Intervista a Paul Crutzen Antropocene: una nuova era geologica? di Paola Catapano Come si definisce un’era geologica? L’Olocene, tuttora in corso, fu introdotta dal grande geologo Charles Lyell nel 1833. Il suo inizio coincide con il termine dell’ultima glaciazione nell’emisfero settentrionale, circa 10mila anni fa. Ma, secondo il premio Nobel per la chimica nel 1995, la definizione è ormai superata e non descrive più l’era che stiamo vivendo. oxygen 04 – 07.2008 040 Antropocene: una nuova era geologica? È di Paul Crutzen il neologismo “Antropocene”, coniato d’impulso a una conferenza dell’Unione internazionale per le scienze geologiche (Iugs) nel 2000, quando percepì che la definizione di Olocene, caratterizzata da un clima “piacevole”, non si addiceva più a un’epoca dominata dalle attività di una sola specie, l’Homo sapiens, e caratterizzata dal suo impatto indelebile sul pianeta. Superato lo shock iniziale del mondo accademico, la definizione (che ha persino un’entry in wikipedia e 42mila hits su Google) è ormai di uso comune tra specialisti e non, e sarà sottoposta al vaglio della Iugs, in una riunione ad hoc durante il prossimo Congresso geologico internazionale a Oslo, ad agosto, per decidere se battezzare ufficialmente la nostra era “Antropocene”. Professor Crutzen, perché “Antropocene”? Per sottolineare il ruolo centrale che l’umanità ha assunto nella geologia e nell’ecologia. Durante l’Olocene, siamo diventati una forza geologica e morfologica significativa. L’impatto umano sull’ambiente ha superato quello della natura stessa. Quando è cominciata questa nuova era geologica? Direi verso la fine del diciottesimo secolo, quando gli effetti dell’attività umana hanno cominciato a diventare visibili. Ce lo dicono, ad esempio, i dati ottenuti dall’atmosfera imprigionata nelle carote glaciali, dove si vede chiaramente un inizio di crescita di diversi gas serra, in particolare CO2 e CH4 (metano). Il periodo coincide con l’invenzione del motore a vapore di James Watt. Oggi viviamo la fase più avanzata dell’Antropocene: siamo arrivati a modificare la composizione chimica dell’atmosfera. Quali sono le caratteristiche di questa fase dell’Antropocene? Dall’inizio del diciannovesimo secolo è in corso una “grande accelerazione”, che sembra inarrestabile su tutti i fronti. Negli ultimi duecento anni l’aumento demografico è decuplicato portando la popolazione mondiale a superare i sei miliardi di persone, con un incremento di fattore quattro nel solo ventunesimo secolo. Il bestiame ha raggiunto i quattordici milioni di capi: una mucca per famiglia, il quadruplo rispetto a un secolo fa. L’urbanizzazione ha visto una crescita di fattore dieci, e metà della popolazione umana vive in città e megalopoli. La produzione industriale è aumentata di quaranta volte e il consumo energetico di sedici. Quasi il 50% della superficie terrestre è stata trasformata da attività umane. L’uso dell’acqua ha raggiunto gli 800 metri cubi pro capite l’anno, un aumento di nove volte. Il pescato è aumentato di quaranta volte. Le emissioni di SO2 (160 Tg/anno globalmente) da combustibili fossili sono almeno il doppio della somma di tutte le emissioni naturali; l’aumento è stato di almeno sette volte, e le conseguenze gravi: piogge acide, malattie, riduzione della visibilità e cambiamenti climatici. Le emissioni di ossido di azoto nell’atmosfera provenienti da combustibili fossili e dalla combustione di biomasse sono superiori a quelle naturali. Le concentrazioni di molti gas serra sono aumentate sostanzialmente: la CO2 del 30%, il CH4 di oltre il 100%. Si stima che il tasso di estinzione di specie animali sia tra le 100 e le 100mila volte quello dell’epoca pre-umana. L’uomo provoca anche mutazioni evoluzionistiche in altre specie, attraverso antibiotici e pesticidi, con