La ricerca della “santità senza Dio” in A. Camus e in Antero de Quental

La ricerca della “santità senza Dio” in A. Camus e in Antero de Quental
L’argomento scelto, di primo acchito, può sembrare contraddittorio. Ma le contraddizioni, a
mio parere, sono proprie degli uomini che cercano.
Si può essere santi senza Dio? È la domanda che ci si pone, leggendo il titolo
dell’argomento che stiamo per trattare. Credo che la risposta sia una questione del tutto
personale.
La santità nell’ateismo, o la via della santità nella laicità, è un argomento che spesso ha
stimolato gli uomini.
La santità, sin dall’antichità, indicava il raggiungimento della saggezza, della conoscenza,
della probità, dell’integrità morale, della pietà e di altre virtù simili.
Presso i Romani sante erano le leggi dello Stato e santo veniva chiamato l’eroe, l’uomo
virtuoso o il saggio, che seguiva la ‘religio civilis’, praticando le virtù della ‘sanctitas
civilis’. In qualche passo, troviamo che anche Socrate è stato chiamato santo.
Per questo significato pre-cristiano della terminologia, Albert Camus, che aveva preparato
la tesi di laurea su La metafisica cristiana e il neoplatonismo, ha scritto: «senza averlo mai
confessato, tutta la filosofia greca fa del saggio un essere uguale a Dio – e poi continua –
tutto l’universo ruota attorno all’uomo» (Saggi, p. 1226).
Da quest’ultima asserzione si deduce una visone antropocentrica del mondo. Mentre con la
prima, uguagliando il saggio a Dio, si può affermare che il saggio è un santo.
Già nella Bibbia (Sapienza X, 10) si trova scritto: che il giusto, guidato dalla saggezza,
aveva seguito le vie diritte e conosciuto le cose sante.
Quindi, anche nella Bibbia si trova la triade: giustizia, saggezza e santità.
Pertanto, il santo presso gli antichi era qualcuno che conduceva una vita particolare. Con la
sua venuta Cristo, secondo il Cristianesimo, ha portato la salvezza, rendendo gli uomini
partecipi della vita divina, ossia della santità divina. E da quel momento il concetto di
santità, si è arricchito della presenza della grazia divina. Poiché, com’è detto più volte nel
Vecchio e nel Nuovo Testamento, la santità è partecipazione alla vita divina, tramite la
grazia. Pertanto, non sono più sufficienti le virtù degli antichi pagani, ma occorre la grazie,
che è un dono di Dio.
Lungo i secoli, diverse volte, c’è stato il tentativo di ritorno ad una vita di santità,
prescindendo dalla fede in Dio. Negli ultimi tempi, una di queste persone, che ha tentato
questo ritorno alla santità senza Dio, è stato Albert Camus.
Egli è nato cento anni fa, esattamente il 7 novembre 1913, nella periferia di Algeri, da una
poverissima famiglia di pieds noirs. Il padre è morto durante la prima Guerra Mondiale
(quindi, il nostro scrittore non ha mai conosciuto il padre) e la madre, analfabeta e con
difficoltà di linguaggio, faceva dei servizi domestici per portare avanti la piccola famiglia.
Dopo le scuole elementari, Camus poté proseguire gli studi grazie ad una borsa di studio,
sollecitata per lui dal suo maestro. Laureatosi in filosofia, si trasferì a Parigi e lì entrò a far
parte della vita intellettuale della città. Era il periodo dell’Esistenzialismo e dell’amicizia
con Jean-Paul Sartre.
Con la seconda Guerra Mondiale e la Resistenza, Camus si dette alla macchia, partecipando
direttamente alla lotta per la liberazione della Francia dai nazisti. In questa occasione venne
a contatto con alcuni teologi domenicani, tra cui: Raymond Léopold Bruckberger, Yves
Congar e Dominique Chenu.
