NUOVE PROSPETTIVE IN TEMA DI INFERMITÀ DI MENTE E DI

NUOVE PROSPETTIVE IN TEMA DI INFERMITÀ DI MENTE E
DI PERICOLOSITÀ SOCIALE
prof. Ugo Fornari
Professore ordinario f. r. di Psicopatologia Forense-Università di
Torino
PREMESSA
Con il progredire delle conoscenze e dei nuovi orizzonti operativi in ambito
psichiatrico e giuridico, terminata l’era lombrosiana e quella della medicina
criminologica, è risultata sempre più evidente l’insufficienza e l’inappropriatezza del
modello medico-psichiatrico per rispondere ai quesiti posti dal magistrato, in ambito sia
penale (imputabilità, capacità di partecipare coscientemente al processo e pericolosità
sociale), sia civile (la valutazione della capacità decisionale in riferimento ai temi
complessi e delicati del consenso/dissenso). Nel vasto e complesso settore del
“forense”, mi limito a isolare tre settori che voglio mettere in discussione: uno generale,
che riguarda la formazione dei periti e dei consulenti; gli altri due specifici: l’infermità
di mente e la pericolosità sociale. Sempre e comunque non si deve sottovalutare che il
problema di fondo nasce dal fatto che – per volontà del legislatore – periti e consulenti
devono procedere a un non facile, discutibile e controverso abbinamento tra categorie
cliniche e categorie giuridiche, divergenti per significato, per statuto epistemologico,
per obiettivi e fini perseguiti.
I PROBLEMI DELLA FORMAZIONE
Ne consegue che coloro che si candidano o vengono scelti per lavorare in ambito
giudiziario devono
-aver seguito un training specifico
- essere in grado di documentarlo
- aver imparato ad applicare le loro conoscenze cliniche ai molteplici e specifici
problemi della valutazione forense.Sia psichiatra sia psicologo clinici non sono in grado
di svolgere le attività di cui sopra senza aver rivisitato le loro conoscenze teoriche e la
loro operatività, immergendole in tre grandi contenitori: uno culturale (criminologico),
uno metodologico (medico-legale) e uno giuridico (la conoscenza delle norme contenute
nei codici).Nessuno può cimentarsi in ambito forense, se privo o carente di una buona
formazione clinica di base.Ma non basta: il lavoro peritale comporta un’attività di
formazione continua che va oltre la preparazione fornita dalle scuole di psichiatria e di
psicologia clinica (non parliamo di quelle di medicina legale, assolutamente inidonee
sul piano psicologico e psichiatrico clinico), perché riguarda un «committente» (il
magistrato o il difensore) e un «utente» (il periziando) ben diversi da coloro che
tradizionalmente si incontrano negli ambulatori e negli studi privati.
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Nulla quaestio sull’importanza della criminologia generale nella formulazione e
nell’elaborazione di teorie, che contribuiscono ad una lettura non settoriale, ma integrata
dei problemi della criminalità.
In altre parole, medicina legale e criminologia forniscono rispettivamente un
metodo e una cultura utili alla formazione dello psichiatra forense e dello psicologo
giudiziario: formazione che, però, è fondamentalmente affidata al lavoro «sul campo».
A questo proposito, mai sufficienti saranno le perplessità e le critiche circa il
fiorire e il moltiplicarsi di sedicenti «scuole» di formazione in psichiatria forense e
psicologia giudiziaria, più o meno condite dall’ingrediente che da qualche anno va
molto di moda anche in Italia: la criminologia giuridica e sociologica prima e,
recentemente, quella investigativa e criminalistica.
Il problema , ben inteso, non esiste se la quantità di corsi attivati e attivandi non
va a detrimento della qualità e se i docenti sono in grado di fornire ai discenti training
formativi non solo teorici, ma anche e soprattutto pratici nelle loro diverse articolazioni
del sapere, del saper fare e del saper essere.