costi che vanno dai 33 ai 50 miliardi di dollari negli Stati Uniti. L’erosione provocata dall’uomo ha raggiunto i 24 metri per milione di anni, quindici volte superiore al tasso di erosione naturale. Di questo passo, l’erosione del suolo di natura antropogenica riempirebbe il Gran Canyon nel giro di mezzo secolo. Sono dati incontrovertibili! Eppure non bastano a convincere i circoli degli scettici del riscaldamento globale, che annoverano anche alcuni scienziati. Ci sono diverse categorie di scienziati. Quelli che non hanno alcun dubbio sulle emergenze del riscaldamento globale e sulla necessità di un’azione immediata; quelli che negano questa necessità perché non credono al potere predittivo dei modelli e quelli che hanno una posizione intermedia. Personalmente, sono per un’azione immediata, pur riconoscendo alcuni difetti sulla capacità predittiva dei modelli, dovuti principalmente alla nostra (ancora) scarsa conoscenza del ruolo delle nubi e del ciclo dell’acqua sul clima. Ho contribuito a diverse edizioni del rapporto Ipcc sul riscaldamento globale e condivido appieno le conclusioni di quello del 2007, che prevede, se continueremo di questo passo, “un aumento delle temperature medie in superficie da 2 a 4,5 °C entro il 2100 e un aumento del livello del mare tra 19 e 18 cm. Questo comporterà una ridistribuzione delle precipitazioni e un rischio di condizioni climatiche estreme, come inondazioni e desertificazione”. Sono cambiamenti climatici troppo rapidi rispetto alla capacità di adattamento degli ecosistemi. E la mancanza di azioni politiche decisive è deludente. Eppure il passato ci insegna che le cose possono andare peggio di quanto ci si aspetti. Si riferisce alla scoperta del buco nell’ozono? Certo. L’assottigliamento dello strato di ozono nell’atmosfera fu una vera sorpresa, anche per la comunità scientifica. All’inizio degli anni settanta fu sottovalutato, anche perché la nostra conoscenza della stratosfera era ancora molto scarsa, al punto da essere denominata “ignorosfera”! Il mio contributo alla scoperta, che è poi stata coronata dal Nobel per la chimica per me e i colleghi Molina e Rowland nel 1995, è stato l’interesse per la chimica della stratosfera. Tale interesse fu scatenato da un rapporto del Mit sull’impatto delle grandi flotte stratosferiche di aerei supersonici, come il Concorde. Paragonando i dati del rapporto sulle emissioni di NOx con il ruolo catalitico di questo elemento sulla distruzione dello strato di ozono (da me proposto nel 1970), capii subito che questi voli rappresentavano una minaccia globale per l’ambiente. E invece il rapporto del Mit concludeva che “il ruolo diretto dei gas CO, CO2, NO, NO2, SO2 e degli idrocarburi nell’alterazione del bilancio termico è piccolo. È inoltre improbabile che il loro ruolo nella fotochimica dell’ozono sia significativo quanto il vapore acqueo”. La mia indignazione di fronte a una simile dichiarazione fu incontenibile. Scrissi “Idiots!” a margine del testo e decisi di approfondire i miei studi sulla chimica degli ossidi di azoto nella stratosfera. E così scoprii che l’ossido di azoto, che nella troposfera fabbrica ozono, arrivato nella stratosfera lo distrugge per ossidazione. Si tratta della stessa molecola, che svolge però processi opposti se si trova nella stratosfera o nella troposfera. Nel frattempo Mario Molina e Sherwood Rowland dimostrarono come certi gas serra non tossici e tipicamente innocui, i clorofluorocarburi (cfc), si scompongono sotto l’effetto dei raggi ultravioletti nella stratosfera, liberando cloro e bromo altamente reattivi, che distruggono l’ozono atmosferico. Poi, nel 1985, il British antarctic survey documentò perdite di ozono incredibilmente rapide in primavera sopra l’Antartide: il famoso “buco”. Queste misure confermarono il ruolo