in evidenza
Gian Franco Ricci
novità
IL GIUDIZIO CIVILE
DI CASSAZIONE
Aggiornato al d.l. 22 giugno 2012, n. 83
(conv. con modifiche, nella l. 7 agosto 2012, n. 134)
e alla l. 28 giugno 2012, n. 92
pp. XX-688 | € 73,00 | ISBN 978-88-348-2669-0
L’opera si presenta attualmente come il più ampio e approfondito strumento per chi voglia affrontare il giudizio di legittimità e per chi debba gestirlo: uno strumento indispensabile che, se da un lato
soddisfa i più ampi interessi speculativi, dall’altro si rivela di grande utilità soprattutto per i pratici, avvocati e magistrati, per l’analisi minuziosa di ogni particolare e per la ricchissima casistica
giurisprudenziale. L’opera si divide in due vaste parti, l’una dedicata al “ricorso”, l’altra dedicata
al “procedimento”. Nella prima sono analizzati a fondo i singoli motivi di doglianza, nonché i metodi di predisposizione del ricorso, con costante riferimento al tecnicismo richiesto dalla Suprema
Corte e imposto dalla nuova normativa sul “filtro”.
Particolare attenzione è rivolta all’elaborazione formale del ricorso, del controricorso e del ricorso
incidentale. Nella seconda parte viene esaminato lo svolgimento dei procedimenti camerale ed in
pubblica udienza, sia dal punto di vista dell’avvocato(sotto questo profilo con specifico riguardo
agli oneri delle parti: integrazione del contraddittorio, allegazione di nuovi documenti, contenuto
delle memorie dei contendenti, ecc.), sia dal punto di vista del giudice (con riferimento alla complessa casistica dei provvedimenti decisori). Il libro si chiude con l’esame della correzione e della
revocazione delle sentenze della Corte, con una dettagliata analisi dei procedimenti restitutori a
seguito della pronunzia ed infine con una specifica ed ampia trattazione delle funzioni del pubblico
ministero in cassazione.
Prefazione. – Parte Prima: Il ricorso per Cassazione. – I. Origine e vicende storiche della Cassazione. – II. Natura dell’impugnativa in Cassazione e i provvedimenti ricorribili. – III. I motivi di
ricorso. – IV. Il “filtro” dell’art. 360-bis c.p.c. – V. Il ricorso. – VI. Il controricorso ed il ricorso
incidentale. – VII. Disposizioni processuali sul regolamento di giurisdizione. – VIII. Poteri ed oneri
delle parti. – IX. Il principio di diritto nell’interesse della legge. – Parte Seconda: Il Giudizio di Cassazione. – X. Lo svolgimento del procedimento. – XI. Tipologia delle decisioni della Corte. – XII.
La decisione . – Sez. I: Le pronunzie sulla giurisdizione e sulla competenza. – Sez. II: L’accoglimento del ricorso. – Sez. III: Il mancato accoglimento del ricorso. – XIII. Eventi anomali nel giudizio di
cassazione. L’intervento dei terzi. L’interruzione del processo. – XIV. La rinunzia al ricorso. – XV.
Le spese nel giudizio di cassazione. – XVI. Le domande conseguenti alla cassazione. – XVII. Correzione degli errori materiali, revocazione ed opposizione di terzo. – XVIII. Il pubblico ministero
nel giudizio civile di cassazione. – Indice analitico.
in evidenza
Roberto Triola (a cura di)
novità
IL NUOVO
CONDOMINIO
Testo consultabile ON-LINE
Edizione cartonata | pp. XXII-1210 | € 110,00 | ISBN 978-88-7524-239-8
Perché un avvocato, magistrato o amministratore di condominio, avendo già tante opere
similari nella sua biblioteca, dovrebbe comprare un altro libro in materia?
Una prima risposta viene dalla considerazione che la giurisprudenza, almeno negli ultimi
cinque anni, ha provveduto a risistemare, o talvolta a rivoluzionare, tante tradizionali tematiche condominiali: la natura parziaria e non solidale delle obbligazioni assunte nell’interesse del condominio nei confronti di terzi; i rapporti tra opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali e il sindacato sulla validità delle
relative delibere assembleari; la legittimazione passiva dell’amministratore di condominio
e la necessità di autorizzazione o ratifica assembleare per la costituzione nei giudizi che
esorbitino dalle sue attribuzioni; la maggioranza occorrente per l’atto di approvazione delle
tabelle millesimali e la superfluità del consenso unanime dei condomini; la forma dell’atto
di impugnazione delle delibere dell’assemblea condominiale.
Un secondo motivo di grande attualità di questo volume, peraltro, viene dalla necessità
di confrontare tali più recenti conquiste giurisprudenziali del diritto condominiale con
la legge 11 dicembre 2012, n. 220, la quale, al culmine di un percorso di Riforma che
aveva già impegnato le due precedenti legislature, ha introdotto rilevanti “Modifiche alla
disciplina del condominio negli edifici”, riguardanti essenzialmente l’elencazione delle
parti comuni, la modifica e la tutela delle destinazioni d’uso, i diritti dei partecipanti sulle cose comuni, il regime dell’indivisibilità, i limiti di legittimità delle innovazioni su parti
comuni e delle opere su parti esclusive, la nomina, la revoca, gli obblighi e le attribuzioni
dell’amministratore, i compiti ed il funzionamento dell’assemblea, il procedimento di
impugnazione delle deliberazioni di questa, il regolamento di condominio e le tabelle
millesimali, la riscossione dei contributi.
Gli Autori. - I. Il condominio in generale (A. Cerulo). - II. Il supercondominio (R. Triola). - III. Le parti comuni (A. Scrima). - IV. L’uso delle parti comuni (L. Bellanova). - V.
Le innovazioni (E. Vincenti). - VI. IL godimento delle parti in proprietà esclusiva (R.
Triola). - VII. La sopraelevazione (S. Petitti). - VIII. Il regolamento di condominio (R.
Triola). - IX. Le tabelle millesimali (R. Triola). - X. L’assemblea (M. Andrighetti-Formaggini). - XI. L’amministratore (V. Nasini). - XII. Le spese (A. Scarpa). - XIII. Lo scioglimento del condominio (P. Petrelli). - XIV. Il perimento dell’edificio (P. Petrelli). - XV.
Condominio e locazione (A. Scarpa). - XVI. Condominio e processo (P. Nasini). - XVII.
Condominio e responsabilità civile (V. Vitulano). - XVIII. Condominio e responsabilità
penale o per illecito amministrativo (V. Vitulano). - Indice analitico.
SOMMARIO 2
Focus
4
12
24
35
44
54
57
68
77
Editoriale Milena Pini
Sull’applicabilità ai procedimenti in materia di famiglia del dispositivo di esecuzione forzata indiretta ex art. 614 bis c.p.c.
Andrea Graziosi
La vexata quaestio dell’esecuzione dei provvedimenti giudiziari di affidamento del minore:
spunti per un modello unificato di attuazione
Fabio Lepri
Ruolo e compiti del servizio sociale nell’esecuzione di provvedimenti civili emessi dal
tribunale per i minorenni
Lorenza Cracco, Clarissa Fedrigoni
L’assegnazione della casa coniugale ed esecutorietà del titolo (Cass. 31 gennaio 2012,
n. 1367)
Marina Blasi
Spese straordinarie nella crisi della famiglia ed esecuzione forzata
Bianca Ferramosca
I provvedimenti di modifica delle condizioni della separazione (e del divorzio) non sono
immediatamente esecutivi, essendo soggetti alla disciplina di cui all’art. 741 c.p.c.
(Nota a Cass. 27 aprile 2011, n. 9373)
Alberto Figone
Relazioni familiari: violazione dei provvedimenti del giudice civile. Forme di tutela penale
Gianluca Luongo
Il tribunale della famiglia o le sezioni specializzate presso i tribunali ordinari? Stato dell’arte e prospettive
Giulia Sarnari
Soluzioni globali a questioni globali.
L’esecuzione dei provvedimenti giudiziali nel Diritto internazionale privato. L’applicazione delle Convenzioni internazionali in Inghilterra e in Galles
Suzanne Todd
© Copyright 1995 - AIAF
RIVISTA DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI
AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI
Quadrimestrale – reg. presso il Tribunale Roma 9 ottobre
1995, n. 496
G. Giappichelli Editore - 10124 Torino
via Po, 21 - Tel. 011-81.53.111 - Fax 011-81.25.100
http://www.giappichelli.it
ISBN/EAN 978-88-348-2826-7
ISSN 2240-7243
Anno XVII, n. 3, settembre-dicembre 2012
Direttore Responsabile
Milena Pini
Comitato di redazione
Manuela Cecchi, Gabriella de Strobel, Luisella Fanni,
Alberto Figone, Giulia Sarnari, Antonina Scolaro
Redazione
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AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 EDITORIALE Milena Pini
Avvocato del Foro di Milano, Presidente AIAF
L’esecuzione dei provvedimenti emessi nell’ambito di un procedimento di diritto di famiglia,
dal tribunale ordinario o dal tribunale per i minorenni, costituisce da sempre una questione spinosa e nel contempo delicata.
In un procedimento di separazione, di divorzio o di regolamentazione di rapporti tra genitori
naturali possono essere emessi provvedimenti che riguardano sia i figli minori che statuizioni di
carattere patrimoniale. Le disposizioni che riguardano i rapporti personali tra i genitori e i figli
minori (affidamento, collocamento, frequentazione del genitore non convivente, ecc.) sono infatti spesso integrate da quelle di natura patrimoniale che riguardano il mantenimento del coniuge e dei figli, minori o maggiorenni non autonomi economicamente, e l’assegnazione in godimento della casa familiare.
Come sottolinea il Prof. Graziosi nell’articolo pubblicato su questo numero della Rivista AIAF,
«entrambe queste categorie di pronunce presentano difficoltà strutturali in ordine all’esecuzione coattiva, dovute sia alla circostanza che hanno a che fare con la tutela di esigenze primarie della vita di
un soggetto, spesso minorenne, sia al fatto che mal si attagliano ad essere eseguite nelle forme tradizionali previste dal Libro III del Codice di Procedura Civile».
In effetti anche l’attuazione dei provvedimenti relativi all’assegnazione della casa familiare (che
comporta l’avvio della procedura di rilascio nei confronti del coniuge o genitore non assegnatario) o al pagamento degli assegni di mantenimento (che può essere ottenuto con la notifica del
precetto e successivo pignoramento, o con l’ordine diretto di pagamento al terzo, ecc.) risulta
spesso difficoltosa, soprattutto per i lunghi tempi che comporta. Quando poi si è costretti a richiedere il pagamento delle spese accessorie, quali quelle scolastiche o mediche, le difficoltà
aumentano, tanto che l’avvio di un procedimento monitorio può trasformarsi in una lunga causa di merito, per l’opposizione del soggetto tenuto al pagamento. A questa situazione di grave e
negata giustizia il Legislatore continua a non dare risposte, né può essere sufficiente a superare
la carenza legislativa il recente orientamento della Cassazione che apre uno spiraglio sulla possibilità di procedere, in determinati casi, con la notifica dell’atto di precetto per il recupero di
dette spese.
Maggiori e spesso insormontabili difficoltà si riscontrano poi nell’attuazione di provvedimenti
che riguardano l’affidamento e il collocamento di minori. Come esplicitamente ricorda Fabio
Lepri nel Suo articolo qui pubblicato, il Legislatore non ha sinora voluto occuparsi espressamente
delle forme e modalità di esecuzione coattiva dei provvedimenti di affidamento, e la situazione di
incertezza non è mutata neppure in occasione degli ultimi interventi legislativi (l. n. 54/2006).
2
EDITORIALE Vero è che l’attuazione di tali provvedimenti è inscindibilmente legata alla salvaguardia dell’interesse del minore, e non può certo avvalersi delle modalità esecutive “per consegna” previste dal
nostro ordinamento. Sarebbe invece necessario prevedere una riforma processuale organica della
materia, con l’attribuzione della competenza allo stesso giudice sia per l’emissione che per l’attuazione del provvedimento, con il potere di modifica delle disposizioni in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento
delle modalità dell’affidamento o della frequentazione del genitore non convivente, e con la previsione di interventi di sostegno alla genitorialità, più idonei ed efficaci rispetto a quelli attuali.
Dedichiamo pertanto questo numero della Rivista all’approfondimento di alcune questioni di
rilevante importanza connesse all’attuazione dei provvedimenti di carattere personale e patrimoniale, emessi nell’ambito di procedimenti di diritto di famiglia.
3
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 SULL’APPLICABILITÀ AI PROCEDIMENTI IN MATERIA DI FAMIGLIA DEL DISPOSITIVO DI ESECUZIONE FORZATA INDIRETTA EX ART. 614 BIS C.P.C. Andrea Graziosi
Ordinario di Diritto processuale civile, Università di Ferrara
Sommario: 1. Breve premessa sull’introduzione del nuovo art. 614 bis c.p.c. nel nostro sistema processuale. –
2. Sull’applicabilità dell’art. 614 bis c.p.c. alle pronunce in materia di famiglia e sui rapporti di quest’ultimo con
l’art. 709 ter c.p.c. – 3. Profili procedurali.
1. Breve premessa sull’introduzione del nuovo art. 614 bis c.p.c. nel nostro sistema proces‐
suale Tra le più importanti innovazioni introdotte dalla l. n. 69/2009 rientra sicuramente l’inserimento nel nostro c.p.c. 1, tramite il nuovo art. 614 bis, di uno strumento a carattere generale
volto ad assicurare l’attuazione coattiva degli obblighi di fare infungibili e di non fare 2. La finalità di questa disposizione va senz’altro ravvisata nella necessità di contemplare anche nel nostro
ordinamento giuridico forme di tutela esecutiva tese a garantire l’esatto adempimento delle
obbligazioni che per essere realizzate richiedono comportamenti strettamente personali o addirittura omissivi del debitore, rispetto alle quali i tradizionali strumenti di esecuzione diretta
previsti dal codice di rito si rivelano come «vere e proprie armi spuntate» 3.
* Questo scritto riproduce, con l’aggiunta delle note e di alcuni aggiornamenti, la relazione svolta all’incontro di studio
svoltosi a Firenze il 15 maggio 2012, su iniziativa di AIAF Toscana, intitolato Dall’art. 709 ter c.p.c. al nuovo art. 614 bis
c.p.c.: le nuove frontiere dell’esecuzione forzata in materia di famiglia.
1
In realtà non dobbiamo dimenticare che il primo tentativo di introdurre nel nostro ordinamento una misura compulsoria
di carattere generale risale a Carnelutti nel 1926. Il suo Progetto di riforma al codice di procedura civile, infatti, contemplava la possibilità per l’avente diritto, in caso di mancata esecuzione di un obbligo di fare o di non fare, di ottenere la condanna dell’obbligato al pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo, a partire dal giorno stabilito dal giudice (artt. 667-668).
2
La categoria delle misure coercitive indirette non è del tutto nuova al nostro legislatore che, già in passato, ha disciplinato
specifiche ipotesi di attuazione coattiva delle obbligazioni a carattere infungibile. Mi riferisco, in particolare, agli artt. 18 e
28, l. n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori), all’art. 156, l. 22 aprile 1991, n. 633, relativa alla protezione del diritto d’autore,
agli artt. 124 e 131, d.lgs. n. 30/2005, concernenti i diritti di proprietà industriale, all’art. 140, d.lgs. n. 206/2005 (Codice
del consumo), art. 37, d.lgs. n. 198/2006 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) e all’art. 709 ter c.p.c.