Pur professandosi ateo, il problema di Dio lo inquietava. Come si sa, alcuni decenni prima
della nascita del nostro autore, Nietzsche aveva scritto: Dio è morto. In questo status di
orfani, essendo assente la divinità, all’uomo non resta che la propria autodeterminazione per
affrontare il suo destino; infatti scrive Camus: «bisogna scegliere tra il mondo e Dio»
(Saggi, 1231), ma dio essendo morto, «non resta che la tragedia dell’uomo senza Dio» (Id.,
1224), come scrisse nella sua tesi di laurea. Dunque, il mondo senza Dio per Camus è una
«tragedia», perché è l’uomo che deve assumersi la responsabilità del mondo. Per questo
occorrono le antiche virtù umane, senza la grazia, per una santità senza Dio. A questo
proposito Camus aveva scritto nei suoi appunti: «Che cos’è ciò che io medito di più grande
di me e che non posso definire? Una specie di difficile cammino verso la santità della
negazione – un eroismo senza Dio – l’uomo puro infine. Tutte le virtù umane, ivi compresa
la solitudine, riguardo a Dio» (Tac., 31). E circa dieci anni dopo, riprendendo un passo di
Jacques Maritain, appuntava: «anche la santità è una rivolta, è rifiutare le cose così come
sono. È prendere su di sé le sventure del mondo» (Id., 298). Quest’ultima espressione, della
sua opera teatrale I Giusti, si trova in una delle profezie di Isaia, in cui si annuncia la
passione di Cristo.
Ed ancora Camus scriveva: «L’eroismo e la santità sono due virtù secondarie. Ma bisogna
tentare di provarli» (Id., 128).
Come si vede, anche il linguaggio della sua produzione richiama spesso quello biblico.
Per assumersi direttamente le sventure del mondo, l’uomo deve fare a meno di Dio, poiché
Dio è morto. Ritorna così il pensiero di Nietzsche. Infatti, nel saggio filosofico, Il Mito di
Sisifo, Camus, rielaborando un pensiero di Epicuro, scriveva: «Si conosce l’alternativa: o
noi non siamo liberi e Dio onnipotente è responsabile del male. O noi siamo liberi e
responsabili, ma Dio non è onnipotente» (Saggi, 140), accennando così il problema del
libero arbitrio. Nell’altro saggio, L’Uomo in Rivolta, scriveva: «Noi viviamo in una storia
desacralizzata» (Id., 431). Dunque, continua la sua affermazione della negazione di una
divinità onnipotente e, soprattutto, provvidenziale che renda sacro il tempo dell’uomo,
cioè la storia. Per questo motivo, nell’opera teatrale I Giusti, fa dire ad uno dei suoi
personaggi: «Dio non può fare niente. La giustizia è un affare nostro» (Teatro, 361). E la
giustizia, come si sa è uno degli elementi fondamentali della convivenza umana, quindi
della storia dell’uomo.
Il suo umanesimo è proiettato così in una dimensione tutta terrestre, in cui l’uomo è artefice
solitario del proprio destino. E i suoi personaggi sono costretti, se vogliono la salvezza
dell’umanità, a professare un’etica che indica il cammino verso questa santità laica.
Venendo meno la tensione ascensionale verso l’altro, ossia la metafisica, la santità si orienta
orizzontalmente verso gli uomini.
Il romanzo La Peste, pubblicato nel 1947, è l’opera che consacrò Camus come un santo
laico. Ed è proprio in questo romanzo che Camus ne teorizza il concetto: «Insomma, dice
Tarrou con semplicità, ciò che m’interessa è di sapere come si diventa santi.
Ma lei non crede in Dio, gli fa osservare Rieux.
Bene, ma si può essere santi anche senza Dio, è il solo problema concreto che io conosca
oggi» (Teatro,1427).
Bene, «è il solo problema concreto» che certamente ha tanto tormentato Camus, che, pur
professando di non credere in Dio, aveva delle inquietudini cristiane, perché nutrito di
Pascal e influenzato da Simone Weil. E il medico Rieux non si perde dietro alle idee
filosofico-teologiche, ma si adopera per curare gli appestati della città di Orano.
