word (lezione 1-2)

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Il diritto amministrativo e la pubblica amministrazione
La prima parte del programma riguarda il diritto amministrativo che è una branca importante del diritto
pubblico. Se il diritto privato riguarda essenzialmente il rapporto tra i privati cittadini, il diritto
pubblico attiene soprattutto al rapporto tra le istituzioni e i cittadini oppure tra diverse istituzioni. In
particolare, il diritto amministrativo si occupa di regolare i perseguimento degli interessi pubblici da
parte della pubblica amministrazione e i rapporti tra essa e i cittadini.
La pubblica amministrazione
Ogni esperienza quotidiana conosce delle regole, in gran parte poste dallo Stato. Stabilire le regole è
compito del potere legislativo (rappresentato dal Parlamento, che si esprime attraverso le leggi);
metterle generalmente in pratica, definendo gli indirizzi dell’azione statale, spetta al Governo
(identificabile con il potere esecutivo, che però in questo caso prende decisioni), mentre trasformare le
norme di legge e con gli indirizzi in previsioni precise e dettagliate (dunque una vera attività di
esecuzione) è compito della Pubblica Amministrazione.
Attività politica: definizione degli obiettivi dell’azione dello Stato. Attività sostanzialmente libera,
svolta dal Parlamento e dal Governo, unico limite rappresentato dalle norme costituzionali, di valore
superiore. L’attività politica viene esercitata da apparati politici, che derivano direttamente (il
Parlamento) o indirettamente (il Governo e il Presidente della Repubblica) dalla volontà dei cittadini,
quindi dalla sovranità popolare, e hanno un incarico limitato nel tempo.
Attività amministrativa: compimento degli atti che realizzano concretamente gli obiettivi posti
dall’attività politica, nel rigoroso rispetto di quanto dettato dalle leggi.
Pubblica amministrazione; organi ed enti pubblici con il compito di svolgere l’attività amministrativa.
Essi formano apparati burocratici (burocrazia = «potere degli uffici»), il cui personale è o dovrebbe
essere scelto in base alla propria competenza professionale e tecnica, senza alcuna legittimazione popolare;
l’incarico non è temporaneo ma tendenzialmente stabile.
L’attività politica è sostanzialmente “creativa” e richiede la capacità di guardare i problemi nel loro
complesso, analizzando con cura i bisogni e le idee dei cittadini; l’attività amministrativa, invece, non ha
quasi nulla di creativo e si limita ad attuare concretamente (e con competenza) le scelte compiute da chi
ha esercitato l’attività politica.
(Mal)funzionamento dell’amministrazione – La questione amministrativa
L’impostazione attuale della pubblica amministrazione deriva sostanzialmente dal modello francese,
importato all’epoca di Napoleone (in particolare con il sistema dei prefetti). La pubblica amministrazione
si occupa di quasi ogni settore della vita, perché è quasi sempre sono in gioco interessi pubblici, che
dunque non riguardano solo un soggetto o un gruppo limitato di persone, ma tutti. Perché la
“macchina” dello Stato funzioni bene, occorre certamente che i politici facciano scelte giuste, ma anche
che l’apparato amministrativo agisca correttamente e nel modo più soddisfacente possibile.
In Italia, purtroppo, questo spesso non avviene: anche per questo motivo, negli ultimi anni si è cercato
di intervenire con leggi sul funzionamento della pubblica amministrazione, mutando i principi alla base
dell’azione amministrativa. In particolare si può ricordare la cosiddetta “legge Bassanini” (legge
59/1997 - Franco Bassanini era il ministro della funzione pubblica nel primo governo Prodi): si trattava
di una legge delega (che dunque attribuiva al governo il potere di emanare delle norme, stabilendone
però i principi e indicando il termine per l’attuazione) che ha agito su tre piani diversi, quelli del
decentramento, della riorganizzazione dei ministeri (aspetto ormai superato) e della semplificazione delle
procedure.
I principi fondamentali dell’amministrazione
L’azione della pubblica amministrazione è sottoposta ad alcuni principi fondamentali, spesso indicati
all’interno della Costituzione.
Va considerato innanzitutto il principio di legalità, che si legge nell’art. 97 Cost. quando dice che «i
pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge». Questo significa certamente che la pubblica
amministrazione deve agire nel rispetto della legge, ma c’è qualcosa di più: anche i privati cittadini sono
tenuti a rispettare le leggi, ma possono fare tutto ciò che la legge non vieta espressamente; la pubblica
amministrazione invece può fare solo ciò che la legge esplicitamente le attribuisce come compito (fatti salvi gli
spazi in cui è riconosciuta una certa discrezionalità).