3
A. CARRATTA, Le modifiche al terzo libro del codice, in A. CARRATTA, Come cambia il processo civile. Legge 18 giugno 2009 n.
69 «Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile», Giappichelli,
Torino, 2009, p. 92.
4
FOCUS Il nuovo art. 614 bis c.p.c., collocato all’interno del Libro III, Titolo IV, esordisce affermando, nel
suo 1° comma, che «con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia manifestamente
iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o
inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento». Tale pronuncia
costituirà, a propria volta, «titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o
inosservanza». Il 2° comma, poi, precisa che spetta al giudice determinare l’ammontare della
predetta somma di denaro «tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione,
del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile». Restano infine esclusi dall’ambito di applicazione di questa disposizione le controversie di lavoro subordinato pubblico e privato ed i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409 c.p.c.
Non può certamente sfuggire che ci troviamo di fronte ad una svolta, non a torto definita “epocale” 4 ed auspicata da anni dalla dottrina processualistica 5 e dagli operatori del diritto, principalmente in virtù del principio di effettività della tutela giurisdizionale, dal quale discende la
necessità che ogni processo sia in grado di dare concreta soddisfazione al diritto sostanziale invocato da colui che si rivolge all’autorità giudiziaria, ispirandosi dunque alla massima chiovendiana per cui all’avente diritto deve essere garantito “tutto quello e proprio quello” che gli spetta 6. Come giustamente evidenziato anche dalla più recente giurisprudenza di merito 7, la norma
in esame tende a realizzare l’effettività del giusto processo, ai sensi dell’art. 6 CEDU, essendo
palesemente inutile un comando giurisdizionale destinato a rimanere lettera morta.
Una forte spinta verso l’introduzione di questa misura coercitiva a carattere generale è sicuramente pervenuta dal contesto europeo, in quanto tutti gli altri Paesi dell’Unione, a differenza dell’Italia, conoscevano già modelli di esecuzione indiretta volti a permettere l’esecuzione coattiva degli obblighi infungibili 8 che nel nostro ordinamento, invece, potevano trovare soddisfazione solo mediante la c.d. tutela per equivalente. Più precisamente, il modello
giuridico che il nostro legislatore sembra aver seguito è quello delle astreintes, nate dall’elaborazione giuridica francese proprio per far fronte al problema dei limiti dell’esecuzione diretta
o per sostituzione.
Occorre però rilevare, purtroppo, la scadente fattura del dettato normativo, che ha originato
parecchi dubbi interpretativi. Non è certo questa la sede per soffermarsi ad esaminare la nuova
4
In questi termini E. MERLIN, Prime note sul sistema delle misure coercitive pecuniarie per l’attuazione degli obblighi infungibili
nella l. 69/2009, in Riv. dir. proc., 2009, p. 1546.
5
Così V. COLESANTI, Misure coercitive e tutela dei diritti, in Riv. dir. proc., 1980, p. 601 ss.; G. TARZIA, Presente e futuro delle
misure coercitive civili, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, p. 800 ss.; ID., Prospettive di armonizzazione delle norme sull’esecuzione
forzata nella comunità economica europea, in Riv. dir. proc., 1994, p. 217 ss.; E. SILVESTRI, Problemi e prospettive di evoluzione
nell’esecuzione degli obblighi di fare e di non fare, in Riv. dir. proc., 1981, p. 41 ss.; V. DENTI, A proposito di esecuzione forzata e
politica del diritto, in Riv. dir. proc., 1983, p. 130 ss.; ID., «Flashes» su accertamento e condanna, in Riv. dir. proc., 1985, p. 255
ss.; F. CARPI, Note in tema di tecniche di attuazione dei diritti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, p. 110 ss.; M. TARUFFO, L’attuazione esecutiva dei diritti: profili comparatistici, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, p. 142 ss.; E. SILVESTRI-M. TARUFFO, Esecuzione forzata e misure coercitive, in Enc. giur., XII, 1988, p. 1 ss.; F. TOMMASEO, Provvedimenti d’urgenza a tutela dei diritti
implicanti un facere infungibile, in Studium iuris, 1997, p. 1277 ss.; B. CAPPONI, Astreintes nel processo civile italiano, in Giust.
civ., 1999, II, p. 157 ss.; L. MONTESANO, Attuazione delle sanzioni e delle cautele contro gli obblighi di fare e non fare, in Tecniche di attuazione dei provvedimenti del giudice, Atti del 22° Convegno nazionale, Lecce, 4-5 giugno 1999, Giuffrè, Milano,
2001, p. 9 ss.; L. MARAZIA, Astreintes e altre misure coercitive per l’effettività della tutela civile di condanna, in Riv. esec. forz.,
2004, p. 383; A. PROTO PISANI, L’attuazione dei provvedimenti di condanna, in Foro it., 1988, V, c. 177 ss.; ID., Condanna (e
misure coercitive), in Foro it., 2007, V, c. 1 ss.
6
G. CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Jovene, Napoli, 1935, p. 39 ss.
7
Trib. Varese 17 febbraio 2011, in Giust. civ., 2011, p. 2965.
8
Tra le varie misure predisposte dagli ordinamenti europei al fine di favorire l’esecuzione delle obbligazioni a carattere
infungibile possiamo ricordare le zwangsstrafes tedesche, la sanzione anglosassone del contempt of Court e le astreints
francesi.
5
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 disciplina dettata dall’art. 614 bis c.p.c., per cui mi limiterò a richiamare i principali contributi
pubblicati sull’argomento 9 e ad accennare, brevemente, a tali problematiche.
Innanzitutto, la quantificazione della misura di cui si discute è rimessa ad un’ampia discrezionalità del giudice, non essendo prevista né una cornice edittale entro la quale determinare
l’importo dovuto per ogni giorno di ritardo nell’adempimento, né un tetto massimo oltre il
quale la somma dovuta al creditore non possa più crescere con il trascorrere del tempo. Il rischio che si corre dunque è che, a causa dell’eccessivo protrarsi dell’inadempimento, la sanzione lieviti in maniera esorbitante, finendo per superare di gran lunga il valore economico
dell’obbligazione.
In secondo luogo, la legge non precisa chi sia il destinatario del pagamento. Tuttavia, nell’ottica
del legislatore di introdurre nell’ordinamento una misura coercitiva indiretta volta a favorire l’adempimento spontaneo delle obbligazioni, deve sicuramente ritenersi che il beneficiario di queste somme sia il creditore 10, poiché l’eventuale destinazione pubblicistica delle stesse finirebbe
per configurare l’istituto come danno punitivo, categoria di dubbia compatibilità con il nostro
ordinamento giuridico.
Infine, dobbiamo rilevare che uno dei principali limiti della pronuncia in esame è quello di
poter essere richiesta solo contestualmente al provvedimento di condanna e non in via autonoma e successiva, con la conseguenza che l’eventuale inadempimento di obbligazioni infungibili o di non fare che non sia stato preventivamente munito della sanzione di cui all’art. 614
bis c.p.c. è destinato a rimanere privo di tutela esecutiva, se non nelle forme del c.d. risarcimento per equivalente. Sarebbe stato forse più opportuno estendere la possibilità per il creditore di rivolgersi al giudice anche a fronte di inadempimenti successivi rispetto alla sentenza
di condanna 11.
2. Sull’applicabilità dell’art. 614 bis c.p.c. alle pronunce in materia di famiglia e sui rapporti di quest’ultimo con l’art. 709 ter c.p.c. Fatte queste premesse di ordine generale possiamo ora passare al tema che mi è stato assegnato, ossia quello della possibilità di estendere al campo del diritto di famiglia questa nuova forma
di misura coercitiva indiretta e delle sue eventuali implicazioni processuali.
9
Per una rassegna della nuova disposizione si vedano E. ZUCCONI GALLI FONSECA, Le novità della riforma in materia forzata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, p. 197 ss.; M. BOVE, La misura coercitiva di cui all’art. 614 bis c.p.c., in Riv. trim. dir. proc.
civ., 2010, p. 781 ss.; E. MERLIN, op. cit., p. 1546 ss.; L. BARRECA, L’attuazione degli obblighi di fare infungibile e di non fare
(art. 614 bis c.p.c.), in Riv. esec. forz., 2009, p. 505 ss.; F. DE STEFANO, Note a una prima lettura della riforma del 2009 delle
norme sul processo esecutivo ed in particolare l’art. 614 bis c.p.c., in Riv. esec. forz., 2009, p. 515 ss.; ID., L’esecuzione indiretta: la
coercitoria, via italiana delle “astreintes”, in Corr. merito, 2009, p. 1181 ss.; A. SALETTI, sub art. 614 bis, in Commentario alla
riforma del c.p.c., a cura di A. Saletti, Giuffrè, Milano, p. 192 ss.; S. MAZZAMUTO, La comminatoria di cui all’art. 614 bis c.p.c.
e il concetto di infungibilità processuale, in Europa e dir. privato, 2009, p. 947 ss.; ID., L’esordio della comminatoria di cui all’art.
614 bis c.p.c. nella giurisprudenza di merito, in Giur. it., 2010, p. 638 ss.; M.A. IUORIO, Il nuovo art. 614 bis c.p.c.: introduzione
dell’esecuzione indiretta nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. esec. forz., 2009, p. 411 ss.; C. CONSOLO-F. GODIO, Commento sub art. 614-bis, in C. CONSOLO (a cura di), Codice di procedura civile commentato, Ipsoa, Milano, 2010; F. GODIO,
L’astreinte e la giurisprudenza di merito: un primo bilancio su alcuni profili operativi, in Corr. giur., 2011, p. 1121 ss.; R. NOTARPASQUALE, Esecuzione processuale indiretta, in Nuova giur. civ. comm., 2011, p. 882 ss.; A. CARRATTA, op. cit., p. 91 ss.
10
Così B. SASSANI-G. MICCOLIS-C.L. PERAGO, L’esecuzione forzata. Lezioni, Giappichelli, Torino, 2010, p. 132; E. VULLO,
sub art. 614 bis c.p.c., in E. VULLO (a cura di), Codice dell’esecuzione forzata. Commentato con dottrina e giurisprudenza,
La Tribuna, Piacenza, 2009, p. 647; A. SALETTI, op. cit., p. 200. In giurisprudenza si veda Trib. Varese 17 febbraio 2011,
cit., p. 2965.
11
A. CARRATTA, op. cit., p. 96.
6
FOCUS Il nostro discorso deve prendere le mosse dall’individuazione del campo di applicazione dell’art. 614 bis c.p.c., ossia il vasto ed eterogeneo settore delle obbligazioni infungibili che, per essere adempiute, o anche solo per essere puntualmente ed interamente adempiute, necessitano
della cooperazione del debitore. In presenza di queste situazioni, gli ordinari strumenti di esecuzione forzata, che si fondano sulla tecnica della sostituzione dell’organo pubblico al soggetto
inadempiente, si rivelano del tutto inadatti a garantire l’attuazione coattiva del diritto, essendo
indispensabile ai fini della soddisfazione dell’avente diritto un comportamento attivo/omissivo
dell’obbligato, al quale quest’ultimo non può essere costretto, né può essere posto in essere da
un terzo. È appena il caso di precisare che il testo della norma di cui ci stiamo occupando non
contiene alcun espresso riferimento al carattere infungibile dell’obbligo, per cui se ne potrebbe
dedurre l’applicabilità anche a tutela delle obbligazioni a carattere fungibile; in particolare anche alle statuizioni economiche stabilite in sede di separazione o di divorzio. La sua collocazione (Libro III, Titolo IV, c.p.c.) e la rubrica della disposizione (Attuazione degli obblighi di fare
infungibile o di non fare), tuttavia, non sembrerebbero lasciare spazio a dubbio alcuno 12, anche
se tale limitazione non sembra del tutto ragionevole poiché, nell’ottica di favorire l’esatto
adempimento, sarebbe stato ben possibile concedere al creditore la possibilità di richiedere
l’intervento del giudice anche a fronte dell’inadempimento di prestazioni a carattere fungibile
(come avviene, ad esempio, per le astreintes francesi), che possono trovare attuazione coattiva
mediante le forme dell’esecuzione diretta ma con notevoli difficoltà e lungaggini processuali. In
specie, tale forma di esecuzione dovrebbe essere consentita «quantomeno nelle ipotesi in cui
l’esecuzione diretta dovesse palesarsi infruttuosa o comunque deludente» 13, nonché in presenza di
obblighi di fare fungibili non agevolmente surrogabili 14.
Prima di rispondere al quesito che ci siamo posti, ossia se la misura di cui all’art. 614 bis c.p.c.
sia estensibile alle statuizioni rese in sede di separazione o divorzio, occorre effettuare una breve digressione in ordine alle due grandi famiglie in cui si suddivide questa vasta ed eterogenea
gamma di provvedimenti. Da un lato vi sono le pronunce che riguardano il minore in senso lato, tra cui rientrano non solo il provvedimento con cui viene designato il genitore collocatario
(o affidatario prima della riforma del 2006) ma, altresì, quell’insieme di regole dettate dal giudice per garantire il contatto tra l’altro genitore ed i figli. Si pensi, ad. es., al diritto di visita infrasettimanale, nei week-end o nel periodo estivo e, più in generale, al diritto di partecipazione
a tutte le decisioni di maggiore importanza per l’educazione della prole. Dall’altro vi sono le
statuizioni a carattere patrimoniale, che nel nostro ordinamento godono già di una tutela privilegiata. Entrambe queste categorie di pronunce presentano difficoltà strutturali in ordine
all’esecuzione coattiva, dovute sia alla circostanza che hanno a che fare con la tutela di esigenze
12
Giungono a questa conclusione A. SALETTI, op. cit., p. 197; E. MERLIN, op. cit., p. 155; E. ZUCCONI GALLI FONSECA, op.
cit., p. 202; F. DE STEFANO, L’esecuzione indiretta, cit., p. 1183; A. CARRATTA, op. cit., p. 95; G. BALENA, La nuova pseudoriforma della giustizia civile (un primo commento della L. 18 giugno 2009, n. 69), in Giusto proc. civ., 2009, p. 749 ss.; S. MAZZAMUTO, L’esordio della comminatoria, cit., p. 639; E. REDENTI-M. VELLANI, Diritto processuale civile, Giuffrè, Milano, 2011,
p. 774; E. VULLO, op. cit., p. 645; G.F. RICCI, Diritto processuale civile, vol. III, Giappichelli, Torino, 2009, p. 148. Confermano l’operatività dell’art. 614 bis c.p.c. limitatamente al campo delle obbligazioni infungibili Trib. Terni 6 agosto 2009, in
Giur. it., 2010, p. 637 ss.; Trib. Cagliari 19 ottobre 2009, in Giur. merito, 2010, 2, p. 394; Trib. Verona 9 marzo 2010, in
Giur. merito, 2010, 7-8, p. 1857; Trib. Varese 16 febbraio 2011, cit., p. 2965; Trib. Modena 7 marzo 2011, in Giur. localeModena 2011; cui si aggiunga, se si vuole, A. GRAZIOSI, L’esecuzione forzata, in A. GRAZIOSI, I processi di separazione e divorzio, Giappichelli, Torino, 2011, p. 279.
13
B. CAPPONI, L’esecuzione processuale indiretta, Ipsoa, Milano, 2011, p. 127; G. VERDE, Diritto processuale civile, vol. III,
Zanichelli, Bologna, 2010, p. 123.
14
S. MAZZAMUTO, La comminatoria, cit., p. 947. Conf. Trib. Terni 4 agosto 2009, in Foro it., 2011, 1, I, p. 287.
7
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 primarie della vita di un soggetto, spesso minorenne, sia al fatto che mal si attagliano ad essere
eseguite nelle forme tradizionali previste dal Libro III c.p.c.
