Antropocene: una nuova era geologica?

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Intervista a Paul Crutzen
Antropocene:
una nuova era
geologica?
di Paola Catapano
Come si definisce un’era geologica? L’Olocene, tuttora in corso, fu introdotta dal grande
geologo Charles Lyell nel 1833. Il suo inizio coincide con il termine dell’ultima glaciazione
nell’emisfero settentrionale, circa 10mila anni fa. Ma, secondo il premio Nobel per la chimica
nel 1995, la definizione è ormai superata e non descrive più l’era che stiamo vivendo.
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Antropocene: una nuova era geologica?
È di Paul Crutzen il neologismo “Antropocene”, coniato d’impulso a una conferenza dell’Unione internazionale per
le scienze geologiche (Iugs) nel 2000,
quando percepì che la definizione di
Olocene, caratterizzata da un clima
“piacevole”, non si addiceva più a un’epoca dominata dalle attività di una sola
specie, l’Homo sapiens, e caratterizzata
dal suo impatto indelebile sul pianeta.
Superato lo shock iniziale del mondo
accademico, la definizione (che ha persino un’entry in wikipedia e 42mila hits
su Google) è ormai di uso comune tra
specialisti e non, e sarà sottoposta al vaglio della Iugs, in una riunione ad hoc
durante il prossimo Congresso geologico internazionale a Oslo, ad agosto, per
decidere se battezzare ufficialmente la
nostra era “Antropocene”.
Professor Crutzen,
perché “Antropocene”?
Per sottolineare il ruolo centrale che l’umanità ha assunto nella geologia e nell’ecologia. Durante l’Olocene, siamo diventati una forza geologica e morfologica significativa. L’impatto umano
sull’ambiente ha superato quello della
natura stessa.
Quando è cominciata questa nuova
era geologica?
Direi verso la fine del diciottesimo secolo, quando gli effetti dell’attività umana
hanno cominciato a diventare visibili.
Ce lo dicono, ad esempio, i dati ottenuti dall’atmosfera imprigionata nelle carote glaciali, dove si vede chiaramente
un inizio di crescita di diversi gas serra,
in particolare CO2 e CH4 (metano). Il periodo coincide con l’invenzione del motore a vapore di James Watt. Oggi viviamo la fase più avanzata dell’Antropocene: siamo arrivati a modificare la
composizione chimica dell’atmosfera.
Quali sono le caratteristiche
di questa fase dell’Antropocene?
Dall’inizio del diciannovesimo secolo è
in corso una “grande accelerazione”,
che sembra inarrestabile su tutti i fronti. Negli ultimi duecento anni l’aumento demografico è decuplicato portando
la popolazione mondiale a superare i
sei miliardi di persone, con un incremento di fattore quattro nel solo ventunesimo secolo. Il bestiame ha raggiunto
i quattordici milioni di capi: una mucca
per famiglia, il quadruplo rispetto a un
secolo fa. L’urbanizzazione ha visto una
crescita di fattore dieci, e metà della popolazione umana vive in città e megalopoli. La produzione industriale è aumentata di quaranta volte e il consumo
energetico di sedici. Quasi il 50% della
superficie terrestre è stata trasformata
da attività umane. L’uso dell’acqua ha
raggiunto gli 800 metri cubi pro capite
l’anno, un aumento di nove volte. Il pescato è aumentato di quaranta volte. Le
emissioni di SO2 (160 Tg/anno globalmente) da combustibili fossili sono almeno il doppio della somma di tutte le
emissioni naturali; l’aumento è stato di
almeno sette volte, e le conseguenze
gravi: piogge acide, malattie, riduzione
della visibilità e cambiamenti climatici.
Le emissioni di ossido di azoto nell’atmosfera provenienti da combustibili
fossili e dalla combustione di biomasse
sono superiori a quelle naturali. Le concentrazioni di molti gas serra sono aumentate sostanzialmente: la CO2 del
30%, il CH4 di oltre il 100%. Si stima che
il tasso di estinzione di specie animali
sia tra le 100 e le 100mila volte quello
dell’epoca pre-umana. L’uomo provoca
anche mutazioni evoluzionistiche in altre specie, attraverso antibiotici e pesticidi, con costi che vanno dai 33 ai 50 miliardi di dollari negli Stati Uniti. L’erosione provocata dall’uomo ha raggiunto
i 24 metri per milione di anni, quindici
volte superiore al tasso di erosione naturale. Di questo passo, l’erosione del
suolo di natura antropogenica riempirebbe il Gran Canyon nel giro di mezzo
secolo. Sono dati incontrovertibili!