Il rispetto del principio di legalità è garantito dalla previsione di controlli amministrativi (effettuati dagli
uffici gerarchicamente superiori) e di controlli giurisdizionali (ci si può rivolgere ai Tribunali amministrativi
regionali e, in secondo grado, al Consiglio di Stato) per annullare gli atti illegittimi.
Dal principio di legalità discendono due importanti conseguenze, anch’esse contenute nell’art. 97 Cost.:
– La previsione del principio di imparzialità (comma 1): normalmente ciò significa che un
soggetto deve agire senza prendere le parti di alcuno, ma qui la pubblica amministrazione
necessariamente “parteggia” per gli interessi pubblici; in questo caso allora l’imparzialità si
traduce nel dare attuazione alla legge senza favorire o discriminare determinati cittadini
(eventuali violazioni del imparzialità comportano l’illegittimità dell’atto);
– l’accesso alla pubblica amministrazione per concorso (comma 3): dal momento che gli
impiegati pubblici devono garantire una maggiore competenza tecnica possibile, occorre che la
loro scelta avvenga sulla base di esami obiettivi e non in seguito ad assunzioni guidate da criteri
di favore personale.
L’art. 97, comma 1 Cost. parla anche del principio di buon andamento, che naturalmente attiene ai
risultati dell’attività amministrativa. Tale principio si può scomporre in due sotto principi decisamente
importanti:
– l’efficacia riguarda i risultati effettivamente ottenuti dall’attività amministrativa, che devono
essere rispondenti agli obiettivi stabiliti dall’attività politica;
– l’efficienza (o economicità) riguarda invece le risorse impiegate per raggiungere un risultato,
per cui si punta sempre al minor dispendio di mezzi possibile, ovviamente utilizzando gli
strumenti più adatti per raggiungere i fini prestabiliti.
In questo modo, la pubblica amministrazione agirà male se non arriverà ad ottenere i risultati che ne
erano richiesti dall’attività politica, come pure se raggiungerà quegli obiettivi impiegando (molte) più
risorse di quelle che si dovevano ragionevolmente spendere, dunque compiendo degli sprechi.
Dalla gerarchia al decentramento
Da sempre la pubblica amministrazione italiana (anche qui, sull’influenza del modello francese) ha
avuto una struttura decisamente accentrata, nel senso che le decisioni venivano prese al vertice
dell’apparato amministrativo (dal Governo e dai ministri); questo sistema presupponeva un’organizzazione
basata sulla gerarchia, ossia su una struttura “a piramide” in cui gli organi inferiori sono subordinati a
quelli superiori e più si scende lungo la piramide, più sono ristretti il potere e l’autonomia decisionale
(fatta eccezione, anche qui, per le “crepe” rappresentate dalla discrezionalità).
L’entrata in vigore della Costituzione ha reso questa situazione sempre più inadeguata (poiché non era
conforme ai principi democratici e di efficienza) per cui l’art. 5 della Carta costituzionale prevede due
diversi tipi di decentramento:
– il decentramento territoriale, per cui lo Stato trasferisce poteri alle regioni e agli altri enti locali, nei
quali convivono l’attività politica e quella amministrativa («La Repubblica, uno indivisibile,
riconosce e promuove le autonomie locali»);
–
il decentramento amministrativo, che consiste nell’attribuzione di poteri o spazi di autonomia agli
organi periferici dell’amministrazione statale (creati per evitare che i privati cittadini debbano
rapportarsi con gli organi centrali come i ministri), derogando in questo modo al principio di
gerarchia.
Dalla segretezza alla trasparenza
Per molto tempo l’attività della pubblica amministrazione è stata legata fortemente al principio di
segretezza: ciò comportava che i cittadini venissero a conoscenza delle decisioni solo dopo che erano
state prese, senza avere in alcun modo la possibilità di conoscere il procedimento con il quale venivano
prese né, tantomeno, di intervenire all’interno di esso. La segretezza, naturalmente, era un grosso
ostacolo per i cittadini, visto che era impossibile difendersi adeguatamente per chi si vedeva colpire da
un provvedimento svantaggioso e magari viziato, senza conoscere le ragioni che avevano portato a
emanarlo.
Tutto è cambiato con l’entrata in vigore della legge 241/1990 (legge sul procedimento amministrativo),
la quale prevede fin dall’art. 1 il principio di pubblicità o trasparenza degli atti della pubblica
amministrazione: i privati cittadini, purché ne abbiano l’interesse, devono potersi informare sull’attività
dei pubblici uffici ed è a loro riconosciuto il diritto di accesso ai documenti amministrativi (per leggerli o
fotocopiarli).
