Laboratorio Montessori ISSN 1974-8787 Sabrina Scarpetta La produzione di beni relazionali nel Terzo Settore e il concetto di gratuità Attualmente le varie politiche sociali si devono ripensare alla luce di quel mescolarsi di pubblico e privato che viene ormai indicato come Welfare Mix, in Italia soprattutto a seguito della regolamentazione di molti progetti disciplinata dalla legge 285/97. La relazione pubblico-privato sociale, dunque, gioca un ruolo fondamentale nello studio delle dinamiche economiche e sociali moderne e può fornire utili apporti nell’osservazione ed interpretazione del processo di trasformazione della società. Questa tesina si propone di illustrare come il concetto di gratuità, apparentemente estraneo in una prospettiva economicistica della società, possa invece risultare una categoria non del tutto incompatibile con i classici parametri economici, e anzi, attraverso un approccio innovativo sulla società civile e sulle imprese sociali, possa fornire una accattivante nuova lettura delle tipiche categorie economiche come lo scambio e il contratto, suggerendo un possibile rilancio e una riscoperta del dono, aprendo così prospettive economiche teoriche estremamente interessanti. La genesi del T.S .(Terzo Settore) appare complessa già a partire dalla terminologia: settore no-profit, economia sociale, economia civile, volontariato, privato sociale sono alcuni nomi che individuano questo particolare sottosistema sociale, sviluppatosi, secondo le teorie economiche neoclassiche, da fallimenti dello Stato e fallimenti del mercato in molte aree di intervento. Lo Stato, infatti, così come accade per il mercato (contratto), non essendo in grado di soddisfare certi tipi di bisogni relativi a certa parte di popolazione, fallisce in taluni ambiti, sacche, queste, che quindi rimangono escluse dalle politiche sociali. Di conseguenza, si sviluppano forme di intervento privato all’interno delle falle create dallo stato sociale. Secondo la prospettiva sociologica, invece, il T.S. non nasce da un fallimento, ma dal processo stesso di trasformazione della società: è proprio lo sviluppo economico in sé che fa nascere nuovi bisogni, prima inesistenti, che devono essere soddisfatti, e il T.S. risponde alle carenze interne della società civile senza assumere le caratteristiche forme del mercato né scopi di lucro. Secondo l’analisi relazionale della società, quindi, caratteristica della società moderna è la contingenza (cum-tango lat.), intesa come basso livello di integrazione sociale a causa delle incessanti e continue ristrutturazioni e destrutturazioni che coinvolgono le relazioni umane, a livello sia micro-sociale (famiglia, amici, vicinato) sia macro-sociale (fra economia e politica, società civile e reti informali), tanto da generare grande disorientamento. A livello culturale dunque, il T.S. esprime il bisogno della domanda di senso, la necessità di costituire associazioni che diano qualità alla vita, riscoprendo per esempio il valore della reciprocità o della solidarietà. Il ruolo societario svolto dal T.S. all’interno dello stato sociale è pertanto decisamente problematico, essendo la società un sistema di sistemi funzionali (sistema politico, terzo settore, economia, reti informali) ognuno dei quali osserva il T.S. dal proprio punto di vista interno, mentre poi, dal punto di vista ester no, le caratteristiche formali del T.S. rivestono la dimensione economica, politica, normativa e culturale. Un aspetto molto importante e peculiare del T.S. è quello dell’esternalità positiva, ovvero il guadagno per la società a costo zero. Normalmente, una società produce beni individualizzabili, o privati, e beni pubblici, a godimento indivisibile, in cui cioè non si può definire il concetto di proprietà. Il T.S. produce invece soprattutto beni relazionali: il bene relazionale è un tipo di bene che può essere fruito solo dai produttori e dai fruitori insieme attraverso le relazioni che connettono i soggetti coinvolti (sono infatti i beni che stanno dentro e nelle relazioni). Il bene relazionale pone l’accento sul modo in cui un bene viene offerto e ricevuto, e dunque non è affatto un servizio, proprio perché non può prescindere dalla relazione che lega i due termini del servizio, essendo una delle dimensioni del servizio stesso. La produzione di beni relazionali è intrinsecamente legata alla gratuità, aspetto, questo, che si ritrova soprattutto nella famiglia e nel T.S., ma con la differenza che i beni