Seminario di Modena, 10 novembre 2016 PROF. MAURO BEGHIN Ordinario di Diritto tributario nell’Università di Padova LA PRESUNZIONE GIURISPRUDENZIALE DI DISTRIBUZIONE DI UTILI EXTRACONTABILI Dall’evasione della società all’evasione del socio. Nei casi in cui i dividendi distribuiti non siano stati esposti nella dichiarazione tributaria (trattandosi, per esempio, di utili pagati ai soci in modo occulto, a seguito del realizzo di una fattispecie di evasione da parte della società) il fisco può procedere al loro accertamento anche attraverso lo strumento della presunzione semplice. Le presunzioni semplici devono caratterizzarsi sul piano della “gravità”, della “precisione” e della “concordanza”, come prescrive l'art. 2727 c.c. Devono pertanto esprimere, attraverso un rigoroso percorso argomentativo, un risultato fattuale altamente probabile, vale a dire credibile ovvero realistico agli occhi di un osservatore esterno (nel nostro caso, rammento che c’è da provare l'avvenuto pagamento di utili “al nero”). La credibilità del ragionamento sotteso alla presunzione dipende, pertanto, dalla solidità dello schema argomentativo che l'accompagna. Questo schema deve fondarsi su di un fatto certo, mentre il fatto incerto (il fatto, dunque, che si deve dimostrare) va ricercato attraverso l’identificazione della legge causale, la quale, a partire dal citato fatto certo, consenta per l'appunto di valutare, in termini di elevata probabilità, l'evento incerto (l'incasso del dividendo) sul quale dovrebbe, in un secondo tempo, essere calata l'imposta. Mi riferisco alla legge causale tipica del ragionamento per presunzioni, attraverso la quale, movendo dal fatto certo alfa, può dirsi dimostrato anche in fatto beta, dato il rapporto che si prospetta tra i due accadimenti. Talvolta la legge causale può essere una legge naturale, come nel caso in cui, dato un certo quantitativo di materia prima immesso nel ciclo produttivo, si ottiene, per via del calo, un minore quantitativo di prodotto finito. In altri casi, la legge causale può essere una legge economica. Dato un certo fatto, se ne presume un altro, perché quest'ultimo risponde – come detto – a regole di comune esperienza o di normalità che caratterizzano i mercati e gli imprenditori. Nel caso della presunzione di occulta distribuzione dei dividendi, i fatti certi dovrebbero essere almeno due: da un lato, l'occultamento di ricchezza da parte della società; dall'altro, un particolare rapporto di complicità tra i soci, tale da giustificare la diretta, automatica ripartizione, all'interno della compagine societaria, di quanto la società abbia, a monte, nascosto al fisco. Su questi aspetti, conviene soffermarsi brevemente. Il fatto noto da porre a base della presunzione semplice: l'occultamento di ricchezza societaria rilevante ai fini civilistici prima che ai fini fiscali. Come ho evidenziato nel precedente paragrafo, affinché la presunzione di occulta distribuzione di dividendi possa essere utilizzata dal fisco per accertare maggiori redditi in testa ai soci è anzitutto necessario che l'Amministrazione finanziaria dimostri che v'è stato occultamento di utili ascrivibili alla società. Non è sufficiente, a questo riguardo, che il reddito della società sia stato rettificato mediante un provvedimento impositivo (avviso di accertamento). È indispensabile, invece, che tale rettifica inglobi utili 1 che non siano stati rappresentati nel bilancio, perché è evidente che non si può distribuire “al nero” ciò che non sia stato in precedenza acquisito al patrimonio della società partecipata. Il lettore è certamente al corrente del fatto che le società commerciali possono distribuire solamente la ricchezza che esse abbiano preventivamente prodotto sul piano civilistico, non già la ricchezza fiscalmente rilevante sul piano fiscale. Sto dicendo che non si distribuisce il reddito d'impresa e che, pertanto, quando si parla di “distribuzione di dividendi” o quando ci si riferisce alle “delibere di distribuzione dei dividendi”, dovrebbe esser chiaro che l'oggetto della distribuzione è rappresentato solamente dall'utile oppure dalle