Premesso che“…quanto al rapporto ed al contenuto dei due piani del giudizio
(quello biologico e quello normativo), il secondo non appare poter prescindere, in ogni
caso, dai contenuti del sapere scientifico, (Omissis) sicché, postulandosi, nella simbiosi
di un piano empirico e di uno normativo, una necessaria collaborazione tra giustizia
penale e scienza, a quest’ultima il giudice non può in ogni caso rinunciare –pena la
impossibilità stessa di esprimere un qualsiasi giudizio- e, pur in presenza di una varietà
di paradigmi interpretativi-, non può che fare riferimento alle acquisizioni scientifiche
che, per un verso, siano quelle più aggiornate e, per altro verso, siano quelle più
generalmente accolte, più condivise, finendo col costituire generalizzata (anche se non
unica, unanime) prassi applicativa dei relativi protocolli scientifici…” (Cass. Pen.,
Sezioni Unite, sentenza n. 9163/2005).
ne consegue che il giudice deve
- essere in grado di poter scegliere un perito (competenza e capacità scientifica
dell’esperto);
- essere messo a conoscenza del metodo da questi applicato (tradizionale, clinico,
sperimentale) - essere competente nel valutarlo;
- pretendere chiarezza diagnostica ( modello categoriale);
- esigere chiare e comprensibili spiegazioni sul funzionamento mentale del
soggetto in esame in riferimento al fatto avente rilevanza giuridica (modello funzionale)
- poter comprendere l’incidenza della valutazione clinica sull’oggetto specifico
dell’accertamento disposto e i provvedimenti da prendere (vizio di mente, pericolosità
sociale, cure, capacità decisionale, istituti di protezione) (il c.d. nesso etiologico o
significato d’infermità dell’atto).
L’INFERMITÀ DI MENTE
Nel settore qui in esame, non esistono teorie e valutazioni scientifiche oggettive
ed è un’illusione pensare che gli esperti giungano ad esse in maniera universalmente
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valida e secondo metodi obiettivi.La perizia è strumento di prova, se e quando si
traduce in un elaborato convincente, motivato, documentato, fruibile e comprensibile
per chi ha l’onere di giudicare o difendere una persona.
Ad essa conferisce caratteristiche di “scientificità” il rigore metodologico (che
etimologicamente deriva da meta-hodòs e significa “la strada che si percorre”) seguito
dal perito o consulente che sia e che si articola ne
1)
Il percorso clinico
2)
La criteriologia psichiatrico-forense
3)
La valutazione psichiatrico-forense
LE RICERCHE IN AMBITO NEUROSCIENTIFICO
Nell’esplorare i rapporti tra aree cerebrali e funzionamenti mentali semplici e
complessi di tipo cognitivo, emotivo e comportamentale, hanno dimostrato che le
diverse aree anatomiche del cervello (in particolare la corteccia fronto-temporale e il
sistema limbico) non agiscono indipendenti e separate, ma si integrano funzionalmente
tra di loro, per cui la neuroanatomia funzionale della cognitività, dell’emotività e del
comportamento vede coinvolte aree quali la corteccia prefrontale ventro-mediale e
dorso-laterale, l’amigdala, i gangli della base, l’insula e altre strutture viciniori. L’essere
portatore di una patologia morfo funzionale a carico di una o più di queste aree non
implica però automaticamente (nel senso di causa→effetto) che i meccanismi
psicologici alla base della imputabilità, della libertà, della capacità di prendere decisioni
e di altre nostre capacità siano automaticamente compromessi, per cui da quella
discende una incapacità o un difetto qualsiasi. Alterazioni anatomo funzionali dei lobi
frontali e del sistema limbico non possono, da sole, spiegare la complessità della
psicopatologia e rischiano di ridurre il comportamento umano ad ambiti e dimensioni
che, allo stato, sono ben lungi dall’ottenere una loro validazione clinica.