relazionali della famiglia sono chiusi e fruibili soltanto all’interno della famiglia stessa, mentre i beni relazionali del T.S. sono universalistici. Unicamente queste due sfere possono produrre e mettere in circolo tali beni in misura sufficiente per una società buona. Il Welfare Mix, che utilizza le realtà del T.S. e dei gruppi informali per la gestione delle politiche sociali e sanitarie, partì negli anni ’80 in Italia con la crisi economica e finanziaria del paese per ridurre i costi delle politiche sociali; i beni offerti rimanevano comunque sempre diritti sociali garantiti dallo stato, ma cambiava il soggetto che li produceva, in quanto poteva essere anche un soggetto privato, talvolta da preferire allo stato stesso, e denominato soggetto privato sociale (no-profit). La regolazione di questo nuovo sistema è di tipo misto, perché i soggetti che operano formano una rete che, giuridicamente, è regolata sia dal diritto pubblico sia dal diritto privato. Il principio che deve regolare il Welfare Mix è quello della sussidiarietà, recentemente modificato nell’art. 5: tale principio, nato all’interno della dottrina sociale cattolica, ha poi ispirato il trattato di Maastricht, in cui si sottolinea, tra l’altro, la funzione promozionale espressa dal titolo 5°, ovvero che lo Stato deve aiutare le varie articolazioni della società per poter sostenere i singoli cittadini e far vivere una vita più degna. Il principio di sussidiarietà, valido sia in verticale (stato-regioni) sia in orizzontale (tra le articolazioni interne al sistema) implica naturalmente quello di solidarietà, soprattutto rivolto verso le famiglie più deboli, e viene definito con il termine empowerement (rafforzamento). Il rischio che si corre, però, a questo punto, è quello di creare la trappola della dipendenza, cioè dell’assistenzialismo, come in effetti è successo in molti paesi che tuttora non riescono a uscire da questa crisi. Il principio di solidarietà individua un orizzonte aperto sulle tematiche connesse con la fruizione in un certo qual modo libera e gratuita di certi servizi rivolti alle fasce più bisognose, sfuggendo però alla logica dello scambio intesa in senso economico e legandosi invece alla logica dello scambio inteso e vissuto come dono. In verità l’analisi delle scienze sociali sul dono è sorta di recente: il tema del dono, infatti, si può considerare nei nostri sistemi sociali ancora come un fenomeno interstiziale, che si annida tra le pieghe di processi e di logiche molto più visibili e dominanti nel sociale, come quelle appunto del mercato e dello scambio economico all’interno dello stato. Puntare sul dono come categoria concettuale di riferimento significa preferirlo ad altri termini espressivi di orientamenti o fenomeni che hanno a che fare con esperienze ablative, come il caso dell’altruismo, considerato come comportamento sociale non utilitaristico, o della prosocialità, intesa come azione volta a migliorare il benessere di altri o a ridurne lo stato di sofferenza. Anche i termini solidarietà, filantropia, o carità infatti si caricano di orientamenti laici o religiosi che sono specifici di universi culturali ben determinati. Oppure il volontariato, realtà sociale emergente, che corrisponde ad una realtà di associazioni e di reti sociali di vastissime proporzioni, che abbracciano l’intero e variegato terzo settore. Rispetto a tali ambiti, la categoria del dono presenta il vantaggio di riportarsi inevitabilmente alla concretezza di un rapporto sociale, ad una forma di interazione e di relazionalità tra attori che si configura diversamente da quella dello scambio utilitaristico o di mercato : il dono contiene un ineliminabile ri svolto di socialità e di relazionalità che si manifesta all’interno della trama delle relazioni sociali. Sotto quest’ottica, la categoria del dono risulta tutt’altro che interstiziale o marginale. Le forme di dono rintracciabili nelle società contemporanee sono contigue, forse anche mescolabili, con le logiche del mercato e delle politiche dello stato sociale (o stato del benessere, welfare appunto) ma con alcune differenze da rilevare: la logica del dono si caratterizza per la sua finalizzazione all’altro, mentre la logica dello scambio mira all’equivalenza di prestazione e contro-prestazione tra una merce e un prezzo. Naturalmente, ben diverso è anche il tipo di vincolo, cioè di legame, che si viene ad instaurare nei due casi, perché il dono autentico è fattore di legami sociali forti