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Il dolore
sfazione di bisogni continuamente rinascenti. In questo
intreccio di infinità e finitezza, di libertà e necessità, di
autonomia e dipendenza, di
superiorità ontologica e di
vulnerabilità, risiede la possibilità, ma anche la necessità
del dolore, come realtà costitutiva della vita e da essa indissociabile.
Per rendere pensabile concettualmente questa condizione
complessa, Hegel fa ricorso
alla nozione di contraddizione: quella tra l’infinità della
L’etica delle virtù
Matteo Galletti
Filosofo, dottorando in Bioetica,
Università di Bologna
N
che al cospetto di problemi
“nuovi” e “complessi” come
quelli della bioetica si debba
abbandonare ogni pretesa di
normatività: in primo luogo,
il pluralismo etico è un dato
di fatto che contraddistingue
gli approcci alle questioni di
vita e di morte e non può essere soffocato da alcuna teoria morale che imponga a tutte e a tutti un modello o più
modelli di vita e, in secondo
luogo, l’esperienza morale e
la scelta, soprattutto nei casi
tragici che sempre più spesso
caratterizzano le nostre modalità di nascita e di morte,
presentano un grado di complessità e caratteristiche così
variabili da caso a caso che
non può esistere un algoritmo da calcolare per giungere
alla “soluzione corretta” per
ogni singola, particolare situazione.
Al di là di queste sfumature,
che qui non intendiamo approfondire, un punto su cui
hanno più volte insistito questi nuovi approcci ai problemi
bioetici riguarda la discussa
pretesa di imparzialismo del-
egli ultimi decenni, sono comparsi molti scritti volti a criticare e
mettere in discussione gli approcci filosofici più consolidati ai problemi della bioetica
nell’ambito della filosofia morale di lingua inglese; un numero sempre crescente di autori ha cercato di mettere in
luce quali fossero le difficoltà
e i limiti di teorie morali come
l’utilitarismo o il deontologismo, sottolineando soprattutto due segni di insufficienza.
Da una parte, la loro inadeguatezza nel descrivere la
realtà dell’esperienza morale,
molto più complessa di quanto esse stesse non pretendono
e, dall’altra, la loro incapacità
di fornire risposte adeguate ai
dilemmi morali che sorgono
in aree delicatissime della vita umana. Per riassumere, utilitarismo e deontologismo
non riuscirebbero né a descrivere in senso compiuto quali
sono le aree di criticità morale
né a prescrivere le soluzioni a
queste criticità.
Anzi, molta letteratura filosofica punta proprio sull’idea
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vita stessa e la particolarità
finita del singolo vivente.
Contraddizione ben reale, anzi radicata nella fisicità del
vivente, il quale la sperimenta
su di sé, sotto forma di dolore. E una volta tanto l’uso di
questa controversa nozione
non suona, come spesso accade nella filosofia hegeliana,
equivoco o retorico, ma anzi
concreto e preciso: “C’è chi dice che la contraddizione non
si può pensare: ma essa, nel
dolore del vivente, è piuttosto
un’esistenza reale” (II,874).
l’utilitarismo e del deontologismo, cioè l’idea che i dilemmi morali possono essere risolti soltanto facendo riferimento ad una prospettiva che
astragga dalle relazioni e dalle situazioni particolari, elimini ogni parzialità e giunga
a conclusioni (razionali) che,
contemplando gli interessi di
tutti coloro che sono coinvolti ma non favorendone alcuno, possono vincolare chiunque. Così davanti ad una scelta difficile basta calcolare l’utilità delle conseguenze che
ogni corso di azione produce
e scegliere quello che garantisce un tasso più alto di utilità per tutti o in media ecc.;
oppure basta fare riferimento
a quelli che sono i doveri o i
diritti in gioco e capire quale
sia in quella situazione il dovere o il diritto che prevale
(Botti 2000).
