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Daniele
Rizzo
febbraio 16, 2016
A margine dello spettacolo Golden He, andato in scena al Teatro della
Visitazione, incontriamo Carlotta Piraino per conoscere meglio la
metodologia di lavoro e le scelte artistiche di questa attrice e autrice di
grande talento e consapevolezza.
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Il drammatico incrocio tra responsabilità e diversità, tematica tra
le non più semplici e urgenti in «quest’epoca di pazzi», rende
l’attualità di Golden He disarmante: con quale tipo di
documentazione storica e preparazione attoriale nasce? C’è un
aneddoto in particolare che le andrebbe di raccontare?
Carlotta Piraino: «Trovo interessante l’incrocio responsabilità/diversità.
Sicuramente sono elementi presenti in Golden He, ma quando ho deciso
di scriverlo volevo scrivere un testo sull’identità. Cosa è l’identità. Come si
forma, quanto è costituita socialmente e chi siamo veramente. Era questa
la domanda di partenza.
Un paio di anni fa ero a Berlino e su una banalissima guida della Lonely
Planet lessi un trafiletto che parlava di Helene Mayer, ebrea tedesca che
durante le Olimpiadi sale sul podio e fa il saluto nazista, famosa la foto che
la ritrae in questo gesto incredibile. Cercai la foto. Fu la forza
dell’immagine a colpirmi moltissimo. Vestita di bianco, seconda sul podio,
elegante e impettita, addosso lo stemma dell’aquila nazista, unica delle
tre atlete a fare il saluto nazista. Ebrea. Chi era mai questa donna? Quale
scioccante contraddizione si materializzava in quell’immagine? Cominciai a
studiare la sua storia, lessi l’unica biografia che esiste su di lei: figura
controversa, scomoda, non c’è moltissimo su di lei, difficile collocarla, non
si sa da che parte metterla. Studiai la storia delle Olimpiadi del ’36, una
storia altrettanto contraddittoria e interessantissima. Le Olimpiadi
moderne nascono alla fine dell’800, dopo la Guerra franco prussiana, una
guerra devastante che fece un sacco di morti. Nascono nel segno del
pacifismo, nascono per l’utopia di sostituire alla guerra delle armi la
battaglia dello sport. Nascono anche con una strutturale ambiguità di
fondo perché connotate da un forte nazionalismo: ogni paese sfila
marciando al passo del proprio inno nazionale e l’Olimpiade finisce per
essere la cartina di tornasole della salute e della forza di una nazione. Le
Olimpiadi di Berlino in particolare, in cui tutto il mondo viene a Berlino
durante il nazismo a gareggiare una «battaglia di pace», si giocano
all’interno di una strategia di guerra. All’inizio di Olympia di Leni
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Riefenstahl, film voluto dal regime e che doveva edificare il monumento
alle Olimpiadi di Hitler, si vede un teoforo dal fisico scultoreo, prototipo di
maschio germanico ariano (in realtà era un russo!) che corre
attraversando la cartina geografica dell’Europa Orientale: Bulgaria,
Jugoslavia, Ungheria, Austria, Cecoslovacchia…la staffetta olimpica parte
da Olimpia in Grecia e attraversa tutti questi territori fino ad arrivare a
Berlino. La staffetta olimpica, ancora oggi esistente, fu inventata dai
nazisti per un fatto simbolico: creare un ponte di civiltà tra Grecia
(Occidente) e Germania e nello stesso tempo conquistare simbolicamente
tutti i territori dell’Europa Orientale, quelli che popolavano il sogno
imperiale del Terzo Reich. Pochi mesi dopo la fine delle Olimpiadi di
Berlino, dove tutto il mondo era convenuto a celebrare questo rito pacifico
e sportivo giocato sotto le bandiere del nazismo, Hitler invade la Polonia e
di lì a poco scoppierà la seconda guerra mondiale. Qui certo il tema della
responsabilià, quella non solo del singolo, ma del mondo intero. Dentro
questa Grande Storia si giocano e rotolano le storie delle persone singole e
qui forse mi interessava di più sviluppare il tema del conflitto tra uomo
pubblico e uomo privato, tra interesse personale e collettivo.