Il personaggio, che voleva farsi santo senza dio, Tarrou, muore di peste, e la sua fine viene
descritta con tanta serenità, che da molti critici è stata interpretata come la morte di un
santo. Le virtù che lo spingevano a dedicarsi agli ammalati erano sintetizzate in questi due
sentimenti: «la comprensione e la simpatia». La prima, la comprensione, indica la capacità
di capire con l’intelletto; mentre la seconda, la simpatia, in questo caso, è soffrire insieme
agli altri. Così, a fondamento della ricerca della santità, Camus mette il cuore e la mente!
Rieux, alla ricerca della santità di Tarrou, fa da controcanto dicendo che quello che gli
interessa di più «è di essere un uomo! Perché si sente più solidale con i vinti piuttosto che
con i santi, non amando né l’eroismo né la santità» (Id., 1427).
Tarrou gli replica che proprio questo voler essere un uomo è santità, concludendo: «noi
cerchiamo la stessa cosa» (Id.). Quindi, per Tarrou, essere una santo equivale ad essere un
vero uomo!
E per la pratica di queste virtù, un altro personaggio, il giornalista Rambert, che era rimasto
chiuso nella città ammorbata, quando finalmente è nella possibilità di fuggire, vi rinuncia
perché «si può avere vergogna ad essere felici da solo» (Id., 1389). Un altro personaggio,
che pratica queste virtù, è Grand. Di lui scrive Camus lungo la narrazione, che «era il
rappresentante di (tutte) queste virtù … con la buona volontà che gli era propria, aveva
chiesto di rendersi utile nelle piccole cose … » (Id., 1328). Nella sua semplicità,
quest’uomo ammirevole sente che gli uomini devono aiutarsi l’un l’altro.
Non accenno alle prediche del gesuita Paneloux, il prete, personaggio del romanzo, perché
altrimenti si dovrebbe aprire un discorso tra il rigido dogma della chiesa del tempo e gli
uomini di buona volontà che lavoravano per il bene della collettività. A conclusione di
quest’opera, Camus avverte che il male, identificato con la peste, può sempre ritornare a
distruggere una città felice, perché il bacillo può restare nascosto, forse anche per decenni.
Quindi, il male non viene definitivamente sconfitto e, per conseguenza, occorre restare
sempre vigili. E se il male descritto da Camus era da identificarsi col nazifascismo,
possiamo dire che questo bacillo ogni tanto dà segni inquietanti ancora oggi.
Ma Camus, malgrado la descrizione di tanta sofferenza, chiude con una nota ottimistica nei
confronti dell’uomo, proprio perché crede nell’uomo, dicendoci: «in mezzo ai flagelli
s’impara che negli uomini ci sono più cose da ammirare che da disprezzare» (Id., 1473).
A questo punto è bene fare un passo indietro nella sua produzione letteraria. Se si ammette
che le opere di un autore rispecchiano l’evoluzione del suo pensiero, si può dire che tra
tanto male e tanta crudeltà, Camus abbia tentato anche il percorso della ricerca della
trascendenza. Caligola, il protagonista della sua prima opera teatrale, dopo la morte della
sorella/amante, constata: «questa morte non è niente, essa è soltanto il segno di una verità
un po’ stupida, ma difficile da scoprire e pesante da portare: gli uomini muoiono e non
sono felici» (Id., p. 16). E poco prima aveva affermato: «io non sono folle e non sono mai
stato così ragionevole. Semplicemente, all’improvviso ho sentito il bisogno
dell’impossibile. Le cose, così some sono, non sono soddisfacenti … non lo sapevo prima.
