Febbraio 2010 LAVORO ITALIANO Direttore Responsabile Antonio Foccillo Direzione e Amministrazione Via Lucullo, 6 - 00187 Roma Telefono 06.47.53.1 Fax 06.47.53.208 e-mail [email protected] Sede Legale Via dei Monti Parioli, 6 00197 Roma Ufficio Abbonamenti 06.47.53.386 Edizioni Lavoro Italiano Autorizzazione del Tribunale di Roma n.° 402 del 16.11.1984 SOMMARIO Il Fatto La lunga marcia del riformismo sindacale - di A. Foccillo Intervista al Segretario Generale UIL Luigi Angeletti • UIL: Il domani riformista di A. Passaro Sindacale Il lavoro femminile - di N. Nisi Diminuire subito le tasse sul lavoro - di D. Proietti XV Congresso nazionale Feneal-Uil: “Fare un’Italia migliore” - di A. Correale La riforma della scuola secondaria - di M. Di Menna 4° congresso nazionale Uila: un grande successo di partecipazione e di proposte di S. Mantegazza 14° Congresso Nazionale: una UILM ancora più grande - di R. Palombella La UIL: la nostra storia. Identità e politica. La UIL nei difficili anni cinquanta e sessanta. Il socialismo come metodo e la scelta europeista. (3 puntata) - di L. Marasco Riflessioni UIL sull’iniziativa di marzo: immigrati “una giornata senza di noi” di G. Casucci Uil: sessant’anni Italo Viglianesi: La linea politica di confine - dell’on. G. Averardi Convegno per il 15° anniversario della morte di Italo Viglianesi - di G. Salvarani “L’io c’ero” della Uil - di C. Benevento Lavoro Italiano: la storia della rivista della Uil - di A. Foccillo L’angosciante mestiere del sindacalista - di P. Nenci Economia Il “valore costituzionale” della Previdenza Complementare - di M. Abatecola La crisi globale, la disfatta delle idee e il declino industriale - di G. Paletta Le tendenze globali dell’occupazione secondo l’OIL - di A. Ponti Il modello cinese avanza - di A. Carpentieri Il Corsivo Sindacati in crisi o crisi del sindacato? - di Prometeo Tusco Agorà La fabbrica dei sogni non si ferma mai...le altre chiudono - di M. C. Mastroeni Vendite on line. Obiettivo UE: tutelare i consumatori - di G. Zuccarello Cultura Leggere è rileggere. Vladimir Nabokov: L’occhio - di G. Balella Gli stati generali del cinema italiano - di L. Gemini Inserto Gli interventi degli uomini di Governo ai congressi UIL - di P. Nenci EDITORIALE La lunga marcia del riformismo sindacale Di Antonio Foccillo La storia sindacale, come pure quella della sinistra, è stata caratterizzata sempre dal conflitto fra massimalisti e riformisti che ne ha segnato le pagine della sua evoluzione. La Uil ha sempre rappresentato la parte riformista e laica del sindacato, non opponendosi alla modernizzazione delle regole e del sistema cercando, anche nelle innovazioni, di raggiungere intese sulla base del dialogo e del confronto, senza demonizzare mai l’avversario. Pertanto è stata, da sempre, paladina della necessità di un patto sociale, nella convinzione che questa strategia fosse funzionale non solo alla tutela del potere d’acquisto, ma anche a perseguire quell’evoluzione del sindacato, che dal terreno della contrapposizione, in una moderna democrazia, si spostasse su relazioni sindacali partecipate che potessero determinare scelte economiche e sociali concertate. Proprio per questo, sostenne nel 1962 il tentativo di La Malfa di avviare in Italia, per la prima volta, la politica di coinvolgimento dei sindacati nelle riforme per poi continuare negli anni ‘80, convinta del fatto che l’inflazione rappresentasse una tassa perversa sui salari e sul costo del lavoro. Si battè per debellarla, con una azione essenzialmente partecipativa nella politica economica anche al fine di risanare i conti pubblici e favorire lo sviluppo economico. Vanni1, in tal senso, sostenne dopo un attento esame della situazione congiunturale e delle misure governative in atto per superarla, che era necessaria una politica concertata e, che: “la UIL insiste sulla necessità di una politica economica prudente, ma risoluta, che nella programmazione globale dello sviluppo troverà il suo strumento di permanente disponibilità ed efficacia”. Si tratta, insomma, di espressioni che ritroveremo nel corso degli anni ‘90 riguardo al complesso della politica dei redditi. Questa tesi di un sindacato partecipativo non ha avuto lo stesso grado di maturazione e di convinzione unitaria, all’interno del sindacato italiano e nella stessa sinistra, perché si è sempre ritenuto che questa strategia fosse marginale e di retroguardia nelle priorità delle azioni del movimento sindacale. Di conseguenza sorsero forti lacerazioni e profonde divisioni che portarono, in primis, allo scioglimento della stessa federazione sindacale (negli anni ‘80) e, successivamente, finirono per spaccare il Paese. Certamente, le innovazioni quando sono frutto delle idee di minoranze, seppure illuminate, trovano regolarmente molti ostacoli e tanti difensori dello “status quo” che tentano di farle fallire. Tuttavia, la scelta della politica dei redditi è diventata, soltanto negli anni successivi al 1992 patrimonio comune di tutto il movimento sindacale, del Governo e delle altre parti sociali. Ma questo si deve principalmente alla testardaggine di uomini politici e sindacali di diverse culture ed idee che si sono battuti per questa idea strategica, ed in particolare della Uil. Lo scontro fra le due