Ciò detto, non mi par dubbio che l’art. 614 bis c.p.c. si applichi anche alle statuizioni concernenti l’affidamento dei minori, siano essi figli legittimi che naturali 15, trattandosi all’evidenza di
obbligazioni a carattere infungibile che in assenza della cooperazione del genitore obbligato non
possono trovare attuazione, rivelandosi del tutto inidonee le ordinarie forme dell’esecuzione diretta disciplinate dal codice di procedura civile. La pronuncia della misura coercitiva potrà essere richiesta, inoltre, anche con riferimento all’obbligo specifico di consegna dei minori in
senso stretto 16 poiché, anche se la giurisprudenza maggioritaria è ormai orientata nel senso di
ritenere applicabile in queste ipotesi la procedura prevista dagli artt. 612 ss. c.p.c. per l’esecuzione degli obblighi di fare e di non fare, non può sfuggire che quest’ultima è stata pensata per
tutt’altre finalità, dovendo dunque rappresentare l’extrema ratio, soprattutto in considerazione
del fatto che l’uso della forza, quando coinvolge un minore, dovrebbe sempre essere evitato.
A questo punto è opportuno domandarsi che tipo di rapporto intercorra tra gli artt. 614 bis e
709 ter, 2° comma, c.p.c. che, ad una prima lettura, sembrerebbero operare nel medesimo ambito, con conseguente applicazione del principio per cui lex posterior generalis non derogat priori
speciali. In realtà un’attenta analisi di queste due norme porta a concludere nel senso che esse
sono tra loro differenti, operando in un momento diverso. Mentre, infatti, l’art. 614 bis c.p.c.
configura una misura coercitiva a carattere preventivo, che viene irrogata ex ante contestualmente al provvedimento di condanna, quando la violazione dell’obbligazione infungibile è solo
prevedibile, ed ha quindi una prevalente funzione dissuasiva, l’art. 709 ter, 2° comma, c.p.c. appresta una misura coercitiva a carattere tipicamente repressivo, che viene cioè inflitta a posteriori, quando le inadempienze si sono già verificate, ed ha quindi una precipua funzione punitiva
di pregresse condotte illecite. Nel primo caso la sanzione viene irrogata contestualmente alla
sentenza, quando ancora la violazione non si è manifestata, mentre nel secondo caso è necessario che l’inadempienza si sia già realizzata. Ciò fa si che i due istituti possano tranquillamente
convivere nel nostro ordinamento, ed anzi che insieme concorrano al doveroso rafforzamento
della tutela esecutiva dei diritti della personalità (e delle situazioni giuridiche più sopra qualificate come “sensibili”), che generalmente sono sottesi alle disposizioni date in tema di affidamento dei figli.
Non dovrebbe quindi porsi un problema di sovrapposizione delle due disposizioni, in quanto
le stesse sembrano escludersi a vicenda. Se il giudice, nell’emettere la sentenza di separazione o
di divorzio «fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta» dal genitore obbligato per
eventuali violazioni delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, quelle stesse condotte
non potranno più essere sanzionate anche in base all’art. 709 ter c.p.c.; viceversa, se la sentenza
di separazione o di divorzio non contiene alcuna prescrizione ex art. 614 bis c.p.c., eventuali
violazioni delle disposizioni in materia di affidamento potranno certamente ancora essere perseguite ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c. In sostanza, a mio avviso, si tratta di una sorta di concorso
elettivo tra i due mezzi di tutela esecutiva indiretta 17.
15
Nello stesso senso F. DE STEFANO, L’esecuzione indiretta, cit., p. 1184. Contra, M. BOVE, op. cit., p. 781.
Sull’applicazione in generale della misura di cui all’art. 614 bis c.p.c. alle obbligazioni che abbiano ad oggetto la consegna
o il rilascio, si veda E. ZUCCONI GALLI FONSECA, op. cit., p. 204.
17
Nello stesso senso F. TOMMASEO, op. cit., p. 1063. cui adde, se vuoi, A. GRAZIOSI, L’esecuzione forzata, cit., p. 277; ritiene
invece ammissibile il cumulo tra le due misure coercitive F. DE STEFANO, L’esecuzione indiretta, cit., p. 1184. In giurisprudenza si veda Trib. Salerno 22 dicembre 2009, in Famiglia e diritto, 2010, p. 924 ss.
16
8
FOCUS 3. Profili procedurali Assodato che anche le pronunce di separazione e di divorzio rientrano nel campo di applicazione
dell’art. 614 bis c.p.c., occorre soffermarsi brevemente su quelle che potrebbero risultare le peculiarità procedimentali che contraddistinguono l’operare della nuova misura coercitiva nel nostro
ambito, rinviando per tutto il resto ai più generali approfondimenti dedicati all’istituto 18.
Abbiamo già detto che la misura in esame si configura come accessoria rispetto al provvedimento di condanna. Se quindi appare indubbio che possa essere inserita nelle sentenze di separazione o di divorzio (quest’ultima anche se resa su ricorso congiunto), vista la loro scontata
natura di provvedimenti di condanna, non vedrei ostacoli nemmeno a che sia contenuta nell’ordinanza presidenziale, la quale, pur non avendo i caratteri della definitività, è certamente anch’essa un provvedimento di condanna 19. Anzi, riterrei che l’udienza presidenziale possa essere
la sede privilegiata per chiedere la pronuncia di questa misura coercitiva indiretta, giacché di
solito è proprio questo il momento più delicato della separazione, il momento di massimo conflitto ed attrito tra le parti, apparendo dunque logica l’adozione di un’ordinanza che, oltre a dettare i provvedimenti temporanei ed urgenti nell’interesse della prole, tenda a dissuadere il genitore obbligato rispetto a condotte ostruzionistiche.
A stretto rigore andrebbe invece esclusa la possibilità di inserire una previsione ex art. 614 bis
c.p.c. nel verbale di separazione consensuale, non trattandosi di un “provvedimento”; tuttavia,
nulla sembra escludere che i coniugi, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, tra le condizioni della separazione possano prevedere che in caso di inosservanza delle disposizioni concordate in tema di affidamento, l’inadempiente sia obbligato al versamento di una somma di
denaro all’altro genitore «per ogni violazione ... ovvero per ogni ritardo».
Altro interessante profilo cui dobbiamo accennare è quello del termine ultimo per la formulazione della richiesta di emissione della misura compulsoria di cui ci stiamo occupando. L’art.
614 bis c.p.c., infatti, si limita ad affermare che per ottenere la pronuncia di questi provvedimenti
occorre necessariamente l’istanza della parte interessata, senza null’altro specificare in ordine al
momento in cui questa deve essere presentata, problema non indifferente all’interno di un processo che è scandito da tutta una serie di preclusioni piuttosto rigide. A mio parere, non trattandosi di vera e propria domanda giudiziale, giacché non ha ad oggetto l’accertamento di un
rapporto giuridico sostanziale, ma solo l’attivazione di un dispositivo di esecuzione indiretta,
l’istanza non è assoggettata ad alcuna delle preclusioni di cui all’art. 183, 6° comma, c.p.c. (in
combinato disposto con gli artt. 709, 3° comma, c.p.c. e 4, 10° comma, l. divorzio), e può quindi essere avanzata sino al momento della definitiva precisazione delle conclusioni 20, oltre che
essere proposta per la prima volta in appello 21.
18
V. sopra nota 7.
È praticamente pacifico, tra i primi commentatori, che la misura coercitiva indiretta prevista dall’art. 614 bis c.p.c. possa
essere concessa anche tramite provvedimenti resi a cognizione sommaria, in forma di ordinanza o decreto; espressamente
in termini, vedi E. MERLIN, op. cit., p. 1578; M. BOVE, op. cit., p. 784; L. BARRECA, op. cit., p. 507. In particolare, tra i provvedimenti di condanna che la dottrina ritiene tutelabili mediante la pronuncia della comminatoria di cui si discute possiamo ricordare l’ordinanza conclusiva del procedimento di cognizione sommaria, i provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c.
ed i lodi arbitrali, mentre si tende ad escludere il verbale di conciliazione stragiudiziale. Si vedano sul punto C. CONSOLOF. GODIO, op. cit., p. 286; A. CARRATTA, op. cit., p. 97. Per una prima applicazione giurisprudenziale di questa linea interpretativa, si veda Trib. Terni 6 agosto 2009, in Giur. it., 2010, p. 637, con nota di S. MAZZAMUTO, L’esordio della comminatoria, cit.
20
In senso conforme v. F.P. LUISO, Diritto processuale civile, vol. III, Giuffrè, Milano, 2009, p. 238; M. BOVE, op. cit., p. 788;
B. CAPPONI, L’esecuzione processuale indiretta, cit., p. 132. Contra E. MERLIN, op. cit., p. 1549; E. ZUCCONI GALLI FONSECA,
op. cit., p. 205; A. SALETTI, op. cit., p. 198. In giurisprudenza si vedano Trib. Modena 7 marzo 2011, cit.; Trib. Varese 17
febbraio 2011, cit., p. 2965.
21
Contra E. ZUCCONI GALLI FONSECA, op. cit., p. 209.
19
9
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 Un’ulteriore questione da porsi è se anche nel campo del diritto di famiglia, la pronuncia dei
provvedimenti di cui all’art. 614 bis c.p.c. necessiti dell’istanza di parte, visto che le principali
statuizioni in tema di affidamento e mantenimento della prole sono tendenzialmente sottratte
al principio della domanda (artt. 155, 2° comma, c.c. e 6, 9° comma, l. divorzio). Stante la natura palesemente accessoria della misura coercitiva direi che il suo regime giuridico-processuale
vada coordinato con quello della pronuncia principale, sicché se quest’ultima è adottabile ufficiosamente per espressa volontà del legislatore, come è nel caso delle disposizioni sull’affidamento e sul mantenimento dei figli minori, anche la correlata misura sanzionatoria ex art. 614
bis c.p.c. dovrebbe poter essere emessa d’ufficio, oltre che su istanza di parte. D’altronde, sarebbe un controsenso, logico e sistematico, che il giudice potesse liberamente disporre circa l’affidamento dei figli, senza in alcun modo soggiacere alle richieste delle parti, ma non potesse fare
altrettanto per garantire il rispetto dei medesimi obblighi, ricorrendo alla nuova forma di tutela
esecutiva indiretta delle obbligazioni infungibili, oggi finalmente contemplata anche dal nostro
ordinamento giuridico 22.
La norma in esame subordina la concessione della misura ad una valutazione discrezionale del
giudice 23, tanto in ordine all’an, visto che l’unica condizione fissata dalla legge è che non appaia
manifestamente iniqua, che in ordine al quantum, determinato dal giudice «tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni
altra circostanza prevedibile». Si tratta di parametri che dottrina e giurisprudenza si sono cimentate a concretizzare al fine di individuare una serie di regole generali cui il giudice dovrebbe attenersi. In particolare, si ritiene che la misura sia manifestamente iniqua ogniqualvolta dovesse dar luogo ad una «sproporzione evidente tra il sacrificio con essa imposto al debitore e l’interesse del creditore a vedere eseguita la prestazione» 24. Con riferimento invece ai criteri guida per
la quantificazione della comminatoria, occorrerà valutare il danno subendo dal creditore, il valore della causa, le condizioni soggettive del debitore, il contegno processuale delle parti nonché il tipo di violazione posta in essere 25.
In questa sede basti notare che per un verso assai raramente potrà apparire manifestamente
iniquo dotare di un adeguato dispositivo di coercizione i provvedimenti relativi all’affidamento
dei figli, essendo essi finalizzati ad assicurare il pieno esercizio della genitorialità, e perciò, in
definitiva, un’istanza di rango costituzionale (art. 30, 1° comma, Cost.) 26; per altro verso non
può sfuggire che la quantificazione della sanzione, per poter avere una reale efficacia preventiva
di possibili violazioni delle disposizioni in tema di affidamento, dovrà essere commisurata anche, e forse prevalentemente, alle capacità economiche del genitore obbligato.
A fronte dell’inadempimento delle statuizioni concernenti l’affidamento dei figli, la sanzione
accessoria ex art. 614 bis c.p.c. costituirà «titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per
ogni singola violazione o inosservanza». Ciò implica, direi, che in caso di violazioni o inosservanze da parte del genitore nei cui confronti è stata disposta la misura coercitiva indiretta, l’altro
possa immediatamente agire esecutivamente intimando precetto per le somme maturate a tito-
22
Contra, A. CARRATTA, op. cit., p. 95; A.G. DIANA, La nuova esecuzione forzata. Questioni e procedure, Giuffrè, Milano,
2011, p. 271.
23
A. SALETTI, op. cit., p. 198.
24
F. DE STEFANO, L’esecuzione indiretta, cit., p. 1183. Sul punto si veda anche A. SALETTI, op. cit., p. 198.
25
Trib. Varese 17 febbraio 2011, cit., p. 2965.
26
Sulla rilevanza costituzionale della responsabilità genitoriale sia consentito il rinvio a A. GRAZIOSI, La responsabilità genitoriale. Profili processuali, in Il Governo della famiglia, Atti del Convegno svoltosi a Bologna il 17-18 aprile 2009, in Quaderni
AIAF, n. 2, 2009, Roma, p. 157.
10
FOCUS lo di sanzione ex art. 614 bis c.p.c., senza previa necessità di fornire la prova delle intervenute
inadempienze. Ferma, naturalmente, la facoltà dell’intimato di proporre opposizione a precetto
ex art. 615, 1° comma, c.p.c., ed in questa sede, ricorrendone i presupposti, chiedere eventualmente la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo 27.
Nell’auspicio che il nuovo art. 614 bis c.p.c. possa avere ampia applicazione anche nel campo
del diritto di famiglia, sono infine conscio che l’esperienza pratica farà emergere molte altre questioni procedurali oltre a quelle sin qui evidenziate, per ora comune, nei limiti di questo breve
intervento, mi pare di aver affrontato gli aspetti che, in prima battuta, appaiono maggiormente
problematici.
27
Conf. A. SALETTI, op. cit., p. 200; E. ZUCCONI GALLI FONSECA, op. cit., pp. 100, 208; B. SASSANI-G. MICCOLIS-C.L. PERAGO,
op. cit., p. 133.
11
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 LA VEXATA QUAESTIO DELL’ESECUZIONE DEI PROVVEDIMENTI GIUDIZIARI DI AFFIDAMENTO DEL MINORE: SPUNTI PER UN MODELLO UNIFICATO DI ATTUAZIONE Fabio Lepri
Avvocato del Foro di Roma
Sommario: 1. Le soluzioni proposte in dottrina e in giurisprudenza. – 2. La posizione del legislatore. – 3. La persistente situazione di incertezza: opportunità di adottare in via interpretativa un modello processuale unitario. – 4. Incompatibilità dell’attuazione dei provvedimenti di affidamento con gli schemi tipici dell’esecuzione forzata. – 5. L’interesse del minore e la dicotomia titolo esecutivo-esecuzione. – 6. Possibilità di una rilettura congiunta dei dati normativi. – 7. I vantaggi di un modello unitario di attuazione dei provvedimenti di affidamento. – 8. Conclusioni.
1. Le soluzioni proposte in dottrina e in giurisprudenza Da molti decenni si discute sulle modalità dell’esecuzione coattiva dei provvedimenti giudiziari
di affidamento dei minori. Senza tornare addirittura alle tesi espresse nel vigore del codice di
procedura civile del 1865, va ricordato che già pochi anni dopo l’entrata in vigore dell’attuale
codice di rito erano state espresse dalla giurisprudenza pratica e teorica posizioni diverse. Ragioni che un’autorevole voce aveva precisato non esser solo “sentimentali” 1, aggravate da una
normativa lacunosa, avevano dato luogo, invero, a ricostruzioni e soluzioni contrastanti 2.
