4. SERGEJ M. EJZENŠTEJN Dal teatro al cinema1 È interessante

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4. SERGEJ M. EJZENŠTEJN
Dal teatro al cinema 1
È interessante ripercorrere le diverse strade seguite dagli attuali cineasti sin dagli inizi della loro attività
creativa, e che tutt’insieme compongono il variopinto sfondo del cinema sovietico. Poco dopo il 1920
giungemmo tutti al cinema sovietico come a qualcosa che ancora non esisteva. Non trovammo una città
prefabbricata; non c’erano piazze né strade tracciate; neppure viuzze tortuose e vicoli ciechi quali possiamo
trovare nelle cinemetropoli del nostro tempo. Giungemmo, come beduini o cercatori d’oro, in un luogo
ricco di possibilità impensabili, di cui una piccola parte soltanto è stata sinora sviluppata.
Piantammo le tende e riversammo nel lavoro le nostre esperienze accumulate nei vari campi. Attività
personali, professioni esercitate casualmente nel passato, abilità imprevedute, conoscenze specifiche
insospettate: tutto questo si fuse nella costruzione di qualcosa che non possedeva per il momento tradizioni
scritte né precise esigenze stilistiche, neppure problemi chiaramente formulati.
Senza troppo addentrarmi nei rottami teorici dello specifico cinematografico, voglio discuterne qui due
caratteristiche; caratteristiche che appartengono anche ad altre arti, ma a cui il cinema è particolarmente
legato. Primo: si registrano frammenti fotografici della natura; secondo: si combinano questi frammenti in
modi diversi. Nasce così l’inquadratura, nasce il montaggio. La fotografia è un sistema di riproduzione che
serve a fissare fatti ed elementi della realtà attuale.
Queste riproduzioni, o riflessi fotografici, si possono combinare in vari modi. Sia la loro natura di riflessi,
sia il modo in cui vengono combinati, permettono qualsiasi tipo di distorsione o tecnicamente inevitabile o
volutamente calcolata. I risultati vanno da esatte combinazioni naturalistiche di esperienze visive legate tra
loro a deformazioni complete, a sistemazioni non previste dalla natura, e persino al formalismo astratto, con
qualche residuo soltanto di realtà.
L’apparente arbitrarietà del contenuto, nel suo rapporto con lo status quo della natura, è assai meno
arbitraria di quel che sembra. L’ordine finale è inevitabilmente determinato, più o meno coscientemente,
dalle premesse sociali dell’autore della composizione filmica. La sua tendenza di classe è alla base di quello
che sembra un arbitrario rapporto cinematografico con l’oggetto posto, o trovato, dinanzi alla macchina da
presa. Vorremmo trovare in questo duplice procedimento (il frammento e i suoi rapporti) un’indicazione
circa lo specifico cinematografico, ma non possiamo negare che questo processo si trova anche in altri
mezzi artistici, più o meno vicini al cinema (e quale arte non è vicina al cinema?). Possiamo tuttavia
sostenere che queste caratteristiche sono specifiche del cinema perché lo specifico cinematografico non sta
nel processo stesso ma nel grado d’intensità di queste caratteristiche.
Il musicista usa una scala di suoni; il pittore una scala di colori; lo scrittore una serie di suoni e di parole:
tutte cose prese ugualmente dalla natura. Ma in questi casi il frammento immutabile di autentica realtà è più
ristretto e di significato neutro, e perciò più flessibile e adattabile nella combinazione; così che, quando i
frammenti si uniscono, non si vede più che sono combinati e sembrano un’unità organica. Un accordo, o
anche tre note successive, appaiono come un’unità organica. Perché la combinazione col montaggio di tre
frammenti di film dev’essere considerata come un triplice scontro, dovuto agli impulsi di tre immagini
successive?
Quando si mescolano l’azzurro e il rosso, il risultato vien definito come violetto e non come «doppia
esposizione» di rosso e azzurro. La stessa unità di frammenti verbali consente una quantità di variazioni
espressive. È assai facile distinguere nel linguaggio tre sfumature di significato. Ecco un esempio: «una
finestra senza luce», «una finestra scura», «una finestra non illuminata».
Cerchiamo ora di esprimere queste diverse sfumature
nella composizione dell’
inquadratura. È mai
possibile?