anime sindacali ha trovato una prima mediazione ed un’accettazione dell’impostazione cara alla Uil con la piattaforma dell’Eur del 1979, dove si scelse la strada della condivisione delle necessarie strategie di espansione produttiva e di corresponsabilizzazione nella gestione dei processi economici. Esse erano considerate dai vari attori sociali le uniche in grado di garantire sbocchi occupazionali e produttivi, per dare sia una risposta ai bisogni sociali primari, come quelli della casa, dei trasporti, della sanità, della previdenza, che per operare nel territorio con un piano di iniziative indispensabili ai più generali interventi agro industriali e dei servizi sociali. La politica della responsabilità e la piattaforma dell’Eur sono state le prime conseguenze di una battaglia di coerenza e di scelte che hanno cambiato profondamente il sindacato, facendogli accettare la logica delle compatibilità fra politica economica e rivendicazioni salariali e sono state i prodromi anche di un nuovo modello di sindacato partecipativo e non solo conflittuale. A seguito di ciò, si svilupparono nell’ambito della sinistra molte polemiche ed, in particolare, quella rivolta dai massimalisti ai riformisti di usare il movimento sindacale in modo subordinato a disegni strategici diversi da quelli propri, con la conseguenza di dare, di fatto, una delega ai partiti ed ai politici sulle questioni sociali, facendo venire meno l’autonomia stessa del sindacato. Iniziarono così a manifestarsi forti contrasti anche nel sindacato confederale che si rifletterono in tutti i luoghi di lavoro e nei vari organismi territoriali, che diedero luogo ad un confronto serrato fra le diverse anime del movimento. Gli anni ‘80 vedono presentarsi una grave crisi economica che fa perdere terreno ai lavoratori, che soffrono un forte indebolimento del loro potere di acquisto. In particolare, l’alta inflazione (21%), l’aumento delle tariffe, il pesante intervento fiscale portano i salari e le pensioni ai livelli ante anni ‘70. Mentre la stagnazione degli investimenti accresce l’emarginazione, aumenta la disoccupazione e il passivo della bilancia commerciale. A ciò si sommano, nel secondo semestre del ’80, anche gli effetti delle politiche economiche recessive ribadite nel Vertice di Venezia dai 7 paesi più industrializzati. La dura realtà politica, economica e sociale pone chiaramente limiti all’azione sindacale e, conseguentemente, non favorisce il dibattito sul coinvolgimento dei lavoratori sulle decisioni volte a fronteggiare le difficoltà. In questo clima pesante, si avvia un’altra difficile consultazione dei lavoratori sulla piattaforma dei “dieci punti” (luglio 1980). Il sindacato viene accusato da alcuni settori della sinistra extra parlamentare di acquiescenza nei confronti della politica congiunturale del governo e vengono strumentalmente amplificate le parti non concordate. I sindacalisti riformisti fanno fatica a sostenere le loro posizioni ed a dimostrare che con il Governo non vi è stata alcuna intesa, ma solo un confronto. All’inizio del 1983, UIL, CGIL e CISL partecipano al negoziato triangolare fra governo, imprenditori e sindacati sul costo del lavoro2. Era caduto da poco il secondo governo Spadolini e gli era succeduto un governo quadripartito presieduto da Fanfani, in vista delle elezioni anticipate. Le trattative sul costo del lavoro furono guidate dal ministro Vincenzo Scotti. L’accordo, faticosamente raggiunto, fu siglato il 22 gennaio. La Confindustria aveva dato la disdetta unilaterale dell’intesa vigente sulla scala mobile che, pertanto, da febbraio avrebbe cessato ogni effetto. La minaccia di un vuoto in materia costrinse anche i settori sindacali più riluttanti ad accettare il “protocollo Scotti”, che fissava “tetti” per gli aumenti contrattuali e riduceva del 15 per cento il valore del punto di scala mobile. Successivamente, nel dibattito sindacale, si cominciò a parlare anche di un probabile freno alla scala mobile, purché fossero bloccate per un anno le tariffe e l’equo canone. All’epoca, si andava sempre più diffondendo nel movimento sindacale la necessità che lo stesso mondo del lavoro combattesse proprio l’inflazione, quale elemento perverso di falcidia del potere di acquisto di salari e pensioni, perché la rincorsa nei confronti dei prezzi che si generava era come il cane che si mordeva la coda e, in cambio di tale disponibilità, si voleva ottenere un intervento sul piano occupazionale, il controllo dei prezzi e delle tariffe e una compartecipazione alle scelte economiche e di riforma proposte dai Governi. Il percorso da affrontare però non è facile, anche perché i tre sindacati non riescono a trovare un accordo completo e le stesse forze politiche non sempre si muovono in sintonia con quei processi di cambiamento. La Uil insiste e propone a Cgil e Cisl un’ipotesi di lavoro. La Cgil risponde subito con un no ma, successivamente, Lama apre uno spiraglio alla discussione sul freno alla scala mobile. Nelle fabbriche, invece, prevale la linea dura. Si cominciano a mettere in discussione anche le regole della democrazia sindacale e del modo di ricercare il consenso. Le assemblee sono più una palestra in cui prevale la demagogia di chi urla di più a discapito di chi, invece, vuole