Rimangono in piedi, peraltro, alcune ipotesi di segreto (che comunque rappresentano l’eccezione alla
regola della pubblicità), ogni volta che la pubblicità di atti o informazioni possa danneggiare la
realizzazione di determinati fini pubblici. Se negli ultimi anni si è decisamente sviluppato il segreto
legato al diritto di ogni persona alla riservatezza (o alla privacy), per cui non si può accedere a documenti
che contengono dati sensibili o altre informazioni personali, va ricordato innanzitutto il segreto di Stato,
posto a tutela dell’integrità e dell’indipendenza dello Stato (ma il segreto non può essere posto su
attività di carattere eversivo); il governo poi, con proprio decreto, può impedire l’accesso a documenti
che potrebbero compromettere la sicurezza e la difesa nazionale, la politica monetaria e l’ordine
pubblico.
L’organizzazione della pubblica amministrazione
L’attività della pubblica amministrazione è decisamente complessa e altrettanto complessa è la sua
organizzazione: essendo presente in tutti i settori della vita sociale, è impossibile pensare che a fini e
settori diversi corrisponda un’identica struttura (per questo è più corretto dire che esistono diverse
pubbliche amministrazioni e non una soltanto).
Esiste, per cominciare, un’amministrazione statale, articolata in ministeri; c’è l’amministrazione dei
vari enti pubblici istituzionali, i quali svolgono funzioni specifiche e sono generalmente nominati dal
governo (è il caso dell’Inps, dell’Aci, del CNR e altre realtà simili); ci sono infine gli enti pubblici
territoriali, dal momento che regioni, province e comuni hanno i loro apparati amministrativi. Tutti coloro
che lavorano all’interno di queste strutture sono chiamati dipendenti pubblici.
La struttura organizzativa e gli organi
L’unità base della struttura organizzativa di una pubblica amministrazione è l’ufficio, cui sono affidate
determinate funzioni: ad esso sono assegnate risorse umane (gli addetti), materiali (mobili, cancelleria e
altri strumenti) ed economiche. Un ufficio può essere monocratico (quando vi è preposta una sola
persona) oppure collegiale (quando è composto da più soggetti). Determinati uffici hanno l’importante
qualifica di organi: essi agiscono in nome dell’amministrazione, prendendo decisioni secondo le
competenze stabilite dalla legge; negli organi collegiali, la volontà è il risultato dell’espressione dei vari
componenti in base alla regola della maggioranza o, più raramente, dell’unanimità).
Gli organi possono essere distinti in base alle funzioni loro attribuite dalla legge:
– organi di amministrazione attiva: provvedono direttamente alla cura degli interessi pubblici
nel loro ambito di competenza;
– organi consuntivi: sono chiamati a fornire pareri agli organi di amministrazione attiva sulle
attività di questi ultimi svolgono (i pareri possono essere più o meno vincolanti);
– organi di controllo: verificano che l’attività degli di amministrazione attiva sia conforme ai
principi di legalità e buon andamento;
– autorità amministrative indipendenti: di recente creazione, sono chiamate a vigilare sul
rispetto delle leggi in determinate materie (concorrenza del mercato, comunicazioni,
riservatezza, etc.); in linea teorica, sono autonomi e imparziali rispetto al governo (in realtà,
essendo i loro componenti nominati dai presidenti delle Camere, frequentemente la loro scelta
ha natura politica).
L'amministrazione statale
Il Governo, il Presidente del Consiglio e i ministri
Per prima cosa occorre analizzare l'amministrazione statale, a partire dai suoi organi centrali: essi sono
organizzati in ministeri, ossia nelle strutture burocratiche che gestiscono un particolare settore
dell'amministrazione. Alla guida di ogni ministero c'è un ministro: egli è, contemporaneamente, figura
di vertice della struttura ministeriale (quindi il punto più alto di quella particolare "piramide") e membro
del Consiglio dei ministri, quell'organo collegiale di cui fanno parte tutti i ministri e che è presieduto
dal Presidente del Consiglio.