Se lo è, quale complicata tessitura sarà necessaria per infilare i frammenti di pellicola nel filo conduttore
1
Questo scritto del 1936 è tratto da Sergej M. Ejzenstejn, Forma e tecnica del film, Einaudi, Torino 1964, pp. 3-18 [16].
del film in modo che la forma nera sulla parete incominci a mostrarsi come una finestra «scura» o «non
illuminata»? Quanta intelligenza e abilità occorreranno per ottenere un effetto che queste parole danno così
semplicemente? È molto meno facile lavorare in modo autonomo l’inquadratura che la parola o il suono.
L’azione reciproca tra inquadratura e montaggio è perciò un vero ampliamento su larga scala d’un processo
esistente in misura microscopica in tutte le arti. Ma nel cinema questo processo giunge a un grado tale che
sembra acquistare una qualità nuova. Considerata come materiale di composizione, l’inquadratura è più
resistente del granito. Questa resistenza le è specifica. La tendenza dell’inquadratura a un’assoluta
immutabilità reale ha radici nella sua natura. È stata questa resistenza a determinare in gran parte la
ricchezza e la varietà delle forme e degli stili del montaggio: il montaggio diventa così il mezzo più potente
per riplasmare la natura in modo veramente creativo.
Ecco perché il cinema può, più di qualsiasi altra arte, rivelare il processo che si svolge in modo
microscopico in tutte le altre forme d’espressione artistica.
Il frammento minimo «deformabile» della natura è l’inquadratura; l’abilità nel combinare questi vari
frammenti è il montaggio. Durante il secondo quinquennio del cinema sovietico (1925-30), si dedicò
all’analisi di questo problema una straordinaria attenzione, portata sovente all’eccesso. Ogni minima
alterazione di un fatto o di un avvenimento
dinanzi alla macchina da presa si sviluppava, al di là d’ogni
limite ragionevole, in teorie complete del documentarismo. La legittima necessità di combinare questi
frammenti di realtà diede origine a concezioni del montaggio che pretendevano di soppiantare tutti gli altri
elementi dell’espressione filmica.
Entro certi limiti, queste caratteristiche entrano, come elementi, in qualsiasi stile cinematografico. Ma non
si oppongono né possono sostituirsi ad altri problemi: quello del soggetto, per esempio.
Per ritornare al duplice processo cui s’è accennato all’inizio di questi appunti: se questo procedimento è
caratteristico del cinema, e ha trovato la sua espressione più completa nella seconda fase del cinema
sovietico, sarà utile e interessante esaminare l’attività dei cineasti di quel periodo per vedere come nacquero
queste caratteristiche, e come si svilupparono nel loro lavoro precinematografico. Tutte le strade di quel
periodo conducevano verso un’unica Roma. Cercherò di descrivere il cammino che mi portò ai principi
cinematografici.
Si dice, in genere, che la mia carriera cinematografica sia incominciata con la regia della commedia di
Ostrovskij Anche il più saggio si sbaglia al teatro del Proletkul’t (Mosca, marzo 1923): il che è al tempo
stesso vero e falso. È falso se si fonda unicamente sul fatto che questa produzione conteneva un breve film
comico realizzato appositamente (non separato, ma incluso nel piano di montaggio dello spettacolo
teatrale). È più vero se si fonda sul carattere della messa in scena, in cui già si potevano osservare le
caratteristiche specifiche summenzionate.
Siamo d’accordo nel riconoscere che prima caratteristica dell’atteggiamento cinematografico è mostrare i
fatti con la minima deformazione possibile, mirando invece alla realtà effettiva dei frammenti.
Un’indagine in questo senso mostrerà come le mie tendenze cinematografiche incominciassero tre anni
prima, nella regia teatrale del Messicano, da un racconto di Jack London. Cercai qui d’introdurre nel teatro
i «fatti» stessi, elementi puramente cinematografici, distinti dalla «reazione ai fatti», che è un elemento
puramente teatrale.
Ecco la trama: un gruppo di rivoluzionari messicani ha bisogno di denaro per le sue attività. Per procurarlo,
uno di loro, un ragazzo, si allena nel pugilato e accetta di farsi battere dal campione per una parte minima
del premio. Ma poi invece batte il campione vincendo il premio intero. Ora che conosco meglio le
caratteristiche della lotta rivoluzionaria messicana, per non parlare della tecnica del pugilato, interpreterei
questo materiale in modo assai
diverso da quel che si fece nel 1920 e difficilmente mi servirei d’
una trama
così poco convincente.
