Edited by Foxit PDF Editor Copyright (c) by Foxit Software Company, 2004 - 2007 For Evaluation Only. l ute Sa e 8 Territorio Il dolore sfazione di bisogni continuamente rinascenti. In questo intreccio di infinità e finitezza, di libertà e necessità, di autonomia e dipendenza, di superiorità ontologica e di vulnerabilità, risiede la possibilità, ma anche la necessità del dolore, come realtà costitutiva della vita e da essa indissociabile. Per rendere pensabile concettualmente questa condizione complessa, Hegel fa ricorso alla nozione di contraddizione: quella tra l’infinità della L’etica delle virtù Matteo Galletti Filosofo, dottorando in Bioetica, Università di Bologna N che al cospetto di problemi “nuovi” e “complessi” come quelli della bioetica si debba abbandonare ogni pretesa di normatività: in primo luogo, il pluralismo etico è un dato di fatto che contraddistingue gli approcci alle questioni di vita e di morte e non può essere soffocato da alcuna teoria morale che imponga a tutte e a tutti un modello o più modelli di vita e, in secondo luogo, l’esperienza morale e la scelta, soprattutto nei casi tragici che sempre più spesso caratterizzano le nostre modalità di nascita e di morte, presentano un grado di complessità e caratteristiche così variabili da caso a caso che non può esistere un algoritmo da calcolare per giungere alla “soluzione corretta” per ogni singola, particolare situazione. Al di là di queste sfumature, che qui non intendiamo approfondire, un punto su cui hanno più volte insistito questi nuovi approcci ai problemi bioetici riguarda la discussa pretesa di imparzialismo del- egli ultimi decenni, sono comparsi molti scritti volti a criticare e mettere in discussione gli approcci filosofici più consolidati ai problemi della bioetica nell’ambito della filosofia morale di lingua inglese; un numero sempre crescente di autori ha cercato di mettere in luce quali fossero le difficoltà e i limiti di teorie morali come l’utilitarismo o il deontologismo, sottolineando soprattutto due segni di insufficienza. Da una parte, la loro inadeguatezza nel descrivere la realtà dell’esperienza morale, molto più complessa di quanto esse stesse non pretendono e, dall’altra, la loro incapacità di fornire risposte adeguate ai dilemmi morali che sorgono in aree delicatissime della vita umana. Per riassumere, utilitarismo e deontologismo non riuscirebbero né a descrivere in senso compiuto quali sono le aree di criticità morale né a prescrivere le soluzioni a queste criticità. Anzi, molta letteratura filosofica punta proprio sull’idea N. 154 - 2006 vita stessa e la particolarità finita del singolo vivente. Contraddizione ben reale, anzi radicata nella fisicità del vivente, il quale la sperimenta su di sé, sotto forma di dolore. E una volta tanto l’uso di questa controversa nozione non suona, come spesso accade nella filosofia hegeliana, equivoco o retorico, ma anzi concreto e preciso: “C’è chi dice che la contraddizione non si può pensare: ma essa, nel dolore del vivente, è piuttosto un’esistenza reale” (II,874). l’utilitarismo e del deontologismo, cioè l’idea che i dilemmi morali possono essere risolti soltanto facendo riferimento ad una prospettiva che astragga dalle relazioni e dalle situazioni particolari, elimini ogni parzialità e giunga a conclusioni (razionali) che, contemplando gli interessi di tutti coloro che sono coinvolti ma non favorendone alcuno, possono vincolare chiunque. Così davanti ad una scelta difficile basta calcolare l’utilità delle conseguenze che ogni corso di azione produce e scegliere quello che garantisce un tasso più alto di utilità per tutti o in media ecc.; oppure basta fare riferimento a quelli che sono i doveri o i diritti in gioco e capire quale sia in quella situazione il dovere o il diritto che prevale (Botti 2000). La critica dell’imparzialismo come caratteristica distintiva di ciò che