Il numero dei ministeri negli anni è variato molto, soprattutto in base alle necessità politiche delle varie
maggioranze (più ministeri si traducono in più poltrone da distribuire). Negli ultimi anni, tuttavia,
l'esigenza di razionalizzare e contenere il più possibile la spesa pubblica ha portato a un notevole
ridimensionamento dei ministeri. In particolare, nel 1999 il ministro della funzione pubblica Bassanini
aveva fissato con decreto legislativo il numero di ministeri a 12; negli anni si sono verificati vari
"spacchettamenti", per riportare in vita alcuni dei precedenti dicasteri, ma dal 2008 si è ritornati al
numero di 12. Alcuni ministeri si avvalgono poi di strutture autonome, ma poste sotto la vigilanza del
ministero stesso (le agenzie), per lo svolgimento dei compiti di carattere più operativo (il classico
esempio è l'Agenzia delle entrate). Oggi i ministeri principali (che dunque contano su una struttura
propria) sono:
Ministero
Affari esteri
Interno
Giustizia
Difesa
Economia e Finanze
Sviluppo Economico
Politiche agricole, alimentari
e forestali
Ambiente, tutela del territorio
e del mare
Infrastrutture e trasporti
Lavoro, salute e politiche
sociali (Welfare)
Istruzione, università e ricerca
Beni e attività culturali
Competenze
rapporti internazionali
pubblica sicurezza, protezione
civile, cittadinanza, immigrazione,
enti locali
amministrazione degli organi
giudiziari
gestione delle forze armate
gestione della spesa e delle entrate,
bilancio, imposte e tasse
industria, commercio, artigianato,
commercio estero, comunicazioni
agricoltura, prodotti
agroalimentari, gestione delle
foreste e della pesca
promozione, conservazione e
recupero dell'ambiente
organizzazione e gestione di
infrastrutture e dei trasporti
lavoro, previdenza sociale, salute,
coordinamento dei servizi sanitari
regionali
gestione del sistema formativo
scolastico, universitario e della
ricerca
tutela e valorizzazione del
patrimonio culturale
Organizzazione interna
Segretario generale e direzioni generali
Dipartimenti
Dipartimenti
Segretario generale e direzioni generali
Dipartimenti
Dipartimenti
Dipartimenti
Dipartimenti
Dipartimenti
Dipartimenti
Dipartimenti
Segretario generale e direzioni generali
Ai responsabili di questi ministeri se ne aggiungono altri, solitamente chiamati ministri senza portafoglio,
che svolgono le funzioni loro delegate dal Presidente del Consiglio e sono a capo di un dipartimento
della Presidenza del Consiglio (è il caso, ad esempio, delle competenze sulle pari opportunità, sui
rapporti col Parlamento, sul turismo etc.).
Spetta al Consiglio dei Ministri determinare l'indirizzo politico (ossia le direttive alla base dell'azione del
Governo), deliberare sui disegni di legge (i progetti di legge di iniziativa governativa che seguono il
normale cammino delle leggi), sui decreti legge (i provvedimenti emanati «in casi straordinari di necessità e
urgenza» dal Governo, che devono essere convertiti in legge entro 60 giorni dal Parlamento, a pena di
decadenza), adottare i regolamenti (le fonti del diritto di secondo grado, sottoposte alla legge) e, tra l'altro,
nominare i vertici di enti, istituti o aziende di carattere nazionale.
Il Presidente del Consiglio, invece, ha soprattutto poteri legati al funzionamento del Consiglio
(convocarlo, formarne l'ordine del giorno) e al coordinamento dei ministri, allo scopo di mantenere
l'unità di indirizzo politico e amministrativo del Governo; nel suo compito, egli è aiutato da una
struttura amministrativa chiamata Presidenza del Consiglio.
Posto che ogni ministero ha una sua organizzazione centrale a Roma, quasi sempre esiste un tessuto di
organi periferici, ognuno dei quali agisce (con certi spazi di autonomia decisionale) su una porzione più
piccola di territorio. Ogni ministro, in più, ha come collaboratori uno o più sottosegretari (di nomina
politica, non fanno parte del Governo e devono attenersi alle direttive del Ministro o del Presidente cui
sono legati); attorno al ministro c’è anche il suo "Gabinetto”, ossia gli uffici che lavorano a stretto
contatto con il ministro (per la fornitura di materiali per la legislazione, dati per studi, notizie stampa,
etc.).
Organizzazione dei ministeri
La struttura burocratica dei ministeri, in origine, era organizzata secondo il modello delle direzioni
generali: si trattava di strutture interne alla piramide burocratica, le quali avevano la responsabilità di
uno dei settori di competenza del ministero; dal momento che le direzioni generali solitamente erano
numerose, era prevista la figura del segretario generale, un dirigente statale che aveva il compito di
coordinare l'azione amministrativa per assicurare un indirizzo politico unitario. questo sistema, peraltro,
sopravvive soltanto in alcuni ministeri (affari esteri, difesa, beni culturali).