Il punto culminante del dramma è la scena dell’incontro. Secondo le più consacrate tradizioni dell’arte
teatrale, questo avrebbe dovuto svolgersi dietro le quinte (come la corrida nella Carmen), mentre gli attori
in scena si mostravano eccitati dalla lotta ch’essi soli vedevano, rivelando i diversi sentimenti delle persone
interessate al risultato.
Il primo passo ch’io feci invadendo il campo del regista (dato che ufficialmente ero soltanto lo scenografo),
fu di proporre che l’incontro venisse portato sulla scena. Suggerii inoltre che la scena fosse situata al centro
della platea per ricreare lo stesso ambiente in cui si svolge un
vero incontro di pugilato. Tentavo cosi di
dar forma concreta a fatti reali; benché preparato prima, l’incontro doveva essere assolutamente realistico.
La recitazione dei nostri giovani attori-operai nella scena dell’incontro era completamente diversa da quella
nelle altre scene; mentre in queste da un’emozione nasceva un’emozione maggiore (lavoravano secondo il
sistema di Stanislavskij), usata poi a sua volta come mezzo per colpire il pubblico, nella scena dell’incontro
il pubblico veniva stimolato direttamente. Mentre le altre scene agivano sul pubblico con l’intonazione, i
gesti, la mimica, nella nostra scena si usavano mezzi realistici addirittura strutturali: vera lotta, corpi che
crollavano sul pavimento del «quadrato», respiro affannoso, luccicar di sudore sui dorsi nudi e infine il
suono indimenticabile dei guantoni sulla pelle tirata e i muscoli tesi. Alla scenografia immaginaria, si
sostituì un «quadrato» realistico (anche se non fu possibile collocarlo al centro della sala per colpa di quella
piaga di tutte le rappresentazioni teatrali che sono i pompieri) con le comparse ammassate tutt’attorno.
Mi resi conto così d’aver scoperto un nuovo filone, un elemento veramente materialistico nel teatro, che in
Anche il più saggio si sbaglia apparve in modo nuovo e più chiaro. L’eccentricità dell’opera faceva risaltare
questa stessa linea, attraverso contrasti fantastici. La tendenza nasceva non solo dall’illusione creata dalla
recitazione, ma dal fatto fisico delle acrobazie. Un gesto diventava un movimento ginnico, la collera si
esprimeva con una piroetta, l’esaltazione con un salto mortale, il lirismo culminava col «palo della morte».
Questo stile grottesco permetteva di saltare da un tipo di espressione a un altro o anche d’intrecciare in
modo inatteso le due espressioni. In una regia successiva, Mosca, ascolti? (estate 1923), queste due linee
diverse di «azione reale» e «fantasia visiva»
furono sintetizzate in una tecnica specifica di recitazione.
Di nuovo questi due principi comparvero in Maschere antigas di Tret’jakov (1923-24) con
un’irreconciliabilità ancora più netta, separati da una frattura così totale che, se si fosse trattato d’un film,
questo sarebbe inevitabilmente rimasto, come si dice, «in magazzino».
E come mai? Il conflitto tra il principio materiale-pratico e quello romanzesco-descrittivo era in un certo
senso appianato nel melodramma, ma qui i due elementi si scindevano e il fallimento era inevitabile. Il
carretto andò in pezzi e chi lo conduceva cadde nel cinema.
Tutto questo accadde perché un giorno il regista ebbe la straordinaria idea di mettere in scena questo
spettacolo su una fabbrica di gas in una vera fabbrica di gas.
Come mi resi conto più tardi, gli interni reali della fabbrica non avevano nulla a che fare con la nostra
finzione teatrale. Ma il fascino plastico della realtà nella fabbrica divenne così forte che l’elemento
dell’autenticità emerse con forza nuova, prese il sopravvento e fu infine costretto ad abbandonare un’arte in
cui non poteva dominare.
Ci portò così alle soglie del cinema.
Ma questa non è ancora la fine delle nostre avventure nel teatro. Portata sullo schermo, quest’altra tendenza
si sviluppò vivacemente e divenne nota con il nome di « tipaž», caratteristica specifica, come il montaggio,
di questo periodo del cinema. E sia ben chiaro ch’io non intendo limitare alle mie opere il concetto di
«tipaž» o di montaggio.