NEUROSCIENZE O SCIENZE UMANE?
“…forse non c’è bisogno di inseguire statuti ineccepibili che ci diano sicurezza, e
non c’è bisogno di cercarli e di adattarsi: l’attrezzatura dello psichiatra è una
attrezzatura mentale, di per sé specifica e non comune, che fa sua la sofferenza, la
tollera perché la elabora e la racconta, ricostruisce la trama di una vita interiore
fratturata, fornendo idee, narrative, teorie, conoscenze biologiche, sociologiche,
letterarie. Basta e avanza…”.(ROSSI R., Psichiatria o psichiatra che cambia? Vicende
evolutive dello psichiatra, Italian Journal of Psychopathology, 2005, 11/4, 407-416)
“...Riguardo al tema della libertà, le indagini medico-biologiche possono offrire
risposte significative all’interno di un determinato paradigma scientifico esplicativo. È
evidente che non si tratta di risposte «assolute» e non è probabilmente questa la
metodologia che possa permettere di passare dalla conoscenza del «sentimento di
libertà» almeno parziale, nel quale ci sentiamo di vivere, ad una verifica oggettiva
dell’esistenza o meno della libertà umana, se non altro perché, in questo caso, soggetto
e oggetto dell’indagine coincidono”. (BOGETTO F. e ROCCA P., La libertà dal nostro
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cervello, in FORNARI U. Trattato di psichiatria forense, Utet, Torino, 2008, IV ed. p.
1117 e segg.).
LA NEUROPSICOLOGIA
nell’offrire un valido aiuto alla ricerca di risposte e alla costruzione di
inquadramenti clinici e di procedure valutative più ricche, più articolate e maggiormente
fondate sull’obiettività, e quindi sull’evidenza dei dati, può al massimo stabilire la
compromissione di una funzione, ma non necessariamente la presenza di una lesione
organica cerebrale, fatta ovviamente eccezione per i casi in cui la clinica è già di per sé
stessa più che eloquente. Resta il fatto che “l’esame neuropsicologico assomiglia a
un’euristica complessa, dove sensibilità clinica, conoscenza teorica e competenza
psicometrica si fondono in maniera inseparabile”. (STRACCIARI A., BIANCHI A.,
SARTORI G., Neuropsicologia forense, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 10).
LA NEUROPSICOLOGIA FORENSE
vantaggi
- riduce il margine di discrezionalità e aumentare il “tasso di oggettività”
nell’accertamento del funzionamento mentale individuale, normale o patologico che sia;
- offre evidenze scientifiche maggiormente solide rispetto a quelle ottenibili con il
solo metodo clinico;
consente un’accurata descrizione e valutazione del quadro cognitivo (di base e
residuo = neuropsicologia cognitiva);
- analizza le risposte a uno specifico compito proposto (= ciò che il soggetto fa in
condizioni controllate);
- assegna punteggi rigorosamente standardizzati;
- comprende come la persona in esame realizza la conoscenza e come i processi
cognitivi ed emotivi emergono dal loro substrato biologico, cioè il cervello;
- misura accuratamente ed efficacemente il funzionamento cognitivo e
comportamentale del soggetto esaminato.
svantaggi
- l’evidenza neuropsicologica non ha caratteristiche di oggettività, come può
averlo un esame strumentale o di laboratorio;
- l’indagine neuropsicologica avviene in condizioni che poco o nulla hanno a che
fare con quelle “naturali” in cui è accaduto l’evento penalmente o civilmente rilevante;
- la prestazione a un test neuropsicologico è influenzata da sorgenti multiple di
variabilità (il test stesso, l’esaminatore, il contesto i esame, le caratteristiche del
soggetto esaminato);
- in punto imputabilità, pericolosità sociale, capacità di cosciente partecipazione al
processo, capacità (incapacità) decisionale, deficienza e inferiorità psichica, controllo
della condotte emotive e degli automatismi e via dicendo
le valutazioni
neuropsicologiche non sono in grado di pervenire, di per se sole, ad una verifica
oggettiva dell’esistenza o meno della libertà umana.
