da cui derivano ricavi e proventi che concorrono a formare il reddito d’impresa...”, in parte trasposto nell’attuale art. 75, V° c. DPR 917/86, “Le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli oneri passivi, ..., sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito...”. L’evoluzione legislativa manifesta in tutta evidenza il cambio di impostazione soprattutto a partire dalla riforma degli anni 70, laddove può riconoscersi una stretta dipendenza dell’imponibile fiscale da quelle che sono le regole civilistiche assurte dunque a criteri generalmente applicabili in quanto non specificamente derogate da disposizioni tributarie. 331 Così Zizzo, “Regole generali sulla determinazione del reddito d’impresa”, in “Imposta sul reddito delle persone fisiche”, a cura di Tesauro, Torino, 1994, pagg. 556 e ss.; Nocerino, “Il problema dell’individuazione di un principio generale (inespresso) di inerenza”, in Rass. trib. 1995 pagg. 910 e ss. 208 La giurisprudenza si è spesso trovata a dover dirimere controversie relative alla deducibilità o meno di talune spese, stabilendo alcuni punti fermi utili per dare concreta attuazione al principio de quo. La Cassazione332 ha precisato ad esempio, che la deducibilità dei costi e degli oneri, è sempre condizionata ad una stretta inerenza degli stessi all’attività svolta, richiedendo cioè che essi siano stati funzionali alla formazione del reddito imponibile, rapportandosi ad esso con una relazione di causa ad effetto. Alcuni casi spesso citati in dottrina derivano proprio da sentenze della Suprema Corte che, ad esempio, ha precisato che non sono fiscalmente deducibili per mancanza del requisito dell’inerenza: Ø i costi sostenuti per il pagamento del riscatto per la liberazione di un dirigente, considerato uomo-chiave per nonostante l’attuazione fosse dei programmi aziendali (Cass. sez. I, n. 8818/95 cit., Comm. trib. Cent., sent. n. 768 del 09/02/2000); Ø i costi per le cure mediche, operazioni chirurgiche, e relativa permanenza presso istituti di cura sostenuti per migliorare le condizioni di salute o addirittura per salvare la vita di un dirigente, indipendentemente dalla dichiarata volontà di conservazione delle facoltà intellettive di quel determinato dirigente, in virtù delle sue specifiche e cospicue doti manageriali. Stesse 332 Cfr. Cass. sez. trib., sent. 7071 del 29/05/2000; Cass. sez. I, sent. 8818, del 11/08/1995, che ha inoltre precisato che la norma va interpretata nel senso di ancorare la deducibilità del costo ad uno stretto collegamento con l’esercizio d’impresa inteso nel senso della sua gestione ordinaria. 209 considerazioni per le spese relative alla conservazione delle condizioni psicologiche dello stesso (Cass. 8818/95 cit.). La stessa Suprema Corte si è espressa positivamente, riconoscendo la sussistenza dell’inerenza, ai costi di propaganda e, in genere, promozionali, dai quali possono facilmente desumersi dei principi più generali: Ø l’art. 75, V° Tuir “àncora la deducibilità delle spese e degli altri componenti negativi del reddito, diversi dagli interessi passivi, al riferimento di tali spese... all’attività di impresa in senso ampio, il cui ambito di operatività deve necessariamente essere valutato in rapporto a tutte le attività (anche se non attualmente esercitate) indicate nell’oggetto sociale e in vista delle quali la società è stata costituita ed al cui esercizio i soci sono tenuti a concorrere333.”Così la Cass. sez. trib. sent. n. 6502 del 19/05/2000, nella quale è stata ribadita la non necessità di un collegamento stretto con i ricavi, anche dal punto di vista temporale, “il principio di inerenza può essere esteso anche a spese effettuate a fini promozionali, e quindi proiettate verso il futuro.... La pubblicità non svolge più soltanto un ruolo puramente informativo di far conoscere l’esistenza di un prodotto sul mercato, ma può essere utilizzata anche per sensibilizzare preventivamente l’interesse dei consumatori verso beni e servizi non 333 In senso conforme, Cass. n. 14350 del 21/12/1999. 210 ancora concretamente offerti. Le spese pubblicitarie sono inerenti all’esercizio dell’impresa “anche se sostenute prima che l’offerta del bene o del servizio pubblicizzato si sia concretamente realizzata.... non rileva neppure che alle spese pubblicitarie nella specie poste in essere non abbiano, nell’immediato, corrisposto realizzazioni concrete ed apprezzabili; infatti anche gli atti diretti a porre le premesse indispensabili per lo svolgimento o il rafforzamento di una data attività economica costituiscono parte integrante dell’attività imprenditoriale, sicché anche i relativi costi, anticipatori e prodromici, in quanto strumentali al consolidamento e all’ampliamento del mercato, che solo all’imprenditore spetta valutare, non possono che ritenersi deducibili, in quanto inerenti all’attività dell’impresa; ... non spetta all’ufficio valutare la portata dell’inerenza delle spese pubblicitarie all’attività d’impresa, ove quelle spese possano essere obiettivamente rapportate al nome e all’oggetto dell’impresa, ed inquadrate nello svolgimento e nello sviluppo dell’attività della stessa, in conformità di tali presupposti. Viene così affermata la deducibilità dei costi sostenuti in proiezione di futuri ricavi (ancorché potenziali, ed implicitamente insindacabili a posteriori), allargando altresì i confini sia 211 dell’inerenza in generale334 che delle spese di pubblicità e propaganda in particolare. Si constata pertanto un orientamento teso al riconoscimento del concetto di inerenza in una accezione piuttosto ampia335, talmente ampia da rasentare quasi l’inutilità del relativo giudizio. A ben vedere invece, l’attento esame delle posizioni maggiormente convincenti della dottrina e della giurisprudenza, conduce a ritenere invece ancora vitale il principio in discorso, inteso in termini di nesso causale che deve sussistere tra la spesa e l’attività dell’impresa in senso ampio considerata336 (quale serie di atti tesi 334 Cfr. Cass. sez. trib. Sent. n. 10062 del 01/08/2000, ove si legge tra l’altro che, a seguito della riforma tributaria, “...l’inerenza dei costi e degli oneri in materia di reddito d’impresa... deve essere riferita, non ai ricavi, ma all’oggetto dell’impresa. 335 La stessa Amministrazione finanziaria, con la Ris. n. 158/E del 28/10/1998, Applicazione del principio generale di inerenza sancito dall'art. 75 del TUIR Deducibilita' dei rimborsi spese elargiti agli atleti ai sensi della legge 25 marzo 1986, n. 80, dai proventi commerciali conseguiti da associazioni sportive dilettantistiche non riconosciute ai sensi dell'art. 36 del codice civile - Quesito della Federazione Italiana Giuoco Calcio, Lega nazionale Dilettanti, ha ribadito il principio che “la normativa vigente si ispira a criteri di maggiore larghezza rispetto a quelli pre-riforma, e che il concetto medesimo (di inerenza) non è più legato ai ricavi d’impresa, ma all’attività della stessa, con la conseguenza che si rendono deducibili tutti i costi relativi all’attività dell’impresa e riferentesi ad attività ed operazioni che concorrono a formare il relativo reddito. Sulla deducibilità delle spese sostenute in proiezione futura, Ris. III-6-005 del 14/07/1993. 336 Cfr. Tinelli, “... l’inerenza va vista quale requisito oggettivo, come riferibilità degli stessi all’esercizio d’impresa, cui sono legati da un rapporto di causa ad effetto.” in: “Il reddito d’impresa nel diritto tributario”, Milano, 1991, pag. 248; Zizzo, “I redditi d’impresa”, in Manuale di diritto tributario” di Falsitta, parte speciale, Padova 1997, pag. 219, il quale ritiene che appartengono alla categoria delle spese inerenti“tutte le spese sostenute nell’interesse del realizzazione del programma economico dell’impresa”, e in quanto tali, suscettibili “di arrecare una utilità all’attività produttiva dell’impresa, sia pur in via soltanto indiretta e mediata”; Galeotti Flori, “La determinazione del reddito d’impresa”, in Caraccioli, Galeotti Flori, Tanini: “Il reddito d’impresa nei tributi diretti”, Padova, 1997, pag. 46, ove si legge, che “i componenti negativi devono avere un nesso di causalità con l’esercizio dell’impresa. Non è chiesto che il nesso sia necessario. Basti che si tratti di costi che non sarebbero stati sostenuti se l’impresa non ci fosse stata”. Per l’evoluzione della regola di inerenza leggasi, oltre agli autori citati in precedenza, anche, Graziani, ”L’evoluzione del concetto di inerenza e il trattamento fiscale dei finanziamenti ad enti esterni di ricerca”, in Falsitta, Moschetti, “I costi di ricerca scientifica”, Milano, 1988, pagg. 55 e ss.; Cicognani, “L’imposizione del reddito d’impresa”, Padova, 1980, pagg. 147 e ss.; D’Amati, “La progettazione giuridica del reddito”, Padova, 1975, III, pagg. 61 e 212 alla produzione o allo scambio di beni o servizi). Occorre comunque sempre raccordarsi con il fine di una tale indagine la quale deve mirare alla distinzione tra spese di produzione e spese qualificabili come di erogazione del reddito, a ciò non essendo sufficiente l’affermazione che la spesa non fosse necessaria, ma ulteriormente dimostrando in positivo che il costo rispondeva ad una finalità personale o extraimprenditoriale337, in quanto è proprio questa la ratio del principio qui in discussione. 1. Ancora sull’inerenza: la deducibilità delle sanzioni e più in generale dei costi connessi ad attività illecite. Una questione connessa al principio di inerenza di particolare attualità, riguarda la possibilità o meno di considerare deducibili i costi per multe e sanzioni, in particolar modo quelle comminate dall’Autorità Antitrust, data la rilevanza degli importi338. Più in generale la tematica è riconducibile alla vexata quaestio della rilevanza ai fini reddituali dei proventi339 (e quindi specularmente dei costi) derivanti da attività illecite. ss.; Panizzolo, “Inerenza ed atti erogativi nel sistema delle regole di determinazione del reddito d’impresa”, in Riv. di dir. trib., 1999, I, pagg. 675 e ss.. 337 Cfr. Lupi, “Diritto tributario – Parte speciale”, Milano, 2000, pagg. 97 e ss.; Tesauro, “Istituzioni di diritto tributario – Parte speciale”, Torino, 1999, pag. 111. 338 Si pensi che la sanzione comminata ad alcune imprese di assicurazione ammonta a 700 miliardi di lire. 339 Si rammenta che, l’art. 14, IV° c., della legge 537 del 24/12/1993, dispone che, “Nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1 Tuir, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria.”. 213 Il panorama giurisprudenziale sull’argomento, arricchito da alcune recenti sentenze, non ha ancora assunto dei contorni definiti. A prima vista infatti si possono osservare diverse posizioni (apparentemente) contrastanti, ad esempio, la Comm. trib. Reg. di Milano, (sent. n. 293 del 10/05/2000) ha ammesso in deduzione (inerenti) le somme pagate da una società per la sanatoria di irregolarità edilizie; analogamente la Comm. trib. prov. di Matera, sez. II, sent. 27/06/2001, n. 437, ha ritenuto che, in assenza di specifica disciplina, le somme pagate a titolo di sanzione comminata dall’Antitrust, devono essere valutate secondo i principi generali ed il concetto di inerenza; ebbene, quando i comportamenti sanzionati hanno portato al conseguimento di un maggior reddito sottoposto a tassazione340, la deducibilità deve essere sempre riconosciuta. Conforme a quest’ultima pronuncia, la sentenza della Comm. trib. prov. di Milano, sez. XLVII, n. 370, del 12/12/2000, che ha posto l’accento sulla particolare modalità di determinazione della sanzione, in misura percentuale rispetto all’ammontare dei ricavi, da ciò deducendone il collegamento funzionale con le scelte dell’imprenditore. Inoltre, riconoscere l’irrilevanza fiscale di tali esborsi, li farebbe assurgere ad ulteriore sanzione, comportando la tassazione di un reddito inesistente. Nello stesso senso la Commissione tributaria regionale di Genova, nella sentenza n. 34 del 02/05/2001, ha riconosciuto la rilevanza fiscale delle sanzioni 340 È la stessa ratio della motivazione delle sanzioni comminate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato a deporre in tal senso, riferendosi ad attività indubbiamente poste in essere per incrementare i ricavi, riferendosi alle “intese restrittive della libertà di concorrenza”, agli “abusi di posizione dominante”, alle “operazioni di concentrazione di imprese con determinate caratteristiche”, ovvero di “pubblicità ingannevole”, entrambe poste in essere a motivo della connessa possibilità di fissare prezzi più alti, di attrarre (ingannevolmente appunto) un maggior numero di clienti rispetto a quanto avrebbe potuto fare una pubblicità ‘regolare’, ovvero di sfruttare informazioni commerciali illecitamente ottenute. 