Contraddizione dentro la contraddizione, le Olimpiadi di Berlino sono una
pagina di storia interessantissima, piena di vicende umane incredibili,
come quella di Dora/Heinrich Ratjen, che gareggia come donna tra le
saltarici in alto, pur essendo un uomo. La storia vera di Heinrich è diversa,
maschio a tutti gli effetti ma cresciuto socialmente come donna fino a quel
momento dalla famiglia, viene comunque messo tra le donne dai nazisti
che pure conoscevano la sua vera identità sessuale, con l’intento di fargli
vincere la medaglia d’oro per sostenere la causa della superiorità della
razza ariana. Heinrich/Dora in realtà, più che un travestito, era un
disadattato , che i nazisti non si trattenero dall’utilizzare. Il mio testo forza
la sua figura rendendolo un uomo a tutti gli effetti vestito da donna, in
stanza con Helene Mayer tedesca ebrea nazista e lo fa per rendere
concreta una contraddizione storica disarmante e reale. Oltretutto le due
atlete appartenevano a discipline diverse e con buona probabilità non si
sono neanche mai viste. Dora ed Helene sono due antieroi molto umani
prima di tutto, Dora nel suo dramma fa quasi pena. Helene è posseduta da
una grandissima voglia di arrivare, da un ego divorante. Entrambe per
arrivare sono disposte a vendere tutto, e questo sì, nell’epoca in cui
viviamo, lo trovo molto attuale.
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Sulla preparazione attoriale non so bene che dirti. Certo ci siamo messi
abbastanza in discussione. Abbiamo preso qualche lezione di scherma, io
in particolare. Mi sembrava importante farlo perchéla scherma attraversa
il testo come una metafora, è uno sport di tattica e di rapidità in cui
l’obiettivo è «toccare l’altro senza che lui tocchi te», e toccarlo sul petto,
sul cuore».
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Come nasce la sua collaborazione con Federico Vigorito e Fabrizio
Bordignon?
CP: «Ho conosciuto Federico e Fabrizio sul lavoro. Ci siamo ritrovati
abbastanza casualmente per un progetto insieme. Io stavo pensando a
Golden He. Chiesi a Fabrizio se gli andava di leggere Dora per una
lettura scenica che dovevo fare (il primo studio di Golden He), Federico lo
venne a vedere, apprezzò il testo e nacque così l’idea di continuare a
lavorarci insieme. Allora non ci conoscevamo moltissimo, ma andavamo
molto d’accordo soprattutto ci capivamo sulle idee e oggi posso dire che
siamo un gruppo di amici. E questo in ogni caso è un bel guadagno.
Federico Vigorito ha una grandissima intelligenza e sensibilità ed è molto
attento alle nuove drammaturgie. Ci siamo incontrati per un primo periodo
tutti e tre, leggevamo il testo ne discutevamo, io tornavo a casa e lo
modificavo, rileggevamo, parlavamo di cosa mancava, io tornavo a casa e
lo sviluppavo. Per me è stato, credo per tutti, un grandissimo stimolo, una
specie di cantiere aperto e forse il modo in cui si dovrebbero scrivere i
nuovi testi, lavorandoci già col il regista con gli attori, verificandoli di volta
in volta, scegliendo le vie più adatte per svilupparlo».
Coraggioso nell’impostazione cinematografica, l’allestimento
di Golden He mostra però alcune ruggini nel montaggio delle
sequenze e nel ritmo delle dinamiche sceniche e interpretative:
qualora fosse d’accordo, pensa siano semplicemente dovute alla
ricerca di un maggiore affiatamento tra lei e Bordignon o anche
alla necessità di intervenire sul testo e/o sulla regia?