Adesso lo so. Questo mondo, così com’è fatto non è sopportabile. Io ho dunque bisogno
della luna, o della felicità, o dell’immortalità, di qualcosa che sia anche folle, ma che non
sia di questo mondo» (Id. p. 15). In queste parole, la ricerca della felicità o
dell’immortalità, di qualcosa, comunque, che non sia di questo mondo, si evince la sete
d’infinito, proprio nel tentativo di superare il limite umano. Ma per Camus, è bene che gli
uomini restino radicati alle realtà terrestri «perché ci sono molti fratelli da soccorrere» (Id.,
p. 362) e perché «in mezzo ai flagelli s’impara che negli uomini ci sono più cose da
ammirare» e, infine, perché questa ricerca d’infinito porta alla follia. Infatti, Camus, nel
proporci la personalità di questo imperatore, forse il più sanguinario tra gli imperatori
romani, si è ispirato, grossomodo, alla biografia lasciataci da Svetonio. Anche la figura di
Caligola, in qualche modo, è stata interpretata come metafora del nazismo!
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Il poeta portoghese, Antero de Quental, che ha in comune con Camus questa ricerca del
santità senza Dio, è nato nelle Isole Azzorre il 18 aprile 1842. E, al contrario di Camus,
apparteneva ad una famiglia benestante, colta e molto religiosa, tanto che tra i suoi parenti
si annoverava un venerabile e un professore universitario. Nella sua infanzia, tra i suoi
precettori ebbe anche uno dei più grandi poeti romantici del momento (Antonio Feliciano
de Castilho).
Allontanandosi dai principi religiosi impartitigli in famiglia, trova la fonte dove forgiare il
suo pensiero nella filosofia neoplatonica, nel buddismo e soprattutto nella filosofia di
Proudhon e di Michelet, evidenziando un forte senso etico della vita. Infatti, ad un amico ha
scritto: «penso come Proudhon, come Michelet, ma sento e immagino come l’autore
dell’Imitazione di Cristo» (H. C., p. 29). Come sappiamo, l’Imitazione di Cristo è un libro
di elevato valore mistico, pervenutoci da un anonimo monaco del tardo Medioevo. Dunque,
Antero, anche per la componente della «saudade», che caratterizza il popolo portoghese, ha
una grande tendenza al misticismo, così come gli autori da lui prediletti. La Bibbia
dell’Umanità di Michelet è il suo nuovo vangelo.
Per avere un’idea della sua tendenza al misticismo e di quanto avesse fatto suo il pensiero di
Plotino, ad un altro amico scrisse: «la nostra vita è la vita della nostra anima, il suo mondo è
quello dell’abnegazione, della purezza, della pazienza e della gioia» (Id., p. 38) . Ed altrove,
a proposito del pessimismo, così si espresse: «È bene e persino necessario passare
attraverso il pessimismo, ma non si deve restare a lungo in esso. Il pessimismo non è un
punto di arrivo, ma un cammino. Esso è la sintesi della negazione nella sfera della natura.
Ma, al di là della natura c’è il mondo morale che è il mondo dell’armonia, della verità, della
libertà e dell’ottimismo». E continua con una nota prettamente romantica concludendo: «in
fondo al cuore c’è una voce che ci dice perché si esiste e perché vale la pena di esistere»
(Id.).
A questi quesiti, perché si esiste e perché vale la pena di esistere, possiamo affermare, che
oltre cinquant’anni dopo la morte del poeta, è Camus che risponde scrivendo, come s’è
detto, perché ci sono troppi fratelli da soccorrere e perché negli uomini ci sono molte cose
da ammirare che da disprezzare.
Purtroppo, nonostante questa professione di ottimismo, Antero, che soffriva di problemi
psichici, già allora chiamati ‘psicosi’, forse influenzato anche dalle dottrine stoiche e
buddiste, si è suicidato nella pubblica piazza del suo paese natale (Ponta Delgada) l’11
settembre 1891. E per una strana ironia, ciò avvenne accanto ad un monumento che
rappresenta, tuttora, un’ancora sulla quale è incisa la parola ‘Speranza’! Siamo all’epoca
cosiddetta: fin de siècle, in cui il genio si coniugava con la follia. Ed era il tempo dei poeti
maledetti, ed Antero incarna: follia e maledizione.
Per quanto riguarda la ricerca della santità, Antero esprime quest’ansia sia nelle epistole che
nella sua opera filosofica: Tendenze generali della filosofia, nella seconda metà del
diciannovesimo secolo. Infatti, così conclude questo saggio: «La coscienza del giusto è
l’unico tempio dell’unico Dio; e, in questo tempio, la rinuncia all’egoismo è l’unico culto.