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In una valutazione neuropsicologica o di neurimagin, pertanto, la clinica ancora
una volta rimane sovrana nell’interpretazione, nell’integrazione e nella valutazione dei
dati raccolti, anche perché le tecniche di valutazione sperimentale vengono applicate in
situazioni artificiose e decontestualizzate che nulla hanno a che condividere con la realtà
(quella relazione e quella situazione) in cui il fatto giuridicamente rilevante è avvenuto.
In altre parole, “la valutazione comportamentale e clinica non può essere sostituita
dalla valutazione del cervello tramite le tecniche di neuroimagin cerebrale e le
tecniche neuropsicologiche e neuroscientifiche dovrebbero, per il momento, essere
viste come metodologie di approfondimento e di supporto”. (STRACCIARI A.,
BIANCHI A., SARTORI G., Neuropsicologia forense, Il Mulino, Bologna, 2010, p.
117 e 119).
Nel caso di specie psichiatria e psicologia clinica, nei loro aspetti pragmatici, sono
discipline che appartengono fondamentalmente alle cosiddette “scienze umane”, nel
senso che partono dalla persona e a lei ritornano attraverso un osservatore che elabora
con la mente le informazioni che riceve, ascolta la sofferenza umana con partecipazione
e interagisce con un altro da sé, il suo ambiente di appartenenza e il sistema socioculturale che sempre fanno da sfondo alla scena sulla quale accadono eventi
"patologici" e/o "delinquenziali“.
Non ha pertanto senso alcuno inseguire l’impossibile progetto di una obiettività
asettica e imparziale, ancor più, se si tiene conto del fatto che, nell’ambito specifico di
cui ci stiamo interessando la diagnosi clinica è il risultato di un processo costruttivo
che prevede l’integrazione di tutti o parte dei modelli nosografico, psicopatologico,
psicodinamico e funzionale, con ricorso o meno a indagini psicodiagnostiche o ad altri
tipi di valutazione. Essa si articola attraverso diversi passaggi che includono strategie
relazionali, tecniche di intervista, raccolta di dati anamnestici, ricorso a test mentali e
ad altri mezzi di indagine, individuazione di criteri diagnostici specifici e differenziali.
Non esiste un approccio diagnostico unico, ottimale, codificabile e codificato, ma
è sempre indispensabile che sia stata prioritariamente costruita una relazione
significativa in cui collocare i dati clinici e quelli ricavati dai protocolli o dalle
indagini strumentali (interviste, questionari, test mentali e di valutazione
neuropsicologica e quant’altro l’intervistatore voglia utilizzare), confermandone o
disconfermandone validità e significato.
La diagnosi consiste nella costruzione di un contenitore descrittivo, categoriale
(nosografico, alfa-numerico) in cui va collocato quello dinamico, dimensionale (il
funzionamento mentale).
La diagnosi descrittiva, pur necessaria, non è più sufficiente per comprendere
appieno la persona che si sta esaminando, nel senso che diviene fondamentale capire
non tanto di che eventuale patologia è portatore, ma come funziona mentalmente quel
soggetto affetto dal disturbo mentale diagnosticato.
a. L’APPROCCIO CLASSIFICATORIO CLASSICO
Le categorie nosografiche si costruiscono per sommatoria di sintomi e di segni
giustapposti. Si utilizza la nozione di malattia mentale e si distinguono, utilizzando
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termini non sempre univoci e concordati, le insufficienze mentali, le perversioni
sessuali, nevrosi (da alcuni chiamate psiconevrosi) e le psicopatie, a loro volta articolate
in diverse fattispecie cliniche, le reazioni abnormi e gli sviluppi di personalità e le
psicosi (organiche e funzionali).
b. L’APPROCCIO CATEGORIALE o ALFA NUMERICO
Nell’I.C.D. (classificazione internazionale delle sindromi e dei disturbi psichici e
comportamentali) i criteri diagnostici classificano dettagliatamente oltre 300 sindromi e
disturbi.