e duraturi. Si può quindi affermare che la funzione sociale del dono è quella di potenziare i legami sociali. Diversamente è nella logica dello stato sociale, dove non si generano obblighi né vincoli personali: il potere di esigere coercitivamente dai cittadini certi comportamenti poggia sull’obiettivo dell’astratta giustizia sociale. Nelle politi- che del Welfare, infatti, si tratta di perseguire obiettivi di uguaglianza delle opportunità e di equo trattamento dei cittadini; tale disegno risponde alla logica di una redistribuzione equilibrata delle risorse disponibili, mentre la logica del dono è per sua natura generatrice di squilibri. Chi dona, infatti tende a legare nel tempo a sé colui che è oggetto del dono, ponendo in essere un rapporto ricco di sviluppi. In campo economico, recenti teorie interpretative si stanno sforzando di razionalizzare la categoria del dono. Viene definito dono minimale la cessione di un bene o di un servizio in maniera libera e gratuita, quindi in assenza di economia, riguardando questa lo scambio di equivalenti. Tuttavia il dono viene continuamente tramandato attraverso i rituali ed è sempre presente in tutti i tempi e in tutti i gruppi umani; dal punto di vista economico lo scambio di doni (il gift-giving) rappresenta un’attività insufficiente, e il fare doni movimenta soltanto il 2/3 % del reddito annuo. Si può pensare a un contratto di lavoro inteso come scambio di doni? Chi fa il dono fa capire di conoscere le preferenze dell’altro, è disposto a spendere tempo per cercare il regalo, e dunque appare manifesto che quella persona crede in quel rapporto tra i due, e tramite il dono fortifica la relazione attraverso questo segno di fiducia e lealtà. Gli economisti spigano tale scambio di doni utilizzando il cosiddetto principio dell’handicap: ci si permette un disagio –fare il dono- per dimostrare di essere più potenti dell’altro, oppure significa una forma sofisticata di autointeresse, questo ostentare ricchezza per ottenere prestigio, o per dimostrare il bene e l’affetto che si prova. Ma il dono reciproco che crea relazioni è un bene molto importante, che può avere anche notevoli ripercussioni economiche, purtroppo però gli economisti classici non riuscivano a vedere oltre, concentrati com’erano sul risultato ottenuto dal dono, e non sul modo con cui esso veniva offerto. Il mercato in senso stretto è basato sul contratto, che esclude il dono, tut tavia si può vedere il dono come fondamento dell’economia, partendo dalla considerazione che l’economia è una scienza sociale, dunque ha come oggetto la società, nella quale è presente la socialità intesa come legame sociale, e quindi generatrice di sentimenti di fiducia, e quindi di doni. Certo, la teoria economica, che tende a massimizzare, non va di pari passo con la pratica osservabile, perché non coglie un aspetto molto importante, quello appunto della fiducia. Gli economisti spiegano queste forme volontarie non retribuite come altruismo o come forme sofisticate di autointeresse o avversione all’iniquità, ma sono teorie basate sui risultati, non sulle relazioni né sul modo con cui esse av vengono, che viene definito rispondenza, ovvero reciprocità, e fiducia. Il risultato ottenuto è un bilancio tra il guadagno materiale e il guadagno psichico: il modo di fare le cose influenza molto le risposte delle persone, se condo la celebre teoria sociale di Adam Smith sui sentimenti morali: vogliamo essere amati (motivazione estrinseca) e anche essere degni di amore (motiva- zione intrinseca), ovvero ottimizzare e massimizzare il piacere e ridurre il dolore. Dunque il funzionamento del mercato, visto nel suo modello relazionale, evidenzia il limite dell’approccio tradizionale della teoria economica classica suggerendo un’alternativa alla teoria della scelta razionale, basata sull’idea di altruismo, di avversione all’iniquità, e incentrata sulle conseguenze affettive e non sulla categoria procedurale, cioè insiste sul modo. Sotto quest’ottica, tutti quei comportamenti anomali vengono spiegati con la teoria della rispondenza fiduciaria. Tale teoria fa da supporto empirico alla progettazione, di recentissima formulazione, di interventi ispirati alle politiche del dono. La tesi di fondo è modulare gli interventi secondo alcune direttive e soprattutto orientarli in modo che gratuità e fiducia non scompaiano per colpa di una progettazione secca ed arida., ma incorporino tali principi per regolamentare i rapporti tra le