La critica dell’imparzialismo
come caratteristica distintiva
di ciò che la morale dovrebbe
essere ha ridato lustro ad un
approccio che, secondo la tradizionale lettura della storia
della filosofia morale, ha conosciuto un declino progressivo nel periodo che all’incirca va da S. Tommaso d’Aquino
agli anni ’50 del XXI secolo:
l’etica delle virtù.
Riabilitata da alcuni insigni
filosofi, tra i quali Elizabeth
Anscombe (1958), Philippa
Foot (1978), Alasdair MacIntyre (1988), Martha Nussbaum (1993), l’etica delle
virtù ha conquistato oggi il
rango di teoria morale concorrente di utilitarismo e
deontologismo, sebbene molti
critici insistano sul fatto che
non esiste una vera e propria
“teoria” ma si possano trovare in questi autori soltanto riflessioni filosofiche frammentarie e prive di reale sistematicità. Alla luce di quanto si è
detto all’inizio del paragrafo
sulla desiderabilità della teoria in morale, forse questo
aspetto non costituisce propriamente un difetto, anche
se l’esigenza di dare spazio
all’interno di una teoria delle
virtù a concetti come “guida
morale” e “giustificazione” è
ben presente in alcuni autori
(Khilbom 2000).
La bioetica non ha tardato ad
appropriarsi delle virtù non
soltanto come strumento di
critica degli approcci imparzialistici ai dilemmi etici in
campo biomedico, ma anche
per denunciare i limiti e le
difficoltà della pratica medica nell’età tecnologica, soprattutto in relazione al rapporto medico-paziente. Come
ha scritto Diego Gracia
(1990), la rivendicazione
(giusta) dei diritti dei pazienti e della loro autodeterminazione, la sempre crescente in-
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vadenza della tecnologia nella conservazione della vita, la
limitatezza delle risorse sanitarie e la richiesta di universalismo nella distribuzione
delle cure sono fattori che,
oltre ad aspetti decisamente
positivi, hanno fatto emergere anche elementi di criticità
nel modo di rapportarsi del
personale sanitario rispetto
ai pazienti. I nuovi conflitti
(dettati anche dai significati
plurimi assunti dalla nozione
di “bene del paziente”) sono
il risultato del generale cambiamento della struttura
“verticale” medico-paziente
tradizionalmente strutturata
secondo il principio di beneficialità; inoltre, come sottolinea Gracia, anche la “mediazione” tra medico e paziente
costituita dal ruolo della tecnologia è uno dei fatti che ha
contribuito al mutamento
dello scenario. La specializzazione della ricerca medica e
conseguentemente degli atti
diagnostico-terapeutici ha
reso vetusta l’idea che la relazione si dia tra il medico e il
paziente, dato che oramai essa si svolge tra più figure di
cura e il paziente. A questa
panoramica si possono aggiungere anche la burocratizzazione di molti aspetti della
relazione (si pensi solo alla
riduzione del consenso informato a firma di un modulo da
parte del paziente), in parte
derivante dalla “giuridificazione” della relazione stessa
(Sage 2001) e ai tempi delle
istituzioni ospedaliere, sempre più compressi e frenetici.
Sebbene queste considerazioni abbiano un carattere generalizzante che non rende giustizia a quanto effettivamente accade in corsie e in repar-
ti e al modo in cui la classe
dei professionisti sanitari interpreta il proprio ruolo, esse
possono suggerire alcuni rischi effettivi in cui può scivolare la prassi clinica. Contro questi pericoli, la riscoperta di una modalità di relazione che non sia improntata
al paternalismo medico, ma
che nemmeno preveda la
fredda applicazione delle tecniche alla patologia né una
burocratizzazione dell’incontro tra il malato e lo staff di
professionisti sanitari, si è
saldamente ancorata a quegli
approcci che possono essere
ricompresi sotto l’etichetta di
“etica della cura”.