1
S. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, vol. III, Vallardi, Milano, 1959 (rist. 1966), a p. 449: «... il rapporto genitore-figlio non si può porre assolutamente sullo stesso piano del rapporto soggetto-cosa, e non per ragioni di carattere più o meno
sentimentale ma per la natura giuridica di quel rapporto».
2
La letteratura sull’argomento è ampia. Senza pretesa di completezza, si vedano tra gli altri: M. FORNACIARI, L’attuazione
degli obblighi di consegna dei minori. Contributo alla teoria dell’esecuzione forzata in forma specifica, Giuffrè, Milano, 1991; R.
VACCARELLA, Problemi vecchi e nuovi dell’esecuzione forzata dell’obbligo di consegna di minori, in Giur. it., 1982, I, 2, p. 301; L.
SACCHETTI, L’esecuzione dei provvedimenti civili riguardanti i minori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, p. 276 ss.; M. DOGLIOTTI, Oggetto o soggetto di diritto nell’esecuzione dei provvedimenti di affidamento?, in Giur. it., 1989, I, 2, p. 183 ss.; F.
CARPI-A. GRAZIOSI, Procedimenti in tema di famiglia, in Dig. disc. priv., XIV, 1996; F. CARPI, Note in tema di tecniche di attuazione dei diritti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, p. 115 ss.; M. FARINA, L’esecuzione forzata dell’obbligo di consegna dei minori, in Riv. dir. proc., 1997, p. 259 ss. F. DANOVI, Le misure sanzionatorie a tutela dell’affidamento (art. 709-ter c.p.c.), in Riv.
dir. proc., 2008, p. 603 ss.; ID., L’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento e alla consegna di minori tra diritto vigente e
prospettive di riforma, in Dir. famiglia, 2002, p. 530 ss.; L. MALAGÙ, Esecuzione forzata e diritto di famiglia, Giuffrè, Milano,
1986; U. MINNECI, L’esecuzione forzata dei provvedimenti di affidamento dei minori, in Dir. famiglia, 1995, I, p. 770 ss.; C.
MANDRIOLI, Esecuzione forzata degli obblighi di fare e non fare, in Noviss. Dig. it., VI, Torino, 1969, p. 768 ss. F. TOMMASEO,
L’attuale panorama normativo sull’esecuzione dei provvedimenti in materia di famiglia e di minori, in Studium iuris, 2004, p.
1529 ss.; D. CONSALES, L’attuazione dell’obbligo di consegna dei minori: orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, in Riv. esec.
12
FOCUS A fronte di una posizione che addirittura aveva espresso dubbi sull’eseguibilità pratica dei provvedimenti in questione, era stata sostenuta l’utilizzabilità delle forme tipiche dell’esecuzione
forzata per consegna di bene mobile (art. 605 c.p.c.) 3. Ma la Cassazione aveva ritenuto la soluzione inaccettabile, benché «brillantemente argomentata dal più estroso fra i processualisti della
passata generazione» 4. Ed aveva canonizzato l’applicazione della disciplina dettata per l’esecuzione degli obblighi di fare ai sensi degli artt. 612 ss. c.p.c.
Un tipo di esecuzione più “elastica” di quella per consegna di cose mobili, poiché fondata su
una fase iniziale diretta alla determinazione del quomodo, delle modalità di attuazione e proprio
per questo considerata dai giudici di legittimità maggiormente idonea per ottenere coattivamente l’affidamento di minori.
La stessa Cassazione, prendendo atto della difficoltà di reperire nell’ordinamento modelli più
appaganti, aveva per il vero anche riconosciuto l’utilizzabilità di una esecuzione “processuale in
senso lato”, in quanto affidata al giudice autore del provvedimento: questo, però, solo nei soli
casi di attuazione dei provvedimenti cautelari 5.
La posizione assunta dai giudici di legittimità, benché autorevolmente sostenuta anche in dottrina 6 e condivisa da successive pronunce, non ha mai convinto la giurisprudenza di merito,
che ne ha consapevolmente disatteso gli assunti 7, negando con diverse motivazioni l’applicazione dell’art. 612 c.p.c. ed in generale della disciplina dell’esecuzione forzata in forma specifica, per adottare, invece, soluzioni ritenute più immediate e duttili.
forz., 2002, p. 481 ss.; G. FINOCCHIARO-E. POLI, Esecuzione dei provvedimenti di affidamento dei minori, in Dig. disc. priv.,
Agg., Torino, 2007, p. 532 ss.; G. FINOCCHIARO, Esecuzione forzata dei provvedimenti di affidamento dei minori, in Giust. civ.,
1981, p. 324 ss.; V. ANDRIOLI, In tema di esecuzione dei provvedimenti di affidamento della prole, in Foro it., 1952, I, p. 123 s.;
E. GARBAGNATI, In tema di esecuzione dei provvedimenti temporanei ex art. 708 c.p.c., in Foro padano, 1958, I, p. 1216; E.
VULLO, Ancora sull’attuazione coattiva dei provvedimenti di affidamento dei minori, in Famiglia e diritto, 1996, p. 270 ss. Una
recente ed esaustiva ricognizione delle varie teorie proposte è in A.M. SOLDI, Manuale dell’esecuzione forzata, III ed., Cedam, Padova, 2012, p. 1114 ss.
3
F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile. Processo di Esecuzione, I ed., Cedam, Padova, 1932, p. 36 ss. (che però
aveva sostenuto il ricorso all’esecuzione per consegna per la prima volta in un sistema che, com’è noto, non prevedeva – se
non con frammentari accenni – una disciplina ad hoc dell’esecuzione degli obblighi di fare, introdotta con l’art. 612 c.p.c.
del codice di rito vigente).
4
Cfr. Cass. 7 ottobre 1980, n. 5374: la sentenza, che rappresenta ancor oggi uno dei più approfonditi tentativi giurisprudenziali di sistemazione della materia, respinse con vigore la tesi che aveva suggerito il ricorso alle forme dell’esecuzione
per consegna di cosa mobile ex artt. 605 c.p.c. e 2930 c.c. facendosi carico di replicare alle argomentazioni con le quali era
stato dalla dottrina affermato che nell’uomo va riconosciuta non solo una persona ma anche una “cosa”, anche ricordando
che si ammettono rapporti giuridici nei quali oggetto è per l’appunto il corpo umano (come il contratto di posa della modella, o il contratto di baliatico).
5
V. la sentenza citata nella nota precedente, ed ivi la confutazione ex professo degli argomenti opposti all’applicabilità
dell’esecuzione forzata degli obblighi di fare, ritenuta senz’altro applicabile ai provvedimenti di affidamento dei minori non
cautelari poiché: «l’ambito di applicazione dello strumento dell’esecuzione in senso tecnico debba trovare la più ampia piattaforma applicativa, con il ricorso alla esecuzione in forma specifica degli obblighi di fare, onde assicurare l’esecuzione pronta ed elastica del provvedimento attraverso l’intervento del giudice dell’esecuzione che è [...] particolarmente qualificato ad interventi che
siano il più possibile adeguati ad evitare effetti traumatici per il minore ed i precedenti affidatari, con un rapporto di immediatezza rispetto a situazioni ambientali che vanno considerate al riguardo, e con ampia gamma di possibilità nella scelta delle modalità
dell’esecuzione la quale, attesa la peculiarità del contenuto dell’obbligo, non deve necessariamente avvenire per il tramite
dell’ufficiale giudiziario potendosi ricorrere ad assistenti sociali ed altri ausiliari all’uopo opportunamente designati ad operare
accanto all’ufficiale giudiziario medesimo» (così la citata Cass. n. 5374/1980).
6
V. ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, vol. III, III ed., Jovene, Napoli, 1957, p. 327; E. GARBAGNATI, op. cit.,
p. 1216 in nota a Trib. Milano 30 giugno 1958.
7
Per l’applicabilità dell’esecuzione prevista dall’art. 612 c.p.c. all’esecuzione dei provvedimenti di affidamento dei minori
v., oltre alla citata Cass. 7 ottobre 1980, n. 5374, anche: Cass. 1° aprile 1998, n. 3374; Cass. 12 novembre 1984, n. 5696;
Cass. 15 dicembre 1982, n. 6912; Cass. 15 gennaio 1979, n. 292. In precedenza, con riferimento ai provvedimenti temporanei ed urgenti, Cass. 1° dicembre 1966, n. 2823 in Foro it., 1967, I, p. 273.
13
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 Ampia diffusione nella pratica, infatti, ha avuto il ricorso all’accennata esecuzione “in via breve”
perché svincolata dalle forme previste nel Libro III c.p.c. e sostanzialmente affidata alla direzione del giudice della cognizione, con l’eventuale supporto della forza pubblica e degli ausiliari
di cui è parola all’art. 68 c.p.c. A volte sostituita, secondo altro indirizzo giurisprudenziale, dall’attribuzione della competenza a gestire l’esecuzione al giudice tutelare, col potere di far ricorso alla pubblica amministrazione (ma sempre a prescindere dalle tradizionali forme di coinvolgimento dell’ufficio esecutivo).
Tra queste tesi create dalla prassi, talora riassunte con le etichette di “giurisdizionale”, la prima,
ed “amministrativa” la seconda (in base al carattere sostanzialmente amministrativo dell’attività del giudice tutelare), non sono mancate soluzioni diverse: sia nel senso di demandare l’esecuzione al pubblico ministero, sia in quello di distinguere a seconda del provvedimento da attuare (ad instar di quanto espresso dalla Cassazione). Con la riproposizione talora della soluzione nichilista accennata in apertura, e tendente a negare l’eseguibilità manu militari dei provvedimenti in questione: optando per una loro attuabilità – in quanto tendenzialmente infungibili – attraverso misure di coercizione indiretta e l’applicazione delle eventuali sanzioni penali
ai sensi degli artt. 388 e 650 c.p.c. 8.
2. La posizione del legislatore A questa situazione di risalente e totale incertezza, tanto più grave in quanto operante su situazioni per definizione molto delicate, il legislatore non ha mai voluto definitivamente porre
rimedio. Perché, nonostante gli alti lai della dottrina, ha continuato negli anni ad intervenire
con provvedimenti parziali e spesso di non chiara formulazione, che, ben lungi dal chiudere il
dibattito, lo hanno paradossalmente amplificato: fornendo nuova linfa all’una o all’altra delle
variegate posizioni e così continuando a far discutere tutti gli interpreti e la giurisprudenza
pratica.
Basta considerare che quando 9 con la l. n. 74/1987, novellando l’art. 6 l. divorzio, si è introdotta la previsione per la quale «all’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento della prole
provvede il giudice del merito» aggiungendo che «a tal fine copia del provvedimento di affidamento è trasmessa, a cura del pubblico ministero al giudice tutelare» sono subito sorti ulteriori contrasti. Perché alcuni autori hanno scorto nell’innovazione una portata tendenzialmente generale,
da attuare con la riconduzione dell’esecuzione in materia ad una più consona “attuazione” affi-
8
Una recente rassegna delle varie posizioni dottrinali e giurisprudenziali è in A.M. SOLDI, op. cit., p. 1114 ss.
Un tentativo di intervento a 360° sul problema oggetto del presente scritto era stato presentato nella XIV legislatura, con
il d.d.l. n. 1276 presentato in Senato. Con lo stesso, si prevedeva l’introduzione di due articoli, che anche al di là della condivisibilità della soluzione, avrebbero comunque quanto meno contribuito ad un generale chiarimento: a parte una norma
dedicata all’esercizio del «potere di controllo sul minore da parte del genitore non affidatario», improntata ad una sfiducia poi
sopita verso l’affidamento congiunto o condiviso, si prevedeva il potere del giudice di «disporre il temporaneo esercizio
esclusivo della potestà in favore del genitore non affidatario, in funzione del compimento di singoli atti, disponendo contestualmente le modalità di attuazione del provvedimento e ripartendo le relative spese in relazione alla capacità economica delle parti»,
precisando che: «Ai fini dell’esecuzione delle misure di carattere non patrimoniale contenute nel provvedimento, il giudice trasmette copia dello stesso al giudice tutelare». Diversamente da quanto accade oggi, la figura di quest’ultimo acquisiva particolare valorizzazione in sede di esecuzione dei provvedimenti di affidamento del minore. Si proponeva di introdurre un art.
337 bis c.c. dedicato ai Procedimenti riguardanti l’affidamento di minori secondo il quale: «Il giudice tutelare è giudice dell’esecuzione per i provvedimenti di cui all’articolo 337, nonché per ogni altro provvedimento del giudice del merito riguardante
l’affidamento del minore o il relativo regime di visite da parte del genitore non affidatario o di terzi. Può in particolare ordinare
all’ufficiale giudiziario o alle forze dell’ordine di provvedere alla consegna del minore, preferibilmente disponendo il contestuale intervento degli operatori dei servizi sociali competenti».
9
14
FOCUS data tout court al giudice della cognizione oppure da demandare all’evocato giudice tutelare. Altri, con argomenti comunque degni di rilievo, hanno continuato a propugnare l’applicazione
delle norme sull’esecuzione degli obblighi di fare ai sensi dell’art. 612 c.p.c. 10, assegnando alla
riforma effetti minori. E non è neppure mancato chi, all’esito di un’ampia e rigorosa analisi, ha
finanche riproposto – con nuove argomentazioni e rinnovate basi sistematiche – l’applicabilità
delle norme sull’esecuzione per consegna ex art. 605 c.p.c. 11.
Questa grave situazione di incertezza non è mutata in occasione dei successivi interventi legislativi. Per il vero neppure quando, vent’anni dopo e sempre in presenza di una situazione giurisprudenziale e dottrinale magmatica, è stato introdotto l’attuale art. 709 ter c.p.c. Norma che
ha previsto un potere di modifica ex post dei provvedimenti di affidamento assieme a consistenti strumenti di coercizione indiretta a tutela (anche) della parte affidataria. E che in quanto riferita espressamente alle controversie sulle “modalità di affidamento” e atti che comunque «ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento» si presta ad esser applicata anche al
tema specifico dell’esecuzione qui in rilievo (anche perché accompagnata da una disposizione
diretta a renderla di applicazione tendenzialmente generale: l’art. 4, 2° comma, l. n. 54/2006,
che ha introdotto l’art. 709 ter, recita testualmente: «Le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché
ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati»).
Solo che, di nuovo, il legislatore non ha voluto occuparsi espressamente delle forme e modalità
di esecuzione coattiva dei provvedimenti di affidamento. Si è persa così l’ennesima occasione
per dettare una disciplina univoca dell’esecuzione di tali provvedimenti, di un loro momento
essenziale, rispetto al quale la norma è silente. E si è voluto pigiare più che altro sul pedale delle
misure di coercizione indiretta, trascurando quello dell’esecuzione diretta e seguendo una tecnica di attuazione che non è certo questa la sede per valutare 12.