parlare di merito. Benvenuto3 chiede al sindacato un atto di responsabilità e di esplicitazione della cultura di governo, proponendo un patto contro l’inflazione. Questa proposta può essere sintetizzata nell’impegno del sindacato, delle controparti e del governo a contrattare obiettivi annuali di rientro dall’inflazione all’interno di un piano triennale. Per questo, si ritiene necessario individuare degli strumenti indispensabili per una reale democrazia economica che possano codificare la partecipazione del sindacato, a pieno titolo, al governo dell’economia. Successivamente, riesplodono i conflitti fra Cgil, Cisl e Uil. Solo il 20 ottobre 1982 la federazione unitaria approva definitivamente la propria proposta sul costo del lavoro e avvia la consultazione dei lavoratori. Il 22 gennaio del 1983, il governo, gli imprenditori e i sindacati firmano, per la prima volta, un accordo triangolare. Il valore di tale accordo, al di là di facili enfatizzazioni, viene considerato sostanzialmente positivo, soprattutto da chi voleva disegnare il nuovo volto del sindacato negli anni ‘80. È un notevole viatico per le organizzazioni sindacali disposte al confronto che così acquistano un ruolo nel dibattito economico e si aprono ulteriori spazi possibili per l’avvio di una politica di tipo riformista. L’accordo raggiunto, infatti, sconfigge il disegno di chi voleva ancora una volta bipolarizzare la lotta politica, supera l’oltranzismo padronale che voleva arrivare ad una resa dei conti con il sindacato e la volontà, presente nel sindacato stesso, di continuare con la politica antagonista. Inoltre, assume una duplice valenza politica: da una parte definisce un nuovo modo di essere sindacato nelle relazioni industriali, in quanto esso diviene soggetto politico cioè può intervenire direttamente nella gestione della politica economica, con la possibilità di sottoscrivere accordi triangolari, dall’altra riconquista spazi economici per la salvaguardia dei redditi dei lavoratori, attraverso un concatenamento di azioni concertate, che trovavano, quale elemento centrale, la modifica strutturale della manovra fiscale. In questa difficile fase anche nei rapporti sindacali in azienda, per le strumentalizzazioni di chi si opponeva, il sindacato dovette affrontare il nodo centrale di come ampliare la democrazia nel sindacato, come definire le proposte e dare a tutti lo spazio per esprimersi e porre anche veti in un momento in cui le diverse organizzazioni non avevano una posizione unitaria. Nel 1984, con il governo Craxi, la sfida proseguì con la elaborazione di un provvedimento che continuava la lotta all’inflazione, tagliando alcuni punti di contingenza. Ovviamente esso venne discusso con le forze sociali che avrebbero dovuto siglarlo, se condiviso, per farlo diventare frutto d’accordo. In quella fase, la politica dei redditi doveva fare un salto di qualità, abbandonando il carattere illuministico, per realizzare un impegno politico concreto, fatto di coerenze continue e rettifiche (quando necessarie) attraverso le quali i soggetti “forti” del sistema produttivo assumevano a proprio carico l’onere della ripresa e dello sviluppo, sbarrando il passo ad ipotesi politiche di compressione indiscriminata che avrebbero portato ad un arretramento o un danno per i ceti produttivi e per gli interessi dei più deboli della società. In questa situazione si arrivò all’ipotesi di accordo sul protocollo d’intesa per il patto antinflazione, che raccolse l’opposizione della Cgil. Mentre la Uil e la Cisl comunicarono, formalmente, la loro adesione. Analoga comunicazione fu inviata da tutte le organizzazioni imprenditoriali (industria, commercio, agricoltori, artigiani, cooperative e contadini) che parteciparono al negoziato. Si aprì una campagna denigratoria nei luoghi di lavoro e nel paese verso la Uil e la Cisl, con lo scopo di sostenere che queste due organizzazioni avevano sottoscritto il protocollo governativo. La Uil e la Cisl furono costrette a precisare che non vi era stata nessuna sottoscrizione dell’accordo, ma solo una formale comunicazione al Governo dell’adesione ai contenuti dell’ipotesi di intesa, così come deliberato dagli organi direttivi delle due confederazioni. Il decreto fu approvato dal Consiglio dei Ministri il 14 febbraio del 1984 e contenne come urgenti le parti riguardanti il contenimento dei prezzi e delle tariffe, la rivalutazione degli assegni familiari, la predeterminazione della scala mobile, la proroga del prontuario farmaceutico, inoltre fu accompagnato da un disegno di legge concernente la sospensione dello scatto dell’equo canone dall’agosto del 1984. Nella stessa riunione fu approvato un secondo decreto legge per l’attuazione dei contratti di solidarietà, prevedendo il modo in cui realizzare riduzioni dell’orario di lavoro e l’assunzione di nuovo personale (soprattutto giovani) che avrebbe potuto essere occupato per le fasce orarie che in tal modo si fossero rese disponibili. Nel settembre successivo, il Pci presentò alla Cassazione le firme per sollecitare un referendum abrogativo della parte del decreto relativa alla decurtazione degli scatti di scala mobile. La data per la consultazione popolare venne fissata al 9 giugno 1985. Fino a poche settimane prima che si aprissero i