la morale dovrebbe essere ha ridato lustro ad un approccio che, secondo la tradizionale lettura della storia della filosofia morale, ha conosciuto un declino progressivo nel periodo che all’incirca va da S. Tommaso d’Aquino agli anni ’50 del XXI secolo: l’etica delle virtù. Riabilitata da alcuni insigni filosofi, tra i quali Elizabeth Anscombe (1958), Philippa Foot (1978), Alasdair MacIntyre (1988), Martha Nussbaum (1993), l’etica delle virtù ha conquistato oggi il rango di teoria morale concorrente di utilitarismo e deontologismo, sebbene molti critici insistano sul fatto che non esiste una vera e propria “teoria” ma si possano trovare in questi autori soltanto riflessioni filosofiche frammentarie e prive di reale sistematicità. Alla luce di quanto si è detto all’inizio del paragrafo sulla desiderabilità della teoria in morale, forse questo aspetto non costituisce propriamente un difetto, anche se l’esigenza di dare spazio all’interno di una teoria delle virtù a concetti come “guida morale” e “giustificazione” è ben presente in alcuni autori (Khilbom 2000). La bioetica non ha tardato ad appropriarsi delle virtù non soltanto come strumento di critica degli approcci imparzialistici ai dilemmi etici in campo biomedico, ma anche per denunciare i limiti e le difficoltà della pratica medica nell’età tecnologica, soprattutto in relazione al rapporto medico-paziente. Come ha scritto Diego Gracia (1990), la rivendicazione (giusta) dei diritti dei pazienti e della loro autodeterminazione, la sempre crescente in- Edited by Foxit PDF Editor Copyright (c) by Foxit Software Company, 2004 - 2007 For Evaluation Only. Il dolore N. 154 - 2006 vadenza della tecnologia nella conservazione della vita, la limitatezza delle risorse sanitarie e la richiesta di universalismo nella distribuzione delle cure sono fattori che, oltre ad aspetti decisamente positivi, hanno fatto emergere anche elementi di criticità nel modo di rapportarsi del personale sanitario rispetto ai pazienti. I nuovi conflitti (dettati anche dai significati plurimi assunti dalla nozione di “bene del paziente”) sono il risultato del generale cambiamento della struttura “verticale” medico-paziente tradizionalmente strutturata secondo il principio di beneficialità; inoltre, come sottolinea Gracia, anche la “mediazione” tra medico e paziente costituita dal ruolo della tecnologia è uno dei fatti che ha contribuito al mutamento dello scenario. La specializzazione della ricerca medica e conseguentemente degli atti diagnostico-terapeutici ha reso vetusta l’idea che la relazione si dia tra il medico e il paziente, dato che oramai essa si svolge tra più figure di cura e il paziente. A questa panoramica si possono aggiungere anche la burocratizzazione di molti aspetti della relazione (si pensi solo alla riduzione del consenso informato a firma di un modulo da parte del paziente), in parte derivante dalla “giuridificazione” della relazione stessa (Sage 2001) e ai tempi delle istituzioni ospedaliere, sempre più compressi e frenetici. Sebbene queste considerazioni abbiano un carattere generalizzante che non rende giustizia a quanto effettivamente accade in corsie e in repar- ti e al modo in cui la classe dei professionisti sanitari interpreta il proprio ruolo, esse possono suggerire alcuni rischi effettivi in cui può scivolare la prassi clinica. Contro questi pericoli, la riscoperta di una modalità di relazione che non sia improntata al paternalismo medico, ma che nemmeno preveda la fredda applicazione delle tecniche alla patologia né una burocratizzazione dell’incontro tra il malato e lo staff di professionisti sanitari, si è saldamente ancorata a quegli approcci che possono essere ricompresi sotto l’etichetta di “etica della cura”. Ma si capisce bene che anche l’etica delle virtù può avere il suo spazio all’interno di quella che a volte è stata chiamata esigenza di umanizzazione della pratica medica (Lovera 1999). L’etica delle virtù sposta l’attenzione dai criteri per definire quale sia l’azione giusta al carattere e alle qualità morali dei soggetti che compiono l’azione, cioè alle disposizioni che un agente virtuoso possiede rispetto alle varie situazioni in cui si trova. Come spesso si suole riassumere, mentre l’etica “tradizionale” ritiene che la domanda fondamentale della moralità sia “Cosa debbo fare?”, l’etica delle virtù tenta invece di dare una risposta all’interrogativo: “Che tipo di persona dovrei essere?”