214 comunitarie irrogate dalla Ceca, per la violazione delle regole sulla concorrenza, dovute per il supero dei limiti di produzione dell’acciaio. Riguardo le pronunce di merito da ultimo citate, vi è però da ricordare che esse si sono basate sull’assunto, ancora in discussione, che dette somme avessero natura risarcitoria e non afflittiva, in ciò ravvisando quel requisito di collegamento funzionale con l’attività di impresa che ne giustifica la deducibilità. Alcune pronunce di legittimità, manifestano invece un orientamento tendenzialmente contrario, ad esempio, la Cassazione nella sentenza del 20/01/2000, n. 7071, aveva affermato che “devesi ritenere che, di massima, un costo possa essere ravvisato deducibile dal reddito di impresa solo se ed in quanto risulti funzionale alla produzione del reddito. Ciò posto, è da dire che la riscontrabilità del considerato rilevante rapporto di correlazione fra costo e reddito va senz’altro esclusa, in linea di principio, con riferimento a quei costi che siano rappresentati dal pagamento di sanzioni pecuniarie irrogate per punire comportamenti illeciti del contribuente, quali sono indiscutibilmente le infrazioni alle norme sulla circolazione stradale, e che perciò, i costi in argomento devono essere tenuti per, comunque, indeducibili341.”. Più di recente la sentenza n. 5796 del 19/04/2001, ha negato la deducibilità delle somme pagate per evitare indagini fiscali, senza affrontare la questione della illiceità della condotta, bensì rilevando esclusivamente il difetto di inerenza, affermando infatti che tale pagamento pur presentando una indubbia “interferenza sulla vita dell’impresa,... non concorre, direttamente o indirettamente, alla 341 Nello stesso senso anche, Comm. trib. centr., nn. 1763 del 04/07/1983, n. 4394 del 07/06/1990 e n 784 del 17/03/1994, criticata da Carpentieri “La morale degli uffici e della giurisprudenza sulla deducibilità delle sanzioni dal reddito d’impresa”, in Rass. trib. 1994. 215 formazione del reddito, ma tende soltanto a preservare il risultato dei fattori produttivi”, comunque collocandosi su di un piano autonomo ed esterno rispetto alla gestione dell’impresa. Il contrasto di posizioni scompare, allorché si passi a considerare con più attenzione i motivi delle decisioni in rassegna. Possiamo infatti affermare che anche le sentenze favorevoli al contribuente si sono basate sulla qualificazione delle somme pagate secondo la tesi ‘risarcitoria’, implicitamente riconoscendo l’attualità dell’orientamento tradizionale che vede nella dicotomia tra natura risarcitoria/afflittiva della sanzione, la linea di discrimine tra la deducibilità e l’indeducibilità della stessa.. L’Amministrazione finanziaria si è pronunciata sull’argomento con la Cir. min. n. 98 del 17/05/2000342, affermando l’indeducibilità delle sanzioni inflitte dalla UE per difetto di inerenza, in quanto derivanti da un comportamento illecito tenuto dal contribuente, in conformità all’orientamento di quella parte della dottrina, ormai risalente, che postula tale indeducibilità basandosi su due fondamentali principi secondo i quali: Ø non si può ritrarre un beneficio dal compimento dalla commissione di un fatto illecito; Ø il costo del comportamento antisociale non può essere ripartito sulla collettività. A tali argomentazioni è stato efficacemente ribattuto, per quanto riguarda la prima affermazione, che lo Stato non è guardiano 342 Tratta dalla banca dati ‘Documentazione tributaria’ consultabile sul sito http://www.finanze.it/ 216 della virtù343; per la seconda invece, rilevando la sua incompatibilità con una giustificazione del prelievo tributario non più ancorato al superato principio della controprestazione, ma a quello, solidaristico e redistributivo, ancorato al principio di capacità contributiva344. L’orientamento ministeriale è stato ribadito dalla recente Ris. min. n. 89 del 12/06/2001345 che, pone l’accento sulla natura afflittiva e non risarcitoria, delle sanzioni in discorso, citando anche il conforme parere fornito dal Consiglio di Stato, sez. VI, n. 1671 del 20/03/2001. La posizione espressa dall’Agenzia delle Entrate è, a prima vista, suffragata da quella giurisprudenza346 che ha deciso l’indeducibilità delle sanzioni per difetto di inerenza, ma spesso si trattava di multe stradali, ove il relativamente modesto valore della lite rendeva la controversia poco importante sia per l’autorità giudicante, che non ha ritenuto necessario fornire adeguate argomentazioni giuridiche a fondamento delle proprie decisioni, impostando invece il problema sotto il profilo dei ‘motivi di sicurezza e di ordine sociale, sia per gli stessi difensori della parte, sicuramente maggiormente propensi a spendere più proficuamente le loro energie lavorative. 343 Così Antolisei, “Manuale di diritto penale. Parte generale”, 6° ed. Milano, Giuffrè, 1969, pag. 255. 344 Cfr. S. Steve, “Lezioni di scienza delle finanze”, Cedam 1964, pagg. 6 e 7, ma soprattutto gli scritti di B. Griziotti: “Il principio della solidarietà finanziaria”, in Saggi sul rinnovamento dello studio della scienza delle finanze e del diritto finanziario, Milano 1953, pagg. 241 e ss.; “Vecchi e nuovi indirizzi nella scienza delle finanze”, ivi, pagg. 155 e ss., 201 e ss.; “Il principio della capacità contributiva”, op. cit., pagg. 349 e ss. 345 Tratta dalla banca dati ‘Documentazione tributaria’ consultabile sul sito http://www.finanze.it/ 346 Comm trib. cent. , n. 1763 del 04/07/1983, Comm. trib. cent., dec. n. 4394 del 07/06/1990 ; da ultimo Cass. sez. trib., n. 7071 del 29/05/2000. 217 Contro il descritto orientamento dell’organo amministrativo, si pone anche l’Associazione dei Dottori Commercialisti di Milano, che nella Norma di comportamento n. 138 dell’8 aprile 1999, ha sostenuto la deducibilità delle sanzioni Antitrust, in quanto i comportamenti che costituiscono infrazioni si manifestano nell’ambito dell’attività dell’impresa e normalmente comportano maggiori ricavi rispetto a quelli conseguibili in assenza del comportamento lesivo. In senso conforme, la circolare Assonime n. 39 del 24/05/2000, dove viene affermata la difficoltà di negare che le sanzioni pecuniarie irrogate dalle autorità UE e dalle autorità italiane in materia di concorrenza sleale, presentino comunque un collegamento con la gestione dell’azienda, seppur dovendo valutare caso per caso l’inerenza delle stesse con l’esercizio delle attività dell’impresa e, più specificamente, con la produzione dell’utile. Poiché infine, la deducibilità delle sanzioni è questione strettamente connessa a quella del riconoscimento dei costi sostenuti nell’ambito di attività illecite, dalle quali sono scaturiti ricavi altrettanto illeciti, ma comunque imponibili, può citarsi la sentenza n. 92 del 25/09/2001 della Comm. trib. prov. di Firenze, che ha deciso per l’illegittimità della ripresa a tassazione dei costi riferiti a proventi conseguiti nell’esercizio di attività illecite. Un approfondimento di questa interessante tematica347 esorbita lo scopo della presente ricerca, si rimanda pertanto alla copiosa documentazione della dottrina348 sull’argomento limitandomi a 347 Quale quella relativa ad esempio alla distinzione tra attività illecite compiute per mezzo di atti illeciti, ovvero quelle concluse attraverso più atti in sé leciti (ad esempio la stipula di un contratto di locazione di un immobile è di per sé lecito, ancorché esso sia funzionale ad una attività per ipotesi di spaccio di droga). 348 Lupi, “Sulla deducibilità fiscale delle somme pagate per violazioni della normativa antitrust.”, in Riv. di dir. trib. , 2001/I, pagg. 224 e ss.; Zizzo, “Sanzioni per violazioni della normativa antitrust e determinazione del reddito d’impresa.”, in Riv. di dir. trib., 218 concludere con l’opinione che in generale la rilevata ampiezza del concetto di inerenza dovrebbe bastare a consentire la deducibilità sia delle sanzioni che dei costi connessi ad attività illecite produttive di ricavi imponibili, dovendosi al riguardo superare l’indagine sulla natura e funzione delle somme pagate. D’altra parte non può tacersi che tale affermazione, se assunta come dogma, potrebbe in alcuni casi condurre a risultati altrettanto inaccettabili quanto quelli della tassazione di un reddito inesistente, e vada pertanto esaminata alla luce dei principi di meritevolezza e ragionevolezza, caso per caso349. La validità di queste conclusioni è però stata completamente rimessa in discussione dallo stesso legislatore, infatti la legge finanziaria per il 2003, approvata con la legge n. 289 del 24/12/2002, ha previsto nel comma 8 dell’articolo 2, l’aggiunta del comma 4-bis, all’art. 14 della legge n. 537 del 1993 il quale testualmente prevede: “Nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, I° comma del testo unico delle imposte sui redditi, di cui 2001, II, pagg. 816 e ss.; Moscatelli, “Considerazioni sui costi da illecito nella determinazione del reddito.”, in Riv. di dir. trib., 2000, I, pagg. 1187 e ss.. ColnagoGiacosa, “Deducibilità ai fini delle imposte dirette delle sanzioni antitrust.”, in Boll. Trib. 2000, pag. 1463. Per citare solo i contributi più recenti. 349 In questo senso Lupi, “Inerenza e sanzioni Antitrust”, in Rass. trib., 6/2001, pag 1753, il quale correttamente osserva che il principio dell’inerenza, in qualunque dei due sensi estremizzato, porterebbe a conseguenze inique. Nella sua più ampia accezione infatti porterebbe alla deducibilità anche di quei costi (tra cui appunto le sanzioni) connessi a comportamenti immorali, contrari a ogni deontologia professionale (ad esempio, la commercializzazione di prodotti alimentari nocivi, alla pirateria informatica a scopi di spionaggio industriale, il commercio di armi con paesi sottoposti a embargo, ecc.). la soluzione diametralmente opposta condurrebbe invece alla tassazione di un reddito in parte inesistente, o da altro punto di vista, alla comminazione di una ulteriore sanzione, non legislativamente prevista e pertanto in contrasto al dettato dell’art. 25 della Cost.. Perciò l’Autore giunge alla conclusione che sarebbe preferibile un approccio meno aprioristico, secondo il quale “...le sanzioni, in quanto elemento negativo di reddito connesso ad una attività illecita, dovrebbero dedursi solo dal reddito o dai maggiori redditi derivanti dall’attività sanzionata.”. Contro, Spoto, “La deducibilità delle sanzioni cosiddette antitrust, nel reddito d’impresa.”, in Riv. di dir. trib., 2001, pagg. 589 e ss. 219 al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti.”. Sarà a questo punto necessaria una complessa attività interpretativa della disposizione da ultimo citata, per valutarne da un lato la coerenza con le argomentazioni precedentemente fatte e, dall’altra con i principi dell’ordinamento tributario in particolare riferimento alle disposizioni Costituzionali. Appare infatti ovvio che, se si riconosce fondatezza alle tesi della dottrina che ritiene tale indeducibilità in contrasto con la Costituzione (artt. 53 e 23 soprattutto), la norma appena introdotta dovrà essere sottoposta al giudizio di legittimità dinanzi la Corte Costituzionale. Personalmente ritengo riduttivo (e presuntuoso) da parte del legislatore, pensare che, con una semplice disposizione di legge, possano essere superati i legittimi dubbi sorti nella specifica materia, testimoniati da dottrina, giurisprudenza e perfino prassi350, contrastanti. 350 Cfr., anche se potrebbe dubitarsi della attinenza all’argomento qui trattato la Ris. min. N. 178 del 09/11/2001 (in banca dati “Documentazione tributaria” sul sito http://www.finanze.it/), nella quale è stata ammessa la deducibilità degli interessi passivi corrisposti per la rateazione del pagamento di una sanzione comunitaria. 220 §7) segue, il difetto di inerenza. La sua eventuale dimensione quantitativa: pareri contrastanti in dottrina e giurisprudenza circa la sindacabilità della congruità di alcune spese e sulla legittimità del ricorso allo strumento dell’accertamento induttivo di fronte ad un comportamento ‘antieconomico’ del contribuente. Il caso dei compensi agli amministratori. L’esame, seppur sommario, svolto nel precedente paragrafo, ha evidenziato che, in breve, il giudizio sull’inerenza di un componente negativo del reddito di impresa, si fonda su una valutazione ex ante del suo collegamento funzionale con l’attività di impresa, non necessariamente quella attuale. Restano ora da rilevare i motivi per i quali si ritiene che, valutazioni circa le dimensioni del costo, non trovino dimora nel citato giudizio. Anzitutto abbiamo da evidenziare che, laddove il legislatore ha ritenuto che vi potessero essere possibilità di abusi, nell’imputazione a costo di impresa, di componenti suscettibili di un uso extraimprenditoriale quantificazione, ha optato di per difficile la dimostrazione determinazione e legale dell’inerenza con la eventuale fissazione di particolari limiti o forfetizzazioni, per presunzione assoluta351. Dunque, al di fuori di queste ultime ipotesi, ci si deve interrogare sui poteri che l’Amministrazione finanziaria possiede per sindacare il merito delle scelte imprenditoriale allorché ci si trovi di fronte a beni o servizi dei quali non è stato provato l’uso non imprenditoriale. 