Eppure non bastano a convincere
i circoli degli scettici del riscaldamento
globale, che annoverano anche
alcuni scienziati.
Ci sono diverse categorie di scienziati.
Quelli che non hanno alcun dubbio sulle emergenze del riscaldamento globale
e sulla necessità di un’azione immediata; quelli che negano questa necessità
perché non credono al potere predittivo
dei modelli e quelli che hanno una posizione intermedia. Personalmente, sono
per un’azione immediata, pur riconoscendo alcuni difetti sulla capacità predittiva dei modelli, dovuti principalmente alla nostra (ancora) scarsa conoscenza del ruolo delle nubi e del ciclo
dell’acqua sul clima. Ho contribuito a
diverse edizioni del rapporto Ipcc sul riscaldamento globale e condivido appieno le conclusioni di quello del 2007, che
prevede, se continueremo di questo
passo, “un aumento delle temperature
medie in superficie da 2 a 4,5 °C entro
il 2100 e un aumento del livello del mare tra 19 e 18 cm. Questo comporterà
una ridistribuzione delle precipitazioni
e un rischio di condizioni climatiche
estreme, come inondazioni e desertificazione”. Sono cambiamenti climatici
troppo rapidi rispetto alla capacità di
adattamento degli ecosistemi. E la
mancanza di azioni politiche decisive è
deludente. Eppure il passato ci insegna
che le cose possono andare peggio di
quanto ci si aspetti.
Si riferisce alla scoperta del buco
nell’ozono?
Certo. L’assottigliamento dello strato di
ozono nell’atmosfera fu una vera sorpresa, anche per la comunità scientifica. All’inizio degli anni settanta fu sottovalutato, anche perché la nostra conoscenza della stratosfera era ancora
molto scarsa, al punto da essere denominata “ignorosfera”! Il mio contributo
alla scoperta, che è poi stata coronata
dal Nobel per la chimica per me e i colleghi Molina e Rowland nel 1995, è stato l’interesse per la chimica della stratosfera. Tale interesse fu scatenato da un
rapporto del Mit sull’impatto delle
grandi flotte stratosferiche di aerei supersonici, come il Concorde. Paragonando i dati del rapporto sulle emissioni di NOx con il ruolo catalitico di questo
elemento sulla distruzione dello strato
di ozono (da me proposto nel 1970), capii subito che questi voli rappresentavano una minaccia globale per l’ambiente. E invece il rapporto del Mit concludeva che “il ruolo diretto dei gas CO, CO2,
NO, NO2, SO2 e degli idrocarburi nell’alterazione del bilancio termico è piccolo.
È inoltre improbabile che il loro ruolo
nella fotochimica dell’ozono sia significativo quanto il vapore acqueo”. La mia
indignazione di fronte a una simile dichiarazione fu incontenibile. Scrissi
“Idiots!” a margine del testo e decisi di
approfondire i miei studi sulla chimica
degli ossidi di azoto nella stratosfera. E
così scoprii che l’ossido di azoto, che
nella troposfera fabbrica ozono, arrivato nella stratosfera lo distrugge per ossidazione. Si tratta della stessa molecola,
che svolge però processi opposti se si
trova nella stratosfera o nella troposfera. Nel frattempo Mario Molina e
Sherwood Rowland dimostrarono come
certi gas serra non tossici e tipicamente innocui, i clorofluorocarburi (cfc), si
scompongono sotto l’effetto dei raggi
ultravioletti nella stratosfera, liberando
cloro e bromo altamente reattivi, che distruggono l’ozono atmosferico. Poi, nel
1985, il British antarctic survey documentò perdite di ozono incredibilmente rapide in primavera sopra l’Antartide:
il famoso “buco”. Queste misure confermarono il ruolo catalitico dell’ossido
di azoto nella chimica stratosferica dell’ozono e il ruolo del clima freddo e secco nel catalizzare concentrazioni abnormi di cloro, strettamente correlate al ra-
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pido declino delle concentrazioni di
ozono. Nonostante la correlazione chiarissima di causa-effetto, questi risultati
furono messi in dubbio. Nessuno si
aspettava che la perdita maggiore di
ozono avvenisse proprio nel posto più
lontano dal rilascio dei cfc. Sono passati vent’anni tra la scoperta e il bando
sull’uso dei cfc. Purtroppo, a causa della longevità dei cfc, il buco nell’ozono
continuerà a formarsi ogni primavera
sopra l’Antartide, e anche al Polo Nord
nelle stagioni particolarmente fredde,
almeno per i prossimi cinquant’anni. È
possibile che la stessa cosa accada con
il riscaldamento globale.