seggi, si tennero al Ministero del lavoro vari incontri fra governo e sindacati per scongiurare il referendum. La CGIL colse la pericolosità di un referendum che già stava dividendo in modo traumatico il movimento sindacale, ma non accettò un accordo in extremis che avrebbe scongiurato un’esasperante frattura. Infatti, il tentativo compiuto alla vigilia del voto fallì e gli elettori furono chiamati alle urne per esprimersi sull’abrogazione della norma che aveva tagliato i punti di scala mobile. Nonostante la mobilitazione del PCI, il referendum venne vinto dal no all’abrogazione della legge e così venne confermata la politica del governo e l’abolizione dei quattro punti di scala mobile. In quella occasione, la Uil, sostenne che nessun trionfalismo andasse alimentato. Anzi, ritenne che grazie al risultato positivo dell’esito elettorale, la politica della lotta all’inflazione avrebbe avuto un notevole impulso e, pertanto, proprio in quella situazione cosi drammatica nei rapporti fra le organizzazioni sindacali confederali bisognasse, ancora con più convinzione, riprendere il cammino unitario del sindacato, quale unica prospettiva di rilancio dell’iniziativa.4 Si può dire, senza tema di essere smentiti, che grazie a quel risultato si è era avviata concretamente la strategia della lotta all’inflazione, che poi è proseguita nel corso degli anni. Nel congresso della UIL, del 1989, Benvenuto, parla della svolta sindacale commentando che ci sono voluti sette anni, ed un referendum, tanto assurdo quanto drammatico, per capire che l’obiettivo della politica antinflazionistica andava ricercato di per sé. “Quando nella notte di San Valentino siamo arrivati a fare le scelte che ci eravamo prefissati molti anni prima con la svolta dell’EUR, ci siamo trovati divisi e stremati. E quindi incapaci di proiettare unitariamente quelle scelte entro un nuovo quadro di riferimento dell’azione e del ruolo del sindacato.”… “Oggi dobbiamo fare un nuovo salto di qualità per rafforzare la politica dei redditi puntando sul sindacato dei cittadini. Bisognerà proseguire fino in fondo la scelta della concertazione a livello macroeconomico e della cogestione nei luoghi di lavoro. Si tratta di praticare la politica dei redditi e di costruire su di essa le nostre piattaforme rivendicative.” 5 Infatti, dopo la famosa svolta dell’EUR e dopo i governi Spadolini e Craxi, che fecero della lotta all’inflazione uno dei cavalli di battaglia della loro azione, finalmente la scelta, molto sofferta, della Politica dei redditi venne accettata, quale strategia comune, nella piattaforma unitaria del 1991. Si arriva così agli anni ‘90, altro momento significativo sul piano dello scontro fra massimalisti e riformisti. La prima occasione fu l’Unione economica e monetaria europea. Il sindacato italiano considerò molto importante la costruzione di uno spazio politico economico comune. Condivise a tal punto questo processo da impegnarsi fattivamente, per sostenerlo e chiese enormi sacrifici ai suoi rappresentanti per permettere all’Italia di entrare a pieno titolo fra i Paesi costituenti. Oltretutto, fece anche da supplente alla politica che, mai come in quegli anni, era debole (tangentopoli) e ciò andrebbe riconosciuto, al movimento sindacale, proprio per la valenza del suo ruolo in quel frangente. Un’estate violenta fu quella del 1993: fatta di suicidi eccellenti, di attentati, di paura diffusa, di confusione politica, di crisi di valori, di terrore. Tempi difficili che evidenziarono il trapasso di un’epoca, con un cambio dal precedente sistema di potere ad una delicata fase di transizione. Le autobombe di Milano e Roma, che seguono agli altri attentati di Roma e Firenze, sono segnali inquietanti di una nuova stagione di tensione. Ma anche la situazione economica all’inizio degli anni ’90 e la necessità di contrastare la crisi economica ed occupazionale – formalizzata dall’UE in “parametri” da rispettare per poter partecipare all’unione monetaria, secondo quanto stabilito nel Trattato di Maastricht del 1992 – indusse i governi e le parti sociali ad orientarsi verso la riapertura del confronto secondo il metodo concertativo sulla riforma del meccanismo di indicizzazione delle retribuzioni e della struttura contrattuale. Il nuovo ciclo si aprì con una serie di accordi interconfederali (stipulati tra il 1989 e il 1990) nei quali le parti individuavano obiettivi economici condivisi e si impegnavano a rendere coerenti con essi le politiche contrattuali. Proseguì con una lunga fase di accordi preparatori e parziali (6 luglio 1990, 10 dicembre 1991 e 31 luglio1992), che provocarono un intenso dibattito e gravi tensioni tra le parti e all’interno delle stesse. In quella situazione economica, il governo Amato varò una delle manovre finanziarie più dure e contemporaneamente elaborò una serie di misure che intervennero, contestualmente, sulla previdenza, sulla Pubblica Amministrazione, sul fisco e sulla finanza locale per complessivi novantamila miliardi di lire. Ma questo fu anche il governo dell’abolizione della scala mobile e del salto di un triennio contrattuale nel P.I. Il Governo Amato ripristinò la politica dei redditi e il metodo della concertazione con un protocollo, che venne in primis firmato dal sindacato unitariamente, il 