Negli altri ministeri, invece, è in uso piuttosto una struttura basata su pochi dipartimenti, ossia quattro
o cinque "grandi blocchi" preposti alle "grandi aree di intervento" di cui si occupa il ministero. Qui non
esiste la figura del segretario generale e ogni dipartimento ha una grande autonomia di gestione tanto
delle sue politiche, quanto del personale (ciò ovviamente comporta anche una maggiore responsabilità
dei dirigenti).
Ogni ministero, poi, al suo interno ha degli organi consultivi che forniscono pareri al ministro e sono
composti da dirigenti, da esperti esterni e da rappresentanti delle categorie interessate.
Gli organi periferici
Si distinguono due tipi di organi periferici, a seconda che rappresentino lo Stato nel suo interezza o
determinati ministeri.
I prefetti, designati dal Consiglio dei ministri e nominati dal Presidente della Repubblica, rappresentano
lo Stato in ogni provincia e sono chiamati a coordinare tutte le attività amministrative della zona, oltre
che ad avere la responsabilità dell'ordine pubblico nello stesso territorio (questure e forze di polizia
dipendono dal prefetto). Va ricordato che, in certi casi, anche i sindaci e i Presidenti delle Regioni
agiscono come ufficiali del governo, quando esercitano funzioni delegate loro dallo Stato.
Altri organi periferici, invece, dipendono da singoli ministeri, svolgendo a livello locale (provinciale o
regionale) le attività specifiche di quel dicastero. È il caso, ad esempio, delle questure (dipendenti dal
ministero dell'interno e alla guida delle forze di polizia della provincia), dell'Ufficio Regionale delle imposte o
delle Soprintendenze (legate al Ministero dei beni culturali e impegnate nella gestione di musei, scavi
archeologici, strutture culturali e nella conservazione di beni artistici e architettonici).
Gli organi ausiliari
Si è già visto come, accanto agli organi di amministrazione attiva visti finora, esistono altri organi che
esercitano funzioni consultive oppure di controllo. Alcuni di essi sono previsti nella Costituzione che li
designa come «organi ausiliari».
Va ricordato innanzitutto il Consiglio di Stato (art. 100, comma 1 Cost.), nato già prima della
costituzione del regno d'Italia; i suoi membri, scelti tra gli alti funzionari dello Stato, sono in parte scelti
per concorso, in parte nominati su proposta del Consiglio dei ministri (dopo la nomina essi sono
inamovibili). In base alla Costituzione, quest'organo oggi ha due funzioni:
– una funzione consultiva, per cui il Consiglio di Stato è chiamato a esprimere pareri richiesti dal
Governo o da un ministro sugli atti che hanno intenzione di compiere. Solitamente il parere è
facoltativo, ma in determinati casi (con atti di particolare rilievo) esso diventa obbligatorio; pur
potendo distaccarsi dal parere fornito, il governo interamente si conforma a quanto
autorevolmente suggerito dal Consiglio di Stato;
– una funzione giurisdizionale, essenzialmente come organo di secondo grado della giustizia
amministrativa, cui si può ricorrere contro le sentenze dei Tribunali amministrativi regionali
(TAR).
La Corte dei conti (art. 100, commi 2 ss. Cost.), nata poco dopo l'unità d'Italia, è formata da varie
centinaia di membri, anche qui parte scelti per concorso in parte nominati su designazione del
Governo. In base alla Costituzione, oltre ad avere una competenza giurisdizionale sulle cause in materia
di contabilità pubblica e pensioni, la Corte ha soprattutto una funzione di controllo: essa verifica l'attività
di tutte le amministrazioni, a partire soprattutto dei loro bilanci, controllandone la rispondenza ai
principi di legalità è un buon andamento.
La Costituzione ha invece introdotto il Consiglio nazionale dell'economia del lavoro (Cnel), un
organo specializzato nella politica economica e nella legislazione sul lavoro, formato da 111 membri (12
esperti di nomina governativa o presidenziale e 99 designati dalle associazioni delle categorie
produttive). Sebbene il Consiglio abbia sulla carta competenze di rilievo, dall'iniziativa legislativa alla
fornitura di pareri (a Governo e Parlamento) sulle materie di propria competenza, nell'ordinamento
italiano il Cnel ha un ruolo assolutamente marginale.
Va ricordato, infine, come negli ultimi 15-20 anni siano nate diverse autorità amministrative
indipendenti volutamente esterne ai ministeri, composta solo da «esperti particolarmente qualificati nei
settori in cui esse operano» (in carica per un periodo limitato) e che dovrebbero dare garanzie sulla loro
indipendenza dal governo e dei vari interessi in gioco, per controllare o regolare determinati settori
particolarmente delicatiaq. Accanto alle quattro Autorità garanti solitamente ricordate (concorrenza e
mercato – Antitrust, comunicazioni, dati personali, energia elettrica e gas) ce ne sono diverse, a partire
dalla Consob (che vigila sulla Borsa).