Interessa invece sottolineare che le misure de quibus (come del resto quelle introdotte nel 2009
con l’art. 614 bis c.p.c.), per quanto utili, certamente non possono esaurire lo strumentario a
tutela dell’esecuzione dei provvedimenti giudiziali di affidamento dei minori, tanto più in un
settore dell’ordinamento – quello del diritto di famiglia – dove a tutt’oggi sussiste un problema
di effettività di tutte, indistintamente le misure a contenuto patrimoniale. E nel quale non è raro, come l’esperienza pratica insegna, prendano il sopravvento considerazioni diverse da quelle
economiche (ossia proprio quelle sulle quali, invece, si basano le predette misure di coercizione indiretta). Non è chi non veda, al di là di ogni possibile valutazione sulla scelta di fondo, che
una cosa è imporre un’astreinte, una misura risarcitoria punitiva ad un’impresa commerciale,
che opera sotto l’egida della scelta patrimonialmente conveniente ed è tenuta a dar conto della
sua consistenza patrimoniale (di qui il funzionamento delle misure patrimoniali di coercizione
10
Osserva E. VULLO, op. cit., p. 269 ss., che alcuni commentatori hanno proposto una lettura restrittiva dell’art. 11, 10°
comma, della l. 6 marzo 1987, n. 74: «riconoscendo a questa norma la sola funzione di individuare il giudice competente
all’attuazione dei provvedimenti relativi alla prole, ma negando che da tale disposizione si possa desumere alcuna regola innovativa e decisiva sul quomodo dell’esecuzione degli obblighi di consegna dei minori, che, quindi, dovrebbe continuare a svolgersi secondo le procedure tipiche disciplinate nel terzo libro del codice di rito». Apertamente contrario alla lettura dell’innovazione del
1987 come di portata generale è U. MINNECI, L’esecuzione forzata, I, cit., secondo il quale «l’art. 610 non solo si configura
come una norma speciale nell’ambito dell’ordinamento, ma soprattutto, individuato il giudice competente dell’esecuzione, nulla
dispone sul modulo esecutivo da seguire. Sembra pertanto arbitrario incidere sulla disciplina della machinery esecutiva senza alcun riferimento normativo al riguardo».
11
Ad oggi il tentativo più ampio per dimostrare l’applicabilità dell’art. 605 c.p.c. all’esecuzione dei provvedimenti di affidamento dei minori si deve a M. FORNACIARI, op. cit., passim.
12
Si rinvia all’ampio esame contenuto nel volume AA.VV., L’esecuzione processuale indiretta, diretto da B. Capponi, Ipsoa,
Milano, 2011.
15
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 indiretta nel settore, ad esempio, della proprietà intellettuale). Un’altra è imporre misure patrimoniali a chi sceglie volontariamente di non collaborare, di non “consegnare” – poniamo – il
minore al nuovo affidatario. Anche a prescindere dal fatto che manovre comunque ostili possono sfuggire alla sfera di applicabilità delle misure patrimoniali di coercizione indiretta, sembra evidente che in sede contenziosa il soggetto inadempiente sovente si muove in base ad altre
considerazioni, e sul piano economico può contare purtroppo su una pratica difficoltà di effettiva esecuzione di ogni provvedimento a contenuto condannatorio patrimoniale nell’attuale
sistema giudiziario italiano (dove può approdare ad un risultato utile solo in caso di evidenza
dei redditi e del patrimonio della parte sanzionata, peraltro dopo tempi a tutti noti).
Anche poco prima della stesura del presente contributo il miraggio dell’intervento legislativo
risolutore si è dissipato. Chi credeva che, nell’eliminare a fine legislatura le trite discriminazioni tra figli naturali e figli legittimi, il conditor legum avrebbe colto l’occasione per chiarire
una volta per tutte come si deve procedere per attuare i provvedimenti giudiziali di affidamento dei minori, è rimasto deluso. Il nuovo art. 38 disp. att. c.c., infatti, all’esito delle modifiche apportate al testo dalla legge approvata il 27 novembre 2012 (l. 10 dicembre 2012, n.
219, pubblicata in G.U. 17 dicembre 2012) non prevede una disciplina delle modalità di attuazione. Più modestamente si limita a dare un segnale di “uniformità” procedimentale: ma di
questo diremo tra poco.
3. La persistente situazione di incertezza: opportunità di adottare in via interpretativa un modello processuale unitario Il legislatore, dunque, si è disinteressato del problema. Lasciando le redini della non edificante
situazione di incertezza all’interprete. Chiamato a verificare, anche alla luce dell’ennesima occasione legislativa mancata, se ci si debba per forza arrendere alla presenza di soluzioni dottrinali e giurisprudenziali difformi. O non si possa, piuttosto – alla luce dei rinnovati dati normativi ed attraverso una loro complessiva rilettura – compiere un passo ulteriore, affermando una
volta per tutte l’esistenza di un unico meccanismo processuale di esecuzione dei provvedimenti
di affidamento dei minori, mettendo da parte le speranze di un intervento legislativo, di sempre
più incerta adozione.
Anticipando le conclusioni, questo sembra a chi scrive possibile. Poiché oggi si può arrivare, riconsiderando tutte le recenti innovazioni e rimanendo in linea con il sistema vigente, ad affermare in via interpretativa la piena operatività di un modello tendenzialmente stabile ed unificato di esecuzione dei provvedimenti in questione. Sufficientemente svincolato dalla griglia del
Libro III c.p.c., e costituito da una meno formale, ma più efficace, “attuazione”: affidata al giudice che ha emesso il provvedimento, cui spetta la determinazione, anche a tergo e con eventuali modifiche al provvedimento stesso, delle relative modalità.
4. Incompatibilità dell’attuazione dei provvedimenti di affidamento con gli schemi tipici del‐
l’esecuzione forzata Per giustificare l’assunto testé anticipato è necessario prender le mosse da un dato ineludibile,
rappresentato da ciò, che se è indubbio che in ogni frangente relativo ai provvedimenti di affidamento operino, contrapposti, diritti soggettivi di rango costituzionale in capo all’uno ed all’altro genitore (o comunque soggetto coinvolto dal lato attivo e passivo dell’esecuzione di tali
16
FOCUS provvedimenti), è altrettanto indubbio che il principale interesse da rispettare ed assicurare sia
quello, di rango legislativamente sovraordinato, del minore.
Tutta la nostra legislazione degli ultimi decenni, a partire dalla Costituzione (cfr. artt. 2 e 31) lo
conferma. In doverosa sintonia del resto con la normativa sovranazionale. Tant’è che la giurisprudenza non ha mancato di sottolineare che la decisione del giudice di affidare un figlio minore «ad uno dei due genitori non ha natura costitutiva, in relazione ad un preteso diritto del genitore a vedersi riconosciuto tale affidamento, ma integra una misura adottata a tutela dell’esclusivo
interesse morale e materiale della prole, a fronte del quale la posizione dei genitori non si configura
come diritto, ma come “munus”» 13.
Le conseguenze sono di particolare rilievo per quanto costituisce oggetto del presente scritto.
Innanzitutto, si deve riconoscere che una situazione nella quale spicca la posizione prevalente
del minore, da considerare “soggetto” del dictum giudiziale di affidamento più che il suo “oggetto”, non si presta ad esser imbrigliata nelle categorie del processo esecutivo e ancor meno ad
esser ricondotta alla basilare dicotomia titolo esecutivo-esecuzione 14. Non foss’altro per la difficoltà di ricondurre al “diritto certo, liquido ed esigibile” di cui è parola all’art. 474 c.p.c. situazioni soggettive che, anche a volerle qualificare di diritto soggettivo, come appena visto tendono in realtà ad esser puramente funzionali al superiore interesse del minore.
Ma sembra allora anche del tutto evidente che, una volta escluso in capo all’affidatario un diritto
prevalente (o comunque subordinato tale diritto all’interesse del minore) non sia possibile una
sovrapposizione delle regole dell’esecuzione in forma specifica all’attuazione dei provvedimenti
di affidamento. A partire da quella per la quale ai sensi degli artt. 2931 c.c. e 612, 613 c.p.c., la titolarità dei diritti e degli obblighi delle parti deve rimanere identica prima e dopo l’esecuzione forzata in forma specifica, perché la tutela esecutiva non può andare al di là dell’attuazione della statuizione sostanziale.
La situazione in tema di esecuzione dei provvedimenti di affidamento del minore è opposta.
Perché proprio in considerazione della natura poziore dell’interesse del minore può accadere
che l’esecuzione dei provvedimenti di affidamento debba esser sospesa, o addirittura che dall’esecuzione stessa (i.e.: per quanto possa emergere nella sua realizzazione) possano derivare ragioni di modifica, se non addirittura di revoca, del “titolo” in base al quale è stata avviata 15.
È, questa, una fondamentale ragione per la quale qualsiasi procedimento costruito sul principio nulla executio sine titulo e al fine di realizzare ad ogni costo un programma contenuto nel
titolo esecutivo non può dalle fondamenta ritenersi compatibile con l’esecuzione coattiva qui
in esame. Se non attraverso alchimie che rischiano di creare problemi maggiori di quelli da risolvere.
Si pensi, exempli gratia, alla necessità di “sostituire” il giudice dell’esecuzione a quello tutelare o
a quello della cognizione che ha emesso il provvedimento nelle valutazioni del caso concreto;
oppure a quella di coordinare il rimedio delle opposizioni esecutive, insopprimibile una volta
13
Per tutte: così Cass. n. 10094/2008, ed i precedenti che essa richiama in motivazione Cass. 22 giugno 1999, n. 6312;
Cass. 19 aprile 2002, n. 5714.
14
R. VACCARELLA, op. cit., p. 310 nella sua acuta analisi della questione intravede le ragioni della ribellione dei giudici di
merito alla tesi della Cassazione nel «malessere di chi vede con i propri occhi e tocca con mano le conseguenze di una soluzione
in sé pregevole, ma astratta».
15
Cfr. per tutti R. VACCARELLA, loc. ult. cit., il quale a commento di due decisioni contrarie all’applicazione dell’art. 612
c.p.c. (Pret. Roma 5 agosto 1981 e Pret. Nardò 18 agosto 1981, ivi, p. 302 ss.) osserva che: «Negando al provvedimento che
erano chiamati ad eseguire la natura di titolo esecutivo, i giudici di merito hanno, in realtà, rifiutato di comportarsi come giudici
dell’esecuzione» così «rivendicando non un semplice potere di scelta del quomodo exequendi, ma anche di scelta tra il provvedere e il non provvedere».
17
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 che si adottano gli schemi del Libro III c.p.c., con i rimedi cognitivi e le competenze funzionali
del giudice dei provvedimenti di affidamento; ovvero, ancora, all’esigenza di contemperare la
modificabilità in sede attuativa dei provvedimenti – canonizzata dall’attuale art. 709 ter c.p.c.–
col principio per il quale, se non impugnata nel breve termine di cui all’art. 617 c.p.c. l’ordinanza che determina le modalità di attuazione non è suscettibile di istanza di revoca 16.
Sono, queste, solo alcune delle discrasie che derivano dall’operazione di sovrapposizione qui
avversata.
5. L’interesse del minore e la dicotomia titolo esecutivo‐esecuzione Il punto fermo che deve esser considerato nella selezione delle varie opzioni possibili in tema di
pratica attuazione dei provvedimenti in materia di affidamento dei minori, pertanto, è l’interesse superiore di questi ultimi. Che presiede non solo alle decisioni nella fase cognitiva, ma anche
a quella di esecuzione o attuazione dei provvedimenti. Il che rende ultronea la distinzione tra
cognizione ed esecuzione in senso tecnico, e mina nella materia in rilievo il presupposto di fondo dei procedimenti di esecuzione forzata in forma specifica. Rappresentato, com’è noto, dall’imprescindibilità dell’esecuzione, dalla necessità che il programma contenuto del titolo debba
comunque essere attuato (a meno che non vi siano interventi di rimozione del titolo, attraverso
le opposizioni sull’an). Ben potendo, invece, venirsi a creare situazioni nelle quali all’esecuzione debba necessariamente, temporaneamente soprassedersi per poter rispettare l’interesse superiore del minore. Oppure si debba deviare bruscamente dal programma previsto in sede cognitiva. Tant’è che può addirittura emergere un conflitto fra direttive contenute nel provvedimento di affidamento e situazione concreta, con necessità o semplice opportunità di non eseguire:
in palese contrasto con quanto accade nella struttura dell’esecuzione forzata, improntata al necessario rispetto del titolo giudiziale.
A bene vedere, mai come nella materia qui in esame la dicotomia titolo esecutivo-esecuzione
appare inappropriata per risolvere gli innumerevoli problemi che possono porsi. Anche al di là
della naturale ritrosia a considerare il minore come oggetto di materiale traditio (di “pudore
giuridico” parlava già Carnelutti) o comunque di oggetto dell’esecuzione di fare, ogni tesi che
pretenda di ricondurre tutto alle esecuzioni in forma specifica non appare più sostenibile alla
luce della recente evoluzione dell’ordinamento: sul piano sistematico, perché improntata alla
ricerca di una astratta tenuta rispetto ai “diritti” della parte affidataria e di quella tenuta alla
consegna sicuramente recessivi rispetto all’interesse, superiore, del minore e dell’esigenza di
effettiva attuazione delle misure di affidamento più che di mera loro esecuzione; sul piano del
diritto positivo, in quanto l’attuale normativa, almeno a nostro parere, consente – come si cercherà di dimostrare – di fare un passo avanti e di superare una volta per tutte, in via interpretativa, ogni aggancio alle forme dell’esecuzione in forma specifica di cui agli artt. 605 o 612 c.p.c.
Del resto, affermare, come avveniva sub Iulio, che si sarebbe in presenza di un’esecuzione
“semplice” non convinceva ieri e non convince oggi. Perché presuppone una “ripetibilità” di
situazioni antitetica al concetto stesso di persona, giacché in materia di esecuzione dei provvedimenti di affidamento ogni situazione è diversa, perché diverso è ogni minore.
16
Cass. 20 maggio 2009, n. 11703, che sembra in questo modo fortemente discostarsi dalla precedentemente consolidata
tesi che vedeva nel provvedimento ex art. 612 c.p.c. determinativo delle mere modalità di esecuzione una pronuncia ordinatoria, in quanto tale revocabile e modificabile dal giudice dell’esecuzione che l’avesse emessa ai sensi dell’art. 487 c.p.c.
(v. per es. in questo senso Cass. 18 marzo 2003, n. 3992).
18
FOCUS 6. Possibilità di una rilettura congiunta dei dati normativi Passando alla pars costruens deve ritenersi che, insoddisfacenti le regole sull’esecuzione in forma specifica, in base all’attuale complesso di norme dettate in materia a partire dal 1987, sia possibile desumere elementi di sostegno al modello di cui s’è detto. Dando rinnovato vigore all’indirizzo giurisprudenziale che già prima delle ultime riforme aveva opportunamente introdotto
la ricordata esecuzione diretta “processuale” o “in via breve”, affidata al giudice autore del provvedimento da attuare. E che oggi appare ampiamente omologato dalla normativa vigente.
Dalla lettura congiunta degli interventi legislativi degli ultimi anni, invero, possono desumersi
diversi elementi idonei a sostenere l’attribuzione in via generale allo stesso giudice che ha adottato il provvedimento del potere di determinarne le modalità di esecuzione, o meglio – come
non si è mancato di segnalare – “attuazione” 17. Poiché non soggetto alle forme del procedimento esecutivo, affidato alla direzione dello stesso giudice del merito, che può avvalersi dei suoi ausiliari e della forza pubblica 18, ed esteso anche alla possibilità di incidere sul provvedimento stesso. Con elaborazione induttiva di un modello uniforme applicabile a tutte le ipotesi in cui si
debbano realizzare in via coattiva provvedimenti giudiziali di affidamento di minori 19.
Le basi del modello così proposto sono desumibili, a giudizio di chi scrive, dalla considerazione
complessiva delle innovazioni degli ultimi cinque lustri.