Se poi la rinuncia all’egoismo determina la libertà, concludiamo che la santità è il fine di
tutto, l’evoluzione» (Ten., p. 119).
Per vivere quest’ideale di santità senza Dio, Antero aveva fatto proprio il concetto di
Michelet, che aveva scritto: «Il Dio dell’umanità è lo stesso uomo …, l’uomo è un Dio che
si ignora» (H. C., p. 63), egli identifica la vita del filosofo e del poeta come «un sacerdozio,
un apostolato, una missione» (L. R. S. p. 43), e per questo motivo tra i suoi amici veniva
chiamato santo Antero.
Ma vediamo il suo dilemma religioso attraverso alcuni suoi sonetti, che sono il suo
capolavoro e una delle migliori opere poetiche scritte in lingua portoghese.
La raccolta, che contiene 109 sonetti, si apre con la composizione Ignoto Deo, al dio
ignoto. Evidentemente è facile capire che questo titolo sia stato preso dagli Atti degli
Apostoli. Però il Dio ignoto, presso il cui altare San Paolo ha potuto rivelare ai pagani la
dottrina di Cristo, all’invocazione di Antero resta muto. Così scrive il poeta nel sonetto:
«Per il mondo cerco un Dio clemente, / Ma gli trovo solo l’altare … vecchio e spoglio». E
continua evocandolo, «Pura essenza delle lacrime che verso e sogno dei miei sogni», per
concludere con un’accorata invocazione: «… Se sei verità, / Svelati!, visione, almeno in
cielo» (P. p. 217). Ma al desiderio del poeta corrisponde ancora il silenzio. E questo
silenzio ricorda il silenzio di Dio in La Peste di Camus, quando viene chiesto il miracolo
della guarigione del bambino, affetto dal morbo; ma il bambino muore e la sua morte
incarna il silenzio di Dio. Tale silenzio porta entrambi gli Autori alla rivolta. Se Camus,
tramite il protagonista del romanzo, il dott. Rieux, dice: «non mi inginocchierò mai sotto
questo cielo, dove i bambini vengono torturati» (Teatro, p. 1397), Antero va oltre e arriva
alla bestemmia ridicolizzando Dio, dicendogli sarcasticamente: «non sei che una vana
banalità» (P. 276). Ma stranamente, la raccolta dei sonetti si chiude con la composizione
Nella mano di Dio. «Nella mano di Dio /…/ Riposò finalmente il mio cuore / Dal palazzo
incantato dell’Illusione / Scesi lentamente la stretta scala. /…/ Deposi dell’Ideale della
Passione, / La forma transitoria ed imperfetta. /…/ Dormi il tuo sonno, libero cuore, / Dormi
nella mano di Dio eternamente» (Id., 313).
Con questa chiusura dell’opera, potrebbe sembrare che ci sia stato un ritorno alla religione
dei primi anni del poeta. Ma qualche eminente studioso ha fatto notare che è stato un suo
amico a dare l’impaginazione definitiva ai sonetti, quindi, dubita il critico che questo
sonetto sia l’ultima composizione in ordine cronologico. Si nota, però, lungo la raccolta un
antirivieni tra negazione e ricerca di Dio. Quindi, troviamo versi che dicono: «Dio spense
con la mano la sua luce / Ed agli uomini nascose la sua faccia» (Id., 259); oppure: «Cercò
chi non lo volle; e a me, che lo chiamo / Deve fuggirmi, come ad ingrato figlio?»; per
concludere, alla fine del medesimo sonetto, con un grido quasi disperato: «O Dio, padre
mio e mio rifugio! Io spero, io credo!» (Id., 222). Il silenzio di Dio continua, nonostante che
Antero, imperterrito, continui a cercarlo e a chiedergli «Perché per il dolore ci hai evocati?»
(P., 291). Ma la divinità, quasi irritata risponde: «Uomini! perché mi avete creata?» (Id.).