. Al centro di questo approccio non sta quindi l’azione moralmente giusta o moralmente corretta, ma l’agente moralmente buono. Per il nostro ambito allora una “bioetica delle virtù” avrà il compito di delineare quale sia il modello di “buon medico” (o di buona équipe sanitaria, in ragione della pluralità delle persone addette alla cura del paziente) nell’età della tecnologia e della burocrazia. Chiaramente esistono vari esempi di bioetica delle virtù. Ad esempio Rosalynd Hursthouse (1995), muovendosi nella tradizione classica della teoria morale novecentesca, ha applicato una particolare versione di teoria delle virtù a casi concreti; Edmund Pellegrino e David Thomasma (1993) hanno tentato di unire riflessioni di filosofia della medicina e di etica delle virtù in medicina basandosi prinicipalemente su un intreccio di ippocratismo e teleologismo aristotelico; Hans-Georg Gadamer ha applicato il concetto di saggezza pratica (phronesis) alla medicina, secondo un paradigma che coniuga emeneutica e filosofia pratica aristotelica (Gadamer 1994; Svenaeus 2003). In quello che segue non proporremo né una ricognizione sulle teorie delle virtù che hanno avuto maggiore successo nell’ambito dell’etica medica, né tenteremo di sviluppare un approccio sistematico basato sulle virtù, ma avanzeremo alcune osservazioni di carattere generale, propedeutiche ad un eventuale approfondimento di tale prospettiva. La bioetica di fine vita affronta solitamente il problema del dolore in relazione alla fase terminale di una malattia mortale, in cui non è più possibile incidere sull’esito della patologia ma si può ancora aumentare la “qualità della vita” del pa- Sae l ute Territorio 9 ziente, cercando di intervenire sulla sintomatologia del dolore e sui bisogni globali della persona. Si sostiene così che la filosofia sottesa alle cosiddette “cure palliative” costituisce il giusto antidoto alla spersonalizzazione della medicina a cui si è accennato, in quanto sposta l’attenzione dalla malattia alla persona che non è più un oggetto da curare ma un individuo concreto di cui prendersi cura. Sicuramente l’idea del prendersi cura possiede tratti nobili. Recentemente il filosofo Alasdair MacIntyre (2001) ha messo in luce come la storia della filosofia morale abbia sempre messo al centro della riflessione l’agente morale autonomo, trascurando i casi (e le fasi della vita) in cui l’essere umano è vulnerabile, sofferente. Occorre invece reintrodurre all’interno del pensiero filosofico la figura dell’essere umano vulnerabile, sofferente e in ragione di ciò dipendente dagli altri. Sebbene lo sviluppo e la crescita degli individui siano secondo MacIntyre contraddistinti dal progressivo tentativo di uscire dalla dipendenza per acquisire l’indipendenza, il raggiungimento di una completa autonomia che renda inessenziale il contributo e il sostegno degli altri (e perciò le relazioni con le persone che ci circondano), è un’illusione. Di fatto la nostra vita è caratterizzata dalla provenienza dalla e dal ritorno alla dipendenza, in quanto siamo animali soggetti ad un necessario ciclo biologico. È necessario quindi riconoscere la dipendenza non co- Edited by Foxit PDF Editor Copyright (c) by Foxit Software Company, 2004 - 2007 For Evaluation Only. l ute Sa e 10 Territorio Il dolore me una condizione “di passaggio” ma come