Ma si capisce bene che anche
l’etica delle virtù può avere il
suo spazio all’interno di quella che a volte è stata chiamata esigenza di umanizzazione
della pratica medica (Lovera
1999). L’etica delle virtù sposta l’attenzione dai criteri per
definire quale sia l’azione
giusta al carattere e alle qualità morali dei soggetti che
compiono l’azione, cioè alle
disposizioni che un agente
virtuoso possiede rispetto alle varie situazioni in cui si
trova. Come spesso si suole
riassumere, mentre l’etica
“tradizionale” ritiene che la
domanda fondamentale della
moralità sia “Cosa debbo fare?”, l’etica delle virtù tenta
invece di dare una risposta
all’interrogativo: “Che tipo di
persona dovrei essere?”. Al
centro di questo approccio
non sta quindi l’azione moralmente giusta o moralmente corretta, ma l’agente moralmente buono. Per il nostro
ambito allora una “bioetica
delle virtù” avrà il compito di
delineare quale sia il modello
di “buon medico” (o di buona
équipe sanitaria, in ragione
della pluralità delle persone
addette alla cura del paziente) nell’età della tecnologia e
della burocrazia. Chiaramente
esistono vari esempi di bioetica delle virtù. Ad esempio
Rosalynd Hursthouse (1995),
muovendosi nella tradizione
classica della teoria morale
novecentesca, ha applicato
una particolare versione di
teoria delle virtù a casi concreti; Edmund Pellegrino e
David Thomasma (1993) hanno tentato di unire riflessioni
di filosofia della medicina e
di etica delle virtù in medicina basandosi prinicipalemente su un intreccio di ippocratismo e teleologismo aristotelico; Hans-Georg Gadamer ha
applicato il concetto di saggezza pratica (phronesis) alla
medicina, secondo un paradigma che coniuga emeneutica e filosofia pratica aristotelica (Gadamer 1994; Svenaeus
2003).
In quello che segue non proporremo né una ricognizione
sulle teorie delle virtù che
hanno avuto maggiore successo nell’ambito dell’etica
medica, né tenteremo di sviluppare un approccio sistematico basato sulle virtù, ma
avanzeremo alcune osservazioni di carattere generale,
propedeutiche ad un eventuale approfondimento di tale prospettiva.
La bioetica di fine vita affronta solitamente il problema del dolore in relazione alla fase terminale di una malattia mortale, in cui non è
più possibile incidere sull’esito della patologia ma si
può ancora aumentare la
“qualità della vita” del pa-
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ziente, cercando di intervenire sulla sintomatologia del
dolore e sui bisogni globali
della persona. Si sostiene così che la filosofia sottesa alle
cosiddette “cure palliative”
costituisce il giusto antidoto
alla spersonalizzazione della
medicina a cui si è accennato, in quanto sposta l’attenzione dalla malattia alla persona che non è più un oggetto da curare ma un individuo
concreto di cui prendersi cura. Sicuramente l’idea del
prendersi cura possiede tratti nobili.
Recentemente il filosofo Alasdair MacIntyre (2001) ha
messo in luce come la storia
della filosofia morale abbia
sempre messo al centro della
riflessione l’agente morale
autonomo, trascurando i casi
(e le fasi della vita) in cui
l’essere umano è vulnerabile,
sofferente. Occorre invece
reintrodurre all’interno del
pensiero filosofico la figura
dell’essere umano vulnerabile, sofferente e in ragione di
ciò dipendente dagli altri.
Sebbene lo sviluppo e la crescita degli individui siano secondo MacIntyre contraddistinti dal progressivo tentativo di uscire dalla dipendenza
per acquisire l’indipendenza,
il raggiungimento di una
completa autonomia che renda inessenziale il contributo
e il sostegno degli altri (e
perciò le relazioni con le persone che ci circondano), è
un’illusione. Di fatto la nostra
vita è caratterizzata dalla
provenienza dalla e dal ritorno alla dipendenza, in quanto siamo animali soggetti ad
un necessario ciclo biologico.