Nel D.S.M. (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) la diagnosi di
disturbo mentale viene fatta tenendo presenti cinque diverse classi di informazione e di
decodificazione dei sintomi e dei segni psicopatologici (sistema di valutazione
multiassiale).
c. L’APPROCCIO FUNZIONALE O DIMENSIONALE
Consiste nella costruzione di contenitori in cui vengono collocati gruppi di
sintomi (riferiti dal paziente) e di segni (rilevati dall’osservatore), indicatori di una
comune, alterata funzione mentale che riguarda le funzioni dell’Io.
Le alterazioni funzionali di questa infrastruttura della personalità sono
verosimilmente sostenute da un meccanismo patofisiologico specifico, ad altri
funzionalmente correlato. In questo tipo di approccio diagnostico fondamentale è
l’ANALISI FUNZIONALE DELL’IO, di cui fanno parte le funzioni percettivomemorizzative, organizzative, previsionali, decisionali ed esecutive.
ANALISI FUNZIONALE DELL’IO E IMPUTABILITÀ
Si può in questo modo stabilire una corrispondenza tra le categorie giuridiche
dell’intendere e del volere con quelle dimensionali del funzionamento dell’Io come
segue:
capacità di intendere = FUNZIONI PERCETTIVO-MEMORIZZATIVE,
ORGANIZZATIVE e PREVISIONALI. Esse riguardano fondamentalmente le funzioni
cognitive e la capacità riflessiva del soggetto (lobi frontali).
capacità di volere = FUNZIONI DECISIONALI ed ESECUTIVE. Esse
riguardano fondamentalmente i processi affettivo emotivi e decisionali (ippocampo e
amigdala).
I DATI DELLA RICERCA NEUROSCIENTIFICA
A questo punto, è possibile introdurre nella costruzione di modelli dimensionali
(della normalità, della psicopatia, del disturbo grave di personalità e del disturbo
psicotico) i nuovi dati emergenti dalla ricerca neuroscientifica, senza pretendere che essi
possano offrire risposte di per sé sole esaustive in riferimento a tematiche complesse e
articolate oggetto di una valutazione psichiatrico forense, quali l’imputabilità, la
capacità di agire, l’idoneità a rendere testimonianza, il comportamento violento e
recidivo e, per converso, l’incapacità, la suggestibilità, la circonvenibilità, l’assenza di
pericolosità sociale e via dicendo. In altre parole, “le tecniche neuropsicologiche e
neuroscientifiche non possono essere sostitutive dell’inquadramento clinico e
dovrebbero, per il momento, essere viste come metodologie di approfondimento e di
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supporto”.(STRACCIARI A., BIANCHI A., SARTORI G., Neuropsicologia forense, Il
Mulino, Bologna, 2010, p. 117).
LA NOZIONE DI INFERMITÀ DI MENTE
- Insieme di diagnosi categoriale e funzionale (aspetti complementari, ma distinti,
da non confondere l’uno con l’altro).
- Compromissione rilevante e grave delle funzioni autonome dell’Io al momento e
in riferimento al fatto agito o subito (il quid novi o il quid pluris).
- Eventuali alterazioni morfofunzionali dei lobi frontali, temporali e del sistema
limbico.
La nozione di «valore di malattia» venne proposta nel 1956 da Müller-Suur (1)
per risolvere il problema della valutazione psichiatrico-forense delle «anomalie
mentali» in riferimento ad un reato; la nozione fu definita come «il grado di diversità tra
le direttive abituali di una determinata personalità (ed i modi di reazione ad essa propri)
ed il suo comportamento abnorme».