una caratteristica che segna la vita umana al suo inizio e alla sua fine; e significa anche riconoscere le virtù ad essa associate, come la virtù di sentire la sofferenza e il disagio altrui e generosamente cercare di dare ad essi sollievo in modo disinteressato. Allora l’ideale di “buon medico” diviene quello di colui che riesce a concentrarsi sulla qualità del paziente, cioè sul controllo del dolore, sui bisogni della persona, sull’eliminazione di tutti i fattori che arrecano disagio. La raccomandabilità di questo ideale è così evidente che molto spesso si auspica un’applicazione della filosofia stessa che ispira le cure palliative fin dal momento della comunicazione della diagnosi. È in questa ottica che si parla (forse impropriamente) di “umanizzazione della medicina”: la riscoperta di un’attenzione verso la totalità della persona può essere l’antidoto efficace della spersonalizzazione a cui può essere soggetta la pratica medica. Come ha sostenuto Marx Wartofsky (1985, p. 194), il linguaggio delle virtù e quello di una medicina che si occupa prima delle patologie che delle persone malate sono incompatibili: “[…] ‘l’ernia della stanza 409’ o ‘l’infarto nella corsia di emergenza’ sono l’oggetto della benevolenza medica in un modo che mette a dura prova la concezione tradizionale di questa virtù”. Tuttavia, se è auspicabile che la filosofia della medicina palliativa si incontri con l’etica delle virtù per estendersi a tutto l’iter terapeutico, la figura del “buon medico” può nascondere il potenziale pericolo di trasformarsi in mera retorica, in una visione idilliaca delle professioni sanitarie, nell’ idealizzazione idealistica e romantica del medico di campagna dei bei tempi andati e di una relazione medico-paziente in cui tutti i nodi problematici sono sciolti e tutti i dilemmi sono facilmente risolti. Una tale idealizzazione non solo cela i conflitti reali della relazione terapeutica ma oscura anche l’onere emotivo e psicologico che ogni professionista della cura deve affrontare quando si trova quotidianamente a confronto con la sofferenza, la terminalità e la morte. Propongo che l’ideale del buon medico comporti ed includa non solo la virtù della benevolenza (o della compassione, come la chiamano Beauchamp e Childress (1999, pp. 452-4), o della cura nel senso di care) ma anche la virtù della “moderazione”, intendendosi con questa la capacità e la disposizione a riconoscere ed accettare il limite entro il quale gli sforzi di cura (nel senso di cure) possono essere esercitati, senza per questo abbandonare a se stesso il paziente. N. 154 - 2006 La capacità di unire benevolenza (o care) e moderazione può richiedere uno sforzo notevole nell’ambito del passaggio dal curare al prendersi cura al personale sanitario. Per capire cosa si intende, occorre introdurre un’altra nozione, cara ai teorici delle virtù, cioè la nozione di “integrità” o “identità” morale. Ogni agente, che si trovi ad operare sul mondo, possiede una propria identità morale, un proprio ideale di integrità, un’immagine di sé costruita in base agli impegni, ai progetti, agli ideali che egli intende mettere in pratica e che danno senso a questo suo “fare”. L’integrità può essere considerata al tempo stesso come risultato del nostro agire e come un presupposto del nostro tentativo di dare coerenza a quello che facciamo (cioè l’ideale di persona che vorremmo essere). Molto spesso l’agente morale che viene meno a certi doveri non trasgredisce semplicemente una norma, ma agisce contro la propria identità morale e le sue azioni hanno conseguenze non solo “esterne” ma anche “interne”, in termini di sentimenti ed emozioni provati dall’agente stesso (Beauchamp e Childress 1999, pp. 456-60; Halfon 1989). L’onere emotivo e psicologico nella fase terminale deriva dal fatto che la virtù della moderazione richiede la consapevolezza di dovere arretrare la propria