31 luglio 1992, ma Trentin, segretario della Cgil, successivamente fu costretto a dimettersi per l’opposizione alla firma della sua organizzazione. Nel protocollo, per la prima volta, le parti predisposero un quadro di principi e di regole per rendere coerenti i processi contrattuali con le politiche economiche e dei redditi, per consentire una gestione congiunta e dinamica delle relazioni di lavoro e per prevenire il conflitto. Esso, venne sottoscritto formalmente il 23 luglio 1993 da sindacati, governo e imprenditori, conteneva un importante risultato: l’istituzionalizzazione di due sessioni di concertazione fra governo e parti sociali; di cui una a maggio, prima della presentazione del documento di programmazione economico-finanziaria e l’altra a settembre, nell’ambito degli aspetti attuativi della politica di bilancio da trasporre nella legge finanziaria. Si affermava così la politica dei redditi e si stabiliva la prassi della concertazione triangolare come momento di esplicitazione, era la vittoria dei riformisti. Si era, però, solo all’inizio di un importante processo, molto ancora restava da fare per rendere compiuta tale scelta. Il protocollo pur implicando uno scambio di consensi e di legittimazione tra i soggetti stipulanti, realizzò un coinvolgimento delle parti sociali nel processo di assunzione delle decisioni di politica economica sulla base di obiettivi condivisi: alle parti sociali, oltre che al governo, furono affidati l’impostazione, il coordinamento e il controllo di politiche economiche e contrattuali da attuare in larga misura attraverso un mix di legislazione e contrattazione - centralizzata e decentrata – all’interno di un processo di concertazione coordinato, anch’esso, dal centro, ma tale da favorire anche la diversificazione e la flessibilità delle soluzioni e dei trattamenti. Il risultato è “ottimo”, dice il segretario generale della Uil Pietro Larizza, “perché ha conciliato due esigenze: la tutela del lavoratore e del suo potere contrattuale e la tutela delle aziende che rivendicavano una politica di ridefinizione dei costi per riattivare la produzione. E perché il Governo è stato impegnato sul terreno dell’innovazione, dello sviluppo e della politica dei redditi. Perché si è dato compimento all’accordo del 31 luglio 1992, risolvendo la questione degli assetti contrattuali”. Ma fu un accordo difficile, fortemente contrastato da forze e gruppi anticonfederali (Cobas, Cub, autonomi, sindacati leghisti e la componente “Essere sindacato” della Cgil), come confermato dal risultato della successiva consultazione. Su circa 25 mila assemblee tenutesi in tutta Italia per un totale di oltre 3 milioni e 300 mila lavoratori coinvolti, di cui 1 milione e 267 mila votanti, prevalentemente a scrutinio palese, i “si” furono pari al 67,21%, i “no” al 26,71%, gli astenuti al 6,02%. L’accordo sul costo del lavoro e quello sulle rappresentanze sindacali di base aprì nuovi orizzonti anche sul terreno dell’unità sindacale. La gestione di questa storica intesa avrebbe dovuto rinnovare profondamente i rapporti tra le parti sociali, dando inevitabilmente una nuova spinta all’unificazione delle tre sigle confederali. Una spinta, peraltro, che sarebbe stata facilitata anche da un altro evento ormai sotto gli occhi di tutti: la frantumazione e la conseguente riaggregazione delle forze politiche in nuovi soggetti. Questo processo si poneva come stimolo all’autonomia delle organizzazioni sindacali nei confronti dei partiti, rappresentando di per sé un nuovo soggetto protagonista delle riforme e del rinnovamento della società. Un nuovo soggetto, pluralistico ma unitario, in grado di contrastare, con la sua forza organizzata la politica e con la sua tradizione solidaristica le spinte corporative, eversive e velleitarie che si andavano pericolosamente estendendo nel Paese; una forza essenziale per difendere la democrazia e sconfiggere il terrorismo, con i suoi burattinai, i suoi strateghi ed i suoi “cattivi maestri”. Arriviamo adesso al patto per l’Italia che si sottoscrive con il governo Berlusconi. Si apre nel Paese uno scontro molto forte, infatti, il nuovo Governo, guidato dal Presidente Berlusconi, inizia la sua attività negando gli accordi della politica della concertazione e proponendo in sua vece il dialogo sociale. L’abolizione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, che presuppone la giusta causa per i licenziamenti, avvia questo momento di conflittualità che sfocia nelle piazze con massicce manifestazioni sindacali. Inizia anche una difficile fase nei rapporti fra Uil, Cgil e Cisl con Cofferati (segretario Cgil) che sempre più alimenta un’azione unilaterale contro la possibilità di un accordo. Infatti, il 31 maggio, Uil e Cisl firmano una prima intesa, mentre la Cgil sostiene che le altre due sigle hanno sbagliato a sottoscriverla. Il 5 luglio si firma definitivamente l’accordo. Il patto per l’Italia, ha avviato una contrapposizione di tesi, anche prima della sua sottoscrizione, tanto da porre, in sede politica l’interrogativo sul suo significato e sul suo valore in termini strategici. L’opposizione, con un pregiudizio sostanzialmente ideologico lo ha considerato non un normale accordo sindacale, ma accettazione acritica della politica