Ci tengo ad affermare che il «tipaž» dev’essere inteso come qualcosa di più che un semplice volto senza
trucco o la sostituzione agli attori di tipi «naturalmente espressivi». Include, secondo me, un atteggiamento
specifico verso i fatti compresi nel film. È, ancora una volta, il metodo fondato sul minimo d’interferenza
col corso e le combinazioni naturali dei fatti. Nella sua concezione, Ottobre è, dal principio alla fine, puro «
tipaž».
Può darsi che la tendenza al «tipaž
» abbia le sue radici nel teatro; uscendo dal teatro per potenziarsi nel
cinema, offre possibilità di ottimo sviluppo stilistico, in senso ampio, come indicatore di precise affinità,
attraverso la macchina da presa, con la vita reale.2
Esaminiamo ora la seconda caratteristica dello specifico cinematografico, e cioè i principi del montaggio.
Come espressi e diedi forma nella mia opera a questi principi prima di arrivare al cinema? In mezzo al
pullulare di eccentricità di Anche il più saggio si sbaglia, in cui è inserito persino un breve brano filmato,
già possiamo scorgere i primi accenni a un vero e proprio montaggio.
L’azione si svolge attraverso un intreccio elaborato. Mamaev manda il nipote, Glumov, a sorvegliare la
propria moglie. Ma Glumov si prende delle libertà, andando oltre le istruzioni dello zio e la zia accetta il
suo corteggiamento. Al tempo stesso Glumov si dà da fare per combinare il proprio matrimonio con la
nipote di Mamaev, Turusina, ma nasconde le sue intenzioni alla zia Mamaeva. Corteggiando la zia, Glumov
inganna lo zio; adulando lo
zio, Glumov si accorda con lui per ingannare la zia.
Glumov ricorda, sul piano comico, le circostanze, le passioni dominanti, il turbine finanziario che
costituiscono le esperienze del suo prototipo francese, il Rastignac di Balzac. Il tipo di Rastignac era in
Russia allora appena in fasce. Il far denaro era ancora una specie di gioco infantile tra zii e nipoti, zie e
corteggiatori; l’operazione rimaneva in famiglia e aveva quindi un’importanza relativa: di qui la commedia.
Ma l’intreccio e le sue conseguenze sono già presenti, svolgendosi contemporaneamente su due fronti, a
due mani e con doppi personaggi... e noi mostrammo tutto questo intrecciando col montaggio due scene
diverse: Mamaev che dà le sue istruzioni e Glumov che le mette in pratica. Il sorprendente intersecarsi dei
due dialoghi rafforza i personaggi e l’azione, accelera il ritmo e moltiplica le possibilità comiche.
Per la rappresentazione di questa pièce il palcoscenico prese la forma dell’arena d’un circo equestre, chiusa
da una barriera rossa e circondata per tre quarti dal pubblico. L’altro quarto era chiuso da un tendone a
righe di fronte a cui era collocata una piccola piattaforma situata a una certa altezza. La scena con Mamaev
(Maksim Strauch) si svolgeva di sotto, mentre i pezzi con la Mamaeva (Janukova) venivano recitati sulla
piattaforma. Invece di cambiar scena, Glumov (Ezikanov) correva su e giù dalla piattaforma, cogliendo un
frammento di dialogo da una scena, interrompendolo con un frammento dell’altra: il dialogo quindi si
scontrava creando nuovi significati e a volte giochi di parole. Gli spostamenti di Glumov funzionavano
come cesure tra i frammenti di dialogo.
L’alternarsi delle scene aumentava il ritmo. Era interessante vedere come l’estrema eccentricità non fosse
avulsa dal contesto; non diventasse comica per il puro gusto di far ridere, ma aderisse al tema, sottolineato
dalla realizzazione scenica.
Un’altra chiara caratteristica cinematografica qui in opera era il significato nuovo che le frasi più comuni
acquistavano in un nuovo ambiente.
Chiunque abbia avuto tra le mani un pezzo di pellicola da montare sa per esperienza com’essa rimanga
neutrale, anche quando faccia parte d’una sequenza costruita, finché non si unisce a un altro pezzo,
acquistando così improvvisamente e trasmettendo un significato più preciso e completamente diverso da
quello a cui s’era pensato al momento della ripresa. Troviamo qui la base di quella saggia e perversa arte di
rifare il montaggio d’opere altrui, di cui si possono trovare gli esempi più significativi all’alba della nostra
cinematografia, quando tutti i maestri del montaggio - Esther Šub,3 i fratelli Vasil’ev, Beniamino Boitler e
2
Ejzenstejn ha detto che si potrebbe definire il «tipaž» come uno sviluppo moderno della «commedia dell’arte», con le sue
sette figure fondamentali moltiplicate all’infinito. L’affinità non sta nel numero, ma nell’atteggiamento del pubblico.