Gli enti pubblici
Gli enti pubblici non fanno parte dell'amministrazione dello Stato, pur essendo sotto il suo controllo:
sono organizzazioni dotate di personalità giuridica, ossia possono essere titolari di situazioni giuridiche
soggettive (diritti e doveri), per cui possono essere proprietarie di beni e stipulare contratti; dal
momento, però, che questi enti hanno carattere pubblico, per certe funzioni sono dotati di potere di
comando per cui possono compiere azioni anche senza la collaborazione dei privati (ad esempio la
riscossione di contributi).
Gli enti sono nati e si sono sviluppati nel Novecento, di pari passo con l'allargamento delle competenze
dello Stato (previdenza sociale, interventi in economia, etc.); la crescita esponenziale di queste realtà
(dotate di autonomia gestionale e soprattutto contabile) ha recentemente consigliato un riordino del
sistema, con la razionalizzazione o la soppressione di alcuni enti poco efficienti o inutili.
Regime giuridico e classificazione
Non esiste una "struttura tipo" degli enti: la legge non stabilisce nulla e ho niente da una propria
struttura, compatibile le finalità che deve perseguire. Quasi tutti gli enti pubblici sono sottoposti alla
vigilanza delle loro ministero di competenza: il ministro in questione può dare istruzioni all'ente e
nominarne gli organi dirigenti.
Per cercare di dare conto in qualche modo del panorama degli enti, si può cercare di classificarli in base
alle loro funzioni:
– enti previdenziali: rappresentati essenzialmente dall'Inps e dall'Inail, essi riscuotono i contributi
per la previdenza sociale e l'assistenza sanitaria e contro gli infortuni e forniscono i vari servizi
(a partire dall’erogazione delle pensioni);
– enti ricreativi o incaricati di servizi di pubblico interesse: si tratta di un elenco vasto e variegato, in cui
trovano posto realtà sportive (il Coni), artistiche (i teatri stabili, gli enti lirici, la Biennale di
Venezia), i gestori dei parchi nazionali, il Club alpino italiano o l’Aci;
– enti di ricerca scientifica: lo sono le università pubbliche, l'Istat, il CNR (Consiglio nazionale delle
ricerche), l'Ente nazionale per le energie alternative;
– ordini professionali: sono quelle realtà cui è necessario essere iscritti (dopo lo svolgimento di un
esame) per esercitare le libere professioni, come quelle di avvocato, giornalista, perito,
architetto, etc.; gli ordini tengono gli Albi professionali e sono sotto la vigilanza del ministero
della giustizia;
– enti di controllo, indirizzo e promozione economica: ne sono un esempio la Banca d'Italia (cui spetta
missione della moneta e il controllo sulla circolazione del denaro e sulle banche), l'istituto per il
commercio estero e, a livello provinciale, le Camere di commercio.
Le imprese pubbliche
Accanto al fenomeno degli enti pubblici va ricordato quello delle imprese pubbliche: in un paese
come l'Italia che (già all'inizio del novecento e ancor di più nel regime fascista, ma soprattutto a partire
dal secondo dopoguerra) non ha adottato un modello liberistico (in base al quale lo Stato non
interviene nelle vicende economiche e lascia che tutto si regoli in base al mercato), ma ha scelto di
intervenire in vari settori dell'economia, soprattutto perché era necessario "ricostruire" il tessuto
produttivo italiano, sono sempre state molte le imprese che hanno operato nell'industria o nella
fornitura di vari servizi.