riserve di utili (vale a dire dalla ricchezza civilisticamente determinata) che siano stati generati dall'ente attraverso lo svolgimento dell'attività. Ne discende che gli avvisi di accertamento i quali possono assumere concretezza in vista della contestazione dell'eventuale distribuzione occulta dei dividendi sono soltanto quelli che, nel rettificare la dichiarazione tributaria (o nel prendere il posto di una dichiarazione omessa), rilevino, per l'appunto, anche la mancata contabilizzazione di ricchezza che avrebbe dovuto concorrere ad incrementare il risultato civilistico. In modo più semplice, si può dire che, dietro alla contestazione fiscale della quale si sta qui discutendo, v'è un illecito di natura civilistica, dipendente da omissioni che hanno riguardato le scritture contabili e il bilancio d'esercizio. Non è detto che questo illecito declini nel reato di falso in bilancio. Per rendere ancor più chiaro quanto sin qui affermato, il lettore rifletta sui casi, assai frequenti nella pratica professionale, di contabilizzazione di costi sulla base di fatture emesse dal fornitore per operazioni oggettivamente inesistenti oppure di omessa contabilizzazione di proventi, non importa se di carattere ordinario o straordinario. Il lettore osservi che, nelle fattispecie qui sopra richiamate a mero titolo esemplificativo, l'illecito tributario è chiaramente preceduto da un illecito contabile. Prima della dichiarazione infedele, infatti, c'è una falsa rappresentazione in bilancio di fatti aziendali: attraverso la contabilizzazione di documenti riguardanti costi che non esistono e attraverso la mancata annotazione di proventi concretamente realizzati, si riduce la ricchezza (l'utile di esercizio) che la società avrebbe potuto distribuire ai soci secondo il procedimento indicato nel codice civile (assunzione della delibera ed erogazione delle somme). Da qui, un’ulteriore declinazione del nostro discorso, sulla quale, peraltro, non v'è allo stato attuale unanime convincimento. C'è da chiedersi, infatti, se la presunzione di occulta distribuzione di dividendi possa trovare spazio nei casi in cui, pur considerando gli effetti degli illeciti di stampo contabile, la società rimanga, sul piano civilistico, in perdita. Il lettore rifletta sul caso della società per azioni Alfa, la quale, nel periodo d'imposta x, abbia approvato un bilancio con perdita di 1.000, a fronte di un reddito fiscale di 500. Immagini che, attraverso un avviso di accertamento, l'Amministrazione finanziaria accerti costi fittizi rispettivamente pari a: a) euro 600, nella prima ipotesi; b) euro 1.100, nella seconda ipotesi; c) euro 2.000, nella terza ipotesi. Orbene, nell'ipotesi sub a), il reddito imponibile passa da 500 a 1.100, ma la società rimane, sul piano civilistico, in perdita. Secondo alcuni autori, pertanto, non si potrebbe qui presumere la distribuzione occulta di dividendi, in difetto di materia (utile) civilisticamente determinata: La perdita civilitica – come detto persiste. Nelle ipotesi sub b) e sub c), per contro, il reddito passa rispettivamente a euro 1.600 e 2.500, mentre sul piano civilistico la perdita viene meno. Segnatamente, nel caso sub b) la ricchezza civilistica è pari a euro 100. Nel caso sub c), ad euro 1.000. Le cifre di 100 e di 1.000 dovrebbero perciò segnare il limite all'interno del quale potrebbe essere applicata la presunzione di distribuzione occulta dei dividendi. A mio modo di vedere, il problema qui sopra prospettato (rapporto tra perdite e presunzione di distribuzione di dividendi) potrebbe essere superato nel senso della possibilità di notificare l’avviso di accertamento al socio. Ciò per una ragione assai semplice, che potrei riassumere nei termini seguenti: i soci, i quali abbiano utilizzato la società per realizzare fattispecie di evasione, possono distribuire il ricavato dell'illecito senza troppo soffermarsi sui vincoli di carattere civilistico. Nel ritornare al caso della contabilizzazione dei costi fittizi, mi pare corretto sostenere che il formale pagamento di quelle fatture può consentire la costituzione di una provvista all'esterno