351 Ad esempio artt. 57; 62, commi 1-bis e 2; 65, comma 1; 67, comma 10; 121-bis del Tuir. 221 Occorre inoltre dare atto del recente orientamento, espresso soprattutto dalla Corte di Cassazione, che pare attribuire agli organi accertatori il potere di negare la deducibilità di alcuni costi, basandosi proprio su una valutazione di congruità degli stessi. In altre parole, alcune recenti sentenze, sembra che abbiano riconosciuto, in capo all’Amministrazione finanziaria, un potere di valutazione dell’inerenza di un componente di reddito, la cui deducibilità è in discussione non perché ritenuto atto per sua natura erogativo di reddito, ma perché l’ammontare della somma spesa apparirebbe non giustificato secondo un ragionamento di economicità, ovvero sproporzionato rispetto all’entità degli affari dell’impresa e per tale ragione indeducibile per l’eccedenza. Per ricollegarci al paragrafo precedente, sembra pertanto farsi strada la possibilità che i parametri di valutazione del requisito dell’inerenza, non siano solo quelli sommariamente esposti in precedenza, ma ve ne sia uno ulteriore, quantitativo, rappresentato dalla congruità o, ancora più precisamente dalla sussistenza di valide ragioni economiche, le quali assurgono così ad una sorta di criterio generale, travalicante l’ambito di applicazione segnato dal 3° comma dell’art. 37-bis. Gli interrogativi che a questo punto ci si pone sono principalmente due: può davvero rinvenirsi, nel concetto di inerenza, una eventuale dimensione quantitativa, la congruità appunto? e l’altro: ammesso e non concesso che la risposta al primo quesito sia positiva, quali sono i fondamenti giuridici ed i relativi mezzi di cui l’Amministrazione finanziaria concretamente dispone, per procedere ad una tale valutazione in modo oggettivo, il tutto rispettando due principi costituzionali di basilare importanza in uno stato di diritto ovvero il principio di libertà di 222 iniziativa economica (art. 41 Cost.) e di imparzialità nell’esercizio dei propri poteri (art. 97 Cost.)? A tal proposito la prima analisi che si rende necessaria, riguarda l’eventuale esistenza di una disposizione legislativa in tale direzione. Ebbene si deve concludere che essa effettivamente esiste, potendola ravvisare all’interno degli artt. 9, 53 II° comma, 54 III° comma nelle ipotesi in essi previste352 e soprattutto 76 V° comma del Tuir, la quale, come visto in precedenza, è però esplicitamente limitata alle componenti di reddito derivanti da operazioni con società appartenenti allo stesso gruppo, non residenti. Potrebbe pertanto agevolmente sostenersi che, poiché ove il legislatore ha inteso attribuire all’Amministrazione finanziaria un potere di sindacare la congruità delle spese, lo ha fatto esplicitamente, deve ritenersi che, in generale, fuori di tali ipotesi, ciò le sia inibito. 1. I pareri (contrastanti) della giurisprudenza. Che il giudizio di inerenza implichi una indagine quantitativa sulla congruità del costo, è questione che, nota da tempo, ha preso notevole vigore di recente a seguito di alcune pronunce della Corte di Cassazione, le quali hanno indotto taluni a ritenere che la giurisprudenza si stesse consolidando su tale posizione. Il panorama giurisprudenziale sull’argomento è oltremodo variegato e scostante, sia tra le corti di merito che di 352 Si potrebbe aggiungere anche l’art. 65 il quale, letto ‘in negativo’, reca il principio generale della indeducibilità degli atti di liberalità in quanto intrinsecamente estranei ad una logica imprenditoriale in senso stretto, stabilendo, in deroga, la deducibilità di talune tipologie di essi, positivamente e tassativamente individuati, in quanto ritenuti socialmente meritevoli di essere incentivati. 223 legittimità. Una breve rassegna di alcune significative decisioni ne darà conto. La Commissione Tributaria Centrale, sez. XI, sent. n. 1721 del 06/03/1991 ha ritenuto deducibili le spese di rappresentanza, “quando appaiano documentate e contenute in una percentuale modesta rispetto all’ammontare complessivo dei costi d’esercizio.” Sempre la Commissione Tributaria Centrale, sez. II, con la decisione n. 3286 del 05/05/1992, aveva negato la deducibilità della perdita derivante dall’acquisto e successiva rivendita (nello stesso giorno) di obbligazioni, in quanto ritenuta non tanto conseguente al “’rischio finanziario’ dipendente dall’andamento del mercato”, quanto derivante dal carattere “manifestamente antieconomico dell’operazione”, come tale “estraneo alla produzione del reddito”. La stessa Commissione, sez. XVIII, dec. n. 1860 del 13/05/1993, chiamata a pronunciarsi sulla deducibilità di una perdita derivante dall’acquisto e successiva rivendita (a distanza di 17 giorni) di azioni, l’aveva invece ammessa se, “...non siano contestate la validità e la fondatezza dei fissati bollati che comprovano i prezzi di contrattazione, a nulla rilevando le considerazioni di fatto dell’ufficio finanziario sull’utile netto perseguito dalla società per effetto dell’operazione, la quale può essere valutata economicamente ma non può incidere sul piano fiscale.”, con ciò ribadendo il principio per cui il potere di disconoscere gli effetti fiscali di atti giuridicamente validi, sussiste nei soli casi in cui una disposizione (antielusiva) specificamente lo attribuisca. Nella stessa direzione ancora la Commissione tributaria Centrale, nella decisione n. 3532 del 16/12/1993, che ha escluso esplicitamente che l’ufficio potesse subordinare la deducibilità 224 delle spese (di pubblicità), ad un giudizio di congruità delle stesse. Più di recente, sempre la Commissione Tributaria Centrale, sez. VIII, sent. n. 5641 del 30/09/1999, ha invece espresso parere opposto, ritenendo “deducibili tutte le spese di rappresentanza e promozionali, connesse con l’attività dell’impresa, quando risultino congrue.” Altro esempio di sentenze di merito discordanti, può trarsi da due pronunce di altrettante Commissioni tributarie regionali sulla questione della deducibilità delle perdite su crediti ceduti pro soluto. Nella prima (CTR Lombardia, n. 66 del 07/04/1999), si legge esplicitamente che, “la cessione pro soluto di crediti in sofferenza è pienamente legittima, rientra nella libertà di valutazione degli organi amministrativi della società, è pertanto deducibile la differenza tra l’importo nominale dei crediti ceduti ed il prezzo di cessione.”, per la seconda invece, (CTR Veneto, n. 50 del 31/05/1999), “... non sussistono fondate ragioni per ritenere che attraverso la cessione di crediti in sofferenza... si realizzi, ipso facto, una perdita certa.” Anche la più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, pare non fornire indicazioni univoche, ad esempio, nella sentenza n. 12183 del 17/05/2000, è stato affermato che l’Amministrazione finanziaria può “negare la deducibilità di parte di un costo ove questo superi il limite al di là del quale non possa essere ritenuta la sua inerenza ai ricavi o, quanto meno, all’oggetto dell’impresa.” Indicazioni sostanzialmente analoghe si rinvengono nelle successive pronunce del 22/11/2000, n. 5104 e del 20/10/2001, n. 13478, nella quale ultima si legge che “l’Amministrazione finanziaria ben può valutare la congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e 225 procedere a rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio d’impresa, e di conseguenza negare la deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa”. Più di recente invece, la stessa Corte, ha escluso la possibilità di esprimere un giudizio basato sulla congruità. Con la sentenza n. 6599 del 09/05/2002, non solo è stata ribadita la regola generale della libertà di cui gode l’imprenditore nella scelta di come impostare la propria strategia, ma è stato esplicitamente escluso che l’inerenza rilevi anche sotto l’aspetto quantitativo, per cui, una volta riconosciuta al componente negativo l’attitudine alla produzione di ricavi, esso deve essere senz’altro considerato inerente e quindi deducibile, senza che possa o debba effettuarsi una ulteriore indagine basata sulla congruità, a meno di esplicita disposizione legislativa in tale direzione. Alcune altre sentenze hanno fatto delle affermazioni353 che, ad una prima lettura, ingeneravano ulteriore incertezza sull’argomento, ma che più attentamente esaminate, sono state collocate nel corretto alveo della legittimazione a procedere ad accertamenti presuntivi di 353 Cfr. Cass. 20/11/2001, n. 14568, secondo la quale “il contribuente che voglia portare in deduzione la perdita deve ... dimostrare... gli elementi ... che gli hanno consigliato di propendere per una cessione pro soluto con un recupero parziale.” Nello stesso senso la n. 13181 del 04/10/2000. La sent. n. 6337 del 03/05/2002, ove si legge che “Se è vero che le scelte economiche dell’imprenditore sono normalmente insindacabili, tuttavia, il Fisco non è tenuto a credere che un imprenditore agisca in modo antieconomico.”. A favore della insindacabilità delle scelte economiche dell’imprenditore anche, Cass. sez. trib., n. 10062 del 01/08/2000; Comm. trib. Centr., n. 6812, del 23/12/1990; Comm. trib. I° Torino, n. 721, del 04/08/1994; Comm. trib. I° Como, n. 68, del 28/01/1992; Comm. trib. II° Forlì, n. 101, del 11/03/1988; Comm. trib. I° Como, n. 875, del 05/06/1980. In senso contrario, Comm. trib. I° Savona, n. 228, del 25/05/1995; Comm. trib. I° Reggio Emilia, n. 2200, del 02/11/1989; Comm. trib. Centr., n. 8365, del 18/11/1987; Cass. n. 4857/2001; Cass. sez. trib., n. 15268 del 27/11/2000; Cass. sez. trib., n. 7803 del 08/06/2000; Cass. sez. trib., n. 6502 del 19/05/2000. 226 fronte ad un comportamento antieconomico, e non già di un automatico disconoscimento del relativo costo. In verità anche nelle decisioni più sopra citate a favore di un supposto potere di sindacato di ‘congruità’, le affermazioni in tal senso devono essere riconsiderate, apparendo dettate più da un certo ‘buon senso fiscale’, e da considerazioni di uguaglianza sostanziale, che da precise disposizioni di legge, delle quali infatti nei passaggi riportati non c’è traccia. Non convince al riguardo, l’affermazione che l’art. 75 del Testo unico, attribuisca all’interprete siffatti poteri, laddove esso testualmente consente la deduzione “ ... se e nella misura in cui...”, ritenendo che il legislatore abbia in tal modo implicitamente voluto attribuire il potere di valutare, in aggiunta alla qualità dei componenti negativi da ammettere in deduzione, anche la parte di essi che si ritiene siano giustificati da un punto di vista quantitativo, ovvero appunto congrui. 2. Il caso dei compensi agli amministratori La giurisprudenza si è spesso occupata dei casi nei quali l’Amministrazione finanziaria, entrando nel merito delle decisioni dell’impresa, ha ritenuto di poter disconoscere parte dei costi rappresentati dai compensi agli amministratori, in quanto ritenuti eccessivi rispetto a parametri oggettivi riferiti alla dimensione dell’impresa stessa o dei suoi affari354. Prima di prendere in considerazione le più recenti sentenze della Cassazione, rappresentative dell’incertezza dello specifico argomento, occorre tenere in debita considerazione il panorama e 354 Cass. 6502/2000, 7803/2000, 12819/2000, 15268/2000, 13478/2001. 227 l’evoluzione normativa che ha interessato i presupposti di deducibilità del componente negativo in commento. Nella vigenza del DPR 597/73, la norma di riferimento era l’art. 59, il quale testualmente ammetteva in deduzione i compensi deliberati a favore dei soci amministratori “... nei limiti delle misure correnti per gli amministratori non soci.”, con un approccio sostanzialmente riconducibile a quello sotteso nella disposizione volta a contrastare il fenomeno del transfer price, e cioè quello di usare come parametro di riferimento, alla stregua di un ‘valore normale’, i compensi che si sarebbero erogati a soggetti estranei, indipendenti. Le potenzialità elusive erano infatti state individuate nella possibilità che, attraverso la fissazione di compensi artificiosamente elevati, veniva abbattuto l’imponibile Ilor a carico della società. I vantaggi fiscali dunque, per essere mantenuti all’interno della compagine societaria, dovevano riguardare compensi erogati ad amministratori che fossero altresì soci, in quanto il loro maggior reddito imponibile veniva comunque sottoposto alle aliquote progressive dell’Irpef. Bisogna quindi interpretare la compatibilità logica della esclusione di tale riferimento, nella norma dell’attuale Tuir che ha sostituito la disposizione da ultimo citata, con il supposto potere dell’Amministrazione finanziaria di procedere ad una valutazione di congruità. Nell’art. 62355 infatti, la deducibilità dei compensi agli amministratori, non è soggetta ad alcuna esplicita limitazione356. 