Da un punto di vista funzionale e dimensionale, è preferibile sostituire a questa
nozione il concetto di significato di infermità dell’atto (Müller-Suur H., Zur Frage der
strafrechtlichen Beurteilung von Neurosen, Archiv für Psychiatrie, 194, 368, 1956). È
ragionevole pensare che, in caso di vizio di mente, un disturbo mentale produca un
disordine comportamentale che precede, accompagna e segue il reato di gravità diversa,
a seconda dell’entità e della quantità di compromissione delle singole funzioni
psichiche; delle condizioni di acuzie o di cronicità; di produzione o di spengimento
della sintomatologia psicopatologica; di età; di assunzione o meno di terapie
psicofarmacologiche e psicoterapeutiche; della eventuale presenza o meno di alterazioni
morfo funzionali (ipoattività) a carico dei lobi frontali, dell’ippocampo e
dell’amigdala.In questo senso, più aree funzionali dell’Io saranno investite dal disturbo
patologico psichico ed eventualmente neurologico, più ampia ed evidente sarà la
compromissione comportamentale (Comportamento organizzato e disorganizzato).
IL SIGNIFICATO DI INFERMITÀ DELL’ATTO
Si escludono dal «significato di infermità» tutti quei disturbi mentali che si
presentano come disarmonie del comportamento, modi di essere e stili comportamentali
stabili nel tempo o come quadri di stato o in condizioni di buon compenso clinico e nei
quali il comportamento criminoso concorda funzionalmente con le direttive di fondo
della personalità o non è in diretta connessione con funzionamenti mentali patologici
sopravvenuti (il c.d. “nesso etiologico”).
Si includono nel «significato di infermità» tutti quei comportamenti che
costituiscono quel quid novi o quel quid pluris espressivo di uno scompenso
psicopatologico in atto o di una riorganizzazione su uno o più disturbi patologici
psichici.
Sono questi i casi in cui le insufficienze mentali, le personalità psicopatiche, le
psiconevrosi, le perversioni sessuali e le tossicodipendenze si complicano con altri
disturbi mentali; oppure severe alterazioni della personalità (i Disturbi Gravi di
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Personalità), gli Sviluppi di personalità e i Disturbi Psicotici vanno incontro a
scompensi sul piano del loro funzionamento mentale e comportamentale.LA
PERICOLOSITÀ SOCIALE
Deve essere documentata in base alla presenza e persistenza o risoluzione e
assenza di precisi indicatori clinici, comportamentali e circostanziali
PREMESSA
- una cosa è la nozione di pericolosità sociale psichiatrica che si identifica con
quella di necessità attuale di cure e di assistenza specialistica, in regime di coazione
(trattamento sanitario obbligatorio giudiziario) o di libertà vigilata (trattamento in
strutture comunitarie);
- e cosa ben diversa è la pericolosità sociale giuridica (o criminologica) il cui
accertamento, nella sua dimensione prognostica, deve rimanere compito di esclusiva
spettanza del magistrato (art. 203 c.p.).Inoltre la pericolosità sociale psichiatrica deve
essere graduata dal perito psichiatra e non dal giudice in elevata e attenuata, con
conseguenti provvedimenti diversificati
Hard= elevata → internamento in OPG
Soft = attenuata→Dipartimento di Salute Mentale→struttura dell’ASL o
convenzionata in regime di libertà vigilata.
LA PERICOLOSITÀ SOCIALE PSICHIATRICA DA UN PUNTO DI VISTA
EMINENTEMENTE CLINICO
Quando elevata, essa deve essere intesa come Trattamento Sanitario Obbligatorio
Giudiziario
e deve tenere conto dei seguenti indicatori:
Indicatori interni propri della patologia di cui il soggetto è portatore
- presenza e persistenza (o meno) di quella sintomatologia psicotica florida, alla
luce della quale il reato ha assunto “significato di infermità";
- assenza di consapevolezza di malattia (insight);
- atteggiamento negativo o non collaborativo verso le terapie prescritte
(adherence);
- scarsa o nulla risposta a quelle praticate (purché adeguate sotto il profilo
qualitativo e del range terapeutico);
- segni di disorganizzazione cognitiva e impoverimento ideo-affettivo e
relazionale (sintomatologia negativa).