economica e delle scelte del governo da parte di Uil e Cisl. Da parte della sinistra e della Cgil questo accordo viene definito con toni e parole molto forti, in qualche caso offensive e con disprezzo; non ci si capacita che qualcuno possa averlo accettato, e, a prescindere dai contenuti, se ne dà un giudizio negativo. Si scomodano anche i sacri testi e le differenze fra massimalismo e riformismo, ma il problema che ancora una volta si pone è sapere quale ruolo si vuole affidare al sindacato in un sistema bipolare e quanta autonomia esso avrà sulle scelte della politica. La Uil e la Cisl hanno scelto di valutare l’accordo per quello che è veramente; per le differenze fra i suoi contenuti e le proposte iniziali; per gli aspetti di sperimentalità in un mercato del lavoro, come quello italiano, molto statico; per i risultati anche di partecipazione e di allargamento di garanzie che ha ottenuto; per gli aspetti riguardanti il fisco, la formazione e gli aumenti delle garanzie degli ammortizzatori sociali, e per questo lo giudicano positivo. I critici di questo accordo sostengono che il sindacato, addirittura con la firma, abbia cambiato natura, che siano state limitate e ridotte le tutele per i lavoratori, dimenticando che il confronto era partito con l’unica proposta governativa di eliminare il licenziamento per giusta causa e ridurre il peso del sindacato. Il Governo aveva presentato disegni di legge con contenuti specifici su tale impostazione ed erano pronti per essere approvati in Parlamento, data la stragrande maggioranza di cui esso godeva. Bisogna riconoscere il merito al sindacato che, con questo accordo, con le lotte e con le manifestazioni per sostenerlo, ne ha fatto cambiare alcuni obiettivi iniziali non accettabili. La stessa materia del diritto del lavoro viene rimandata alle parti e non ci potrà essere nessun intervento unilaterale su materie di tutela del lavoratore, perché sarà possibile solo se le parti lo vorranno. Arriviamo ora all’attualità ricordando tre avvenimenti. Il primo: sono passate le 9 di sera del 23 luglio del 2007, l’intesa sul Protocollo sul Welfare e il mercato del lavoro, raggiunta due giorni prima tra Governo e parti sociali è stata messa a punto e il Presidente del Consiglio Romano Prodi la presenta a tutti gli interlocutori per la firma. La Cgil ha delle perplessità, ma poi Epifani si decide e la sottoscrive. Alla ripresa delle attività dopo le ferie i lavoratori saranno chiamati ad un referendum per la sua approvazione definitiva.“In questo accordo – sostiene Angeletti (Uil) – ci sono cose che ci piacciono e cose che non ci piacciono, ma la parte sulla previdenza è importante per le future generazioni, per le pensioni di quelli che sono giovani oggi e questo ci ha convinti che era più conveniente firmarlo.” “….lo sottoporremo comunque alla valutazione dei lavoratori che confermeranno il nostro giudizio positivo”. Angeletti non ha mancato di ricordare la coincidenza con la data del 23 luglio 1993. L’accordo ricordato dal Segretario della Uil è proprio quello raggiunto il 3 luglio 1993 con il Governo Ciampi (ministro del lavoro Gino Giugni). Il secondo: il mondo è sconvolto da una crisi economica epocale per effetto della finanziarizzazione dell’economia. Questi ultimi eventi ci hanno senz’altro costretto a guardare in faccia la vera natura dell’alta finanza, inducendoci a dubitare della sicurezza e della trasparenza del mercato finanziario e a chiedere una rapida riforma delle regole della borsa valori. Le possibilità di controllo ed il potere del sindacato si assottigliano sempre più. Nasce la filosofia della flessibilità e dell’incertezza. In questo contesto il ruolo commerciale resta sempre fondamentale, ma più centrale ancora diventa quello finanziario, poiché è a questo livello che si decide come e dove investire, produrre, vendere; è la mente cui fanno capo le diverse fasi del ciclo produttivo. In conclusione, concentrazione produttiva, concentrazione finanziaria e assenza di vincoli sui mercati finanziari mondiali, costituiscono una “miscela esplosiva” che porta sempre più al divorzio tra economia reale e finanza. Per quanto riguarda il sindacato, in questi anni ha dovuto giocare sempre in difesa. Troppo impari erano le forze in campo, è mancata la volontà di individuare un modello alternativo, perché vi è stata un’adesione acritica al modello della “competition is competition”. Vi è bisogno di una “nuova” capacità propositiva. Certo non è facile, ma bisogna farlo. Dopo un lungo periodo di privatizzazioni, esternalizzazioni, deregolation, flessibilità e delocalizzazioni è ora di fare una riflessione critica su cosa è cambiato in positivo o in negativo e come ha influito sulle persone e sui loro diritti. Il terzo ed ultimo, non può che riguardare la necessaria modifica delle regole della contrattazione e come sempre nella battaglia che abbiamo sin qui descritto si ritorna alla divisione lacerante fra massimalisti e riformisti. Nel sindacato c’è una sindrome che ogni tanto ritorna e cioè quella del farsi prendere dalla paura di sottoscrivere un accordo e soprattutto evitarlo quando esso modifica a fondo le abitudini e le prassi consolidate. E’ fuor di dubbio che la struttura contrattuale nelle regole e nelle procedure