azione, di fuggire da sentimenti di “onnipotenza terapeutica” (Jankovic 2004) e di evitare la tentazione dell’accanimento sul paziente ma anche di rinunciare alla propria azione curativa, di spostare l’obiettivo dalla salute alla qualità della vita; l’identità morale può quindi dovere subire una sua ridefinizione nel momento in cui si verifica questo passaggio. È un aspetto, questo, da non sottovalutare, ma a cui si può rispondere tramite la formazione professionale, che deve riuscire a ridefinire il “carattere” del medico al fine di includere la virtù della benevolenza (o della cura) e la virtù della moderazione, le uniche che possono tutelare il paziente da due terribili minacce: l’abbandono e l’accanimento terapeutico. Chiaramente rimarrebbe ancora molto da dire su come la modalità del “prendersi cura” possa venire declinata (Boleyn-Fitzgerald 2003), sul rapporto tra un’etica delle virtù per le situazioni di fine vita e i codici professionali, sulla reale capacità di approcci di questo tipo di confrontarsi con situazioni tragiche ma queste considerazioni di carattere preliminare costituiscono soltanto un abbozzo che indichi la strada da seguire per sviluppare un approccio morale che sia più attento alle situazioni e ai bisogni reali delle persone ma anche delle difficoltà che possono sorgere all’interno dell’esperienza morale di chi è preposto alla cura. Edited by Foxit PDF Editor Copyright (c) by Foxit Software Company, 2004 - 2007 For Evaluation Only. Il dolore N. 154 - 2006 Bibliografia Anscombe G.E.M. (1958), Modern Moral Philosophy, Philosophy, 33: 1-19. Beauchamp T.L., Childress J.F. (1999), Princìpi di etica biomedica, Le Lettere, Firenze. Boleyn-Fitzgerald P. 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Criteri morali e propositivi Benedetta Rotesi Filosofa, bioeticista, Direzione generale Diritto alla salute, Regione Toscana I siderazione, si fa spesso appello al concetto di “limite”, inteso come priorità economico-politica, nel contesto di una spesa sanitaria ormai in difficoltà nel far fronte alle continue pretese di una pratica medica che vede nel progresso scientifico all’infinito la risoluzione di ogni male. Un’esigenza che si traduce nel tentativo di individuare, fra i vari criteri di allocazione del- l riferimento al vertiginoso aumento della spesa sanitaria che accompagna inevitabilmente lo sviluppo di una medicina sempre più tecnologizzata, costituisce una sorta di tappa obbligatoria in una riflessione sull’impresa sanitaria moderna, quindi estesa ai problemi, oltre che ai risultati, alle difficoltà, oltre che ai successi. Sulla base di una simile con1 Sae l ute Territorio 11 Jankovic M. 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L’attuale “stadio di civilizzazione” 1 , sta dunque conoscendo una crescita della domanda di salute che – riprendendo le parole di Michel Foucault – “manifesta il fatto che il bisogno di salute non segue un principio di limitazione. Di conseguenza, non è possibile fissare oggettivamente una soglia teorica e pratica, valida per tutti, a partire dalla quale si può dire che i bisogni della salute sono soddisfatti pienamente e definitivamente” (Foucault, 1978). Un processo, che proprio per questa sua indefinita crescita, è destinato, come naturale conseguenza di un sistema economico finito che si trova a dover arginare un sistema di domanda infinita, a non essere soddisfatto. Nasce così, inevitabilmante, la necessità di porre un limite, di fissare una soglia. È tuttavia opportuno chiedersi, sulla scia di una riflessione condotta da numerosi autori2 in merito a queste te- Utilizzando un’espressione cara al sociologo Norbert Elias. Si veda D. Callahan, La medicina impossibile. Le utopie e gli errori della medicina moderna; I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute; R. Dubos, Mirage of Health: Utopias, Progress, and Biological Change. 2