355 L’art. 62 contempla il caso dei compensi agli amministratori di società di persone, ma la norma è comunque applicabile anche alle società ed enti indicati nell’art. 87, I° c., lett. a e b del Tuir, per l’espresso richiamo contenuto nell’art. 95, II° c.. 356 Cfr. Cass. Sez. Trib. n. 8458 del 21/06/2000, secondo la quale addirittura, poiché l’art. 62 ha innovato in maniera favorevole all’impresa la precedente norma (art. 59 228 Una prima indicazione utile può essere tratta dalla relazione ministeriale allo schema del Tuir 917/86, ove viene affermato che il limite di deducibilità contenuto nell’art. 59 era di “difficile ed empirica applicazione”. Nulla lascia pertanto intendere una volontà del legislatore di attribuire al Fisco il potere di determinare autoritativamente l’importo ammissibile in deduzione prescindendo da quanto stabilito nelle relative deliberazioni societarie. Anche in questa circostanza specifica, una attenta lettura delle motivazioni delle sentenze, ha permesso di stemperare i timori sorti nei primi commentatori sulle implicazioni di una tale discrezionalità. Ad esempio, nel caso deciso dalla Cassazione, con sent. n. 12813 del 17/05-27/09 2000, veniva avallato l’operato dell’ufficio che aveva recuperato a tassazione compensi agli amministratori ritenuti eccedenti rispetto al valore ritenuto congruo, con l’affermazione che i compensi deliberati non costituiscono un vincolo insindacabile dall’Amministrazione finanziaria, per di più senza obbligo, per quest’ultima, di procedere al preventivo disconoscimento della validità civilistica della delibera sociale. Nella fattispecie la società, di modeste dimensioni per volume d’affari e numero dei dipendenti, aveva deliberato la nomina di tutti i cinque soci quali amministratori, attribuendogli un compenso quasi doppio rispetto all’utile operativo. Una successiva pronuncia, la n. 13478 del 10/11/2001, ha aderito all’orientamento più sopra descritto, affermando anch’essa la legittimità dell’operato dell’ufficio che, nel caso in esame, aveva del 597/73), esso avrebbe efficacia retroattiva, a condizione che ricorressero le condizioni di legge. 229 ritenuto il compenso all’amministratore sproporzionato rispetto ai ricavi ed all’oggetto dell’impresa. In senso opposto si è invece espressa la più recente Cass. sez. trib. n. 6599 del 09/05/2002. Anzitutto ha affermato la natura prettamente ‘qualitativa’ del giudizio di inerenza, negando inoltre al Fisco il potere di entrare nel merito delle scelte imprenditoriali, “... allo stato attuale della legislazione l’Amministrazione finanziaria non ha il potere di valutare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori delle società di persone per cui tali compensi sono deducibili come costi ai sensi dell’art. 62 del D.P.R. 917/86.”. Correttamente quindi la Corte, ha affermato che fattispecie simili a quella in esame, non possono essere decise ponendo il problema sul piano dell’inerenza, essendo questa rilevante sotto il solo profilo qualitativo “... proprio perché l’ordinamento riconosce all’imprenditore la libertà di impostare la sua strategia d’impresa.” Dalla lettura della sentenza, pare desumersi che essa abbia probabilmente recepito le preoccupazioni espresse dalla dottrina a commento delle sentenze precedentemente citate, ed abbia altresì inteso chiarire alcuni malintesi ingenerate dalle stesse. L’orientamento della dottrina infatti non ha avuto significative oscillazioni, sempre pressoché unanime nel negare un tale ampio potere discrezionale al Fisco e nell’attribuire al giudizio di inerenza la sola dimensione qualitativa, ben evidenziato dal Tesauro357, “... se una spesa è fatta in funzione dell’impresa, gli uffici non possono disconoscere la deducibilità adducendo motivazioni che attengono alla sfera discrezionale delle scelte 357 « Istituzioni di diritto tributario », vol. II, parte spec., Torino, 1996, pag. 118. 230 imprenditoriali.” e da E. De Mita358, “... il principio dell’inerenza è di tipo qualitativo: serve ad escludere dalle voci passive dei redditi netti le spese che non attengono alla vita dell’impresa.” Dunque se il costo è inerente perché servente alla produzione di ricavi, una volta accertata questa qualità del costo, è difficile dire, senza sconfinare in una discrezionalità di portata inaccettabile, in quale misura esso è deducibile o meno, a meno di constatare l’esistenza di una indicazione normativa specifica che ponga un tetto alle spese. E la circostanza che in taluni casi esistano dei limiti specifici, depone a favore dell’insindacabilità nelle ipotesi che detti limiti non prevedono359. Infine, si consideri la pressoché impossibile prova contraria che l’imprenditore sarebbe così chiamato a fornire, ovvero la dimostrazione dell’inerenza di un costo esorbitante provando che da esso provengono effetti solo sul reddito di impresa e non anche benefici ‘privati’. Il contrasto rispetto al precedente orientamento ingenerato da questa ultima sentenza ha determinato la rimessione di alcuni processi insorti con riguardo ad identiche fattispecie, al primo presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite onde appunto ricondurre ad unità l’orientamento espresso nelle citate sentenze. Le dall’esigenza ordinanze360 di sancire in questione nascono ufficialmente la quindi correttezza dell’impostazione, come osservato prima largamente condivisa in dottrina, recepita nella sentenza da ultimo citata, ma anche come 358 In Il Sole 24 Ore del 13 dicembre 2001, pag. 25. 359 De Mita, op. cit. “... un limite quantitativo a una spesa inerente lo può porre solo la legge.” 360 Cass. Sez. Trib., ordinanze nn. 9024 e 9025, del 20/06/2002. 231 conferma che neppure le sentenze che avevano avvallato le pretese dell’amministrazione, avevano l’intenzione di sancire un così ampio potere discrezionale in capo ad essa, bensì legittimare l’insorgere di sospetti di elusione e dunque, a seguito comunque di ulteriori indagini, il ricorso all’accertamento analitico-induttivo. Era inoltre necessario fare chiarezza sugli elementi posti a base di tale giudizio di congruità sulla cui scelta le sentenze criticate hanno sicuramente peccato di imprecisione. La valutazione della congruità del costo infatti, come in qualunque rapporto sinallagmatico (e la prestazione d’opera degli amministratori è senza dubbio tale) deve raffrontare l’esborso pattuito con il valore dell’opera richiesta agli amministratori quale legittimamente ipotizzabile al momento della fissazione dello stesso, evitando una valutazione, per giunta ex post, con riferimento a componenti per loro natura variabili ed aleatori. Per esemplificare, dire che il compenso è sproporzionato al volume d’affari conseguito, spesso si rivela scorretto, e comunque sempre riduttivo, infatti il compenso, deliberato361 ex ante, potrebbe rivelarsi eccessivo a seguito di una repentina contrazione degli affari che deprime l’ammontare complessivo dei ricavi, senza per ciò solo aver violato il sinallagma originario (anzi talvolta alterandolo a svantaggio dell’amministratore il quale si è trovato a dover affrontare dei problemi maggiori rispetto a quelli ordinariamente ed originariamente previsti). E cosa dire dell’ipotesi (tutt’altro che 361 Per motivi di sintesi non si sono fatte distinzioni tra amministratori di società di persone, sulla cui spettanza di diritto del compenso vi è contrasto di posizioni in dottrina (Cfr. Galgano, Le società in genere. Le società di persone. Milano, 1982, pag. 228, nota 84. Buonocore, Castellano, Costi, Società di persone, Milano, 1978, pag. 550. Mignoli, Nobili, Amministratori (di società), in Enc. del diritto, Milano, 1958, pag. 233. Auletta, Comunione familiare e società. Diritto a compenso del socio amministratore. In Riv. di dir. comm.le, 1948, II, pag. 299) ed amministratori di società di capitali, per i quali la fonte del diritto al compenso è rinvenibile nelle disposizioni del Codice Civile. 232 rara) di una impresa che si trovi ancora nella fase di avvio, pertanto senza aver conseguito ancora alcun ricavo, ma i cui amministratori devono affrontare i problemi critici di una gestione in fase di implementazione? Può dunque affermarsi, in conclusione, che nella generalità dei casi ove si riscontri un comportamento imprenditoriale che appare non essere economicamente plausibile, si renderanno necessarie ulteriori indagini, nonché l’instaurazione di un procedimento in contraddittorio con la parte, onde valutare se nel caso specifico l’antieconomicità non sia altro che la spia di una condotta elusiva (o evasiva), ovvero dettata da strategie di impresa che non sempre, a prima vista, appaiono di facile lettura362, soprattutto ai profani dell’economia aziendale e del marketing che naturalmente abbondano tra coloro che si trovano a dover verificare, accertare ed infine decidere su casi del genere. L’assenza di adeguate giustificazioni potrà pertanto consentire all’ufficio di procedere, sulla base comunque di elementi raccolti nelle ulteriori indagini, all’accertamento analitico-induttivo ex art. 39, I° c. lett. d) del DPR 600/73 come sarà più estesamente argomentato nel paragrafo che segue. 3. Antieconomicità e accertamento induttivo Quanto detto al termine del precedente paragrafo è avvalorato da una rilettura delle sentenze 12813/2000 e 13478/2001, le quali, al di là dell’utilizzo un pò maldestro di 362 Se una compagnia aerea decidesse di far decollare un volo nonostante la presenza a bordo di un solo passeggero, alla base della decisione potrebbero esserci considerazioni legate ad esempio all’immagine o ad accordi con associazioni dei consumatori, l’Amministrazione finanziaria non potrebbe insomma disconoscere il relativo costo per il solo fatto che appaia antieconomico 233 alcune espressioni, si possono agevolmente porre all’interno di quell’orientamento, abbastanza consolidato ed assolutamente condivisibile, che vede l’Amministrazione finanziaria sicuramente titolare del potere di giudicare la congruità di quanto indicato nelle delibere, come negli atti negoziali in genere, nell’ambito del potere-dovere di accertamento delle imposte, ma senza che ciò implichi necessariamente anche il potere di sostituire automaticamente tale valore con altro ritenuto congruo. Nonostante il tenore delle affermazioni fatte sia stato da alcuni autori interpretato come una pericolosa affermazione della possibilità di procedere ad una automatica rettifica dei valori disallineati a quanto ritenuto congruo, con l’utilizzo inoltre di parametri assai discutibili, l’attenzione sulle decisioni criticate in dottrina deve essere incentrato sul giudizio di legittimità circa il ragionamento presuntivo operato dall’ufficio. In altre parole, e per ‘salvare’ almeno parzialmente i ragionamenti della Corte, potrebbe agevolmente sostenersi che essi intendessero affermare che la insindacabilità delle decisioni imprenditoriali non deve e non può portare alla paralisi dell’azione accertatrice, in tal modo lasciando gli organi ad essa preposti disarmati di fronte a palesi manovre elusive attuate dai contribuenti, ma l’irragionevolezza delle decisioni imprenditoriali ben può costituire la base di un ragionamento logico-deduttivo il quale, corroborato da altri elementi, sterilizzi le decisioni imprenditoriali da qualsiasi intento elusivo. Notevoli spunti di indagine possono essere tratti da altre recenti pronunce di legittimità, in una nota sentenza363 ad esempio, 363 Cass. sez. trib. N. 1821 del 18/10/2000 09/02/2001. 234 la Corte aveva espressamente affermato che “...la regola alla quale si ispira chiunque svolga una attività economica è quella di ridurre i costi, a parità di tutte le altre condizioni”; e che “pertanto, in presenza di un comportamento che sfugga a questo parametro di buon senso e in assenza di una sua giustificazione razionale, è legittimo il fondato sospetto che la incongruenza sia soltanto apparente e che dietro di essa si celi una diversa realtà.”, così avallando l’accertamento analitico-induttivo di un maggior reddito, fondato su un comportamento giudicato appunto antieconomico. Si trattava nella fattispecie di un commerciante il quale con uno stratagemma alterava le indicazioni apposte nelle bolle di accompagnamento, onde far ritenere che avesse trasportato modiche quantità di prodotti. I verificatori, partendo dalla constatazione che l’effettuazione di plurimi trasporti ravvicinati nel tempo di pochi prodotti a basso valore unitario, fosse un comportamento contrario a qualsiasi logica commerciale, avevano desunto la falsità materiale delle bolle stesse. In sostanza, il comportamento antieconomico, lungi dall’essere direttamente sindacato, ha costituito la base di un ragionamento logicodeduttivo che ha corroborato la tesi dell’alterazione delle bolle allo scopo di effettuare vendite “in nero364”, mentre non sono stati contestati i costi dei trasporti ancorché riconosciuti ‘antieconomici’. Nel motivare la propria decisione però, i giudici non sono stati altrettanto abili quanto alcuni arguti commentatori365, nel sottolineare una tale corretta ricostruzione, 364 Circostanza questa decisiva per sottolineare che trattasi di fattispecie riconducibile all’evasione e non all’elusione fiscale. 