All’ingresso di Pantalone o del Capitano, la sua maschera rivela immediatamente al pubblico che cosa può aspettarsi da
questo personaggio. Il «tipaž
» cinematografico moderno si fonda sulla necessità di presentare ogni nuova figura in modo
così netto e completo sin dal primo momento in cui la vediamo, che ogni uso ulteriore del personaggio divenga un elemento
noto. Si creano così nuove, immediate convenzioni. Una più ampia trattazione di questo atteggiamento troveremo nei
commenti dell’autore su Lavater, a p. 139 [Nota di Jay Leyda].
3
La Šub, il cui nome è da un pezzo familiare ai documentaristi di tutto il mondo, è nota all’estero soltanto attraverso il film
proiettato in America col titolo di Cannons and Tractors (Segodnja [Oggi], 1930). La prima volta in cui Ejzenstejn mise insieme
due pezzi di un vero e proprio film, fu mentre aiutava Esther Šub a rimontare il Dottor Mabuse di Lang, il che accadde poco
dopo la regia del Saggio. Quanto ai Vasil’ev, fu col Čapaev che si conquistarono un posto nella storia del cinema [Nota di J. L].
Birrois - erano impegnati a rielaborare abilmente i film importati dopo la rivoluzione.
Non posso resistere alla tentazione di citare qui un montaggio di questo genere, vero tour de force eseguito
da Boitler. Tra i film comperati in Germania c’era Danton con Emil Jannings. Quando apparve sui nostri
schermi si vide questa scena: Camille Desmoulins è condannato alla ghigliottina; agitatissimo, Danton si
precipita da Robespierre che girando la faccia si asciuga lentamente una lacrima. La didascalia diceva
press’a poco così: « In nome della libertà ho dovuto sacrificare un amico...» Bellissimo.
Ma chi avrebbe mai potuto immaginare che nell’originale tedesco Danton, rappresentato come un signore,
un dongiovanni, un tipo simpatico, unica figura positiva fra tanti personaggi malvagi, che questo Danton
corresse dal cattivo Robespierre e... gli sputasse in faccia? E che fosse precisamente questo sputo quello che
Robespierre si asciugava dal volto col fazzoletto? E che la didascalia indicasse l’odio nutrito da
Robespierre per Danton, odio che alla fine del film era causa della condanna alla ghigliottina di JanningsDanton?! Erano bastati due piccoli tagli per capovolgere tutto il significato della scena!
Che cosa troviamo alle origini del mio esperimento di montaggio in queste scene di Anche il più saggio si
sbaglia?
C’era già un sentore di montaggio nel nuovo cinema «di sinistra», specie tra i documentaristi. La
sostituzione da noi fatta nel testo di Ostrovskij d’un breve «diario filmato» al diario di Glumov, era di per
se stessa una parodia dei primi esperimenti fatti con i cinegiornali.
Credo di dover in primo luogo riconoscere il mio debito verso i principi fondamentali del circo e del teatro
di varietà, da me amati appassionatamente sin dall’infanzia.
Sotto l’
influenza dei comici francesi e di
Chaplin (di cui avevamo soltanto udito parlare), e delle prime notizie circa il fox-trot e il jazz, questo amore
giovanile si sviluppò
sempre più. L’elemento del teatro di varietà era evidentemente indispensabile in quel
momento perché nascesse un modo di pensare fondato sul montaggio. Il costume
variopinto di Arlecchino
si allargò fino a ricoprire tutta la struttura del programma, fino a diventare il metodo stesso di produzione.
Ma c’erano radici più profonde nella tradizione. Cosa strana, fu Flaubert a darci uno dei più begli esempi di
montaggio incrociato di dialoghi, usato con lo stesso intento di rendere più netta e più viva l’espressione
dell’idea. Si tratta della scena di Madame Bovary in cui Emma e Rodolfo fanno più intimamente
conoscenza. Due discorsi si alternano: il discorso dell’oratore nella piazza sottostante, e la conversazione
dei futuri amanti:
... e subito si levò il signor Derozerays attaccando un altro discorso... L’elogio del Governo vi era meno diffuso, la religione e
l’agricoltura di più. L’una era considerata in funzione dell’altra e si dimostrava come la civiltà avesse sempre tratto profitto dal
concorso di entrambe.