del patrimonio della società, della quale i soci possono essersi, con il trascorrere del tempo, impossessati. Ciò indipendentemente dal fatto che la società abbia generato, nel periodo di riferimento, utili o perdite. Analogo discorso si può fare per i ricavi introitati dalla società, ma da questa non contabilizzati, che potrebbero parimenti formare oggetto di spartizione senza indugiare sull'andamento dell'ente. In conclusione, reputo che una società la quale si comporti correttamente giammai potrebbe distribuire dividendi in un contesto operativo caratterizzato da una perdita d'esercizio, dato che tale perdita impedisce l'assunzione di una delibera in tal senso. Per contro, una società che non si comporti correttamente potrebbe 2 trattare la provvista introitata attraverso l'evasione fiscale in modo del tutto sganciato dalle regole del diritto societario, immettendola, di fatto, nel circuito della distribuzione a favore dei soci ed infischiandosene, così, delle prescrizioni derivanti dal diritto commerciale. Per contro, non è possibile attivare la presunzione di distribuzione occulta di dividendi quando la rettifica del reddito societario non faccia emergere, come ritengo di aver sufficientemente argomentato in questo paragrafo, maggiori utili civilistici. Sto pensando ai rilevi riguardanti l'indeducibilità di taluni costi realmente sopportati, dovuta, ad esempio, al fatto che tale deduzione è tout court vietata dalla legge oppure deve essere posticipata in forza delle regole di competenza, di certezza o di obiettiva determinabilità. Analogo discorso vale per i proventi, quando siano mandati a tassazione – di nuovo – in base a rilievi sulla competenza, sulla certezza e sulla obiettiva determinabilità, non già in virtù di rilievi riguardanti la loro esistenza. Il lettore rammenti che, a fronte di proventi non contabilizzati, la violazione fiscale si accompagna alla violazione civilistica. In altre parole, la dichiarazione è infedele, ma dietro a quella infedeltà esiste un illecito contabile, che ha direttamente inciso sulla veritiera e corretta rappresentazione dell'utile civilistico. Sto dicendo che, quando il rilievo riguarda la regola della competenza, il provento è contabilizzato, anche se il concorso alla determinazione del reddito avviene in un periodo d'imposta diverso da quello indicato dalla società. La base societaria “ristretta” o “familiare”. Per sostenere la linea argomentativa secondo la quale l'evasione perpetrata dalla società si trasforma in occulta corresponsione di dividendi ai soci (e, quindi, in ulteriore evasione da parte di questi ultimi soggetti) è necessario partire dalla dimostrazione di un fatto assai preciso, che possa essere assunto a fondamento della legge causale sulla quale poggia il ragionamento presuntivo. Si tratta invero di provare che i soci, ai quali l'Agenzia delle entrate intende contestare l'evasione fiscale sotto forma di omessa dichiarazione dei dividendi, potevano non soltanto utilizzare la struttura societaria per il perfezionamento di operazioni commerciali, ma anche disporre, in ragione di talune condizioni ambientali (caratura della partecipazione, potere decisionale eccetera), delle somme introitate “al nero” dalla società partecipata. Detto altrimenti, è necessario dimostrare che i soci erano nella condizione, proprio in considerazione della posizione da essi occupata all'interno di quella compagine, di assicurarsi la disponibilità della provvista illecitamente generata, a monte, attraverso fattispecie di evasione ascrivibili alla società. In questa prospettiva, si comprendono appieno le ragioni per le quali, nel confermare la presunzione di occulta distribuzione degli utili, la giurisprudenza tributaria ha sovente valorizzato l'esistenza di strutture societarie connotate da pochi soci oppure caratterizzate dalla presenza di soci legati da rapporti di coniugio, parentela o affinità. È in effetti frequente, nel linguaggio dei giudici ed anche dell'Amministrazione finanziaria, il riferimento a società “a ristretta base partecipativa” oppure a “a base familiare”, nella prospettiva di