365 Vedasi i commenti di Lupi, “Equivoci in tema di sindacato del fisco sull’economicità della gestione aziendale”, in Rass. trib. 1/2001, pagg. 214 e ss; Ivo Caraccioli, “Antieconomicità ed evasione fiscale”, in Il fisco 8/2001, pagg. 3143 e 235 con l’utilizzo di alcune espressioni e riferimenti effettivamente suscettibili di una diversa e preoccupante interpretazione366 e cioè verso una ipotetica giustificazione dell’ingerenza del Fisco nelle scelte imprenditoriali in caso di comportamenti giudicati “antieconomici”. Significativa al riguardo di tale orientamento, la sentenza della Suprema Corte n. 6337 del 03/05/2002 367che ha deciso per la legittimità del ricorso all’accertamento ex art. 39, I° c. lett. d) del DPR 600/73, anche in caso di contabilità formalmente regolare368, ma considerata complessivamente inattendibile in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, “anche sotto il profilo della antieconomicità del comportamento del contribuente.”. Anche la più recente sentenza n. 10802 del 24/07/2002369, ha indotto all’equivoco alcuni dei primi commentatori370, ss.; Toscano, “Il comportamento ‘antieconomico’ dell’imprenditore”, in Riv. della G. di F. 4/2001, pagg. 1675 e ss. 366 Ad esempio i riferimenti assolutamente privi di fondamento giuridico all’art. 37bis e ad una interpretazione di assoluta fantasia di alcune disposizioni contenute nello Statuto del contribuente, per le quali si rimanda agli Autori di cui alla nota precedente. 367 Commentata in Corr. Trib. 41/2002, pagg. 3737 e ss.. 368 Nello stesso senso, Cass. n. 10649, del 03/08/2001, secondo la quale “... deve ritenersi legittima, a mente degli artt. 38 e 39 del DPR 600/73, la rettifica induttiva del reddito d’impresa operata in presenza di contabilità formalmente regolare quando, sulla base di presunzioni dotate dei requisiti prescritti dall’art. 2729, comma 1 del Cod. Civ., possa fondatamente ritenersi che l’entità del reddito dichiarato si ponga in evidente contrasto con il comune buonsenso e con le regole basilari della ragionevolezza.” nella fattispecie si trattava di scostamento nelle percentuali di ricarico dichiarate. 369 Già citata a proposito del transfer pricing interno. 370 Cfr. Iorio, “Sprechi in azienda al vaglio del Fisco”, articolo apparso su Il sole 24 Ore del 02/08/2002. 236 probabilmente a motivo del riferimento al criterio del valore normale quale principio generale anziché, come ho già in precedenza affermato, quale deroga al (vero) principio generale di rilevanza dei corrispettivi pattuiti. Più probabilmente, il riferimento al ‘valore normale’ o più precisamente, allo scostamento da esso dei corrispettivi pattuiti, lungi dal consentire una automatico adeguamento in rettifica, era da considerarsi quale indice di un comportamento antieconomico il quale, a sua volta, costituirebbe una presunzione grave, precisa e concordante che legittima l’ufficio a procedere ad un accertamento analitico-induttivo ex art. 39 I°, lett. d371). Riguardo l’utilizzo delle presunzioni, la Corte ha infatti precisato che “non occorre che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva, ma è sufficiente 371 In questo senso, Anello, “La Cassazione interviene ancora sulla sindacabilità dei comportamenti economici”, in Corr. Trib. 39/2002, pagg. 3545 e ss. che approfondisce acutamente l’aspetto procedimentale e probatorio dell’accertamento analitico-induttivo affermando che esso “...in sostanza non richiede necessariamente,..., la presenza di una prova rappresentativa (e cioè un giudizio di fatto basato su documenti e altri elementi simili), ma ritiene sufficiente la sussistenza di una prova presuntiva....purché la presunzione sia dotata dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.”. Per altri profili della sentenza vedasi pagg. 134 e ss. del presente scritto. Nello stesso senso, ma con argomenti meno ‘fantasiosi’, la successiva sent. n. 11240, del 30/07/2002, ove si legge che: “... rientra nei poteri dell’Amministrazione finanziaria (ai fini dell’imposizione sul reddito,...) la valutazione della congruità dei costi e ricavi esposti in bilancio e nelle dichiarazioni e la rettifica di queste ultime, anche se non ricorrono irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’impresa, con negazione della deducibilità, totale o parziale, di un costo ritenuto insussistente o sproporzionato. Gli uffici finanziari non sono, pertanto, vincolati ai valori o corrispettivi indicati in delibere sociali o contratti. In materia di imposizione del reddito d’impresa una consolidata giurisprudenza della Corte ha, più in generale, riconosciuto il potere dell’Amministrazione finanziaria di rettificare componenti negativi del reddito, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), DPR 600/73, anche in presenza di una contabilità regolarmente tenuta. 237 che dal fatto noto sia desumibile quello ignoto, secondo un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit372.” Non appare invece corretto l’utilizzo dell’accertamento induttivo previsto dal successivo II° comma dello stesso articolo, ed approvato dalla Suprema Corte con la sentenza n. 11645 del 17/09/2001, infatti i presupposti di tale tipo di strumento accertativo, che consente di prescindere totalmente dalle risultanze della contabilità, richiedono che essa non sia stata tenuta, sia stata (dolosamente) sottratta alla disponibilità dei verificatori ovvero, se tenuta, presenti una serie di inesattezze gravi e ripetute, tali da consentirne il disconoscimento. Ebbene è proprio a quest’ultima circostanza che la Corte ha ricondotto il comportamento giudicato manifestamente antieconomico, ed è proprio da questa affermazione che nascono le critiche. I giudici di legittimità infatti, hanno sostenuto che la constatazione di un incoerente rapporto ricavi/immobilizzazioni e ricavi/costo del lavoro dipendente, sommato all’elevato indebitamento verso le banche, avrebbe legittimato l’Amministrazione finanziaria, in assenza di giustificazioni plausibili del contribuente, a ritenere inattendibile nel suo complesso la contabilità e quindi a procedere all’accertamento induttivo (anche) sulla base di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, richieste invece nel I° c. lett. d) dello stesso articolo. Decisiva appare la circostanza che né l’art. 39 II° c., né il decreto373 che ha fissato i criteri per poter legittimamente considerare inattendibile la contabilità, facciano menzione alcuna degli elementi posti a base del 372 Cass. sent. nn. 12212 del 15/09/2000, 5082 del 06/06/1997, 2700 del 26/03/1997, 2605 del 06/03/1995, 7213 del 26/06/1995, 4555 del 06/06/1998, 8089 del 05/09/1996. 373 DPR 570 del 16/09/1996. 238 ragionamento della Corte. Si rileva inoltre che accettare tale orientamento significherebbe attribuire al Fisco, non già un limitato potere di sindacare alcune scelte imprenditoriali, comunque attraverso la mediazione di un ragionamento presuntivo e con accertamento analitico-induttivo, bensì un inopportuno potere di sindacare l’economicità della conduzione dell’impresa complessivamente considerata, il cui andamento è sintetizzato nei citati indici. In ogni caso però, il dibattito che potrebbe legittimamente sorgere di fronte a decisioni del tenore analogo a quello appena commentato, riguarda la possibilità che la manifesta antieconomicità, così come la mancanza di inerenza per difetto di congruità, altro non siano se non concetti derivanti da una estesa accezione delle valide ragioni economiche le quali pertanto non sarebbero più confinate nei limiti imposti dall’art. 37-bis, assumendo valore di parametro generale di riferimento per qualsiasi operazione aziendale, fornendo in tal modo però un’arma impropria al Fisco. Non può essere infatti sottovalutata la circostanza che il legislatore, nelle ipotesi nelle quali ha ritenuto opportuno attribuire ad esso siffatti poteri, lo ha fatto con specifiche ed esplicite disposizioni di legge, in modo da garantire l’adeguata limitazione della discrezionalità amministrativa, e prevedendo un insieme di norme procedurali a garanzia del diritto alla difesa anche attraverso la previsione dell’obbligo del preventivo contraddittorio. Non può dunque essere accettata una simile impostazione che confliggerebbe con tutti quei principi a tutela dei quali le predette limitazioni sono state poste. In altre parole, per tale via sarebbe sostanzialmente riconosciuta la presenza nell’ordinamento di una norma antielusiva generale, 239 basata sul principio della sostanza sopra la forma, tesi questa oramai risalente ed abbandonata, attraverso la considerazione delle valide ragioni economiche alla stregua di un generale parametro di riferimento di ogni sorta di operazione aziendale, dipendente da considerazioni soggettive dell’organo amministrativo, la cui discrezionalità non avrebbe inoltre alcun esplicito confine stabilito dal legislatore. Appare a questo punto doveroso il semplice richiamo, trattandosi di considerazioni già svolte nel presente lavoro, circa i principi che verrebbero pregiudicati da una tale accezione, quello della riserva di legge, della capacità contributiva, del diritto di difesa e dell’autonomia privata, con ovvie ripercussioni sulla certezza del diritto e dei traffici che non trovano giustificazione nella pur innegabile circostanza che, in tal modo, alcune fattispecie elusive verrebbero sicuramente colpite. È inoltre da rilevare, che l’esame dell’evoluzione degli strumenti di accertamento messi a disposizione del Fisco ha evidenziato una costante tendenza dalla originaria prevalenza del metodo analitico al sempre più massiccio favore verso quello induttivo, logico corollario, si può affermare, dell’analoga tendenza a tassare non già un reddito effettivo, quanto invece uno ‘medio’. Con la riforma tributaria degli anni ’70, detta tendenza trovò chiara espressione nella legge delega 825/71374 e, in seguito negli artt. 39 del DPR 600/73 e 54 del DPR 633/72. Successivamente l’estensione dell’accertamento induttivo è stata ampliata, dapprima con gli artt. 2 comma 29 e 3 del DL n. 853 del 19/12/1984, convertito, con modifiche dalla l. n. 17 del 374 Cfr. Art. 10, n. 4, che delegava il Governo ad emanare una normativa che consentisse il ricorso alla prova per presunzioni “dell’esistenza di attività non dichiarate o dell’inesistenza di passività dichiarate”, solo in presenza dei “requisiti indicati nel I° comma dell’art. 2729 del cod. civ.” 240 17/02/1985, poi dagli artt. 11 e 12 del DL n. 69 del 02/03/1989, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 154 del 27/04/1989, con i quali sono stati introdotti i coefficienti di congruità e presuntivi di reddito. Infine, il definitivo abbandono delle forme di accertamento analitico è avvenuto con l’art. 62-sexies, III° c., del DL 331 del 30/08/1993, che ha previsto la possibilità di procedere ad accertamento analitico-induttivo in base alla constatazione di gravi incongruenze tra i ricavi, compensi, e corrispettivi dichiarati, rispetto a quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore. Ebbene le accennate incongruenze possono essere indubbiamente ravvisate in alcuni comportamenti del contribuente che si pongano in palese contrasto con regole consolidate e di comune esperienza, che normalmente dovrebbero accompagnare la generalità delle decisioni imprenditoriali, non intendendo con ciò anche la possibilità di intervenire automaticamente in seguito alla sola constatazione della carenza di valide ragioni economiche, richiedendosi invece la ricerca di ulteriori elementi ad integrazione dei dati statistici per raggiungere la soglia della gravità, precisione e concordanza richiesta dalla norma, e garantendo la possibilità di fornire la prova contraria attraverso la fissazione di precise regole procedurali. Lo strumento degli studi di settore si presenta come affinamento dei precedenti parametri e coefficienti presuntivi nelle diverse forme proposte nell’ultimo decennio circa, accompagnato da un tangibile miglioramento anche dal punto di vista prettamente procedurale e della possibilità di difesa da parte del contribuente. Si è insomma assistito ad un processo per via del quale, la validità delle indicazioni delle scritture contabili è oramai soggetta 241 ad un duplice controllo, che tenga conto dei due aspetti rilevanti della attendibilità, quella cioè formale e quella sostanziale, ma