Soprattutto in passato, le imprese pubbliche erano configurate in tre diversi modi, più o meno lontani
dalla struttura classica della pubblica amministrazione:
– azienda autonoma: impresa strettamente legata al ministero da cui dipende (il ministro ne è il
presidente), non ha personalità giuridica (i suoi beni appartengono allo Stato) e i dipendenti
sono a tutti gli effetti dipendenti pubblici. Il modello è ora quasi del tutto abbandonato, in
favore delle società per azioni (lo sono diventate, ad esempio, le Poste e le Ferrovie dello Stato);
– ente pubblico economico: è simile agli enti pubblici visti prima, ma la sua natura economica
(che si traduce nella produzione di beni e servizi venduti sul mercato) gli conferisce maggiore
autonomia. Anche qui, molti enti economici sono diventati società per azioni: in passato erano
enti pubblici economici imprese come l'Enel, varie banche di diritto pubblico (come la Banca
commerciale italiana) e gli enti di gestione delle partecipazioni statali (su tutti l'Iri);
– società controllate dallo Stato: presenti in gran numero, si trattava di società per azioni, cui si
applicavano le stesse regole previste per i privati; il capitale, però, apparteneva in tutto o in parte
allo Stato. Esso affidava le sue azioni di queste società (completamente diverse tra di loro
quanto a servizi forniti, visto che avevano questa natura tanto la Rai, quanto l'Alitalia, la SipTelecom o l'Agip) agli enti di gestione Iri ed Eni (definiti holding pubbliche, perché
controllavano altre società grazie alle azioni che possedevano): i dirigenti degli enti di gestione
erano nominati dal governo e rispondevano ad esso, ma potevano ricorrere a fondi pubblici in
caso di perdite (piuttosto frequenti). Quest'epoca è sostanzialmente tramontata nel 1993, dopo
che un referendum ha abrogato il ministero delle partecipazioni statali (che coordinava il settore).
A partire dagli anni ’90 si è assistito a una riduzione progressiva delle imprese pubbliche, a partire da
quelle che producevano beni industriali (tanto per capirci, i pomodori Cirio o De Rica e i panettoni con
marchio Motta e Alemagna erano di provenienza pubblica) e che potevano passare senza problemi nelle
mani dei privati. Le critiche maggiori a quel sistema colpivano le rigidità tipiche di un'impresa pubblica
(ma poco adatte alla gestione efficiente di un'impresa) e, soprattutto alla notevole influenza dei partiti
sulle nomine degli amministratori e sulla gestione delle imprese, cosa che non trovava affatto ai conti
pubblici (le perdite che lo Stato doveva coprire somigliavano a un pozzo senza fondo): per questo
l'indebitamento pubblico ha portato alla scelta radicale di vendere o in parte queste imprese, una volta
trasformate in società per azioni. È stato così per l'Iri, l'Eni, l'Enel, i Monopoli di Stato e le banche
pubbliche: il processo di privatizzazione ha permesso di ridurre in parte il debito pubblico (grazie al
ricavato delle vendite) e le azioni ancora di proprietà dello Stato sono state attribuite al ministero
dell'economia (che può anche decidere di venderle, in un quadro di riordino delle partecipazioni statali).
Il pubblico impiego
I circa 4 milioni di dipendenti che compongono la pubblica amministrazione sono legati ad essa da un
rapporto di pubblico impiego: esso dunque riguarda i dipendenti dei ministeri, degli enti pubblici
territoriali, degli enti pubblici istituzionali non economici e delle Aziende sanitarie locali.
Non sono da considerare pubblici dipendenti - anche se prestano il loro servizio nello Stato - alcune
categorie di persone:
– i membri degli apparati politici eletti anche indirettamente dal popolo e con mandato temporaneo
(parlamentari, ministri, presidenti, giudici costituzionali, consiglieri di enti locali e sindaci): il
loro compenso si configura come una indennità;
– chi svolge un servizio pubblico obbligatorio: è il caso dei militari di leva, di giudici popolari e di altre
categorie. Anche essi ricevono un'indennità (spesso piuttosto modesta); la Costituzione
prevede che questi servizi obbligatori siano stabiliti unicamente per legge (art. 23).
Anche per il pubblico impiego il 1993 è stato un anno cruciale: è stato infatti varato il decreto legislativo
29/1993 che ha modificato la disciplina allora in vigore introducendo la cosiddetta "privatizzazione"
del pubblico impiego. Ciò significa che da questo momento tra l'amministrazione e i suoi dipendenti
si instaura un rapporto di lavoro di diritto privato, disciplinato in modo bilaterale dai contratti collettivi di lavoro
e con la sottoscrizione di un contratto di lavoro individuale con l'amministrazione all'atto dell'assunzione: in
sostanza, dipendenti pubblici e privati sono posti sullo stesso piano (pur con alcune differenze
significative).
Nella materia del pubblico impiego, in ogni caso, alcune materie sono riservate alla legge e non solo
contrattabili: vale per l'organizzazione degli uffici, l'accesso per concorso, il numero di posti di lavoro,
etc. Tutte le altre materie (a partire dalla retribuzione), invece, sono regolate dai contratti collettivi nazionali:
esistono tanti contratti collettivi quanti sono i comparti in cui si divide la pubblica amministrazione,
unendo settori omogenei tra loro.