Il primo elemento normativo da evidenziare è costituito dalla ricordata previsione dell’art. 6,
10° comma, l. divorzio (come modificato dalla l. n. 74/1987): che a nostro avviso disciplina in
modo embrionale l’esecuzione – o, meglio, l’attuazione – di tutti i provvedimenti di affidamento di minori emessi in sede di separazione e divorzio, compresi quelli di eventuale modifica. È
vero che a tale norma è stata negata efficacia generale 20, ma anche al di là della condivisione o
meno dei relativi argomenti, questa posizione non sembra più consentita dalla successiva evoluzione del diritto positivo. Che, come vedremo subito, prima con riferimento generale a tutte
le sedi cautelari, poi con una più generale previsione del potere del giudice in sede di attuazione
ed infine con un richiamo all’uniformità procedimentale (suggerito ora anche dalla soppressione della differente disciplina della filiazione naturale rispetto a quella legittima), dà oggi segnali in senso nettamente contrario.
Il secondo elemento normativo che viene in rilievo è rappresentato dall’introduzione del principio generale in materia cautelare poc’anzi accennato. Il noto art. 669 duodecies c.p.c., in particolare, ha definitivamente sottratto tutti i provvedimenti di natura cautelare aventi ad oggetto
obblighi di consegna e di fare, alle forme dell’esecuzione in forma specifica. Disponendo che la
relativa attuazione (concetto che ha in materia ormai sostituito ex positivo iure quello di “esecuzione”), avvenga non attraverso gli artt. 612 ss. c.p.c. ma in modo “diretto”, sotto il controllo
del giudice che ha emanato il provvedimento «il quale ne determina anche le modalità di attuazione» risolvendo in via breve con ordinanza ogni contestazione.
Si è introdotto così un procedimento deformalizzato, unificato. Che non può allora che trovare applicazione anche ai provvedimenti di affidamento dei minori quando emessi in sede
17
Spiega F. DANOVI, Le misure sanzionatorie a tutela dell’affidamento, cit., p. 607 che la norma «ha avuto il pregio di evidenziare per tabulas che la soluzione ottimale per ovviare ai problemi che si pongono in sede di attuazione dei provvedimenti relativi
all’affidamento è sempre quella di (ri)utilizzare il giudice di merito ...».
18
Come consente l’art. 68 c.p.c. sia nei casi previsti dalla legge “o quando ne sorge necessità”. Cfr. con riferimento specifico
all’Ufficiale Giudiziario il precedente art. 59 c.p.c. ed al dovere di eseguire gli ordini del giudice.
19
Cfr. già con riferimento alle innovazioni del 1987: L. SACCHETTI, op. cit., p. 285 ss. e F. CARPI, op. cit., p. 110 ss.
20
V. per es. U. MINNECI, L’esecuzione forzata dei provvedimenti di affidamento dei minori, in Dir. famiglia, 1995, II, p. 785 ss.
19
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 cautelare, e che si fonda in buona sostanza sullo stesso paradigma enunciato nel 1987 a proposito di quelli emessi nel corso dei procedimenti di divorzio e separazione: poiché entrambi
fondati su una deformalizzata “attuazione” demandata al giudice del merito, che ne determina le modalità.
Il terzo elemento normativo che ulteriormente emerge da un esame diacronico della normativa
va scorto nell’art. 342 ter, 4° comma, c.c. (introdotto dalla l. n. 154/2001 in materia di ordini di
protezione contro gli abusi familiari e di recente modificato con d.l. n. 11/2009 convertito nella
l. n. 38/2009). Norma non sufficientemente valorizzata in parte qua e che, invece, pare proprio
dare un altro segnale netto: nel senso di demandare al giudice della cognizione la determinazione delle modalità di attuazione dei provvedimenti in materia, superando anche in questo caso i modelli classici dell’esecuzione in forma specifica ex art. 612 (e 605) c.p.c. e puntando di
nuovo ad una attuazione deformalizzata. Poiché: «Con il medesimo decreto il giudice determina le
modalità di attuazione. Ove sorgano difficoltà o contestazioni in ordine all’esecuzione, lo stesso giudice provvede con decreto ad emanare i provvedimenti più opportuni per l’attuazione, ivi compreso
l’ausilio della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario».
Già in base alle predette norme sarebbe lecito domandarsi che senso avrebbe, una volta applicabile ad un’imponente frazione dei provvedimenti di affidamento il predetto modello di esecuzione “in via breve” o se si vuole di “attuazione”, continuare a riservare solo ad alcuni casi i
moduli classici dell’esecuzione forzata in forma specifica. Ma un segno ulteriore è giunto pochi
anni fa da un quarto, e obiettivamente decisivo, elemento normativo: rappresentato dal più
volte citato 709 ter, col suo riferimento generale al potere di modificare in sede attuativa i provvedimenti di affidamento dei minori nel momento in cui sorge controversia sulle modalità dell’affidamento stesso. Potere che, per le ragioni che sopra si sono riepilogate, appare del tutto
antitetico alla dicotomia titolo esecutivo – esecuzione forzata, consentendo difatti una deviazione dal programma contenuto nel provvedimento che può arrivare a ribaltare il programma
stesso, modificandolo alla luce delle problematiche sorte in sede attuativa. La norma, come s’è
visto in precedenza, non si applica ai soli provvedimenti emessi in sede di separazione e divorzio, ma estende la sua portata a tutti i provvedimenti di affidamento dei minori emessi in sede
giudiziale.
Un quinto, recentissimo elemento normativo va infine scorto nel novellato art. 38, disp. att.
c.p.c., al quale sopra s’è fatto cenno. La norma, in virtù della modifica attuata con la legge approvata il 27 novembre 2012 (l. 10 dicembre 2012, n. 219), prevede ora espressamente che: «Nei
procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile. Fermo restando quanto previsto per
le azioni di stato, il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, e i provvedimenti emessi sono immediatamente esecutivi, salvo che il giudice disponga
diversamente». Che senza dubbio non è una previsione diretta a disciplinare l’esecuzione-attuazione dei provvedimenti di affidamento dei minori, ma detta comunque un segnale di unificazione delle forme procedimentali “in materia di affidamento”. Tutti da ricondurre sotto l’egida
degli artt. 737 ss. c.p.c.
L’unificazione è riferita, sì, alla cognizione ma per quanto abbiamo detto in precedenza non sembra se ne possa negare il valore di argomento finale per ritenere ormai sufficientemente delineato, dal complesso di norme sopra ricordate, quello che sopra abbiano definito come unitario modello procedimentale di attuazione dei provvedimenti di affidamento dei minori.
Sembra a chi scrive che da una considerazione congiunta di tutti i predetti elementi passati in
rassegna ben possa derivare non solo la prova di una precisa ed irreversibile tendenza legislativa all’abbandono delle tradizionali forme dell’esecuzione in forma specifica in materia di af20
FOCUS fidamento dei minori, ma altresì il fondamento per proporre un meccanismo unitario applicabile ai provvedimenti in questione a prescindere dalla sede nella quale essi siano stati adottati. Meccanismo che consentirebbe di superare, alla luce delle norme predette, le risalenti
tesi espresse a suo tempo da parte della dottrina e dalle decisioni della Cassazione ricordate
in apertura.
Quelle decisioni avevano tracciato i confini dei mezzi per eseguire i provvedimenti in materia
di affidamento dei minori in un panorama normativo indubbiamente diverso da quello che, oggi,
è desumibile dagli interventi dianzi evidenziati: i quali ad unisono inducono a negare l’applicazione dell’art. 612 c.p.c. E se la Suprema Corte si era spinta già prima di tali interventi ad omologare il modello dell’esecuzione “processuale” in senso lato – affidata tutta allo stesso giudice
autore del provvedimento – ma limitandola ai (soli) casi di esecuzione dei provvedimenti cautelari, si deve prendere atto che oggi appare venuta meno la precipua ragione che aveva indotto
quella limitazione. In quanto l’attuale art. 709 ter c.p.c., s’è visto, consente la modifica anche di
provvedimenti non cautelari, in ogni momento. Il che vuol dire che oggi può esser applicata anche a tali provvedimenti la considerazione della modificabilità «secondo una misura di apprezzamento di cui è dominus il giudice stesso che tale provvedimento ha emanato rebus sic stantibus e
con riserva di modifica in ogni momento», usando le parole di quella che ancor oggi va considerata la più esaustiva delle decisioni di legittimità in materia 21.
Quella “stabilità” dei provvedimenti di affidamento dei minori che era apparsa insuperabile ai
giudici di legittimità e ragione di applicazione dell’art. 612 c.p.c., non appare più propria del nostro ordinamento dopo che nello stesso è stata introdotta la regola della modificabilità dei
provvedimenti in vigore, ancorché non cautelari (cfr. art. 709 ter, cit.).
7. I vantaggi di un modello unitario di attuazione dei provvedimenti di affidamento I vantaggi del “modello” come sopra proposto sembrano quanto mai evidenti.
Innanzitutto, si sottrae l’esecuzione di tutti i provvedimenti di affidamento alle preliminari incombenze tipiche del Libro III c.p.c., a cominciare dalla notifica del titolo esecutivo e del precetto. Che non hanno senso nel momento in cui dal concetto di esecuzione si passa a quello di attuazione, diretta dal giudice della cognizione che ha emesso il provvedimento di affidamento
(o lo ha modificato, sempre in sede cognitiva).
In secondo luogo si elimina la necessità di attivare il subprocedimento di attuazione di cui è
parola all’art. 612 c.p.c., con il conseguente farraginoso coinvolgimento di un diverso ufficio
e che si presta ad una dilatazione dei tempi (anche perché inevitabilmente deve procedersi
all’attivazione del giudice dell’esecuzione, che a sua voltà nominerà l’ufficiale giudiziario: il
quale, trattandosi di dover attuare provvedimenti verso minori, a sua volta dovrà farsi assistere da altri operatori). Nel contempo, si evitano le conseguenze dirette dell’adozione delle forme dell’esecuzione in forma specifica, rappresentate anche dall’ammissibilità delle opposizioni esecutive, da decidere in prima battuta da parte del giudice dell’esecuzione ed interferenti
con i procedimenti in sede cognitiva. Per demandare invece direttamente al giudice che ha
emesso il provvedimento la risoluzione delle eventuali contestazioni, in superamento delle
questioni inevitabilmente connesse alla giustapposizione tra giudice della cognizione e giudice dell’esecuzione.
21
Così infatti Cass. n. 5374/1980 ricordata nelle note di apertura.
21
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 In terzo luogo, si riducono consistentemente le tempistiche dell’attuazione e si enfatizza invece
quello dell’effettività. Affidando allo stesso ufficio sia l’emissione sia l’attuazione del provvedimento, con maggiore aderenza alle situazioni pratiche. Perché procede all’attuazione lo stesso
giudice che ha anche il potere di modifica del provvedimento in caso di gravi inadempienze o
di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento
delle modalità dell’affidamento. Ed infatti mentre l’applicazione delle forme dell’esecuzione ex
art. 612 c.p.c. implica il coinvolgimento in prima battuta dell’ufficio esecutivo (giudice dell’esecuzione e ufficiale giudiziario), il modello sopra invocato consente direttamente al giudice deputato alla direzione dell’attuazione di intervenire a tergo sul provvedimento di affidamento procedendo alla sua modifica attraverso l’art. 709 ter nei casi necessari.
Da ultimo, il modello elimina a monte l’interferenza con la posizione del giudice tutelare, che
del resto non avrebbe i poteri di cui all’art. 709 ter 22 ed al quale va conservato, una volta che è il
giudice del merito a dirigere l’attuazione ed a provvedere a riguardo, il solo compito istituzionale di vigilare sull’osservanza delle condizioni stabilite dal tribunale 23.
8. Conclusioni Sembra, in conclusione, che la strada da percorrere sia quella di valorizzare i riferimenti normativi vigenti usando, come strumento ermeneutico fondamentale, la considerazione del poziore interesse del minore, o – se si vuole – dell’esigenza di assicurarne i diritti in modo effettivo. Anche se questo comporta la compressione delle situazioni soggettive delle altre parti,
che pure sono coinvolte nel momento dell’esecuzione coattiva dei provvedimenti di affidamento del giudice.
22
Cass. 3 novembre 2000, n. 14360, con riferimento all’art. 337 c.c. ha ribadito che tale norma «pur essendo collocata dopo
una serie di disposizioni concernenti provvedimenti del tribunale per i minorenni limitativi o ablativi della potestà genitoriale, data l’ampiezza della sua formulazione non può essere interpretata restrittivamente come attributiva al giudice tutelare di un potere
di vigilanza circoscritto soltanto ai provvedimenti emessi dal menzionato tribunale. Tale potere riguarda anche l’osservanza dei
provvedimenti adottati in sede di separazione tra i coniugi circa l’affidamento dei figli minori, e il suo esercizio necessariamente
presuppone l’interpretazione delle condizioni o clausole che disciplinano la separazione giudiziale o consensuale (cfr. Cass., n.
7957 del 1990, in motivazione). Esso, tuttavia, non può essere esteso fino ad attribuire al giudice tutelare poteri decisori, che non
siano soltanto applicativi delle condizioni della separazione, o statuizioni di tipo modificativo delle suddette condizioni o clausole,
competenza – questa – spettante al tribunale ordinario, ovvero, quando si tratti d’incidere in via ablativa o limitativa della potestà genitoriale, al tribunale per i minorenni (Cass., 13 dicembre 1985, n. 6306)».
Alla stessa conclusione è giunta la giurisprudenza di merito, dopo l’entrata in vigore dell’art. 709 ter: v. per tutte Trib. Roma, Sez. I bis, Ufficio del Giudice tutelare, decr. 13 luglio 2007, edito in www.personaedanno.it, ed ivi le considerazioni per
cui i «poteri sanzionatori previsti dalla predetta norma, espressamente riservati al “giudice del procedimento in corso”, quando,
evidentemente, penda un giudizio di separazione, di divorzio, o un procedimento ex art. 710 c.p.c., non possono in alcun modo ritenersi attribuiti dal legislatore, neanche in parte, al giudice tutelare, neppure nei casi in cui sia stata omologata una separazione
consensuale, o sia stata già pronunciata sentenza di separazione o di divorzio» poiché, prosegue il provvedimento «la competenza funzionale del g.t., individuata nel c.c. dall’art. 344 (che prevede che il g.t. “presso ogni tribunale ... soprintende alle tutele e
alle curatele ed esercita le altre funzioni affidategli dalla legge”), non è una competenza generale ma una competenza che deve essere espressamente individuata dalle norme, come sino ad ora il legislatore ha sempre fatto (vedi, solo da ultimo, la competenza in
ordine al procedimento per l’apertura dell’amministrazione di sostegno), trattandosi di una funzione esercitata in modo esclusivamente monocratico, relativa a procedimenti di natura non contenziosa per la quale sono definite regole processuali estremamente semplificate (art. 43 disp. att. c.c. 737 e segg. c.p.c.), caratteristiche queste che, tra l’altro, mal si concilierebbero con quelle del
procedimento ex art. 709 ter c.p.c. [...] alla luce di tale interpretazione, i poteri di vigilanza del g.t. ex art. 337 c.c., devono ritenersi
conservati nei termini già definiti dalla giurisprudenza prima dell’introduzione della l. 54/06, in base alla quale nessun potere di
modifica dei provvedimenti relativi all’affidamento della prole era attribuito al giudice tutelare, avendo egli solo il potere di interpretare le statuizioni del tribunale relative all’esercizio della potestà, al fine di adempiere al proprio dovere di “vigilanza”».