la maggiore rilevanza attribuita a questo ultimo aspetto, ha messo in crisi la stessa funzione dell’impianto contabile e degli adempimenti formali ad esso correlati. La recente introduzione del cosiddetto concordato preventivo triennale, previsto dall’art. 6 della legge finanziaria per il 2003, ancorché sia per ora a livello di programma essendo demandata ad un futuro regolamento del Ministro dell’Economia e delle Finanze, l’individuazione delle concrete modalità attuative, costituisce prova che le esigenze di poter contare su entrate certe, ha suggerito al legislatore di continuare, anzi accentuare la tendenza sommariamente descritta in precedenza. Chi scrive è dell’idea che si sia probabilmente esagerato, mortificando oltre ogni misura sostenibile il lavoro dell’Amministrazione finanziaria, accettando un reddito sicuramente inferiore a quello reale e talvolta a quello agevolmente accertabile attraverso gli ordinari poteri istruttori. Il parallelismo individuabile fra metodi di determinazione del reddito e di accertamento in base a coefficienti ha però spesso determinato una illegittima sostituzione dell’Amministrazione finanziaria al legislatore sia nell’individuazione delle procedure esperibili, sia, che è peggio, nelle determinazioni del relativo contenuto, assumendo così i connotati di un comportamento arbitrario. La legittimità delle cennate forfetizzazioni infatti, esige la compiuta previsione legislativa delle stesse, per evitare una palese violazione della riserva di legge. Devesi altresì osservare che tali metodologie dovrebbero essere eccezionali, transitorie, mentre si stanno rivelando sempre più ordinarie e permanenti, 242 deprimendo oltremodo la rilevanza del principio di capacità contributiva. Per quanto conferente con l’oggetto della presente ricerca, si può affermare che la presenza di una serie di strumenti di accertamento presuntivo-statistici i quali trovano la propria legittimazione nella constatazione di una divergenza non spiegata tra valori rilevati in contabilità e quelli calcolati sulla base degli strumenti statistici approntati dal legislatore ed applicabili nel caso concreto, forniscono ampie possibilità all’organo procedente che potrà richiedere antieconomico sia che un comportamento giustificato in maniera manifestamente plausibile dal contribuente, conferendo in caso contrario legittimità alla ricostruzione del reddito su base analitico-induttiva, ma si deve altresì aggiungere che detta antieconomicità deve essere assolutamente evidente e rilevante ed inoltre deve tenere conto di considerazioni economico-aziendalistiche, ritenendosi inoltre inopportuna la pretesa di fissare regole generali ed aprioristiche, incompatibili con una indagine che deve necessariamente limitarsi al caso concreto. È questa quindi la corretta chiave di lettura delle recenti sentenze della Cassazione inquadrate dalla dottrina nell’ambito del sindacato del Fisco sulle scelte imprenditoriali, le quali, altrimenti intese, si rivelerebbero assolutamente scorrette e contrarie ai più elementari principi costituzionali e non. Occorre però tenere in debita considerazione che la presenza di una palese ed illogica gestione aziendale, tale da far legittimamente sospettare una non veritiera (ancorché formalmente corretta) rappresentazione dei valori contabili, non può costituire il fondamento analitico delle relative contestazioni, e ciò contribuisce a spiegare in tali casi, le 243 maggiori possibilità di utilizzare con successo lo strumento previsto nel I° comma dell’art. 39 rispetto a quello previsto invece al II° comma dello stesso, a meno di poter disconoscere completamente la contabilità in quanto non tenuta, sottratta alla disponibilità degli organi procedenti o irregolare secondo i parametri fissati dal DPR 570/96, ovvero per la presenza di irregolarità gravi e ripetute. Al riguardo infatti, le generali disposizioni in materia di onere della prova, richiedono l’obbligo, da parte dell’Amministrazione finanziaria, di produrre gli elementi di prova a suffragio del supposto incremento del reddito. A tal proposito possono citarsi i casi di rettifiche effettuate sostituendo la percentuale di ricarico desunta dalla contabilità con quelle medie di settore nel caso in cui le prime si discostino in maniera significativa dalle seconde. In questi casi detta sostituzione appare illegittima, infatti la constatazione di un congruo scostamento certamente può legittimare l’ufficio a sviluppare ulteriormente il controllo attraverso la rilevazione, in base ai prezzi di acquisto rilevati dalle fatture e i prezzi di vendita effettivamente praticati, e con il metodo della media ponderata, del ricarico realmente applicato, con la conseguente rideterminazione dei ricavi che legittimamente si può presumere siano stati conseguiti. La Cassazione375 ha più volte sostenuto che i valori percentuali medi del settore, non possono essere considerati quel ‘fatto noto’ storicamente verificato dal quale desumere il fatto ignoto che costituisce l’oggetto della dimostrazione da fornire. Alla stessa 375 Cfr. Cass., sez. I civ., nn. 9385 del 04/09/1999, 5850 del 26/05/1995, 1628 del 15/02/1995 e 10850 del 17/12/1994; Cass. sez. trib., n. 6499 del 19/05/2000. In tal senso anche Comm. trib. reg. L’Aquila, sent. n. 167 del 14/01/2002 244 maniera, l’antieconomicità del comportamento tenuto non può legittimare la sostituzione dei valori, espressi in accordi la cui intrinseca validità giuridica non è contestata, con quelli ritenuti, dallo steso organo procedente, maggiormente rispondenti ad una logica di mercato. Non si vedono infatti gli strumenti giuridici che possano consentire di pervenire ad una oggettiva determinazione di quest’ultimo attributo. Se così non fosse, assisteremmo ad un serie di accertamenti effettuati ‘a tavolino’, senza cioè alcun controllo delle specificità che contraddistinguono ciascuna azienda, con l’ulteriore aberrante conseguenza che il contribuente dovrebbe fornire la prova di aver conseguito ricavi pari a quelli indicati nella contabilità, sempre che la stessa sia giudicata attendibile. Altre volte invece, l’accertamento analitico-induttivo ha ottenuto il (giusto) riconoscimento della stessa Corte quando, rilevate dalla verifica in azienda le specifiche modalità di esercizio dell’attività, si procedeva ad una ricostruzione analitico-induttiva fondata su regole di comune esperienza. Ad esempio376 constatata la incoerenza della percentuale di ricarico dichiarata da un ristoratore, determinata da una quantità di acquisti eccessiva rispetto ai pasti contabilizzati, si procede alla determinazione del numero di clienti effettivamente serviti, attraverso il ‘consumo’ di tovaglioli (desunto dalle fatture della lavanderia). In casi analoghi a quello sopra esemplificato377 appaiono infatti rispettate le regole di un corretto ragionamento presuntivo, soprattutto se verificatori ed accertatori, in sede di materiale ricostruzione, si avvalgono dei dati relativi al consumo di materie prime, percentuali di resa e di 376 Cfr. Cass. sez. civ., nn. 12212 del 15/09/2000, 51 del07/01/1999, 12274 del 22/12/1988, 12482 del 11/12/1998. 377 Ad es. Cass. sez. I, civ. n. 239 del 11/01/1999. 245 sfrido, prezzi e sconti mediamente praticati ecc., sulla base di quanto dichiarato nell’ambito del contraddittorio instaurato con il contribuente. Quanto sopra dunque vale a legittimare, nei casi previsti dalle norme parametriche e forfetarie di determinazione del reddito, l’utilizzo dell’accertamento analitico-induttivo, nei modi e con le cautele indicate dalle stesse, mentre di fronte ad un comportamento antieconomico, inteso come carente delle valide ragioni economiche, quest’ultima circostanza potrà, al più, costituire l’input per svolgere ulteriori indagini che consentano il reperimento di elementi tali da consentire una legittima ricostruzione del reddito su base presuntiva. Lo strumento così delineato appare comunque maggiormente applicabile a fattispecie evasive compiute da piccole e medie imprese, mentre maggiori cautele dovranno osservarsi in sede di controllo riferito alle imprese di più grandi dimensioni, le quali ricorrono a metodologie (elusive) più sofisticate per ‘nascondere’ materia imponibile al Fisco. Conclusioni Il lavoro di ricognizione sui possibili strumenti a disposizione dell’Amministrazione finanziaria per contrastare le maliziose elusioni degli obblighi di contribuzione alle pubbliche spese, in particolare quelle attuabili nascondendosi dietro il riparo fornito dai principi dell’ordinamento che attribuiscono ai privati una larga discrezionalità nella scelta dei modi e dei tempi di disposizione dei propri diritti in vista del raggiungimento di fini protetti in quanto meritevoli 246 di tutela, ha evidenziato impietosamente la grave inadeguatezza dell’attuale normativa in materia tributaria. Il Fisco, soprattutto allorché il fenomeno elusivo è, per così dire, esploso, si è trovato in deficit di mezzi per contrastarlo. Abbiamo quindi assistito ai suoi tentativi di espandere la propria discrezionalità, esaminandone principalmente due aspetti, quello del superamento delle forme negoziali predisposte dai contribuenti, qualificando il negozio in modo da fare emergere la reale sostanza economica dell’accordo e quello del sindacato sulla economicità delle scelte imprenditoriali. L’operato dell’Amministrazione finanziaria, si è così inevitabilmente trovato a dover fare i conti con quei principi dell’ordinamento che, come in precedenza ricordato, garantiscono ampie libertà ai cittadini. Diviene pertanto inderogabile l’individuazione dei confini entro i quali non solo i cittadini, ma anche il Fisco, possono legittimamente muoversi. È apparso altresì evidente, che è questione assolutamente pregiudiziale, quella di discriminare correttamente i comportamenti effettivamente elusivi, da quelli di mero risparmio di imposta, poiché la scelta dello strumento giuridico meno oneroso fiscalmente, non può essere considerato di per sé elusivo, allorché sia stato lo stesso legislatore a consentire consciamente la possibilità di scegliere tra strumenti alternativi per il raggiungimento di un medesimo fine, attribuendo a questi ultimi una pari dignità giuridica. Si rivela pertanto necessaria una valutazione da effettuarsi il più delle volte caso per caso, rivelandosi allo scopo da non sottovalutarsi le potenzialità di un corretto utilizzo dello strumento dell’interpello preventivo, non più limitato ad alcune sole tipologie di operazioni, ma 247 generalizzato a qualsiasi situazione potenzialmente suscettibile di determinare un conflitto di interpretazioni. Con riferimento allo specifico strumento della ‘qualificazione’ giuridica per il superamento della barriera della autonomia negoziale, il contributo giurisprudenziale ha chiarito in modo pressoché unanime la portata del principio sotteso, deludendo in maniera quasi assoluta le pretese degli uffici, anche se spesso a causa del fatto che essi, imperterriti, continuavano a fare riferimento all’art. 20 della attuale legge di registro come ad un principio generale, consentendo ai giudici di evitare molto spesso di entrare nello specifico argomento dell’autonomia negoziale. Si ritiene che comunque l’attribuzione di un tale potere all’Amministrazione finanziaria, anche prescindendo dalle carenze di questa ultima, non sia auspicabile né condivisibile. Troppo alto sarebbe il prezzo in termini di perdita di certezza del diritto in generale e dell’imposizione in particolare, con il conseguente ostacolo al libero esplicarsi ed evolversi delle relazioni economiche. A conclusioni non molto diverse si perviene, quando si paventa la possibilità di consentire al Fisco di entrare all’interno dell’area decisionale dell’azienda, in guisa da consentirle di sindacarne le scelte. La posizione contrapposta degli interessi in gioco, implica necessariamente che l’organo amministrativo tenda verso la opzione fiscalmente più gravosa. Ipotizzare automatismi nella sostituzione dei corrispettivi pattuiti, e per giunta in ambito generale non è dunque soluzione accettabile in un paese civile. Devesi altresì riconoscere però che se quanto appena detto è vero, è altrettanto vero ed incontestabile che il riconoscimento di sacrosanti diritti e libertà ai privati, non può essere inteso in una 248 accezione talmente ampia da paralizzare l’attività, anch’essa meritoria, di garanzia dell’assolvimento degli obblighi derivanti dal principio di solidarietà e quindi di contribuzione alle pubbliche spese in ragione della propria capacità contributiva, in osservanza altresì del principio di uguaglianza. In altre parole, non è ammissibile che l’Amministrazione finanziaria sia impotente anche di fronte a quelle ipotesi in cui il comportamento del contribuente sia in palese contrasto con le più elementari regole di buon senso e ragionevolezza. In