Per i lavoratori, il contratto è stipulato dalle confederazioni sindacali più rappresentative a livello
nazionale (Cgil, Cisl, Uil) e dai sindacati autonomi del settore più rappresentativi, sempre a livello
nazionale. Per la parte pubblica, a stipulare il contratto è l'Aran (agenzia per la rappresentanza negoziale
delle pubbliche amministrazioni), ente pubblico istituito con la riforma del 93 e che, sotto la vigilanza
della presidenza del consiglio, svolge le funzioni dell'associazione di categoria dei datori di lavoro
pubblici (una sorta di corrispondente pubblico della Confindustria).
Il contratto collettivo comparto è efficace a partire dalla firma delle due parti e vincola automaticamente
le pubbliche amministrazioni (e dunque non possono pagare i loro dipendenti meno di quanto previsto
dal contratto nazionale).
Rimangono escluse dalla privatizzazione del rapporto di lavoro alcune categorie di dipendenti pubblici:
si tratta dei funzionari della carriera prefettizia, dei magistrati, del personale militare e delle forze di polizia, nonché
dei diplomatici. Si tratta di persone che svolgono, ad alto livello, funzioni d'ordine delicatissime in cui si
traduce alla sovranità dello Stato: per questo, le loro retribuzioni e le condizioni di lavoro sono stabilite
unilateralmente dallo Stato e non è prevista alcuna contrattazione collettiva; tocca ai tribunali
amministrativi decidere di eventuali controversie sul loro rapporto di impiego.
L'assunzione e il rapporto di lavoro
L’art. 97, comma 3 della Costituzione prevede l'assunzione dei pubblici dipendenti mediante concorso,
per cercare di assumere i candidati più capaci professionalmente, senza che si creino favoritismi.
L'amministrazione vuole assumere il personale pubblica un bando di concorso, così che tutti i cittadini che
abbiano i requisiti previsti dal bando possono partecipare alla selezione alle stesse condizioni: a
giudicare i candidati è una commissione che ha l'obbligo di comportarsi in modo imparziale.
La riforma del 1993, che ha esteso le norme del rapporto di lavoro privato al pubblico impiego, mirava
soprattutto ad attenuare le garanzie di stabilità dei dipendenti pubblici. In effetti, tra i principi cui la
pubblica amministrazione deve ispirarsi, viene aggiunto quello di flessibilità, in base al quale
l'amministrazione può spostare un lavoratore in un posto diverso (all'interno della stessa
amministrazione o tra amministrazioni/enti diversi); rimane però il diritto dei pubblici dipendenti a
ricoprire un posto corrispondente a quello per cui sono stati assunti e ad ottenere una retribuzione
corrispondente alla propria qualifica (non minore di quella stabilita dal contratto nazionale).
I pubblici dipendenti, fatta eccezione per chi appartiene ai corpi militari e alla polizia, hanno il diritto di
scioperare; da anni, però sono previste limitazioni per i lavoratori che erogano servizi pubblici essenziali,
come la cura della salute, i trasporti, l'istruzione, l'informazione, la posta, l'amministrazione della
giustizia, etc. In questi casi, occorre che lo sciopero sia dichiarato con un preavviso di almeno 10 giorni,
alcune prestazioni devono comunque essere garantite e un'apposita Commissione di garanzia può
imporre la precettazione dei lavoratori (costringendoli a lavorare comunque) o comminare sanzioni in
caso di irregolarità.
I pubblici dipendenti hanno il dovere di svolgere con diligenza e correttezza i compiti loro assegnati;
devono obbedire agli ordini provenienti dai loro superiori gerarchici, ma la legge ammette la possibilità
di non dare esecuzione a ordini che appaiano palesemente illegittimi. I pubblici dipendenti hanno anche
il dovere di fedeltà nei confronti della loro amministrazione: da ciò, tra l'altro, deriva l'obbligo di non
divulgare le informazioni apprese nello svolgimento del loro compito (rispetto del segreto d'ufficio), fatto
salvo il diritto dei cittadini di accedere ai documenti non coperti dal segreto.
Il rapporto di lavoro pubblico si estingue con il pensionamento (per raggiunti limiti di età), per morte del
dipendente o per le sue dimissioni. L'amministrazione, da parte sua, può licenziare il dipendente o per
cause a lui imputabili, o per esigenze di riduzione del personale: i dipendenti in esubero (in eccesso), in
base al regime di mobilità, possono essere trasferiti ad altro ufficio o ad altra amministrazione, anche
contro la loro volontà. Se il lavoratore non accetta il trasferimento. viene collocato a disposizione e il
suo stipendio viene ridotto.
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