23
V. per le funzioni del giudice tutelare, nello stesso senso del testo, F. DANOVI, Le misure sanzionatorie, cit., p. 612. Cfr. sul
tema: G. OBERTO, Rimedi all’inadempimento degli obblighi di mantenimento nell’ambito della crisi della famiglia, in Famiglia e
diritto, 2008, pp. 77 ss. e 90.
22
FOCUS Tali riferimenti consentono a nostro giudizio di adottare in via interpretativa una soluzione
che, oltre a non avere gli inconvenienti della prospettiva dell’esecuzione forzata in forma specifica, ha dalla sua una consolidata applicazione pratica che non sembra foriera di particolari problemi e che oggi, come si è cercato di dimostrare, può vantare appigli nel diritto positivo maggiori di quelli esistenti nel momento dei primi interventi della Suprema Corte.
Si deve dunque auspicare un ripensamento da parte della giurisprudenza di legittimità, in difetto di un ormai troppo a lungo invocato intervento legislativo chiarificatore, che abbandoni il
ricorso alle forme di cui all’art. 612 c.p.c. e più in generale del processo esecutivo con i suoi inevitabili paludamenti. Con definitivo distacco dalla tradizionale dicotomia titolo esecutivoesecuzione, perché essa non si presta ad esser utilizzata in subiecta materia, e che va “sostituita”
con un affidamento esclusivo al giudice autore del provvedimento di affidamento che dev’essere eseguito delle relative modalità di concreta attuazione. Escludendo a monte il ruolo del giudice dell’esecuzione o comunque dell’ufficio esecutivo, ed assegnando al giudice tutelare il solo
ruolo fatto proprio dall’art. 337 c.c., evitando soluzioni ardue dirette ad ipotizzarne una “supplenza” in sede di attuazione 24.
24
La soluzione qui condivisa, con l’adozione di un modello di attuazione che si fondi sull’attribuzione esclusiva al giudice
della cognizione, sembra peraltro quella più indicata per accogliere l’auspicabile risistemazione legislativa delle varie competenze in materia di famiglia, da demandare tutte ad un’apposita sezione altamente specializzata (sul tema si vedano i
d.d.l. n. 2252 (Serafini), n. 2441 (Garavaglia), n. 2844 (Cardiello), n. 3040 (Casellati), presentati nella XVI legislatura).
23
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 RUOLO E COMPITI DEL SERVIZIO SOCIALE NELL’ESECUZIONE DI PROVVEDIMENTI CIVILI EMESSI DAL TRIBUNALE PER I MINORENNI Lorenza Cracco, Clarissa Fedrigoni
Avvocati del Foro di Padova
Sommario: 1. Il ruolo e i compiti dei Servizi Sociali nel settore minori e famiglie. – 2. L’esecuzione coattiva dei provvedimenti civili emessi dal Tribunale per i Minorenni. – 3. Il ruolo e i compiti del Servizio Sociale nell’esecuzione dei
provvedimenti emessi dal Tribunale per i Minorenni. – 4. Il ruolo e i compiti del Servizio Sociale nell’allontanamento
del minore dalla famiglia d’origine. – 4.1. Gli interventi assistenziali a tutela delle situazioni familiari compromesse. –
4.2. L’allontanamento immediato del minore dalla famiglia d’origine ai sensi dell’art. 403 c.c. – 4.3. L’attuazione dei
provvedimenti di allontanamento di minori dal contesto di vita familiare abituale. – 4.4. La delicatezza del compito di
accompagnamento del minore nel momento del distacco e del rientro nella famiglia d’origine.
1. Il ruolo e i compiti dei Servizi Sociali nel settore minori e famiglie I casi giudiziari sempre più numerosi di allontanamento del minore dalla propria famiglia, induce ad una analisi della fonte normativa e della disciplina dei compiti del Servizio Sociale che
assume in queste vicende un ruolo sempre più pregnante e di primo piano. L’art. 128, l. 31 marzo 1998, n. 112 definisce «“Servizi Sociali” tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere o superare
le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse
soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in
sede di amministrazione della giustizia». La legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi dei Servizi Sociali (l. 8 novembre 2000, n. 328) stabilisce che tale sistema è
chiamato ad intervenire a sostegno di minori in situazioni di disagio, tramite l’aiuto al nucleo
familiare di origine e l’inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di accoglienza di tipo familiare, per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (art. 22,
lett. c), l. 8 novembre 2000, n. 328).
Dal punto di vista operativo, il Comune, in virtù dell’art. 23, d.p.r. 24 luglio 1977, n. 616 (attuazione della delega di cui all’art. 1, l. 22 luglio 1975, n. 382), diventa il protagonista degli
interventi a favore dei minori soggetti a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria, per il tramite dei Servizi Sociali territoriali, chiamati fattivamente a relazionarsi con le singole realtà familiari.
L’attività dei Servizi Sociali è principalmente finalizzata a prevenire e favorire la rimozione delle
cause che possono provocare situazioni di bisogno sociale o fenomeni di emarginazione.
24
FOCUS Il Servizio Sociale professionale è composto prevalentemente dalla figura dell’Assistente Sociale,
il cui ruolo nel tempo è venuto a modificarsi in base ai cambiamenti sociali: è stato riconosciuto
come professione e gode di autonomia tecnico-professionale, di un Ordine Nazionale di riferimento e di un Codice Deontologico.
Proprio per il carattere professionale, l’Assistente Sociale ha una formazione specifica che si basa su approcci teorici, metodologici ed etici ed è investita della concreta funzione di attuazione
del provvedimento giudiziario, inserendo il minore, a seconda dei casi, presso una famiglia affidataria o presso la comunità individuata direttamente dal Tribunale o scelta dal Servizio, laddove l’Autorità Giudiziaria abbia demandato a quest’ultimo tale compito (dando l’incarico, come spesso si legge, di «reperire per il minore idoneo collocamento etero familiare o istituzionale» o
di «collocarlo in adeguato ambito protetto, regolando le sue relazioni familiari»).
In particolare, nell’ambito di famiglie con figli minori, i Servizi Sociali hanno il compito di attivare interventi e relazioni significative con i Genitori per la promozione ed il sostegno alla genitorialità, con una particolare attenzione alle caratteristiche ed ai bisogni di crescita e formazione della personalità del minore.
Tutte le situazioni di disagio sia familiare che minorile, vengono quindi costantemente seguite
dal Servizio Sociale di base che si avvale, nello sviluppo degli interventi, oltre che della relazione
d’aiuto diretto, dato dall’Assistente Sociale alla persona, anche dell’eventuale sostegno offerto
da risorse territoriali, come i centri che erogano servizi diurni (centri diurni, centri aperti e centri di aggregazione giovanile), dagli interventi educativi presso l’ambiente di vita ed il domicilio
del minore e, nelle situazioni di pregiudizio per il minore o di difficoltà familiare, particolarmente complesse che implicano un allontanamento dal nucleo familiare d’origine, dagli interventi di accoglienza residenziale presso le comunità per minori o dagli interventi di affidamento familiare.
L’Amministrazione, per il tramite dei suoi operatori, è dunque chiamata in questo specifico
ambito a svolgere un duplice compito. Da un lato, è deputata a prendersi cura del bambino in
via indiretta, controllando il contesto familiare o comunitario in cui è stato inserito, dall’altro lato,
è chiamata a sostenere il nucleo di origine e ad incrementare le relazioni familiari naturali 1.
L’obiettivo prioritario dei Servizi territoriali è in ogni caso quello di prevenire gli allontanamenti dei minori dalle loro famiglie.
Laddove non sia possibile evitare l’allontanamento, la finalità degli interventi è rappresentata
dalla possibilità di recupero della capacità genitoriale della famiglia di origine e dalla rimozione
delle cause che impediscono l’esercizio della sua funzione educativa e di cura 2.
1
In una pronuncia del 22 ottobre 2007, il Tribunale per i Minori di Venezia, nell’ambito di una procedura ex artt. 317 bis
c.c., 330 e 33 c.c., relativa a due minori, ha precisato che l’attività della Pubblica Amministrazione di cui fanno parte i servizi socio-sanitari demandati alla protezione e alla tutela dei minori, si svolge in un ambito separato rispetto al processo, secondo competenze istituzionali che hanno regole e principi propri; tale autonomia è ormai chiara anche in materia di tutela dei minori, in presenza di due pilastri dell’ordinamento, quali la terzietà della giurisdizione (che non è più titolare dell’iniziativa d’ufficio nelle procedure di controllo dell’esercizio della potestà, iniziativa demandata al P.M.), da un lato e la
autonomia dell’attività istituzionale dei servizi, desumibile dai principi generali e, nello specifico, ribadita anche dal combinato disposto dell’art. 1, l. n. 328/2000 e dell’art. 128, d.lgs. n. 112/1998. I servizi socio-sanitari operano dunque con una discrezionalità tecnico-amministrativa nelle cui ragioni l’autorità giudiziaria non può e non deve entrare, anche laddove sia
stato conferito un incarico, conoscitivo o assistenziale, nel senso che tale incarico, il servizio espleterà secondo regole e
procedure sue proprie, non sindacabili all’esterno, assumendosene correlativamente la responsabilità (cfr. Trattato dei
nuovi danni, diretto da P. Cendon, V.III, Cap. LIX, F. TURLON, Bambini senza famiglia: responsabilità della P.A., dei Servizi,
degli Operatori, dei Tutori, Cedam, Padova, 2011, p. 948).
2
Basti pensare all’art. 4, l. n. 184/1983 laddove prevede che il Servizio ha «l’obbligo di tenere costantemente informati il Giudice Tutelare o il Tribunale per i Minorenni» sull’andamento del programma di assistenza e sull’evoluzione delle condizioni
del nucleo familiare di provenienza, a riprova della volontà legislativa di rendere il Giudice non mero sottoscrittore di un
25
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 Il fine comunque è garantire il rientro del minore in famiglia, in tempi il più possibile brevi, nel
rispetto del principio di continuità dei rapporti familiari/parentali.
Il raggiungimento di questo obiettivo è imprescindibilmente legato ad una analisi delle difficoltà e dei bisogni presenti, dalla possibilità di fare emergere ed attivare le risorse, sia personali,
che familiari e dalla condivisione responsabile dei genitori nella definizione e realizzazione del
progetto per loro predisposto. Un progetto che quanto più è personalizzato tanto più è foriero
di successo.
2. L’esecuzione coattiva dei provvedimenti civili emessi dal Tribunale per i Minorenni Nel nostro ordinamento giuridico non esiste una disciplina specifica che individui un organo
competente per l’esecuzione dei provvedimenti giudiziari relativi all’affido dei minori.
La mancanza di una normativa specifica e la frammentarietà delle competenze giudiziarie in
materia, rende difficile l’individuazione del giudice competente per l’esecuzione dei provvedimenti, esecuzione che presenta una serie di problematiche di non facile soluzione, atteso che
l’obbligo di consegna non ha come oggetto un “bene”, ma una persona incapace di agire.
Gli interpreti si sono trovati e si trovano tuttora di fronte ad una lacuna legislativa che la stessa
Corte costituzionale, sin dal 1987, ha auspicato potesse essere colmata dal legislatore (Corte
cost. 2 marzo 1987, n. 68).
Dottrina e giurisprudenza, in ragione di tale assenza di disciplina, hanno elaborato diverse soluzioni, sia rispetto al modello esecutivo da utilizzare, sia rispetto al giudice competente ad eseguire il provvedimento, nel caso in cui vi sia un rifiuto del soggetto obbligato ad adempiere
all’ordine del giudice.
Con il ricorso all’analogia legis e all’analogia iuris applicata alle procedure previste dal codice di
rito, sono state individuate le seguenti categorie 3:
1. esecuzione forzata processuale mediante ricorso all’art. 612 c.p.c.: procedura da instaurarsi davanti al giudice dell’esecuzione, con notifica dell’atto di precetto e del titolo esecutivo e
con l’intervento dell’ufficiale giudiziario;
2. esecuzione da parte del giudice della cognizione in via breve, cioè a mezzo dell’ufficiale giudiziario ed eventualmente con l’ausilio della forza pubblica, sotto il controllo del giudice che
ha emesso il provvedimento, ma senza notifica di precetto e titolo esecutivo, né con osservanza di particolari regole e forme;
3. esecuzione forzata extraprocessuale, detta anche “amministrativa”, demandata al Giudice
Tutelare o al Tribunale per i Minorenni.
incarico e spettatore inerte della sua esecuzione, ma destinatario di periodiche relazioni di aggiornamento della situazione
familiare, con conseguente potere di sollecito laddove non eseguite e con la possibilità di modificare gli incarichi conferiti,
ai fini di un rapito adeguamento rispetto alla situazione in essere in vista della realizzazione dello scopo comune di aiuto al
minore in difficoltà.
3
Un autorevole autore definisce come segue le diverse posizioni: «La rassegna delle tesi sostenute in ordine all’esecuzione delle pronunce riguardanti minori si compendia in due posizioni: una amministrativistica, tradotta nel sostegno a una esecuzione
demandata agli organi di polizia giudiziaria o riconducibile alla competenza del Giudice Tutelare, una giurisdizionalista divisa
tra chi privilegia forme atipiche di esecuzione processuale cosiddetta in via breve, svolta dall’ufficiale giudiziario ma sotto la direzione del giudice del merito, e chi ritiene applicabile la formale esecuzione forzata sotto specie di esecuzione diretta» (L. SACCHETTI, L’esecuzione dei provvedimenti civili riguardanti i minori, in Riv. trim. dir. proc., 1988, p. 280).
26
FOCUS Nel tempo si è venuto a verificare un radicato contrasto tra la costante giurisprudenza della
Corte di Cassazione 4, sostenuta dalla dottrina maggioritaria, che individuava nell’esecuzione
processuale il migliore strumento utilizzabile nel caso di esecuzione forzata che riguardi un minore, e la prassi invalsa tra i giudici di merito, sorretti dalle posizioni di altra dottrina, che hanno dato applicazione o all’esecuzione in via breve o, nella maggioranza dei casi, all’esecuzione
extraprocessuale 5.
Oggi il solo aspetto sul quale vi è l’accordo di tutti gli autori è la sicura eseguibilità coattiva dei
provvedimenti di affidamento dei minori, anche se non intesa in senso stretto, con una graduazione dell’intervento che deve tener conto delle diverse esigenze di approccio a seconda dell’età del minore, della sua autodeterminazione e capacità di giudizio che non può essere oggetto di coercizione. Fonte normativa sul punto è la l. divorzio n. 898/1980 all’art. 6, 10° comma
che prevede che «all’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento della prole provvede il
giudice di merito».
Alla luce della peculiarità dell’esecuzione di provvedimenti di tal genere, è necessario in ogni
caso, svolgere primariamente le opportune indagini relative al caso concreto, soprattutto in presenza di resistenze da parte del minore ad ottemperare alle condizioni statuite dal giudice del
merito.
In questa fase, al fine di evitare un ulteriore danno ai minori, già penalizzati dalla mancanza di
un sereno ambiente familiare, il ruolo e il compito di figure professionali specializzate atte a verificare l’eseguibilità del provvedimento nel caso concreto, diventa fondamentale nell’attuazione
del provvedimento giudiziario.
Quindi, in tutti e tre i modelli di esecuzione, la necessaria presenza di figure qualificate, accanto
all’ufficiale giudiziario, nell’ipotesi in cui si opti per l’esecuzione c.d. “processuale”, con l’intervento della forza pubblica 6, diventa davvero irrinunciabile.