conclusione, preso atto dell’atteggiamento ostile all’introduzione in Italia di una norma antielusiva generale, il contrasto all’elusione fiscale perpetrata attraverso l’abuso dello strumento negoziale, ovvero del principio generale che vede la prevalente rilevanza dei corrispettivi pattuiti può, nei casi più eclatanti, essere attuata mediante gli attuali strumenti accertativi fondati su presunzioni gravi, precise e concordanti, allorché tali requisiti possano legittimamente ravvisarsi in una serie di indizi dei quali, l’antieconomicità del comportamento, ovvero la sproporzione tra corrispettivo e valore oggettivamente attribuibile al bene o servizio, ne costituiscano il principale, ma non l’esclusivo. Certo in questo modo potranno essere colpite con maggiore efficacia le sole ipotesi più evidenti, come la giurisprudenza della Cassazione ha più volte avuto modo di confermare, ma ciò proverebbe che una discrezionale valutazione dei fatti è comunque possibile, laddove ragionamenti basati sul buon senso e la ragionevolezza, trovino ulteriori riscontri oggettivi nel comportamento, anche successivo, delle parti, specificando al riguardo che ciò non deve intendersi come valutazione ex post del risultato economico concretamente ottenuto, soggetto all’alea 249 tipica delle scelte imprenditoriali, bensì nel senso che l’Amministrazione possa ricondurre ad operazione complessa, una serie di operazioni che, ancorché separatamente considerate appaiano insindacabili, siano state concepite unitariamente in vista del raggiungimento di un fine prettamente di risparmio fiscale, e ciò risulti in base ad un ragionamento coerente. Si deve inoltre evitare di ‘farcire’ le motivazioni degli avvisi di accertamento di riferimenti, anche legislativi, tra loro incoerenti, in sostanza, una volta scelta una concatenazione motivazionale, bisogna seguirla in modo diretto, senza tentare di avvalorare la propria tesi con frammentarie argomentazioni parallele. In parole povere è quanto a dire che due “mezze motivazioni” non equivalgono ad una motivazione. Non potranno pertanto accettarsi estensioni delle fattispecie imponibili per assimilazione, analogia o qualunque altro ragionamento metagiuridico ancorché ‘logico’, onde evitare di incorrere in censure per la violazione della riserva di legge, e la medesima considerazione vale allorché si tratti di disposizioni antielusive specifiche, le quali, sottoponendo a tassazione fattispecie altrimenti non imponibili, assumono la stessa portata sostanziale che ne inibisce qualsiasi estensione ai casi non esplicitamente previsti. Né potrà farsi ricorso ad istituti finalizzati alla tutela di interessi differenti, come quelli civilistici della simulazione e del negozio in frode alla legge. Dare una ‘ricetta’ a questa ‘malattia’ cronica e congenita dell’ordinamento tributario è cosa che non rientra nelle mie possibilità, potendomi limitare alla constatazione ben nota in dottrina, della necessità improcrastinabile di un miglioramento della tecnica legislativa in materia 250 tributaria, con la predisposizione di Testi unici la cui stabilità non venga pregiudicata dalle esigenze di gettito e con l’abbandono della pretesa di utilizzare sempre e solo la leva fiscale anche per risolvere problemi che potrebbero essere affrontati attraverso altri strumenti privi degli effetti collaterali appena ricordati. Invece di predisporre una giungla di regimi fiscali differenti e alternativi, in funzione agevolativa, sarebbe in taluni casi possibile, quanto auspicabile, optare per il potenziamento delle politiche industriali e di predisposizione di adeguate infrastrutture, in modo da tendere al medesimo risultato, limitando così la parcellizzazione dei regimi stessi, caratteristica questa che presta il fianco a facili strumentalizzazioni. Il recupero dell’immagine del Fisco e della percezione di equità e doverosità della contribuzione, sono aspetti da migliorare per raggiungere il necessario grado di correttezza tendenziale del dialogo tra privati e pubblici poteri, imprescindibile requisito di un sistema fondato sulla autodeterminazione delle imposte. Un valido contributo in tale direzione potrebbe ravvisarsi in una seria lotta agli ‘evasori totali’, mediante il potenziamento dell’utilizzazione delle banche dati sempre più numerose e disponibili su internet, in modo da lanciare un chiaro messaggio anche di incoraggiamento ai contribuenti ‘regolari’, tutelandoli al tempo stesso dalle distorsioni della concorrenza che essi subiscono da chi svolge la loro stessa attività, ma evitando l’intero carico tributario. A mio avviso insomma, il contrasto all’evasione fiscale deve vedere come pricipali ‘attori’, uffici fiscali e Guardia di Finanza, mentre l’elusione deve principalmente contrastarsi ‘a monte’, attraverso l’opera del legislatore, nelle due direzioni della predisposizione di un impianto normativo che renda arduo il suo aggiramento, e della 251 attribuzione agli organi sopra ricordati, di adeguati strumenti normativi. A parere di chi scrive, le recenti disposizioni contenute nella manovra finanziaria per il 2003, al di là di qualsiasi considerazione politica, dimostra che la soluzione del problema dell’elusione (e dell’evasione) è stata ancora una volta ‘scavalcata’ dalle esigenze di gettito. L’attesa riforma tributaria non si vede neppure all’orizzonte, mentre un passo indietro è stato fatto, con la riapertura della ‘stagione dei condoni’, i quali tra l’altro hanno reso quasi inutile l’azione accertatrice degli uffici sin da quando si sono diffuse, nell’autunno del 2002, le voci in tale direzione, deprimendo altresì pesantemente le entrate da accertamento con adesione. Altro effetto negativo si riscontra nell’attività di verifica, con la possibilità per il soggetto verificato, di dichiarare la volontà di aderire al concordato in qualsiasi momento del controllo, inibendone in tal modo la prosecuzione. La perdita di credibilità e di immagine è però l’aspetto più negativo, laddove si consideri soprattutto l’encomiabile sforzo in tale direzione compiuto dalle Agenzie. Dal lato dell’Amministrazione si è assistito infatti negli ultimi anni ad un miglioramento nella qualità del personale, con il massiccio ingresso di giovani molti dei quali laureati, e l’aumento delle ore dei corsi di approfondimento/aggiornamento. Certo si rileva ancora una rigidità delle procedure per garantire progressioni di carriera legate al merito, ma è al riguardo da riconoscere che non sempre è possibile una adeguata e corretta valutazione di quest’ultimo. L’istituzione delle Agenzie fiscali è stata probabilmente eccessivamente enfatizzata, ingenerando così l’aspettativa di un 252 rapido e radicale rinnovamento che, considerate le dimensioni della struttura e la forte sindacalizzazione, con le resistenze al cambiamento che ne derivano, non poteva che essere delusa. In ossequio alla teoria della relatività, deve tenersi conto, nella valutazione temporale degli effetti delle riforme, della diversa e tendenzialmente più lenta scansione del tempo che ancora contraddistingue le organizzazioni pubbliche rispetto alle private. 253 BIBLIOGRAFIA Anello “La Cassazione interviene ancora sulla sindacabilità dei comportamenti economici”, in Corr. Trib. 39/2002 Anello Di Domenico “Profili applicativi della nuova norma antielusiva”, in Corr. Trib., 1998 Antolisei “Manuale di diritto penale. Parte generale”, 6° ed. Milano, Giuffrè, 1969 Antonini “Equivalenza di fattispecie tributaria ed elusione di imposta”, in “Dir. e prat. Trib.” 1966 Antonini “Evasione ed elusione d’imposta (Gli atti simulati e le imposte di registro e delle successioni)”. In Giur. It. 1959, IV Antonini “Riserva di legge e prestazioni patrimoniali imposte: la problematica parabola dell’antico istituto”, in Giurisprudenza costituzionale 1996 Antonini “Discrezionalità del legislatore e apriorismo della Corte in materia tributaria”, in Giur. Cost., 1996 Arena “Elusione dell’imposta e perequazione tributaria”, in “Riv. della G. di F.” 1954 “Comunione familiare e società. Diritto a compenso del socio amministratore”. In Riv. di dir. comm.le, 1948, II Auletta Barcellona “Diritto privato e società moderna”, Jovene, Napoli, 1996 Bartholini “Il principio di legalità in materia delle imposte”, Padova 1957 Barusco BatistoniFerrara Benatti F. Berliri Berliri Berliri Berliri “Considerazioni sulla indeducibilità delle some pagate da una società per la liberazione di un proprio dirigente sequestrato”, in Riv. di dir. trib., 1996 “Lezioni di diritto tributario”, Giappichelli, Torino 1993 “Principio di buona fede e obbligazione tributaria”, in Boll. Trib., 1986 “Principi di diritto tributario”, vol. I Milano 1952 “Ancora sulle cause della mancanza di certezza nel diritto tributario”, Giur. Imp. 1984 “Corso istituzionale di diritto tributario”, I, Milano, 1985 “Le leggi di registro”,Milano, 1960 “Interpretazione ed integrazione delle leggi tributarie”,in Riv. di dir. fin., Berliri L.V. 1942 “Sentenze della Cassazione e Statuto del contribuente”. In Il fisco n. Bernoni G. 28/2001 “Le circolari interpretative dell’Amministrazione finanziaria”, in Rass. Bertolissi M. Trib. I/1987 Bisignano “La nullità dei patti di traslazione delle imposte”, in Il fisco n. 35/01 Blumenstein “Sistema di diritto delle imposte”, trad. it. a cura di F. Forte, Milano 1954 “La norma ‘generale’ antielusiva nell’interpretazione del Comitato Consultivo: alcune considerazioni.”in Rass. trib. 2/2002 Bucci Buonocore, Castellano, Costi “Società di persone”, Milano, 1978 254 “Manca la volontà politica di eliminare le distorsioni tributarie”, in Il Sole Caleffi 24 ore, 21/06/1987 Campobasso “Diritto commerciale, vol II° Diritto delle società”, IV^ ed. Utet 1999 Caraccioli “Antieconomicità ed evasione fiscale”, in Il fisco 8/2001 Carlassare L. Carli G. “Legge (riserva di)”, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XVIII, Roma, 1990 “Il legislatore interprete”, Milano, 1997 “Redditi in natura e valore normale nelle imposte sui redditi.”, Milano, Carpentieri 1997 “La morale degli uffici e della giurisprudenza sulla deducibilità delle Carpentieri sanzioni dal reddito d’impresa”, in Rass. trib. 1994 Carraro “Frode alla legge”, in Novissimo digesto italiano, vol, VII, Torino 1961 Carresi Cecchini Cerri A. Cherchi A. Cicognani Cipollina “Accertamento e interpretazione del contratto”, in Diritto e impresa, 1989 “L’interesse a donare”, in Riv. di dir. civ., 1976 “Problemi generali della riserva di legge”, in Giur. Cost. 1968 “La stagione delle deleghe”, su Il sole 24 Ore del 19 gennaio 1998 “L’imposizione del reddito d’impresa”, Padova, 1980 “L’elusione fiscale”, in “Riv. di dir. fin. e sc. delle fin. 1988 Cipollina “La legge civile e la legge fiscale, il problema dell’elusione fiscale”. Cedam 1992 Cociani “Spunti ricostruttivi delle tecniche giuridiche di contrasto all’elusione tributaria. Dal disconoscimento dei vantaggi tributari all’inopponibilità al fisco degli atti, fatti e negozi considerati elusivi”, in Riv. dir. trib. 7/8 2001, I Cociani “Usufrutto su azioni ed interposizione fittizia di persona”, in Il fisco 1994 ColnagoGiacosa “Deducibilità ai fini delle imposte dirette delle sanzioni antitrust.”, in Boll. Trib. 2000 Consolo “I pareri del comitato per l’applicazione della normativa antielusiva e la loro sfuggente efficacia”, in Dir. e prat. trib. 1993 Cosciani D’Amati D’Amati De Mita E. “Lo stato dei lavori della Commissione per lo studio della riforma tributaria”, Milano, 1964 “La progettazione giuridica del reddito”, Padova, 1975 “Rilevanza e vizi degli atti ai fini dell’imposta di registro” “Fisco e Costituzione”, Milano 1996 “Statuto del contribuente, generico eppure utile”, in Il sole 24 Ore del 16 De Mita E. marzo 1999 De Mita E. “Fisco e Costituzione”, I e II, Milano 1984 e 1993 “Razionalità e fiscalismo nella giurisprudenza costituzionale tributaria”, in “L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano”, AA.VV., Padova, De Mita E. 2000 Dus “Norme antielusive in materia di operazioni societarie”, in Il fisco 1991 255 Falcone G. “Il valore dello Statuto del contribuente”, in Il fisco 36/2000 Falsitta “Manuale di diritto tributario”, Cedam, Padova, 1995 Falsitta “Spunti in tema di capacità contributiva e di accollo convenzionale delle imposte”, in Riv. di dir. trib. 1985, I Falsitta “ La persecuzione fiscale delle imprese “, nel suo “ Per un fisco civile “Giuffrè 1996 Falsitta “Per un fisco civile“ capitolo III, “Il flagello della legificazione tributaria, la semplificazione e la codificazione “ Falsitta “Rilevanza delle circolari interpretative e tutela del contribuente”, in “Studi in onore di E. Allorio”, II, Milano, 1989 Falsitta “Osservazioni sulla nascita e lo sviluppo scientifico del diritto tributario in Italia”, in “L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano”, atti del convegno “I settanta anni di ‘Diritto e pratica tributaria’” (Genova 2-3 luglio 1999), coordinati da Victor Uckmar, Cedam, Padova, 2000 Falsitta Fantozzi “Usufrutto su azioni e contratto in maschera”, commento alla sentenza Comm. Trib. I° Udine, sez. I, 12/07/1995 in Dir. e prat. trib. 1996, II “Diritto tributario”, UTET 1991 Fava “Sostituzione di redditi, interposizione soggettiva e patti d’imposta fra dividend washing e usufrutto su azioni” in Il fisco 33/93 “Ragioni economiche di una società professionale e rischio di interposizione fittizia nell’imposizione sul reddito”, in Boll. Trib. 21/2002 Ficari Ficari De Sena, Esposito Fransoni, Rossi, Vantaggio “Casi e materiali di diritto tributario”, Cedam 1997 Fiorentino Gaffuri “Il problema dell’elusione tributaria nel sistema tributario positivo”, in Riv. di dir. trib., 1998 “L’attitudine alla contribuzione”, Milano, 1969 Galeotti Flori Galgano Galgano “La determinazione del reddito d’impresa”, in Caraccioli, Galeotti Flori, Tanini: “Il reddito d’impresa nei tributi diretti”, Padova, 1997 “Diritto civile e commerciale”, II/1, Cedam, Padova “Le società in genere. Le società di persone”. Milano, 1982 Gallo “Brevi spunti in tema di elusione e frode alla legge nel reddito di impresa”, in “Rass. Trib.” I/1989 Gallo “Elusione senza rischio: il fisco indifeso di fronte ad un fenomeno tutto italiano ”, in Dir. e prat. Trib. 1991/I Gallo Garbarino Garcea A. “L’elusione fiscale nelle operazioni di concentrazione e scorporo”, in Il fisco, 1992 “Riporto delle perdite ed elusione”, in Dir. e prat. trib. I/2001 “Il legittimo risparmio d’imposta” 256 Gatti Gavelli Giannini A.D. Giannini A.D. Giannini A.D. Giannini M.S. “Interposizione reale e interposizione fittizia (una distinzione ancora valida)”, in Rivista di dir. comm., 1974, I “L’interposizione fittizia realizzata attraverso l’utilizzo della società di servizi”, in Corr. Trib. 41/2002 “I concetti fondamentali del diritto tributario”, Torino, 1956 “Istituzioni”, 1951, Milano, Giuffrè “Istituzioni di diritto tributario”, 1968 “L’analogia giuridica”, in Jus, 1941 Gonzales Garcia “La cosiddetta evasione fiscale legittima”, in “Riv. di dir. Fin. e sc. delle fin. 1974 Grassi “L’elusione tra la certezza del diritto e le ragioni dell’economia” in Il fisco n. 31/95 Graziani Grippa Salvetti M.A. ”L’evoluzione del concetto di inerenza e il trattamento fiscale dei finanziamenti ad enti esterni di ricerca”, in Falsitta, Moschetti, “I costi di ricerca scientifica”, Milano, 1988 “Riserva di legge e delegificazione nell’ordinamento tributario”, Milano 1998 “L’autonomia del diritto finanziario rispetto al diritto civile nella legge del prestito redimibile e dell’imposta straordinaria immobiliare”, in Riv. di dir. Griziotti B. fin. e sc. delle fin., 1938 “Questioni metodologiche per l’applicazione dello speciale diritto di licenza all’importazione delle navi mercantili”, in Riv. di dir. fin. e sc. delle Griziotti B. fin., 1941, I “La trasformazione finanziaria della tassa per l’occupazione di aree pubbliche e l’interpretazione autonoma e funzionale del diritto finanziario”, Griziotti B. in Riv. di dir. fin. e sc. delle fin., 1942, II “Il potere finanziario e il diritto finanziario nello studio autonomo delle Griziotti B. finanze pubbliche”, in Riv. di dir. fin. e sc. delle fin., I “Il principio della realtà economica negli artt. 8 e 68 della legge di Griziotti B. registro”. Riv. di dir. fin. e sc. delle fin., 1939, II “Il principio della solidarietà finanziaria” “Vecchi e nuovi indirizzi nella scienza delle finanze”, in Saggi sul rinnovamento dello studio della scienza Griziotti B. delle finanze e del diritto finanziario, Milano 1953 Griziotti B. “Il principio della capacità contributiva” Hensel “Diritto tributario”, Milano, 1956 Iorio Jarach Jarach “Sprechi in azienda al vaglio del Fisco”, articolo apparso su Il sole 24 Ore del 02/08/2002 “Principi per l’applicazione delle tasse di registro” 1937 “I contratti a gradini e l’imposta”, in Riv. di dir. fin., 1982 LeoMonacchi- “Le imposte sui redditi nel Testo Unico”, Milano, 1999 257 Schiavo Lovisolo Lovisolo “Evasione ed elusione tributaria nei rapporti internazionali”, in Dir. e prat. Trib. 1985 “L’evasione e l’elusione tributaria”, in Dir. e prat. Trib. 1984/I Lovisolo “L’imposizione dei gruppi di società: profili evolutivi”, in “L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano”, atti del convegno “I settanta anni di ‘Diritto e pratica tributaria’” (Genova 2-3 luglio 1999), coordinati da Victor Uckmar, Cedam, Padova, 2000 “Possesso di reddito ed interposizione di persona” in Dir. e prat. trib. 1993, I Lovisolo Luciani M. “Economia nel diritto costituzionale”, 1990 Lunelli “Normativa antielusione”, in Il fisco 30/97 Lupi Lupi “Elusione fiscale, modifiche normative e prime sviste interpretative”. In Rass. Trib. n. 3/95 “Manuale professionale di diritto tributario”, Ipsoa II ed. 1999 Lupi “L’elusione come strumentalizzazione delle regole fiscali” in Rass. Trib. 2/1994 Lupi Lupi Lupi “Elusione e legittimo risparmio d’imposta nella nuova normativa”, in Rass. Trib. 5/1997 “Diritto tributario”, Giuffrè, 1999 “Manuale professionale di diritto tributario”, Milano 1998 Lupi Lupi “Società senza impresa, detrazione IVA e ‘fiscalità dell’imprevedibile’”, in Riv. di dir. trib., 1992 “Diritto tributario. Parte generale”, Milano, 1994 Lupi “Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario”, Milano, 1988 Lupi ”Compensi abnormi agli amministratori: imposizione no”, in Rass. trib. 1994 Lupi Lupi “A proposito di inerenza... Il Fisco può entrare nel merito delle scelte imprenditoriali?”, in Riv. di dir. trib., 1992 “Diritto tributario – Parte speciale”, Milano, 2000 Lupi Lupi “Sulla deducibilità fiscale delle somme pagate per violazioni della normativa antitrust.”, in Riv. di dir. trib. , 2001/I “Inerenza e sanzioni Antitrust”, in Rass. trib., 6/2001 Lupi “Equivoci in tema di sindacato del fisco sull’economicità della gestione aziendale”, in Rass. trib. 1/2001 Magnani “Interposizione fittizia ed imputazione del reddito” in Le nuove leggi civ. comm., 1990 Manzini “Spirito di liberalità e controllo giudiziario sull’esistenza della causa donandi”, in Contratto e impr., 1985 Marongiu “Dubbi di legittimità costituzionale sulla nuova disciplina fiscale degli ammortamenti finanziari dei beni gratuitamente devolvibili”,in Dir. e prat. Trib., 2000, I 258 antielusione sì, doppia Marongiu Messineo F. Micheli G.A. Micheli G.A. Micheli G.A. “La crisi del principio di capacità contributiva nella giurisprudenza della Corte Costituzionale nell’ultimo decennio”, in Dir e prat. trib., 1999 “Il contratto in genere”, Giuffrè, Milano, 1973 “Corso di diritto tributario” UTET 1992 “Legge (diritto tributario)”, in Eci. Dir., XXIII° vol., Milano,1973 “Legge”, in Enc. del diritto, XXIII, Milano, 1979 “Transfer pricing interno – Traslazione del reddito tra tipi diversi di Micheli M. società “, in Il fisco 13/2000 Mignoli, Nobili “Amministratori (di società)”, in Enc. del diritto, Milano, 1958 Morello “Frode alla legge” Milano 1969 “Considerazioni sui costi da illecito nella determinazione del reddito.”, in Moscatelli Riv. di dir. trib., 2000, I Moschetti “La capacità contributiva” Padova 1993 Musselli A., A.C. “Transfer pricing”, ed. Il Sole 24 Ore, 2001 Nocerino “Il problema dell’individuazione di un principio generale (inespresso) di inerenza”, in Rass. trib. 1995 Nussi M. “Elusione tributaria ed equiparazioni al presupposto nelle imposte sui redditi: nuovi (e vecchi) problemi” Nuzzo Ocse “Lease-back, elusione, poteri degli organi ispettivi.”, in Rass. trib. 12/1990 “Transfer pricing and Multinational Enterprises”, Parigi, 1979 Ocse Ocse “Transfer pricing and Multinational Enterprises. Three Taxation issues”, Parigi, 1984 ”Thin capitalization”, Parigi, 1987 Ocse “Tax Aspects of Transfer Pricing within Multinational Enterprises – The United States Proposed Regolation”, Parigi, 1994 Ocse “Transfer Pricing guidelines For Multinational Enterprises and Tax Administrator”, 1995. “Il diritto tributario e il diritto privato”, in “Trattato di diritto tributario, Osterloh L. Padova, 1994 Pacifico “Il leasing e l’elusione fiscale”in Il fisco, 1989 Pacifico “Aspetti civilistici del lease-back”, in Riv. it. del leasing, 1989 Pacifico “Sale and lease-back: i canoni sono deducibili?”, in Il fisco 1989 Pacitto “Attività negoziale, evasione ed elusione tributaria: spunti problematici”, in Riv. di dir. fin., 1987 Panizzolo “Inerenza ed atti erogativi nel sistema delle regole di determinazione del reddito d’impresa”, in Riv. di dir. trib., 1999 Perrone L. “Appunti sulle garanzie costituzionali in materia tributaria”, in Riv. di dir. Trib. 1997, I 259 Piazza M. “Guida alla fiscalità internazionale”, Il sole 24 Ore, Milano 1997 Piccone Ferrarotti Piras “Riflessioni sulla norma antielusiva introdotta dall’art. 7 del D.Lgs 358/97”, in Rass. trib. 4/97 “Discrezionalità amministrativa”, in Enc. Giur., 1990, XIII, 1964 Rai Russo Russo commento alla sentenza 159 del 28/06/1995 della Comm. I° Ivrea in Il fisco 33/95 “Manuale di diritto tributario”, Giuffrè 1999 “Brevi note in tema di disposizioni antielusive”, in Rass. trib. 1/99 “L’abuso della libertà contrattuale”, in AA.VV., “Diritto privato 1997. III) Sacco R. L’abuso del diritto, Cedam, Padova, 1998 Santamaria “Registro (imposte di)”, in Enc. dir., 1998 Santonastaso“I negozi in frode alla legge fiscale”, in Dir. e prat. trib., I, 1970 Scardulla ”Interposizione di persona”, in Enc. del diritto, XXII, Milano 1972 Spoto “La deducibilità delle sanzioni cosiddette antitrust, nel reddito d’impresa.”, in Riv. di dir. trib., 2001 Stevanato “Compensi a soci amministratori e interposizione di persona. Un’ipotesi da scartare”, in Rass. trib. 1994 Stevanato Steve S. Tabellini Tabellini Tabellini Tabellini Tarello Tesauro “Rettifiche dei corrispettivi intragruppo e transfer pricing ‘interno’”, in Rass. trib. 1/99 “Lezioni di scienza delle finanze”, Cedam 1964 “L’elusione fiscale”, Giuffrè, 1988. “Libertà negoziale ed elusione d’imposta”, Padova 1995 “Il progetto governativo antielusione”, in Boll. Trib., 1997 “Fusioni di società ed elusione fiscale” in Boll. Trib., 1997 “L’interpretazione della legge”, Milano 1980 “Istituzioni di diritto tributario” Vol. 1 Parte generale settima edizione Tesauro Tesauro Tesauro Tesauro Tinelli “Istituzioni di diritto tributario “, vol I parte generale IV ed., Utet, Torino 1995 “Istituzioni di diritto tributario”, Torino 1987 “Istituzioni di diritto tributario – Parte speciale”, Torino, 1999 “ Istituzioni di diritto tributario” , vol. II, parte spec., Torino, 1996 “Il reddito d’impresa nel diritto tributario”, Milano, 1991 Toscano Tosi “Il comportamento ‘antieconomico’ dell’imprenditore”, in Riv. della G. di F. 4/2001 “Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale” Tremonti “Autonomia contrattuale e normativa tributaria : il problema dell’elusione tributaria”, in “Riv. di dir. fin. e sc. delle fin. 1986 Tremonti “Scienza e tecnica della legislazione” in Riv. di sc. delle fin. e dir. Fin., 1992/I Tremonti TremontiVitaletti “Gruppi di società : i vincoli e le architetture fiscali”, in AA.VV., “La fiscalità industriale”, Bologna, 1998 “Le cento tasse degli italiani” 260 Trinco M. “Analisi storico-critica dei progetti di norma generale antielusione”, in Il fisco 22/91 Trivoli “Contro l’introduzione di una clausola generale antielusiva nell’ordinamento tributario vigente”, in Dir. e prat. Trib. 1992/II “Principi per l’applicazione delle tasse di registro”, in Dir. e prat. trib., Uckmar A. 1937 “L’incertezza nel diritto tributario, in La certezza del diritto. Un valore da Uckmar V. ritrovare”, Milano 1993 Valente P. ”Tassazione consolidata nei gruppi di imprese”, in Rass. di fiscalità int. n. 3/2001 Valente P. “L’elusione nelle operazioni di riorganizzazione societaria: problemi esegetici dell’art. 10, legge 408/1990 e confronto con esperienze straniere”, in Riv. di dir. fin. e sc. delle fin. LVI, 1, I Valente P. “Riorganizzazioni societarie: prime osservazioni allo schema di decreto legislativo.” in Il fisco 32/97 Vanoni “Natura e interpretazione delle leggi tributarie”, riprodotto in “Opere giuridiche”, Milano, 1961 Zizzo G. “Riflessioni in tema di tecnica legislativa e norma tributaria ” in Rass. Trib. 1988 Zizzo G. “Regole generali sulla determinazione del reddito d’impresa”, in AA.VV., ‘Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, imposta sul reddito delle persone fisiche, II’, diretta da F. Tesauro, Torino, 1994 Zizzo G. “I redditi d’impresa”, in Manuale di diritto tributario” di Falsitta, parte speciale, Padova 1997 Zizzo G. “Sanzioni per violazioni della normativa antitrust e determinazione del reddito d’impresa.”, in Riv. di dir. trib., 2001, II Zoppini “Fattispecie e disciplina dell’elusione nel contesto delle imposte reddituali”, in Riv. dir. trib. 2/I/2002 261