persone, secondo la seguente ipotesi di percorso. Innanzi tutto, il dono che interessa in questo discorso è quello gratuito nelle intenzioni, cioè quello qualificato nelle intenzioni e che presenti delle motivazioni intrinseche. Ma perché a volte la nostra fiducia è mal riposta e veniamo imbrogliati? Perché siamo tutti diversi, e perché ci sono influenze esterne che ci fanno valutare diversamente il peso morale delle conseguenze delle nostre azioni: infatti, il peso delle motivazioni estrinseche è di natura decisamente diversa da quello delle motivazioni intrinseche. Il peso morale delle nostre azioni si qualifica per essere alquanto fragile, e si può spiegare attraverso le seguenti condizioni ausiliarie: framing (percezione); crowing-out (spiazzamento); feeling of freedom- affect (senso di libertà). La prima condizione fa riferimento alla percezione dell’idea che le persone hanno di noi, la quale dipende dal contesto e dalla interpretazione che noi diamo delle azioni che gli altri compiono in rapporto con noi. E’ molto facile essere influenzati, basta un’etichetta che ci suggerisce la norma che dovremmo seguire, e la nostra risposta si orienta verso la cooperazione o verso la competizione. Nella seconda condizione si fa riferimento agli gli incentivi materiali, quindi esterni, che servono per rafforzare l’incentivo intrinseco: in questa maniera noi non facciamo altro che spiazzare, perché il luogo della decisione da interno, cioè morale, diventa esterno, cioè basato sul compenso monetario. Questo cambiamento da interno a esterno fa leva sull’autodeterminazione, cioè sul controllo, e sull’autostima, sul senso di responsabilità e di merito che varia da persona a persona.. Ma si può anche favorire il passaggio opposto, cioè il crowding-in (supporto e valorizzazione), in cui l’incentivo è neutro, cioè può essere buono o cattivo a seconda di quello che noi percepiamo dietro di esso. Nella terza condizione si fa riferimento al fatto che la sensazione del grado di libertà di azione che noi abbiamo influenza la nostra scelta mentre sa rebbe auspicabile fare le cose senza avere la pressione esterna a farle. Compliance without pressure, infatti, è ciò che stimola nella persona il senso di dignità, assai più vincolante, se ben radicato, di qualsiasi contratto scritto! Una delle possibilità di incorporare questi principi per regolamentare i rapporti tra le persone è rappresentata dal design costituzionale definito deviantcentered, ovvero incentrato sulla punizione della devianza. Questo modello base, adottato da molte istituzioni, risulta nettamente errato, perché è necessario puntare invece a disincentivare la devianza, cioè a mortificare l’evasione dalla norma. Come si possono allora mettere insieme gli elementi positivi individuati per creare un modello di design istituzionale diverso? Il modello suggerito viene definito complier-centered, ed è incentrato sul soggetto che rispetta le istituzioni, stimolato a farlo grazie ai meccanismi di esaltazione, valorizzazione e rinforzo delle motivazioni intrinseche. Per realizzare tale modello, si deve per prima cosa selezionare un pool di soggetti sui quali operano le sanzioni, poiché non vanno puniti tutti indistintamente. Secondariamente, le sanzioni devono sostenere coloro che cooperano e si conformano alla legge, piuttosto che sfavorire e punire i comportamenti opportunistici, cioè fare leva sull’enorme potere che ha l’autostima. Infine, le sanzioni devono avere una loro gerarchia: per esempio prima i richiami informali, poi quelli formali, poi le sanzioni più severe, perché in questo modo si riesce a discernere i soggetti motivati intrinsecamente da quelli mo tivati estrinsecamente, evitando di mortificare quelle persone dotate di buona volontà. In conclusione, quel buon senso e quella sensibilità che dovrebbero guidare la gente nei rapporti personali, si auspica che possano per così dire elevarsi a livello istituzionale: è l’utopia di lavorare e vivere in condizioni ambientali e umane in cui prevalga la fiducia sul controllo. PROVINCIA DI TARANTO ASSESSORATO ALLE POLITICHE SOCIALI PROGRAMMA DI FORMAZIONE E AGGIORNAMENTO DEGLI OPERATORI ADDETTI AI PROGETTI EDUCATIVI PER L’INFANZIA E L’ADOLESCENZA LEGGE 285/97, L.R. 10/99 ANNO 2002-2003 TESINA FINALE MASTER SOCIOLOGICO POLITICHE SOCIALI PER LA FAMIGLIA E I MINORI PROF. Sabrina SCARPETTA Bibliografia. Ivo Colozzi: Le nuove politiche sociali, ed. Carocci 2002. 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