enfatizzare, appunto, il peculiare rapporto esistente tra gli azionisti o tra i quotisti. La giurisprudenza ritiene che, quando ci si trovi di fronte a simili situazioni, i rapporti tra i soci possano dirsi ispirati alla “complicità” (soprattutto quando si tratti di soci familiari) oppure al “reciproco controllo” (quando la società sia a ristretta base partecipativa), cosicché potrebbe reputarsi più che fondata l'idea della spartizione, in modo occulto, dei frutti dell'evasione ascrivibili all'ente. Come identificare, però, una società “a ristretta base partecipativa”? E cosa si deve intendere con l'espressione “società a base familiare”? È sufficiente la ristretta base partecipativa o la base familiare per sorreggere una presunzione di distribuzione occulta degli utili? Il lettore avrà già compreso come le fattispecie qui sopra richiamate non siano regolate da una specifica disposizione di legge: non ci sono disposizioni incentrate, per esempio, sul numero dei soci o sui rapporti parentali per stabilire se esista o meno una società a base ristretta o a base familiare. Si tratta piuttosto di mere situazioni fattuali che il fisco valorizza per contestare l'evasione e la cui utilizzabilità a fini dell'accertamento tributario dipende dalla sostenibilità di una precisa idea. L'idea secondo la quale, proprio in ragione di quel contesto, sia credibile che quanto la società non abbia dichiarato sotto forma di utile sia stato incamerato dai soci e tra questi distribuito in ragione delle quote di partecipazione ai risultati dell’ente: entrato, pertanto, nella materiale disponibilità di ciascun azionista o di ciascun quotista. L'argomento è assai delicato e necessita di ulteriori approfondimenti. In effetti, l'equazione secondo la quale “evasione della società = occulta distribuzione di dividendi ai soci” impone di stabilire quale sia, in 3 concreto, l'apporto che i citati soci sono nella condizione di offrire alla gestione dell'ente. La questione non può che essere affrontata, dunque, caso per caso, senza fare d'ogni erba un fascio. Procedere caso per caso significa che, con riferimento a ciascuna fattispecie, il fisco dovrà stabilire come e perché quei soci dovrebbero essersi spartiti i frutti dell'evasione societaria, e in quale quantità. Si tratta di questione che investe non solo il profilo della motivazione dell'atto di accertamento, ma anche la sua consistenza del medesimo atto sul piano probatorio, vale a dire sul piano della sua fondatezza. In altre parole, non è a mio avviso sufficiente che l'avviso di accertamento con il quale viene rettificata la dichiarazione del socio specifichi, per esempio, che il soggetto fa parte di una struttura nella quale ci sono «pochi soci», oppure «tre soci» o «cinque soci». Né mi pare sufficiente che l'avviso di accertamento si limiti all'enunciazione del rapporto di parentela («Tizio è il padre di Caio»), di affinità («Massimo è il cognato di Rebecca»), di coniugio («Francesca è la moglie di Attilio») o di mera unione («Loretta si è civilmente unita a Roberto») intercorrente tra i possessori delle quote o i possessori delle azioni. Senza troppo soffermarsi sull'elasticità dei vocaboli e delle espressioni qui sopra riportate, sulla loro imprecisione e sulla loro conseguente indeterminatezza, a me pare che, quando si dice che i soci “sono pochi”, “sono parenti”, “sono coniugi” o “sono conviventi”, non può dirsi solo per questo dimostrato che tra quei soggetti v'è stato, nel periodo d'imposta di riferimento, complicità nella gestione dell'evasione societaria e nella distribuzione dei frutti che tale evasione abbia generato. Tanto meno è dimostrato, soltanto per questo, il passaggio di denaro tra la società e i citati soci. Insomma, nei casi caratterizzati da una motivazione così generica, che non sono rari nell'esperienza professionale, la complicità mi sembra più evocata che dimostrata, più sbandierata che fondata su elementi obbiettivi: difettano invero concrete indicazioni circa il ruolo svolto da questo o da quel socio nell'attività di gestione dell'ente e circa le ragioni per le quali, fatta pari a 100 