La presenza e persistenza di tutti o parte di questi indicatori indicano che il
soggetto, dopo il reato commesso e a distanza di tempo, continua a vivere in una
dimensione psicotica o borderline grave che richiede cure, assistenza e protezione
sanitarie assidue e intense (obblighi di garanzia). La posizione di garanzia che il
personale sanitario deve assumere nei suoi confronti, a sua tutela e protezione, deve
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essere garantita attraverso l’internamento in una struttura di controllo e di
neutralizzazione.
La pericolosità sociale psichiatrica può essere ritenuta attenuata o risolta, quando
gli indicatori interni vanno diminuendo di gravità e il soggetto presenta un’evoluzione
positiva del quadro psicopatologico e comportamentale, fino a una buona remissione
clinica con instaurazione di una dimensione psicopatologica di minore gravità o
ripristino di un buon funzionamento mentale.
Allora, in una prospettiva di sostituzione della misura di sicurezza hard con una
soft o della revoca della stessa, oltre il funzionamento mentale attuale, si debbono
tenere presenti i seguenti indicatori:
- sensibile riduzione della sintomatologia psicotica florida che ha determinato il
passaggio all'atto;
- ripristino di una soddisfacente consapevolezza di malattia;
- recupero di capacità di analisi, critica e giudizio adeguate;
- possibilità di aderire, da parte del paziente, agli interventi terapeutici
propostigli, soprattutto quelli farmacologici;
- disponibilità degli operatori del Dipartimento di Salute Mentale a prendersi
effettivamente in carico siffatti soggetti;
- possibilità di collaborare costruttivamente con la Magistratura di Sorveglianza;
- possibilità di assegnazione a strutture comunitarie o, al limite, di rientro in
famiglia;
- reperimento o ripresa di un'attività lavorativa e di altre attività socialmente utili
per una positiva (re)integrazione.
Indicatori esterni alla patologia di cui il soggetto è portatore
- caratteristiche dell'ambiente familiare e sociale di appartenenza (accettazione,
rifiuto, indifferenza);
disponibilità e progetti terapeutici da parte dei servizi psichiatrici di zona (la
continuatività terapeutica);
- possibilità o meno di (re)inserimento lavorativo o di soluzioni alternative;
tipo, livello e grado di accettazione del rientro del soggetto nell’ambiente in cui
viveva prima del fatto-reato;
opportunità alternative di sistemazione logistica.
A CHE SERVONO QUESTI INDICATORI?
La presenza e persistenza degli indicatori interni riveste importanza fondamentale
nel ritenere elevata la pericolosità sociale e nel proporre un internamento in ospedale
psichiatrico giudiziario.
In presenza e persistenza di smorzamento o compensazione degli indicatori
«interni» assumono notevole importanza quelli esterni per proporre, rispettivamente, la
trasformazione della misura di sicurezza dell’internamento in o.p.g. in libertà vigilata e
per proporre la revoca di queste misure di sicurezza.
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Criteri di esclusione della pericolosità sociale psichiatrica
- risoluzione della sintomatologia psicotica florida che ha determinato il passaggio
all'atto;
ripristino di una soddisfacente consapevolezza di malattia;
recupero di capacità di analisi, critica e giudizio adeguate;
possibilità di ottenere, da parte del paziente, una spontanea, attendibile
accettazione degli interventi terapeutici, compresi quelli farmacologici;
disponibilità degli operatori dei servizi psichiatrici o di altri specialisti, presso
case di cura o nel settore privato, a prendersi effettivamente in carico siffatti soggetti;
soluzione di specifici problemi concorrenti alla genesi e alla dinamica dell'atto;
prospettiva di rientro in famiglia o di assegnazione a strutture comunitarie;
reperimento o ripresa di un'attività lavorativa e di altre attività socialmente utili
per una positiva (re)integrazione.
