Luciano Manicardi

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Luciano Manicardi
5° Domenica di Pasqua
Tratta dal discorso di addio di Gesù, la pericope liturgica presenta l’eredità, il dono e il compito che Gesù
lascia ai suoi discepoli: l’amore, l’agape. “Amatevi come io vi ho amati”.
Espresso in forma di comando, questo amore ha forma pasquale, chiede un’uscita da sé da parte del
discepolo per accogliere in sé la forma di Cristo, e “forma e figura di Cristo in noi è l’amore” (Cirillo di
Alessandria). Vivere l’amore come Gesù l’ha vissuto significa partecipare alle energie del Risorto, passare
dalla morte alla vita, significa confessare nelle relazioni quotidiane la fede pasquale (vangelo). Frutto della
resurrezione è anche l’attività apostolica intensa svolta da Paolo e Barnaba: predicazioni, viaggi, servizi alle
comunità dei fratelli, organizzazione della vita delle comunità stesse, e continui pericoli assunti come
momenti integranti della vicenda di fede: infatti, “è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel
Regno di Dio” (At 14,22: I lettura). La prospettiva pasquale è presente anche nella visione dell’Apocalisse che
mostra il compimento escatologico e universale dell’alleanza (“Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli
dimorerà tra di loro ed essi saranno suoi popoli”): il compimento della Pasqua è la fine di lutto, affanno,
lamento, peccato e morte (II lettura).
Se la prospettiva della morte conduce a concentrarsi su ciò che è essenziale e irrinunciabile, le parole che
Gesù pronuncia sull’amore prima della sua passione e morte, indicano la via dell’essenzialità nell’amore.
Gerolamo afferma che “se questo fosse anche l’unico comando del Signore, basterebbe”.
Noi certamente ci chiediamo che cosa resterà di noi agli altri dopo la nostra morte e che cosa gli altri ci
hanno lasciato con la loro morte. Gesù con questa parola sull’amore vuole che di lui resti l’amore tra i
discepoli: “Come io vi ho amati, così anche voi amatevi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Niente di idilliaco o
romantico in questo comando, anzi, qualcosa di drammatico. Si tratta di convertire il nostro sguardo
sull’altro facendo divenire il limite che egli rappresenta per noi un’occasione di amore, di accoglienza e non
di rigetto, di riconoscimento e non di negazione, di ospitalità e non di ostilità. La presenza del Risorto
avverrà così nello spazio relazionale intracomunitario: “gli uni gli altri”. Scrive Ignazio di Antiochia: “Nella
vostra armonia e nel vostro amore concorde si canta Gesù Cristo”. Cristo si fa presente e vivente nell’amore
che abita le relazioni nella comunità cristiana. E lì si canta Gesù Cristo, ovvero, si celebra esistenzialmente la
sua presenza di Risorto.
Il vangelo pone in stretta relazione l’uscita di Giuda dallo spazio comunitario con la glorificazione di Gesù (cf.
v. 31). Il gesto di tradimento, che poteva semplicemente essere esecrato e biasimato, viene visto da Gesù
all’interno della sua storia con il Padre e dunque come segno della sua glorificazione. Ma è chiaro che l’ora
della sua glorificazione non è suscitata da Giuda con il suo gesto, ma dall’amore di Gesù che ha amato i suoi
“fino alla fine” (Gv 13,1). È la terrificante oggettività dell’amore di Gesù che provoca gli eventi e alla cui luce
vanno colti i gesti di Giuda che tradisce e di Pietro che rinnega, così come il rimanere nell’amore da parte del
discepolo amato. Le parole di Gesù (cf. vv. 31-32), una sorta di inno di giubilo, attestano la buona coscienza
di Gesù e il suo essere restato sempre nell’amore, il suo avere amato Giuda anche mentre aveva già in animo
il tradimento. La morte rappresentata dall’odio e dalla vendetta, dalla ripicca e dall’esclusione sono già vinte
da Gesù nel suo amare il fratello che si è fatto nemico e mentre è nemico. La resurrezione sarà espressione
della forza vivificante dell’amore.
E l’amore che unisce tra loro i cristiani sarà la grande forza evangelizzatrice, sarà la narrazione tra gli uomini
della presenza vivente e operante del Risorto: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete
amore gli uni per gli altri” (v. 35).
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