È necessario quindi riconoscere la dipendenza non co-
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me una condizione “di passaggio” ma come una caratteristica che segna la vita umana al suo inizio e alla sua fine; e significa anche riconoscere le virtù ad essa associate, come la virtù di sentire la
sofferenza e il disagio altrui e
generosamente cercare di dare ad essi sollievo in modo disinteressato.
Allora l’ideale di “buon medico” diviene quello di colui
che riesce a concentrarsi sulla
qualità del paziente, cioè sul
controllo del dolore, sui bisogni della persona, sull’eliminazione di tutti i fattori che
arrecano disagio.
La raccomandabilità di questo
ideale è così evidente che
molto spesso si auspica un’applicazione della filosofia stessa che ispira le cure palliative
fin dal momento della comunicazione della diagnosi. È in
questa ottica che si parla
(forse impropriamente) di
“umanizzazione della medicina”: la riscoperta di un’attenzione verso la totalità della
persona può essere l’antidoto
efficace della spersonalizzazione a cui può essere soggetta la pratica medica. Come ha
sostenuto Marx Wartofsky
(1985, p. 194), il linguaggio
delle virtù e quello di una medicina che si occupa prima
delle patologie che delle persone malate sono incompatibili: “[…] ‘l’ernia della stanza
409’ o ‘l’infarto nella corsia di
emergenza’ sono l’oggetto
della benevolenza medica in
un modo che mette a dura
prova la concezione tradizionale di questa virtù”.
Tuttavia, se è auspicabile che
la filosofia della medicina
palliativa si incontri con l’etica delle virtù per estendersi a
tutto l’iter terapeutico, la figura del “buon medico” può
nascondere il potenziale pericolo di trasformarsi in mera
retorica, in una visione idilliaca delle professioni sanitarie, nell’ idealizzazione idealistica e romantica del medico
di campagna dei bei tempi
andati e di una relazione medico-paziente in cui tutti i
nodi problematici sono sciolti
e tutti i dilemmi sono facilmente risolti. Una tale idealizzazione non solo cela i
conflitti reali della relazione
terapeutica ma oscura anche
l’onere emotivo e psicologico
che ogni professionista della
cura deve affrontare quando
si trova quotidianamente a
confronto con la sofferenza,
la terminalità e la morte.
Propongo che l’ideale del
buon medico comporti ed includa non solo la virtù della
benevolenza (o della compassione, come la chiamano
Beauchamp e Childress (1999,
pp. 452-4), o della cura nel
senso di care) ma anche la
virtù della “moderazione”, intendendosi con questa la capacità e la disposizione a riconoscere ed accettare il limite
entro il quale gli sforzi di cura
(nel senso di cure) possono
essere esercitati, senza per
questo abbandonare a se stesso il paziente.
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La capacità di unire benevolenza (o care) e moderazione
può richiedere uno sforzo notevole nell’ambito del passaggio dal curare al prendersi cura al personale sanitario. Per
capire cosa si intende, occorre
introdurre un’altra nozione,
cara ai teorici delle virtù, cioè
la nozione di “integrità” o
“identità” morale. Ogni agente, che si trovi ad operare sul
mondo, possiede una propria
identità morale, un proprio
ideale di integrità, un’immagine di sé costruita in base agli
impegni, ai progetti, agli ideali che egli intende mettere in
pratica e che danno senso a
questo suo “fare”. L’integrità
può essere considerata al tempo stesso come risultato del
nostro agire e come un presupposto del nostro tentativo
di dare coerenza a quello che
facciamo (cioè l’ideale di persona che vorremmo essere).
Molto spesso l’agente morale
che viene meno a certi doveri
non trasgredisce semplicemente una norma, ma agisce
contro la propria identità morale e le sue azioni hanno conseguenze non solo “esterne”
ma anche “interne”, in termini di sentimenti ed emozioni
provati dall’agente stesso
(Beauchamp e Childress 1999,
pp. 456-60; Halfon 1989).