Frattando Rodolphe parlava con la signora Bovary di sogni, di presentimenti, di magnetismo. Risalendo alle origini della società,
l’oratore dipingeva i tempi primitivi durante i quali gli uomini vivevano di ghiande, in fondo ai boschi. Quindi, deposte le spoglie
degli animali e indossato panni, avevano scavato solchi, piantate vigne. Era stato un bene, oppure, in quelle scoperte, gli
inconvenienti avevano superato i vantaggi? Il signor Derozerays si poneva il quesito. Dal magnetismo, Rodolphe era passato pian
piano alle affinità, e mentre il presidente andava citando Cincinnato all’aratro, Diocleziano che pianta i suoi cavoli e gli
imperatori di Cina che facevano iniziare l’anno dalle seminagioni, spiegava alla giovane donna come certe attrazioni irresistibili
traggono origine da qualche esistenza anteriore.
- Per esempio, noi perché ci siamo conosciuti? Qual fato lo ha voluto? Sono certo che attraverso gli spazi, come due fiumi che
scorrono per incontrarsi, le nostre particolari inclinazioni ci spingevano l’uno verso l’altra.
Le prese la mano; lei non la ritrasse.
«Buone coltivazioni complessive», gridò il presidente.
- Poco fa, vedete, quando sono venuto accanto a voi... «Al signor Bizet, di Quincampoix».
- Potevo immaginare che vi avrei accompagnata?
«Settanta franchi!»
- Cento volte ho voluto andarmene; tuttavia sono rimasto.
«Letamai».
4
- Come resterei qui con voi questa sera, e domani, e gli altri giorni, e tutta la vita!
4
Gustave Flaubert, Madame Bovary, Paris 1857 (trad. it. La signora Bovary, Torino 1963, pp. I34-35).
e così di seguito, con «pezzi» che producono una crescente tensione.
Come si può vedere, s’intrecciano qui due linee, tematicamente identiche, ugualmente banali. La materia è
sublimata sino a una banalità monumentale, di cui si raggiunge il culmine con quest’intersecarsi di frasi,
questo gioco di parole, il cui significato dipende sempre dall’affiancarsi delle due linee. La letteratura è
piena di esempi simili: il metodo è usato con crescente popolarità dagli eredi artistici di Flaubert. Le libertà
da noi prese nei confronti di Ostrovskij rimanevano a un livello di «avanguardia», d’innegabile modestia.
Ma questo germe di montaggio si sviluppò rapidamente e splendidamente in Patatrac, destinato
a
rimanere un progetto per mancanza d’un locale adeguato e di possibilità tecniche. Il progetto della messa
in scena si fondava su «ritmi d’inseguimento», rapidi cambiamenti d’azione, scene che s’intersecavano, e la
recitazione simultanea di diverse scene su un palcoscenico che circondava una platea fornita di poltrone
girevoli. Un altro progetto ancora precedente tentava di abbracciare nella sua composizione l’intero edificio
del teatro. Questo progetto fallì durante le prove e fu più tardi realizzato da altri su un piano puramente
teatrale. Si trattava dell’opera di Pletnèv, Sul precipizio, a cui lavorammo, Smvsljaev e io, seguendo le linee
del Messicano, finché, non essendo più d’accordo sui principi, ci separammo (quando un anno dopo ritornai
al Proletkul’t per mettere in scena Anche il più saggio si sbaglia, ci tornai come regista, benché continuassi
a disegnare le scenografie dei miei spettacoli).
C’è in Precipizio una scena in cui un inventore, eccitato dalla sua nuova scoperta, si mette, come
Archimede, a
correre per la città (o forse era inseguito dai banditi: non ricordo bene). Si trattava di
risolvere il problema della dinamica delle vie cittadine, mostrando al tempo stesso lo smarrimento e
l’abbandono d’un individuo alla mercé della «grande città» (le nostre idee errate sull’Europa ci portavano
naturalmente al falso concetto di «urbanesimo»). Ebbi un’idea divertente: non soltanto usare scenografie in
movimento - pezzi di edifici e particolari (Mejerchol’d non aveva ancora inventato, per il suo Trust D. E., i
lucidi sfondi neutri, murs mobilis, per unificare diversi ambienti) - ma anche, possibilmente secondo le
esigenze dei cambiamenti di ambiente, collegare con la gente questi elementi decorativi in movimento. Gli
attori si muovevano sulla scena sui pattini a rotelle portando con sé non soltanto se stessi, ma anche il loro
«pezzo di città». Influivano indubbiamente su questa nostra soluzione del problema - compenetrazione di
uomo e ambiente - i principi del cubismo. Ma i quadri «urbanistici» di Picasso erano qui meno importanti
del bisogno di esprimere la dinamica della città: balenar di facciate, mani, gambe, colonne, teste, cupole.