dell’accordo del 23 luglio del 1993 era da modificare. Non rispondeva più né alla salvaguardia del potere di acquisto dei lavoratori, né tanto meno a corrette relazioni sindacali dove i diritti e i doveri sia del lavoratore che del datore di lavoro sono sullo stesso piano. Era da tempo che i contratti non venivano più rinnovati alle scadenze, nonostante le trattative divenivano sempre più faticose per ottenere un aumento contrattuale, che spesso non riusciva a recuperare neanche l’inflazione. Di fronte alle crisi economica mondiale, che innesca un sempre più ampio smantellamento dell’occupazione per la conseguente crisi delle imprese, del sistema finanziario e bancario e che, soprattutto, fa emergere una differenza, sempre più ampia, fra tutelati e non tutelati, con un inevitabile aumento della povertà, era diventato necessario che si adeguassero le regole, per renderle idonee alla più ampia tutela possibile, per garantire tutti e arginare i fenomeni di emarginazione. L’unico metodo moralmente lecito per immettere denaro nel sistema economico produttivo era quello di destinare risorse aggiuntive ai cittadini attraverso il sistema fiscale o attraverso gli aumenti contrattuali o delle pensioni, per rilanciare anche i consumi nazionali. Per questo, i sindacati confederali hanno proposto una piattaforma che affrontava queste tematiche e proponeva un nuovo sistema contrattuale e di relazioni sindacali oltre ad un aumento del potere di acquisto delle pensioni e dei salari. La discussione con la Confindustria prima e con il Governo poi non ha fatto che riprendere queste tematiche. Proprio in quest’ottica è illogico sostenere che il documento, condiviso da Uil, Cisl e Confindustria, Governo e tutte le altre parti imprenditoriali e sociali non vada in questo senso, sapendo che è stato fatto ogni sforzo possibile per coinvolgere sul programma tutte le organizzazioni sindacali. Ma è anche vero che non ci si può rassegnare ad un convenuto che dice sempre di no a qualsiasi innovazione, per evitare di assumersi delle precise responsabilità. Se si analizza nel merito l’accordo per la riforma della contrattazione, si può obiettivamente constatare come esso rappresenti un’importante innovazione ed una significativa evoluzione delle relazioni industriali nel nostro Paese. Infatti, risponde sia all’esigenza di migliorare i redditi dei lavoratori, sia alla necessità di definire nuove relazioni sindacali. I miglioramenti nella nuova struttura contrattuale, obiettivamente, ci fanno apparire inconsistenti tutte le critiche avanzate. Avere delle regole, che tutelino i più deboli e rafforzino lo spirito della contrattazione, potrà esser una risposta appropriata in questo momento nel quale la nuova, grave crisi economica internazionale e nazionale può innescare un metodo del “si salvi chi può”. Ancora una volta il massimalismo si fa prendere dai bizantinismi, perché non vuole cogliere a pieno le potenzialità di questo accordo. Proseguire nel diritto di veto, nell’esprimere sempre no a qualsiasi innovazione non fa che aumentare l’emarginazione del sindacato in un momento difficile come questo. Per questo la UIL, nella sua visione riformista dell’azione sindacale insisterà per far sì che ogni interlocutore si assuma le proprie responsabilità, che si prosegua nel contrattare e sottoscrivere accordi, che rappresentano il vero ruolo di un sindacato propositivo e non antagonista. La marcia continua. Note:1. Dibattito al Cnel sulla politica dei redditi, 1963 2. Archivio Uil 3. Nella re UIL: il domani riformista. Intervista a Luigi Angeletti, Segretario generale Uil di Antonio Passaro Angeletti, ci si avvia verso il XV Congresso nazionale della Uil. Un Congresso che sarà centrato sul tema del riformismo. Perché questa scelta? Il riformismo sarà il tema centrale del prossimo Congresso perché è la giusta politica da attuare per conseguire uno degli obiettivi importanti per il paese: tornare ad essere forti e competitivi.Stiamo vivendo un momento tra i più difficili che la storia della nostra economia ricordi. Il nostro sistema necessita di quelle riforme che gli consentirebbero di tornare a respirare, di uscire dalla crisi produttiva ed occupazionale che ancora blocca la crescita e frena la modernizzazione del nostro Paese. La Uil vuole essere protagonista di una nuova stagione che punti allo sviluppo. Un approccio autenticamente riformista ai problemi e alle prospettive può essere la strada giusta per risalire la china. Ed a proposito di riforme, la battaglia più importante per la Uil si concentra proprio sul fisco… La questione fiscale è stata sempre al centro di ogni nostra battaglia. Abbiamo sempre sostenuto che il nostro sistema fiscale è iniquo ed inefficace. L’eccessivo peso delle tasse sul lavoro è un problema di natura sociale e, soprattutto, economica, Ridurle, solo per quelle categorie di lavoratori che le pagano regolarmente, non è semplicemente una questione di giustizia sociale, ma è anche l’unica politica economica in grado di aiutare il Paese ad uscire dalla crisi. La riduzione delle tasse ha senso solo se rivolta ai lavoratori dipendenti e ai pensionati e non ai “finti poveri”. É importante correggere il nostro sistema fiscale: così come è oggi, rappresenta solo un potente freno alla