Quali sono gli ostacoli che ritardano
un bando globale ed efficace sulla CO2
e gli altri gas serra?
Il “buco del clima” è un problema ben
più complesso del buco nell’ozono. Il
successo del bando sui cfc è dovuto
principalmente al fatto che è stato facile sostituire in tempi rapidi queste sostanze con prodotti simili e inoffensivi
per lo strato di ozono. La lotta contro il
cambiamento climatico invece mette in
gioco i pilastri delle nostre economie: i
combustibili fossili. Per stabilizzare le
immissioni di CO2, principale responsabile dell’effetto serra, bisognerebbe ridurre l’attuale uso di combustibili fossili del 60%, il che sembra poco realistico
con oltre l’80% della popolazione che vive in povertà. Tuttavia, è inutile essere
pessimisti e guardare al futuro in modo
totalmente negativo. Dobbiamo riuscire a produrre energia in modo sostenibile.
Come?
Non sono un esperto di energia, e la
centrale Federico II di Enel a Brindisi è
la prima centrale di produzione energetica che io abbia mai visitato. Sono rimasto molto colpito. L’approccio di
Enel è quello giusto per far fronte al dilemma in cui ci troviamo oggi, in assen-
za di tecnologie miracolo e con la necessità di fornire energia quotidianamente: produrre in modo efficiente, minimizzando le emissioni e massimizzando il riciclo dei residui di produzione. E,
allo stesso tempo, dedicare una buona
parte delle risorse aziendali alla ricerca
e allo sviluppo di forme di energia a
emissione zero, come la cattura della
CO2, che Enel sta sperimentando.
Ma produrre in modo sostenibile non è
“la” soluzione. A differenza dei cfc, non
esiste una soluzione definitiva perché
non esistono sostituti innocui per la
produzione di energia. Bisogna agire su
tutti i fronti e subito: ridurre le emissioni, ridurre i consumi, riciclare e investire molto in ricerca e sviluppo di forme
di energia che non emettono gas serra,
in particolare il solare.
Qual è il suo contributo alla soluzione
di questo problema globale?
I miei studi sono sempre incentrati sul
cambiamento climatico. Sto lavorando
alla possibilità di raffreddare il clima
globale immettendo nella stratosfera
particelle di solfato – un milione di tonnellate di zolfo, con palloni aerostatici
lanciati dai tropici – che diradino la radiazione raffreddando l’atmosfera.
Questi composti vengono bruciati nella
stratosfera in modo da ottenere biossido di zolfo, che ha un effetto “raffreddante” per oltre un anno. Sembra fantascienza, ma in realtà è già successo in
natura. L’eruzione del Pinatubo del
1991 ha dimostrato il principio: i dieci
milioni di tonnellate di zolfo eruttati dal
vulcano hanno raffreddato la temperatura media terrestre di mezzo grado per
un anno dopo l’eruzione.
Dobbiamo ancora studiare tutti gli altri
effetti di questa tecnica di geo-ingegneria sul clima, oltre al raffreddamento.
Ma data la difficoltà che abbiamo a ridurre le emissioni di gas serra, potrebbe
rivelarsi come l’ultima spiaggia. Speriamo però che non sia necessario.
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