Le teorie dell’intervento dello Stato nell’economia
Nel corso della storia il ruolo dello Stato dell’economia è cambiato in modo rilevante. Lo studio
dell’economia politica parte dal 1776 (Smith “La ricchezza delle Nazioni”). In quell’epoca la
funzione dello Stato si limitava a garantire la pace sociale, in modo che i commerci e gli scambi
potessero avvenire facilmente La teoria di fondo era quella liberista o del laissez faire. Lo Stato
aveva il compito di garantire l’ordine pubblico, difendere i confini e amministrare la giustizia. Un
altro compito era quello di combattere i monopoli, per realizzare la vera libera concorrenza.
L’attività finanziaria pubblica quindi doveva essere neutrale, senza interferire con l’attività dei
privati. Il bilancio pubblico doveva essere in pareggio (dogma del pareggio di bilancio) e le imposte
erano rigorosamente proporzionali, ad aliquota fissa in modo da togliere a tutti nella stessa
misura. L’unico economista classico favorevole all’imposta progressiva (ad aliquota crescente) fu
Stuart Mill. Le scuole di pensiero sottese a questa teoria erano quella classica e neoclassica.
Nella seconda metà del 1800 si affermarono le idee socialiste (Marx e i socialisti riformisti) che,
non trovando giusto il sistema economico proposero che l’attività finanziaria pubblica fosse diretta
a ridistribuire la ricchezza dai ceti più ricchi a quelli più poveri. Le imposte suggerite da questi
economisti furono rigorosamente progressive e si teorizzò la necessità dell’imposta di successione
sui beni pervenuti senza fatica. Gli economisti che aderivano a tale teoria volevano realizzare la
giustizia sociale e l’uguaglianza dei punti di partenza.
Nel ‘900 alcuni economisti prevalentemente scandinavi elaborano la teoria della finanza
congiunturale, secondo la quale il bilancio dello Stato deve essere usato per contrastare le
congiunture (situazioni) favorevoli o sfavorevoli del sistema economico.
Nei periodi di recessione e depressione lo Stato deve diminuire le imposte ed aumentare la spesa
pubblica; nei periodi di ripresa e boom/espansione lo Stato deve aumentare le imposte e
diminuire la spesa pubblica. In tal modo lo Stato attutisce gli effetti delle fasi del ciclo economico.
Le imposte scelte sono naturalmente progressive.
Dopo la crisi del ’29 si e nel secondo dopoguerra si affermano le idee di Keynes, che supportano la
teoria della finanza funzionale. Il bilancio dello Stato ha la funzione di realizzare determinati
obiettivi quali: l’aumento dell’occupazione, la lotta alla disoccupazione, il contenimento
dell’inflazione, lo sviluppo del sistema, la redistribuzione del reddito all’interno di politiche di
Welfare. Per far ciò, oltre a scegliere l’imposta progressiva, il bilancio può essere in deficit
attraverso l’emissione del debito pubblico. Lo Stato può spendere in deficit perché nel sistema
esiste un problema: la carenza della domanda globale (sfera malata del sistema economico).
Le componenti della domanda globale sono i Consumi e gli Investimenti più la Spesa Pubblica (G).
I consumi dipendono dal reddito e aumentano in modo meno che proporzionale all’aumentare del
reddito C(Y), mentre i risparmi S aumentano in modo più che proporzionale all’aumentare del
reddito.
In questi dati si nasconde la premessa per una crisi del sistema dovuta a carenza della domanda
per consumi (crisi di sottoconsumo).
Gli investimenti decisi dalle imprese dipendono in una relazione inversa dal tasso d’interesse (i) e
dalle aspettative degli imprenditori (animal spirits). Qualunque sia l’altezza del tasso d’interesse se
gli imprenditori sono pessimisti sul futuro non investiranno (il cavallo non beve: prova a prendere
un cavallo se vuoi alimentarlo e lo metti in una stalla con un ciotola di cibo, se non vuole mangiare
non mangia. Così come gli imprenditori che nonostante ci siano tassi di interesse molto bassi, se
hanno aspettative negative, non investono).
Esiste poi la trappola della liquidità.
La finanza funzionale ha quindi previsto un forte intervento della spesa pubblica (G) dello Stato a
sostegno di una domanda globale insufficiente. Lo Stato nei paesi Occidentali ha investito in
infrastrutture, scuole, ospedali, servizi sociali, realizzando in tal modo sia una redistribuzione del
reddito, sia il progetto di Welfare State.
La finanza funzionale entra in crisi negli anni ’80 perché la spesa pubblica diventa inefficiente e
costosa e il debito pubblico si autoalimenta, diventando insostenibile.
Si affermano così nuovamente idee che si rifanno al liberismo e che sono chiamate Neoliberiste.
I politici sostenitori di tale teoria sono Reagan negli USA e Thatcher in Gran Bretagna, mentre gli
economisti che la sostengono sono i monetaristi e gli economisti dell’offerta(supply side
economics). Le parole d’ordine sono: meno Stato, più mercato; smantellamento dello stato
sociale, ritorno al pareggio di bilancio (significa meno servizi per noi), deregulation.
Il neoliberismo si afferma come pensiero unico fino al 2007.
Nel 2007 con la crisi finanziaria, dovuta alla deregulation dei mercati, il sistema è andato in crisi.
Per rimediare alla crisi gli Stati Uniti hanno iniettato nel sistema massicce dosi di liquidità, salvando
le banche e in tal modo salvando l’economia.
L’intervento dello Stato è stato massiccio e lo potremmo definire “politica keynesiana” sui generis.
Nell’Unione Europea, invece, sono state mantenute politiche di Austerity e si è inseguito
l’obiettivo del pareggio di bilancio, che alcuni Stati, tra cui l’Italia, hanno inserito nella
Costituzione.
Un pensiero eccentrico rispetto ai pensieri neoliberista e postkeynesiano è quello di Mariana
Mazzucato, espresso nel suo libro “Lo Stato innovatore”, secondo la qualeL’attività finanziaria
dello Stato riveste un ruolo fondamentale per lo sviluppo del sistema economico.
Le istituzioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale hanno
inseguito il cosiddetto Washington Consensus, mantenendo a lungo una visione ultraliberista del
sistema economico internazionale.
APPUNTI A CURA DI Sara Marsico