L’onere emotivo e psicologico
nella fase terminale deriva dal
fatto che la virtù della moderazione richiede la consapevolezza di dovere arretrare la
propria azione, di fuggire da
sentimenti di “onnipotenza
terapeutica” (Jankovic 2004)
e di evitare la tentazione dell’accanimento sul paziente ma
anche di rinunciare alla propria azione curativa, di spostare l’obiettivo dalla salute
alla qualità della vita; l’identità morale può quindi dovere
subire una sua ridefinizione
nel momento in cui si verifica
questo passaggio. È un aspetto, questo, da non sottovalutare, ma a cui si può rispondere tramite la formazione professionale, che deve riuscire a
ridefinire il “carattere” del
medico al fine di includere la
virtù della benevolenza (o della cura) e la virtù della moderazione, le uniche che possono tutelare il paziente da due
terribili minacce: l’abbandono
e l’accanimento terapeutico.
Chiaramente rimarrebbe ancora molto da dire su come la
modalità del “prendersi cura”
possa venire declinata (Boleyn-Fitzgerald 2003), sul
rapporto tra un’etica delle
virtù per le situazioni di fine
vita e i codici professionali,
sulla reale capacità di approcci di questo tipo di confrontarsi con situazioni tragiche
ma queste considerazioni di
carattere preliminare costituiscono soltanto un abbozzo
che indichi la strada da seguire per sviluppare un approccio morale che sia più attento alle situazioni e ai bisogni reali delle persone ma anche delle difficoltà che possono sorgere all’interno dell’esperienza morale di chi è preposto alla cura.
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Criteri morali
e propositivi
Benedetta Rotesi
Filosofa, bioeticista,
Direzione generale Diritto
alla salute, Regione Toscana
I
siderazione, si fa spesso appello al concetto di “limite”,
inteso come priorità economico-politica, nel contesto di
una spesa sanitaria ormai in
difficoltà nel far fronte alle
continue pretese di una pratica medica che vede nel progresso scientifico all’infinito
la risoluzione di ogni male.
Un’esigenza che si traduce nel
tentativo di individuare, fra i
vari criteri di allocazione del-
l riferimento al vertiginoso aumento della spesa
sanitaria che accompagna
inevitabilmente lo sviluppo
di una medicina sempre più
tecnologizzata, costituisce
una sorta di tappa obbligatoria in una riflessione sull’impresa sanitaria moderna,
quindi estesa ai problemi, oltre che ai risultati, alle difficoltà, oltre che ai successi.
Sulla base di una simile con1
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le risorse da destinare al settore dell’assistenza sanitaria,
quelli più sostenibili in termini di equità ed efficienza.
Il prepotente progresso tecnologico ha comportato, infatti, non solo un sempre
maggiore invecchiamento
della popolazione con il conseguente aumento di malattie croniche, ma anche una
crescita della domanda per
soddisfare desideri sempre
più incalzanti, tanto da essere registrati – a livello di sensibilità sociale – come veri e
propri nuovi bisogni.
L’attuale “stadio di civilizzazione” 1 , sta dunque conoscendo una crescita della domanda di salute che – riprendendo le parole di Michel Foucault – “manifesta il fatto che
il bisogno di salute non segue
un principio di limitazione. Di
conseguenza, non è possibile
fissare oggettivamente una
soglia teorica e pratica, valida
per tutti, a partire dalla quale
si può dire che i bisogni della
salute sono soddisfatti pienamente e definitivamente”
(Foucault, 1978).
Un processo, che proprio per
questa sua indefinita crescita, è destinato, come naturale conseguenza di un sistema
economico finito che si trova
a dover arginare un sistema
di domanda infinita, a non
essere soddisfatto.
Nasce così, inevitabilmante,
la necessità di porre un limite, di fissare una soglia.
È tuttavia opportuno chiedersi, sulla scia di una riflessione condotta da numerosi
autori2 in merito a queste te-
Utilizzando un’espressione cara al sociologo Norbert Elias.
Si veda D. Callahan, La medicina impossibile. Le utopie e gli errori della medicina moderna; I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della
salute; R. Dubos, Mirage of Health: Utopias, Progress, and Biological Change.
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