Quindi, non è la divinità che ha creato gli uomini, ma sono gli uomini folli che l’hanno
creata. E qui si nota apertamente l’influenza di Michelet. Ed ancora Antero stuzzica questo
Dio a cui chiede come si chiama, ed egli, quasi mortificato, risponde: «I tuoi fratelli, … gli
uomini folli, / Da più di diecimila anni, mi chiamano Dio… / Ma io per me non so come mi
chiamo» (Id., 279). Gli uomini folli cercano e invocano la divinità, così come in Camus, il
folle Caligola cerca «la felicità o l’immortalità, o comunque, qualcosa che non fosse di
questo mondo!» (Teatro, 15). A questo punto si potrebbe aprire un ampio discorso sulla
follia dei santi, di cui per primo ha parlato proprio San Paolo.
Per ritornare ad Antero, diciamo che il poeta, deluso da questa ricerca dell’essere
trascendente, scrive ancora: «Si rivolse a Dio l’anima mia triste /…/ E trovai pace
nell’inerzia e nell’oblio… / Mi manca solo di sapere se Dio esiste!» (Id., 288). E a questo
punto, pare che Antero resti nel dubbio. Si può notare, però, che il suo pensiero è alquanto
complesso. Ciò che lo caratterizza costantemente è il suo alto senso morale. Per questo si
disse che: «Allo Stoicismo il poeta associa l’ideale di santità (senza Dio), lasciando nelle
sue carte le tracce che alimenteranno quella leggenda del santo Antero» (L.R.S., 101). Un
suo amico ipotizzò che, per la sua bontà e i suoi ideali, se il poeta fosse vissuto nel sesto o
nel tredicesimo secolo, sarebbe stato un discepolo di San Benedetto o di San Francesco
(F.C., 249).
Per concludere si può concordare con quanto sostenevano François Mauriac, il quale
riteneva Camus «anima naturaliter religiosa», ed Hernâni Cidade, che considerava Antero
«un’anima religiosa assetata d’infinito» (H.C., 111).
Entrambi gli Autori hanno quest’ansia di santità, consistente in un’eccepibile coerenza
morale, che attinge la sua forza dalla stessa coscienza umana. In essi si nota il recupero del
pensiero del mondo classico, nonché la visione dell’esistenza umana, intesa da Antero come
«dramma», e da Camus come «tragedia» per esprimere quell’eterna lotta dell’uomo, come
dicevano gli antichi greci, tra l’accettazione della «giusta misura» e la «dismisura», ossia la
hybris.
Chiudo ricordando ancora le belle parole di Camus: «negli uomini ci sono più cose da
ammirare che da disprezzare», e quelle di Antero: «La libertà, a dispetto del
determinismo…, non è una parola vana: essa è possibile e si realizza nella santità. Per il
santo, il mondo cessò di essere un carcere: al contrario, egli è il signore del mondo, poiché è
il supremo interprete. È solo per lui che l’universo sa perché esiste: solo lui (il santo)
realizza il fine ultimo dell’universo» (T., 17).
Note bibliografiche:
Saggi, ved. Albert Camus, Essais, Paris, Gallimard, 1965.Tac., ved. Carnets II, Paris, Gallimard, 1964.
Teatro, ved. Albert Camus, Théâtre, Récits, Nouvelles, Paris, Gallimard, 1967.
H. C., ved. Hernâni Cidade, Antero de Quental, Lisboa, Editorial Presença, 1998.
Ten., ved. Antero de Quental, Tendências gerais da filosofia na segunda medade do século XIX, Lisboa,
Editorial Presença, 1999.
L. R. S. ved., Leonel Ribeiro dos Santos, Antero de Quental, uma visão moral do mundo, Lisboa, Temas
Portugueses, 2002.
P., ved. A. de Quental, Poesia Completa 1842-1891, Lisboa, Publicaçôes Dom Quixote, 2001.
F.C., ved. Fernando Catroga, Antero de Quental, Editorial Notícias, Lisboa, 2001.