l'evasione della società, la cifra di 20, di 40 o di 55 dovrebbe essere entrata, sotto forma di moneta, nella disponibilità dell'azionista o del quotista. Ciò che voglio dire è che l'esistenza di pochi soci o di soci familiari è pur sempre compatibile con una situazione nella quale: a) soltanto alcuni soci abbiano gestito le operazioni “al nero” e successivamente spartito, senza coinvolgere gli altri, i frutti dell'evasione; b) l'evasione della società sia da ascrivere a soggetti diversi dai soci (per esempio, l'amministratore o il direttore generale infedele), con conseguente spartizione del ricavato tra soggetti non facenti parte della compagine societaria; c) l'evasione imputabile alla società sia – con un gioco di parole – “rimasta in società”, ergo impiegata all'interno del circuito produttivo dell'ente, per esempio per l'acquisto di nuovi fattori produttivi parimenti “al nero” e, di conseguenza, senza il necessario coinvolgimento degli azionisti e dei quotisti. Anche le carature delle partecipazioni possono avere un peso nel sostenere la presunzione di occulta distribuzione dei dividendi. Con riferimento alla società a ristretta base partecipativa, infatti, credo si possa configurare una sostanziale differenza tra chi è socio al 70% e chi è socio, invece, al 30% o al 5%. I soci di minoranza, infatti, soprattutto nei casi in cui non vi siano rapporti di parentela, affinità, coniugio o mera unione con i soci di maggioranza, possono essere in concreto lontani dalla gestione della società, perché sforniti di sostanziale potere decisionale. Essi non possono scegliere gli amministratori; non possono pretendere l'osservanza, da parte di questi ultimi, delle direttive impartite; non decidono quando distribuire i dividendi e non interferiscono, in generale, con le fasi gestionali della società. È credibile, in altre parole, che non possano avere alcuna voce in capitolo per quanto attiene alla gestione extra-contabile di operazioni societarie, delle quali in molti casi non sono nemmeno al corrente. In tale contesto, l'idea della automatica, occulta distribuzione di utili, oltretutto nel pieno rispetto delle carature delle partecipazioni, appare non solo infondata, ma talvolta velleitaria e utopistica. A ciò si aggiunga che, nella pratica professionale, le presunzioni di occulta distribuzione dei dividendi non sono accompagnate da controlli funzionali a stabilire se vi siano stati, in concreto, pagamenti a favore del socio. Mancano, in definitiva, le verifiche di stampo bancario-finanziario delle quali ho detto in altra sezione del volume. Aggiungo che non sono mancati, in concreto, casi nei quali la presunzione di occulta distribuzione di utili è stata applicata a soci di secondo livello, vale a dire a persone fisiche legate da rapporto partecipativo ad una società a sua volta legata da rapporto partecipativo (di controllo) ad una seconda società (quest'ultima sottoposta ad accertamento fiscale). Il provvedimento impositivo notificato a quest'ultima ha costituito il punto di appoggio per l'accertamento, per saltum, in capo al socio persona fisica. La conclusione del mio discorso è, a questo punto, lineare. Allorché l'Amministrazione finanziaria faccia uso di presunzioni semplici per fondare la propria pretesa impositiva, essa deve darsi carico di adattare al caso specifico la legge causale sulla quale dovrebbe reggersi il ragionamento presuntivo. Questo sforzo di adattamento deve precedere la formazione del provvedimento impositivo e deve porsi l'obbiettivo di 4 argomentare, nel modo più comprensibile, le ragioni per le quali, data l'evasione della società, si può immaginare che vi sia stato incasso di utili da parte del socio. Il regime fiscale dei dividendi dei quali sia stata presunta l'occulta distribuzione ai soci. Una volta che l'Amministrazione finanziaria abbia contestato la distribuzione occulta di dividendi dalla società ai soci, si pone il problema della tassazione di tali redditi in capo al presunto percettore. Non vedo ragioni per non applicare, in questi casi, la disciplina riguardante i redditi di capitale e i redditi d'impresa, in