crescita della nostra economia. Ci sono le condizioni per ottenere sin da subito una riduzione della pressione fiscale sulle busta paga dei lavoratori dipendenti? Sì, esistono le condizioni per cominciare a ridurre le tasse. Noi pensiamo che la riforma fiscale vada varata già nel 2010. Non possiamo aspettare il 2013, indicato come l’anno di ritorno ai livelli pre-crisi. Se il Governo non dovesse essere d’accordo noi abbiamo il dovere di convincerlo con tutti i mezzi a nostra disposizione. Insomma o il governo apre il tavolo o saremo costretti a mostrare i muscoli. Ma dove e come è possibile recuperare le risorse? La Uil ha sempre perseguito la strada dell’equità e dell’efficienza ed è per questo che il nostro obiettivo è sempre stato quello di diminuire le tasse ai lavoratori dipendenti e ai pensionati e di farle pagare a chi non le paga. Mancano le risorse per raggiungere questo traguardo? Non è un problema: si troveranno, poi. Perché proprio la riduzione delle tasse a lavoratori e pensionati renderà urgente l’intensificazione della lotta all’evasione da cui potranno essere attinte le risorse necessarie ad attuare quella riforma fiscale che rivendichiamo da lungo tempo. Inoltre, sono convinto che si possa spostare una quota di imposizione sulle rendite o transazioni finanziarie: le tasse sulle transazioni sono tra le più basse in Europa, equipararle a quelle degli altri Paesi significherebbe introitare altre risorse da usare per l’attuazione di quella riforma. Il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, è tornato a parlare di interventi sull’età pensionabile. Cosa ne pensi? Come ho affermato più volte, si tratta di un capitolo chiuso per il semplice motivo che abbiamo già fatto un accordo sulla riforma delle pensioni con questo Esecutivo: si è già deciso, infatti, di legare l’età pensionabile alle aspettative di vita. Non c’è altro da fare. Se poi si volesse affrontare, finalmente, la questione della separazione della previdenza dall’assistenza, la Uil sarebbe pronta ad accettare questo terreno di discussione. Così sarebbe chiaro a tutti che il sistema è in equilibrio e non c’è alcun bisogno di ulteriori interventi. Cambiano argomento. Nel mese appena trascorso, più volte, Governo e parti sociali si sono incontrati per discutere del futuro produttivo ed occupazionale di diverse realtà. Eutelia e Alcoa rappresentano solo alcuni esempi più eclatanti delle difficoltà occupazionali del momento. La crisi economica, purtroppo, incide ed inciderà sul sistema produttivo e le ripercussioni sull’occupazione continuano a preoccuparci. Quel che noi cerchiamo di fare è garantire maggiori tutele ai lavoratori ed evitare che su di loro ricadano ripercussioni negative. Per quanto riguarda le vertenze in atto, Alcoa ed Eutelia sono solo due esempi della drammatica situazione che stiamo vivendo nel nostro Paese a livello economico e sociale. Le imprese in questione, così come le tante altre che si trovano in analoghe condizioni, devono assumersi la propria responsabilità e far sì che i lavoratori restino legati al loro posto di lavoro. In tal senso, può e deve aiutarle la politica degli ammortizzatori sociali che la nostra Organizzazione ha fortemente voluto e caldeggiato. Altro emblema della crisi occupazionale in atto è lo stabilimento siciliano di Termini Imerese. Si è parlato anche di riconversione del sito produttivo. Il prossimo 5 marzo è convocato il tavolo al ministero delle Attività produttive. Quali sono le posizioni della Uil? Siamo aperti ad ogni opportunità che possa rilanciare l’occupazione in zona. Quel che conta è che Fiat prospetti, essa stessa, qualche soluzione alternativa e che si assuma le proprie responsabilità. In ogni caso, non ci si può limitare a prevedere una politica di sostegno al reddito a favore di chi sarà costretto ad uscire dal processo produttivo. A noi interessa che in quel territorio permanga una presenza industriale forte, in grado di garantirne lo sviluppo. Non possiamo accettare un ulteriore depauperamento industriale ed occupazionale a tutto svantaggio per la Sicilia e per il Paese. Peraltro, proprio dal punto di vista della politica industriale, non possiamo permetterci il ridimensionamento della presenza di un’industria automobilistica: sarebbe una preoccupante eccezione nel panorama dei paesi più industrializzati. Come ultima spiaggia, non sarebbe affatto da scartare l’ipotesi dell’ingresso di altre case automobilistiche in grado di garantire livelli produttivi e occupazionali di qualità. Un’ultima domanda. La questione del ritorno del nucleare in Italia alimenta da sempre un dibattito animato. Cosa ne pensi in proposito? Non sono contrario all’introduzione del nucleare in Italia. Non si può mettere la testa sotto la sabbia. Siamo circondati da centrali nucleari e pertanto non siamo al riparo da eventuali rischi. Per di più compriamo all’estero energia prodotta dal nucleare. In Italia, l’energia elettrica è molto cara e rappresenta un costo che colpisce duramente industrie e famiglie. Investire solo nelle rinnovabili non sarebbe sufficiente: con quest’ultime, infatti, si può arrivare a coprire soltanto il 15% del fabbisogno nazionale. Una valida politica energetica deve comunque tener conto di una diversificazione delle fonti.