Tutto questo già si trova nell’opera di Gogol’, ma ce ne rendemmo conto soltanto quando Andrej Belyj ci
ebbe illuminato circa lo speciale cubismo
di Gogol’
.5 Ricordo ancora le quattro gambe di due banchieri
che sostenevano la facciata della Borsa, con due cappelli a cilindro che coronavano il tutto. C’era anche un
vigile tagliato a fette e a quarti dal traffico. Brillanti costumi con prospettive di luci in movimento su cui
apparivano soltanto due labbra violentemente tinte di rosso. Tutto questo rimase sulla carta: e ora che
persino la carta è scomparsa possiamo ricordare il tutto con patetico lirismo.
Questi primi piani inseriti nelle inquadrature d’una città divennero un altro anello della nostra analisi, un
elemento cinematografico che cercava di inserirsi nella testarda ostilità del palcoscenico. Troviamo anche
elementi di esposizione doppia e multipla - immagini d’uomini
sovrapposte a immagini di edifici - tutto
un tentativo per collegare l’uomo e il suo ambiente in un’unica complessa visione (il fatto che il film
Sciopero fosse pieno di complessità di questo tipo dimostra come la «malattia infantile del sinistrismo»
esistesse in questi primi stadi
del cinema).
Dalla fusione meccanica, dalla sintesi plastica, il tentativo si evolve in sintesi tematica. In Sciopero
troviamo qualcosa di più d’una trasformazione nella tecnica della
macchina da presa. La composizione e
la struttura del film nel suo complesso danno l’effetto e la sensazione di un’unità ininterrotta tra il collettivo
e l’ambiente che crea il collettivo. E l’unità organica di marinai, navi da guerra e mare che si rivela
nell’intrecciarsi plastico e
tematico del Potëmkim non è ottenuta col trucco o la doppia esposizione o un
5
Andrej Belyj (Boris Nikolaevic Bugaev), Masterstvo Gogolja, Moskva 1934.
meccanico intersecarsi, ma attraverso la struttura generale della composizione. Nel teatro
invece, non
potendosi allargare la messa in scena a tutta la platea, fondendo dinamicamente palcoscenico e pubblico, si
era portati a concentrare i problemi della regia nell’ambito dell’azione scenica. La messa in scena quasi
geometricamente convenzionale di Anche il più saggio si sbaglia e di Mosca, ascolti?, che ne seguì
l’impostazione formale, diventò uno degli
elementi fondamentali d’
espressione. Il montaggio intrecciato
finì col diventare eccessivamente meccanico ed esatto. S’isolavano gruppi, si spostava l’attenzione dello
spettatore da un punto all’altro, si presentavano primi piani, una mano che teneva una lettera, un fremito di
sopracciglio, uno sguardo. S’imparava a padroneggiare la tecnica della regia teatrale, arrivando quasi a
toccarne i limiti. Già esisteva il pericolo che diventasse come la mossa del cavallo nel gioco degli scacchi,
spostamento di linee puramente plastiche negli schizzi già non teatrali di disegni particolareggiati.
Elementi scultorei visti attraverso l’inquadratura, passaggi da un’inquadratura all’altra, sembravano la via
logica per uscire dalla minacciata ipertrofia della regia teatrale. Si affermava teoricamente la nostra
dipendenza dalla
regia e dal montaggio. Pedagogicamente, si determinava, per l’
avvenire, l’
atteggiamento
da tenersi verso il montaggio e il cinema, raggiunto attraverso la padronanza della costruzione teatrale e
l’arte della messa in scena.6 Nacque così il concetto di «messa in inquadratura».7 Mentre 1a messa in scena
è un rapporto reciproco di persone in azione, la messa in inquadratura è la composizione visiva
d’inquadrature reciprocamente dipendenti l’una dall’altra in una sequenza di montaggio.