catalitico dell’ossido di azoto nella chimica stratosferica dell’ozono e il ruolo del clima freddo e secco nel catalizzare concentrazioni abnormi di cloro, strettamente correlate al ra- 041 oxygen 04 – 07.2008 042 pido declino delle concentrazioni di ozono. Nonostante la correlazione chiarissima di causa-effetto, questi risultati furono messi in dubbio. Nessuno si aspettava che la perdita maggiore di ozono avvenisse proprio nel posto più lontano dal rilascio dei cfc. Sono passati vent’anni tra la scoperta e il bando sull’uso dei cfc. Purtroppo, a causa della longevità dei cfc, il buco nell’ozono continuerà a formarsi ogni primavera sopra l’Antartide, e anche al Polo Nord nelle stagioni particolarmente fredde, almeno per i prossimi cinquant’anni. È possibile che la stessa cosa accada con il riscaldamento globale. Quali sono gli ostacoli che ritardano un bando globale ed efficace sulla CO2 e gli altri gas serra? Il “buco del clima” è un problema ben più complesso del buco nell’ozono. Il successo del bando sui cfc è dovuto principalmente al fatto che è stato facile sostituire in tempi rapidi queste sostanze con prodotti simili e inoffensivi per lo strato di ozono. La lotta contro il cambiamento climatico invece mette in gioco i pilastri delle nostre economie: i combustibili fossili. Per stabilizzare le immissioni di CO2, principale responsabile dell’effetto serra, bisognerebbe ridurre l’attuale uso di combustibili fossili del 60%, il che sembra poco realistico con oltre l’80% della popolazione che vive in povertà. Tuttavia, è inutile essere pessimisti e guardare al futuro in modo totalmente negativo. Dobbiamo riuscire a produrre energia in modo sostenibile. Come? Non sono un esperto di energia, e la centrale Federico II di Enel a Brindisi è la prima centrale di produzione energetica che io abbia mai visitato. Sono rimasto molto colpito. L’approccio di Enel è quello giusto per far fronte al dilemma in cui ci troviamo oggi, in assen- za di tecnologie miracolo e con la necessità di fornire energia quotidianamente: produrre in modo efficiente, minimizzando le emissioni e massimizzando il riciclo dei residui di produzione. E, allo stesso tempo, dedicare una buona parte delle risorse aziendali alla ricerca e allo sviluppo di forme di energia a emissione zero, come la cattura della CO2, che Enel sta sperimentando. Ma produrre in modo sostenibile non è “la” soluzione. A differenza dei cfc, non esiste una soluzione definitiva perché non esistono sostituti innocui per la produzione di energia. Bisogna agire su tutti i fronti e subito: ridurre le emissioni, ridurre i consumi, riciclare e investire molto in ricerca e sviluppo di forme di energia che non emettono gas serra, in particolare il solare. Qual è il suo contributo alla soluzione di questo problema globale? I miei studi sono sempre incentrati sul cambiamento climatico. Sto lavorando alla possibilità di raffreddare il clima globale immettendo nella stratosfera particelle di solfato – un milione di tonnellate di zolfo, con palloni aerostatici lanciati dai tropici – che diradino la radiazione raffreddando l’atmosfera. Questi composti vengono bruciati nella stratosfera in modo da ottenere biossido di zolfo, che ha un effetto “raffreddante” per oltre un anno. Sembra fantascienza, ma in realtà è già successo in natura. L’eruzione del Pinatubo del 1991 ha dimostrato il principio: i dieci milioni di tonnellate di zolfo eruttati dal vulcano hanno raffreddato la temperatura media terrestre di mezzo grado per un anno dopo l’eruzione. Dobbiamo ancora studiare tutti gli altri effetti di questa tecnica di geo-ingegneria sul clima, oltre al raffreddamento. Ma data la difficoltà che abbiamo a ridurre le emissioni di gas serra, potrebbe rivelarsi come l’ultima spiaggia. Speriamo però che non sia necessario. 043