CP: «L’impostazione cinematografica di Golden He è una scelta di regia
molto precisa che abbraccia il testo e vuole portarlo per come è scritto. È
una storia assurda, incredibile ed estrema, è assurdo che un uomo vaghi
così vestito da donna e che la sua compagna di stanza non lo riconosca
immediatamente, pur vivendo con lui in tale prossimità fisica. È così
assurda e insieme umana questa «banalità del male». La scelta di regia è
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stata al contrario renderla normale, non assurda ma estremamente
quotidiana, realistica, se vuoi naturalistica. Che poi io non credo che lo sia,
per esempio, per le bellissime scenografie di Stefano Nigro, la struttura
tridimensionale di una stanza fatta di filo spinato, e neanche per l’uso
della musica e della luce che sono molto psicologici. Credo che le prime
repliche siano state meccaniche e farraginose perché era una ripresa di
uno spettacolo provato male e poco. La regia di Federico è molto puntuale
e precisa e da attore devi sapergli stare dietro, ma anche a un certo punto
separartene e farla tua. E per questo ci vuole tempo.
Non so se sulla regia si debba intervenire o comunque questo non sono io
che devo dirlo, forse sul testo mi piacerebbe sviluppare maggiormente la
figura di Dora che anche per una scelta autoriale rimane molto più
misteriosa.
Ho parlato di una ripresa provata poco e male perché questo progetto
nasce da un gruppo di professionisti che per sopravvivere fanno, come
molti, una sequenza inimmaginabile di cose insieme: Fabrizio tornava da
una torunée la notte e il teatro era occupato fino a pochi giorni prima, io
arrivavo stremata da un laboratorio il giorno stesso della prima replica. Le
condizioni di lavoro non sono sempre ottimali, ma questo è ciò con cui
spesso si lavora, e si fa il meglio che si può.
Nonostante sia generalmente un merito, l’estrema chiarezza di
una storia, soprattutto se restituita con eccessiva linearità e
numerosi rinforzi (verbali, di costumi, di inserti), può tendere a
cedere nel didascalico, tensione che Golden He non scongiura del
tutto. Come avete lavorato e come pensate di lavorare per evitare
del tutto questo rischio?
CP: «Capisco il didascalico cui fa riferimento. Non credo che il didascalico
sia sempre un demerito. È chiaramente una scelta. Io credo che bisogna
lavorarci ma nel senso di perfezionare alcune cose nella direzione in cui
siamo già. Questa direzione va nel segno di un teatro più tradizionale se
vuoi, meno “di ricerca”, almeno nel senso che la ricerca ha assunto oggi,
per forza “strano”, per forza “non narrativo”, per forza
“anticonvenzionale” pur rimanendo dentro una convenzione forte, quella
del teatro, spesso molto ostentata invece e giustamente in certa ricerca.
Su questo mi sento di dire che alcune visioni sono diventate il main stream
della ricerca e quindi abbastanza ideologiche. Cioè se le cose non le fai in
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quel modo, anticonvenzionale, antinarrativo, frammentato e strano, non
hai senso. Quel modo lì comincia ad avere certi altri canoni che dopo un
po’ diventano ideologici. A volte prescindono dal fatto che una cosa anche
se è fuori da quei nuovi canoni (che nella loro ripetitività diventano già
vecchi), può comunque funzionare. Certo, quello che è vero è che, se vuoi
fare un passo verso un teatro che ha una forma più tradizionale,
fortemente narrativa e lineare, devi essere perfetto. Non ti puoi concedere
le sbavature e le imperfezioni di un certo altro tipo di teatro in cui le
imperfezioni invece possono diventare una forza, possono dargli
personalità. Qui non te lo puoi permettere, diventerebbe quel «vorrei ma
non posso» che giustamente può essere fastidiosamente stonato. Per
questo secondo me dobbiamo maturare ancora nelle repliche e andare in
scena e crescere nella strada fatta, che comunque io credo sia stata
importante anche nel risultato.