ragione delle caratteristiche soggettive del socio (che dovrebbe essere una persona fisica, quanto meno nel caso di rapporti familiari). Alla presenza di partecipazioni non qualificate, la ritenuta alla fonte del 26%, da applicare a titolo d'imposta e non a titolo di acconto, espone all'avviso di accertamento la società che ha corrisposto l'utile in modo occulto, non il socio che lo ha ricevuto. Infatti, nei rapporti di sostituzione c.d. “totale”, l'obbligazione tributaria nasce in testa al sostituto (società), non in testa al sostituito (socio). Nei casi di ritenute d'imposta non eseguite e non versate all'Amministrazione finanziaria, rimane poi ferma la possibilità di coinvolgere, nella fase di riscossione, anche il sostituito, giusta la previsione dell'art. 35 del DPR n. 602/1973. È l'unico caso nel quale tra sostituto e sostituito s'instaura un rapporto di coobbligazione, perché, di regola, è il sostituto che risponde “in luogo” del sostituito. Nella pratica, può talvolta accadere che, in occasione della formazione del provvedimento impositivo, l'Amministrazione finanziaria mandi a tassazione l'intero importo del dividendo, senza riconoscere l'esclusione prevista dal t.u.i.r. Per esempio, può verificarsi il caso nel quale l'imponibilità al 49,72%, oggi prevista per i dividendi scaturenti da partecipazioni qualificate, si trasformi, nel provvedimento impositivo, in imponibilità al 100%. Dietro a questi schemi operativi v'è l'idea stando alla quale il regime di parziale esclusione da imposta dei dividendi, come fissato dal DPR n. 917/1986, rappresenti una disciplina circoscritta ai soli dividendi che siano stati corrisposti sulla base di una regolare delibera di distribuzione assunta dalla società partecipata. È evidente che, nel procedere in questa direzione, i dividendi dovrebbero essere ricondotti a un duplice raggruppamento: da una parte, quello, appunto, dei dividendi erogati in conformità alle disposizioni del diritto commerciale; dall'altra, invece, quelli erogati in difformità rispetto a codeste disposizioni, da tassare in modo diverso - e penalizzante - rispetto ai primi. Insomma, una sanzione impropria. La soluzione non mi convince, per le ragioni che passo qui di seguito rapidamente a illustrare. Primo. L'esclusione da imposta, pur parziale, prevista per i dividendi societari, rappresenta una disciplina volta a evitare fenomeni di doppia imposizione nella tassazione dei redditi della società e dei soci. Siamo di fronte, in altre parole, ad una regola di coordinamento tra la fiscalità della società e la fiscalità dei soci. Questo aspetto è già stato affrontato nella sezione del volume dedicata, appunto, alla disciplina sostanziale riservata ai dividendi. Poiché la società è tassata a monte (e non vi è dubbio che tale tassazione si verifichi nel caso specifico, perché, se così non fosse, non si porrebbe il problema della presunzione di occulta distribuzione di utili), al dividendo va riconosciuta l' esclusione da IRPEF. Secondo. La distinzione tra dividendi distribuiti in modo conforme al diritto commerciale e dividendi privi di tale caratteristica non appartiene al diritto tributario. La funzione del diritto tributario non consiste nella scrematura di fattispecie economiche, tanto meno a fini classificatori, ma nella loro individuazione in funzione del prelievo. Qualora l'Amministrazione finanziaria ritenga, attraverso il proprio provvedimento, che vi sia stata una distribuzione di utili, la fattispecie va assoggettata a tassazione come tutte le altre distribuzioni, senza disparità di trattamento. Terzo. La sovra-tassazione dei dividendi occultamente distribuiti dalla società al socio declina – come preannunciato - in una sanzione impropria. Attraverso tale particolare modalità impositiva, infatti, si penalizza la fattispecie: la si stigmatizza mediante l'appesantimento del carico fiscale. Nemmeno questi effetti sono nelle corde delle disposizioni fiscali. Il diritto tributario – come ho spesso affermato – non serve a sanzionare, ma a tassare. (estratto dal volume di Mauro Beghin, Diritto tributario, Padova, Cedam, 2015) 5