In Maschere antigas s’incontrano tutti gli elementi delle tendenze cinematografiche. Le turbine, lo sfondo
della fabbrica negavano gli ultimi resti del trucco e dei costumi teatrali, e tutti gli elementi apparivano fusi
in modo indipendente. In mezzo ai valori plastici della fabbrica reale gli accessori teatrali apparivano
ridicoli. L’elemento «spettacolo» era incompatibile con l’odore pungente del gas. Il misero palcoscenico si
perdeva tra i veri palcoscenici dell’attività lavorativa. In definitiva fu un fallimento. E ci ritrovammo nel
cinema. La nostra prima opera cinematografica, Sciopero (1924-1925), rifletteva, capovolta, come in uno
specchio, la nostra regia di Maschere antigas. Ma il film si disperdeva in
relitti di una stantia teatralità che
gli era diventata estranea. Al tempo stesso, il distacco dai principi teatrali fu così netto che nella mia
«rivolta contro il teatro» mi liberai anche di un elemento molto vitale del teatro, e cioè del soggetto.
Sembrava allora del tutto naturale. Portavamo sullo schermo l’azione collettiva di massa, in contrasto con
l’individualismo e il «triangolo» del cinema borghese. Respingendo la concezione individualistica dell’eroe
borghese, i nostri film di questo periodo fecero una brusca sterzata, insistendo sull’idea della massa come
protagonista. Mai prima d’allora era comparsa sullo schermo l’immagine di un’azione collettiva. Si trattava
ora di rappresentare il concetto di «collettività». Ma il nostro entusiasmo produsse una rappresentazione
unilaterale delle masse e del collettivo; unilaterale perché il collettivismo significa il massimo sviluppo
dell’individuo nel collettivo, concezione opposta in modo irreconciliabile all’individualismo borghese. Ai
nostri primi film di massa mancava questo significato più profondo. Sono tuttavia convinto che in quel
periodo questa deviazione era non solo naturale ma necessaria. Importava che lo schermo fosse soprattutto
penetrato dalla visione generale, il collettivo unito e spinto da un unico desiderio. «L’individuale nel
collettivo», il significato più profondo che chiediamo oggi al cinema, difficilmente avrebbe potuto
affermarsi se la via non fosse stata aperta dal
concetto generale. Nel 1924 scrivevo, pieno d’ardore:
«Abbasso il soggetto, abbasso l’intreccio!». Oggi il soggetto, che sembrava allora quasi un attacco
dell’individualismo contro il nostro cinema rivoluzionario, ritorna in forma nuova al posto che gli compete.
In questa svolta verso il soggetto consiste l’importanza storica del terzo quinquennio della cinematografia
sovietica (1930-35). A questo punto, mentre ha inizio il quarto lustro del
nostro cinema e si vanno
placando le discussioni astratte tra gli epigoni del film a soggetto e i pionieri del cinema «senza intreccio»,
conviene tracciare un bilancio dell’attivo e del passivo. Penso che, oltre a esserci impadroniti degli elementi
Come si vedrà nel capitolo Una lezione di sceneggiatura, i primi due anni del corso di regia tenuto da Ejzenstejn
all’Istituto statale di cinema, si concentrano su uno studio esauriente dei principi teatrali [Nota di J. L.].
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Vedi la Nota lessicale in appendice.
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della dizione filmica, della tecnica dell’inquadratura e della teoria del montaggio, possiamo vantare al
nostro attivo anche il profondo legame con le tradizioni e la metodologia della letteratura. Non a caso in
questo periodo nacque il concetto nuovo di linguaggio filmico, non come
linguaggio della critica
cinematografica, ma come espressione d’un pensiero cinematografico, quando il cinema fu chiamato a dar
forma concreta alla filosofia e all’ideologia
del proletariato vittorioso. Mentre tende la mano al nuovo
elemento letterario - il soggetto drammatico - il cinema non può dimenticare la straordinaria esperienza dei
suoi primi stadi. Non si tratta però di tornare a essi, ma di andare avanti, verso la sintesi di tutto il meglio
ch’è stato fatto dal nostro cinema muto, a una sintesi tra questo e le esigenze attuali, secondo le linee del
soggetto e l’analisi ideologica marxista-leninista. Siamo alla fase della sintesi monumentale nelle immagini
del popolo dell’epoca del socialismo: siamo al realismo socialista.
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