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Attrice e autrice, ex ballerina classica, ma anche regista e
drammaturga, ci racconta un po’ di lei? Chi è Carlotta Piraino?
CP: «Ho iniziato a scrivere nel 2004, all’università, nel corso di un
laboratorio con Ascanio Celestini. Ne è nato uno spettacolo nel 2007 che si
chiama I quaderni di Lia Traverso, che partecipò a Teatro di Vetro, che
vinse due Premi a Ermo Colle, che è sicuramente una cosa che mi
rispecchia moltissimo. Sono partita dal diario di Lia Traverso, una donna
che nel 1970 scrive dal manicomio di Roma dei diari su un quaderno di
scuola, oggi conservato dalla casa editrice Sensibili alle Foglie. Un diario
che ho avuto la fortuna e l’emozione di sfogliare, dopo aver cercato e
raccolto moltissime informazioni su di lei e sulla storia del manicomio.
Scrivere per me è un modo di conoscere, di fare ricerca, forse in questo mi
ha influenzato conoscere Ascanio, ma credo che qualsiasi autore scriva
partendo da una domanda. Da lì ho iniziato a lavorare sul tema
dell’anoressia. Qualcosa che avevo conosciuto da ragazzina e cui forse
volevo ancora dare una risposta. Mi sono infilata nelle cliniche
spacciandomi per una studentessa di antropologia, ho intervistato donne e
medici, e ho scritto uno spettacolo che si chiama Io vengo dalla Luna
arrivato finalista a Scenario Infanzia nel 2008.
Poi ho scritto altre cose, sempre da sola, di cui ho fatto sempre la regia.
Ho sempre continuato a fare l’attrice per altri perché non riesco a
chiudermi. Mi piace e mi serve il confronto. Come autrice credo che mi
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interessi molto parlare di disagio e di femminilità. Non è una scelta
preconcetta, ma in qualche modo casco sempre lì come quando ho
lavorato sull’aborto con uno spettacolo che si chiama Strappi.
Golden He è stato il primo lavoro in cui mi sono veramente confrontata
con gli altri, ho affidato un mio testo a qualcuno. Il risultato è stato forse
meno personale, ma sicuramente una grande occasione di crescita e di
confronto. In un’epoca in cui tutti fanno tutto da soli, un teatro fatto di one
man (e woman) show dove ognuno si fa il suo teatro, personalissimo e
isolato, spesso bellissimo nella sua unicità ma anche molto egocentrico,
credo che confrontarsi sia una bella sfida che mi sono concessa. Perdi un
po’ di te ma ti arricchisci del lavoro e della visione degli altri».
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Se guarda al futuro, cosa vede per lei e i suoi progetti?
CP: «Una cosa che mi affatica molto è scegliere, appartenere. Alla ricerca,
a me stessa, a un’identità precisa. Che cos’è l’identità appunto. Non so.
Adesso sto facendo un lavoro bellissimo e anche abbastanza duro con la
Asl e un’associazione di genitori che si chiama Fenice Lazio Onlus che
lavorano per la cura e la sensibilizzazione dei disturbi del comportamento
alimentare. Sto lavorando con un gruppo di ragazze in cura e, tra
pochissimo, andremo in scena con Smile. Il 15 marzo, durante la giornata
del Fiocchetto Lilla (La giornata Nazionale dei Disturbi Alimentari),
porteremo al pubblico il prodotto di questo piccolo pezzo di strada fatto
insieme. Questo per me approfondisce un percorso antico e forse lo
chiude. Chiude un po’ un cerchio.
Come progetto di scrittura prossimo mi piacerebbe lavorare sulla figura
della bambola, dell’automa, in qualche modo collegati alla disabilità.
In generale, mi piace tutte le volte che il teatro, sacra fiera dell’inutile, mi
sembra che possa servire a qualcosa».
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