Le recenti innovazioni
Le sentenze della Corte Costituzionale (n. 110/1974; n. 139/1982; n. 249/1983; n.
253/2003; n. 367/2004) , il codice di procedura penale, l’ordinamento penitenziario e il
relativo regolamento di attuazione, le recenti convenzioni con la psichiatria del territorio
hanno introdotto una serie di novità che tengono conto del dettato costituzionale e del
diritto alla salute garantito a tutti i cittadini e che non possono più vedere esclusi quei
malati di mente per i quali l’aver commesso un reato comporta una subordinazione delle
istanze terapeutiche a quelle di controllo.
IN QUESTI E ALTRI SETTORI DEL FORENSE
la “prova scientifica” che psicologi e psichiatri forensi possono fornire agli
operatori del giudiziario non è rappresentata dall’uso di strumenti diagnostici (in senso
lato intesi) più o meno raffinati e in grado di “misurare” le funzioni mentali di un
soggetto, bensì dal rigore con cui essi, nell’assoluto rispetto della deontologia
professionale,
- applicano la criteriologia e la metodologia peritali,
- osservano regole minime nella compilazione dei loro elaborati,
- costruiscono ipotesi falsificabili, ammettono l’irriducibile antinomia, presente in
molti ambiti, tra scienza e diritto,
- forniscono un parere motivato e valido,
- tengono conto di tutto quello che –allo stato- costituisce patrimonio comune e
condiviso della nostra conoscenza e del nostro operare come periti e/o consulenti.
Ognuno pertanto faccia il proprio mestiere: gli investigatori e i giudici accertino la
verità processuale e non si travestano da psico poliziotti; gli psicologi e gli psichiatri
documentino la verità clinica, evitando pronunce dogmatiche e autoreferenziali. Si
smascheri la finzione del peritus peritorum.
Il relativismo scientifico costituisce per tutti un aspetto fondamentale cui si deve
fare costante e preliminare riferimento per articolare ogni successiva discussione e
valutazione.
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Si smetta di identificare il perito nel ruolo elettivo del tecnico super partes, in
quanto scelto dal giudice e avente l’obbligo di dire la verità; mentre in capo al
consulente tecnico, assimilato al testimone, tale obbligo non sussiste: pertanto si ha
diritto di credere la sua sia un’attendibilità minore, di serie B.
Infatti “….avvocati, investigatori e poliziotti, quando cercano di trasformarsi in
periti, corrono il rischio di far diventare oscuro ciò che ha bisogno di essere legalmente
chiarito; e i clinici, quando progettano metodi e tecnologie poco o nulla ripetibili e
controllabili e ricorrono a interrogatori che li inducono ad agire come investigatori,
avvocati o poliziotti, rischiano di diventare incompetenti come clinici, oltre a mancare
di competenza propria nell’area degli obblighi di legge…”. (SUGARMAN A. a cura di
Vittime di abuso, Centro Scientifico Editore, Torino, 1999).
Infine, si smetta di credere che
- dalla posizione di perito o di consulente tecnico d’ufficio discenda, in maniera
quasi assiomatica, ma spesso del tutto soggettiva e arbitraria, il contenuto veritiero delle
tesi da lui presentate e sostenute e che
- i consulenti di parte, nella misura in cui vengono identificati e si identificano nel
ruolo dell’accusatore e del difensore e sono esonerati dall’obbligo “di dire la verità”,
siano gravati della pregiudiziale della loro relativa o assoluta inaffidabilità,
- tranne che si tratti di consulenti del pubblico ministero ai quali viene
riconosciuta una credibilità fondata unicamente sul fatto che vengono nominati da una
parte
togata,
invece
che
da
una
parte
civile.