La fonte normativa che legittima la presenza dei Servizi Sociali nella fase esecutiva dei provvedimenti riguardanti l’affido di minori, è regolata dagli artt. 22 e 23, d.p.r. n. 616/1977, le cui disposizioni attribuiscono ai Comuni le competenze per gli interventi in favore dei minorenni
soggetti ai provvedimenti dell’autorità giudiziaria minorile nell’ambito della competenza amministrativa e civile, e dall’art. 612, 2° comma, c.p.c. che prevede che «il giudice dell’esecuzione
provvede sentita la parte obbligata. Nella sua ordinanza designa l’ufficiale giudiziario che deve procedere sull’esecuzione e le persone che debbono provvedere al compimento dell’opera non eseguita o
alla distruzione di quella compiuta» 7. Si ritiene quindi che i Servizi Sociali siano gli organi indi-
4
La Corte di Cassazione con ripetute pronunce, anche se ormai lontane nel tempo (tra queste la più significativa 7 ottobre
1980, n. 5374) ha affermato la necessità dell’esecuzione in via giurisdizionale, ai sensi dell’art. 612 c.p.c. ss. È stato tuttavia
evidenziato da Autorevole Dottrina (F. OCCHIOGROSSO, Quale giudice per quale esecuzione, in Minorigiustizia, 1999, p. 58)
che il modello legale di esecuzione è espressione di una cultura “adultocentrica” ove: 1) il giudice non specializzato è preferito a quello specializzato; 2) la facoltà di procedere è attribuita al privato e non al giudice. Al giudice dell’esecuzione è
preclusa qualsiasi valutazione sull’eseguire o meno il provvedimento, scelta riservata al privato che solo può dare impulso
alla procedura; 3) manca ogni riferimento all’interesse del minore. Il provvedimento, se azionata la procedura, deve essere
eseguito a prescindere dall’interesse del minore. Ciò nonostante, anche la dottrina maggioritaria sostiene con argomentazioni
di vario spessore, l’idoneità del modello esecutivo ex art. 612 c.p.c. per l’attuazione dei provvedimenti relativi ai minori.
5
Allo stato permane una diversità di posizioni pressoché inconciliabili che solo «un’organica riforma del settore che metta
ordine tra gli interventi civili distribuiti attualmente tra tanti giudici» potrà eliminare (F. OCCHIOGROSSO, op. cit.).
6
Cfr. F. DANOVI, L’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento e alla consegna dei minori tra diritto vigente e prospettive di riforma, in Dir. famiglia, 2002, p. 549; U. MINNECI, L’esecuzione coattiva nella dottrina e nella giurisprudenza, in Minorigiustizia, 1999, p. 142 ss.
7
Quanto ai soggetti coinvolti nella materiale esecuzione dei provvedimenti, tutti gli autori vedono con sfavore il devolvere
all’Ufficiale Giudiziario l’attuazione degli stessi perché «soggetto non dotato delle necessarie conoscenze né dei poteri idonei a
impartire le direttive necessarie per la messa in esecuzione dei provvedimenti» (F. DANOVI, op. cit., p. 530 ss.).
27
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 viduati dal nostro ordinamento come deputati a provvedere all’esecuzione dei provvedimenti,
poiché dotati di specifiche capacità che consentono loro di affrontare e risolvere le problematiche che un provvedimento coercitivo può creare all’interno dei nuclei familiari.
3. Il ruolo e i compiti del Servizio Sociale nell’esecuzione dei provvedimenti emessi dal Tribu‐
nale per i Minorenni Il compito che l’Assistente Sociale ha per legge nella fase di esecuzione coattiva di allontanamento dei minori dal nucleo familiare, ovvero di modifica del loro collocamento dall’uno all’altro genitore, è quello di consulente professionale per l’assistenza all’Organo incaricato dell’esecuzione, in ordine a problematiche specifiche che dovessero insorgere in fase di attuazione della decisione giudiziale. L’Assistente Sociale, in particolare, deve garantire che l’esecuzione sia
attuata con modalità ed accorgimenti che non danneggino i minori interessati, garantendo parimenti la tutela del personale operante, e si colloca nell’ambito di quanto previsto dall’art. 1, 4°
comma, l. 23 marzo 1993, n. 84 «Ordinamento della professione di assistente sociale e istituzione
dell’albo professionale» che recita: «... nella collaborazione con l’Autorità Giudiziaria, l’attività dell’assistente sociale ha esclusivamente funzione tecnico-professionale».
Invero, il Tribunale dei Minori, nella fase di esecuzione dei provvedimenti riguardanti l’affido
di minori, mantiene una propria discrezionalità sulle modalità di attuazione della decisione
giudiziale.
La modulazione della fase esecutiva in funzione della tutela del minore, viene pienamente realizzata con un responsabile intervento del Servizio Sociale, principale interlocutore del Tribunale dei Minori, con il quale collabora in modo organico, ed in piena autonomia in tutto il percorso che riguarda l’assunzione di decisioni riguardanti l’affido dei minori, quindi sia nella fase
propriamente di merito, sia durante la loro attuazione.
L’art. 23, d.p.r. n. 616/1977 è la norma che per prima ha definito il rapporto di collaborazione
servizi-giudice minorile, «stabilendo così un’interdipendenza tra il procedimento giudiziario concernente il minore e la sua famiglia e la funzione socioassistenziale del Comune» 8.
Una collaborazione riconosciuta e amplificata da ulteriori disposizioni normative di diverso
grado: la l. n. 184/1983, il decreto n. 448/1988, leggi regionali tra le quali, la n. 1/1986 della regione Lombardia, che nel Titolo IV regolamenta gli interventi di assistenza dei minori nei rapporti con l’autorità giudiziaria.
Il giudice minorile, nel richiedere l’intervento dei Servizi, è tenuto ad agire con modalità che
riconoscono la professionalità e l’autonomia delle decisioni degli operatori, con i quali vi è un
rapporto di collaborazione, ognuno per il ruolo attribuitogli dall’ordinamento, lungo tutto l’iter
di svolgimento della funzione giurisdizionale del Tribunale.
Secondo altri Autori gli Assistenti Sociali sono da considerare ausiliari del giudice ex art. 68
c.p.c. 9.
I Servizi Sociali, pur nella piena autonomia che l’ordinamento riserva alle figure professionali
che vi appartengono (assistenti sociali e psicologi in primo luogo), appaiono dunque come
l’unico soggetto istituzionale, con poteri radicati nell’ordinamento, in grado di garantire l’ef-
8
Cfr. B. BARBERO AVANZINI, Problemi relazionali e valutazioni reciproche tra Tribunale per i Minorenni e servizi sociali, in B.
BARBERO AVANZINI, Giustizia Minorile e servizi sociali, Franco Angeli, Milano, 2003.
9
Cfr. R. DALL’ORO, La tutela del bambino nelle situazioni di separazione e divorzio, in B. BARBERO AVANZINI, Giustizia Minorile, cit.
28
FOCUS fettiva tutela dei minori in fase di attuazione dei provvedimenti, lasciando alla polizia solo il
compito di garantire la sicurezza dell’intervento. A maggior ragione se si considera che qualsiasi provvedimento, di affido o di consegna, si ritiene debba «tendere a costruire relazioni familiari nuove e/o modificare quelle precedenti. Esso quindi, in linea di massima e nei casi di maggiore conflittualità, non dovrà concludersi in un solo atto esecutivo (ad es. il trasferimento del minore da un genitore all’altro), ma dovrà avere una certa durata. In tal periodo il servizio svolgerà
azione di sostegno, ma anche di verifica e di controllo per favorire il miglior adattamento del minorenne alla situazione» 10.
Il coinvolgimento del Servizio Sociale nell’esecuzione dei provvedimenti, è disciplinato dalle
leggi regionali in materia che, nel prevedere la cooperazione tra Servizi e Tribunale per i Minorenni, completano un quadro di concreti collegamenti operativi tra Giudice dei minori e Servizi
Locali specializzati ai quali, di fatto, compete la scelta delle concrete modalità esecutive del
provvedimento giudiziale 11.
La stessa modalità di cooperazione è garantita anche nell’ambito dell’esecuzione, in senso lato, da parte dei Servizi Sociali, dei provvedimenti con i quali il Tribunale dispone l’affido di
minori al Servizio medesimo, ovvero lo incarica di compiti di supervisione e monitoraggio di
una particolare situazione familiare. In tal caso, il margine d’intervento del Servizio Sociale
riguarda esclusivamente e nello specifico le prescrizioni contenute nel decreto di affido. Se il
decreto dispone che il Servizio debba fornire interventi di sostegno educativo, psicologico o
d’altro tipo, significa che in tali aree d’intervento, nell’ipotesi di affido di un minore al Servizio, è quest’ultimo che, sempre cercando il coinvolgimento e la collaborazione dei genitori,
deve decidere. Lo stesso è a dirsi per l’ipotesi in cui il decreto preveda che sia il Servizio a regolare gli incontri fra Figli e Genitori. Quando nel decreto di affido non sono riportate specifiche prescrizioni riguardanti argomenti precisi, come ad esempio la scelta della scuola o
l’iscrizione a determinati corsi, l’obiettivo dovrebbe essere quello di una codecisione tra Servizi e Genitori. Se non vi è la possibilità di una collaborazione reale con il genitore, o manca
comunque una condivisione del progetto, allora è opportuno che un nuovo decreto indichi
gli interventi specifici da effettuare, dando eventualmente la facoltà al Servizio di compiere
determinati atti che comportino un’ulteriore sostituzione alla potestà dei genitori come nel
caso di un’iscrizione scolastica.
Nei casi di collocamento del minore in ambito protetto e comunque allorquando il Servizio
viene richiesto dell’attuazione di un singolo progetto riguardante un minore, il Servizio è tenuto a relazionare e a mantenere costantemente aggiornato il Tribunale anche in ordine al
verificarsi delle condizioni che potrebbero legittimare la decisione definitiva e la chiusura del
fascicolo.
Il compito istituzionale che il nostro Ordinamento riserva ai Servizi Sociali si caratterizza per la
sinergia che il loro operato deve avere con quello del Giudice minorile, indispensabile oltretutto perché i Servizi possano mantenere «uno stretto collegamento di informazione, di progettazione e di esecuzione operativa con l’autorità giudiziaria» 12.
10
Cfr. F. OCCHIOGROSSO, op. cit., p. 65.
L. SACCHETTI, op. cit., pp. 286-287.
12
Cfr. B. BARBERO AVANZINI, op. cit., p. 236.
11
29
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 4. Il ruolo e i compiti del Servizio Sociale nell’allontanamento del minore dalla famiglia d’ori‐
gine 4.1. Gli interventi assistenziali a tutela delle situazioni familiari compromesse L’intervento dei Servizi Sociali, dinanzi a situazioni familiari critiche coinvolgenti figli minori, è
istituzionalmente volto a prevenire la misura estrema della disgregazione del nucleo familiare
conseguente all’allontanamento del minore, mediante l’attivazione di strumenti di sostegno
psicosociale e finanche economico destinati a salvaguardare l’unità della famiglia ed il benessere di tutti i suoi membri.
La logica di prevenzione, affiancamento, sostegno e rimozione delle difficoltà familiari, a cui deve
essere informato l’operato del Servizio Sociale, trova origine nella scienza psico-sociale e nelle
ricerche specifiche effettuate nel settore minorile, le quali hanno dimostrato che è nella relazione con i genitori che il bambino costruisce la propria visione del mondo e di sé nel mondo,
attribuendo significati alla realtà e costruendo una propria identità personale. La tutela del minore non può prescindere dalla tutela del legame che questi ha con la sua famiglia d’origine, che
riveste un ruolo centrale e formante rispetto alla sua esistenza ed alla sua persona, ancorché il
rapporto del minore con le figure genitoriali sia carente o inadeguato. Dunque l’attenzione di tutti gli Enti deputati alla tutela del minore, andrà primariamente dedicata ai genitori del bambino
ed alla possibilità di sanare contesti familiari compromessi per evitare il cronicizzarsi di situazioni segnate da instabilità, crisi, casualità, in cui i minori vengono a sperimentare mancanza di
protezione e di accudimento, abbandoni, perdite e lacerazioni.
Laddove tale opera di prevenzione e supporto risulti inefficace, l’allontanamento del minore
dalla propria famiglia d’origine può tuttavia divenire l’ineludibile e drastica soluzione per proteggere il minore da irreparabili pregiudizi alla propria crescita.
Certamente il giudizio di incompetenza genitoriale e i criteri di recuperabilità o irrecuperabilità delle competenze genitoriali, conducono gli operatori e la magistratura minorile su un terreno quanto mai incerto e pericoloso, ed i provvedimenti devono essere statuiti con grande
prudenza.
La decisione di allontanare un minore dalla sua famiglia può essere infatti considerata tra le più
delicate e drammatiche che l’Autorità Giudiziaria o, in casi d’urgenza, l’operatore sociale sono
chiamati a prendere, e come tale deve essere considerata quale extrema ratio, da utilizzare solo
in casi di assoluta criticità e di irreparabile pregiudizio per il minore.
4.2. L’allontanamento immediato del minore dalla famiglia d’origine ai sensi dell’art. 403 c.c. Nelle situazioni di grave pericolo per la integrità fisica e psichica del minore, al Servizio Sociale
è consentito, ai sensi dell’art. 403 c.c., di collocarlo immediatamente, senza la necessità di acquisire una previa autorizzazione giudiziaria, in un luogo sicuro sino a quando non sia possibile
provvedere in modo definitivo alla sua protezione (art. 403 c.c.). Detto provvedimento, meglio
qualificato come “atto di amministrazione”, può essere adottato solamente in tre ipotesi: 1)
quando il minore si trovi moralmente e materialmente abbandonato, 2) quando sia allevato in
locali insalubri o pericolosi, 3) quando sia allevato da persone che per negligenza, immoralità,
ignoranza o per altri motivi siano incapaci di provvedere alla sua educazione. Il comune presupposto è la sussistenza di un grave pericolo per il minore che coinvolge la sua salute psico fisica, la sua educazione, l’integrità morale e la sua stessa vita.
30
FOCUS Qualora una tale decisione si contrapponga alla volontà dei genitori, questi devono in ogni
caso essere tempestivamente informati che il minore è sotto la protezione della Pubblica Autorità e che l’intervento è stato segnalato all’Autorità Giudiziaria Minorile competente, benché non sia necessario che venga indicato loro il luogo in cui il minore si trova, se ciò serve a
proteggerlo.
I Servizi Sociali, effettuato l’intervento di collocazione del minore in ambiente protetto, ai sensi
dell’art. 403 c.c., devono segnalarlo con urgenza al Pubblico Ministero affinché il Tribunale dei
Minori sia investito della relativa decisione, per dar corso ai progetti di sostegno al minore. Non
vi è un limite temporale oltre il quale, nel silenzio dell’Autorità Giudiziaria, il provvedimento di
cui all’art. 403 c.c. decade, benché si ritenga che la collocazione del minore in ambiente protetto possa essere mantenuta soltanto per il tempo necessario a rimettere la risoluzione della questione all’Autorità Giudiziaria minorile che, in difformità dalla decisione adottata dai Servizi,
può anche revocare il provvedimento.
La procedura di modifica urgente del collocamento ex art. 403 c.c. rappresenta una deroga al
sistema di tutela dei minori, ed è l’unico caso in cui il Servizio Sociale, sia pur provvisoriamente, ha gli stessi poteri decisionali dell’Autorità Giudiziaria.
In tutte le altre ipotesi, la decisione dell’allontanamento, ancorché suggerita dal Servizio Territoriale, sarà oggetto di un provvedimento dell’Autorità Giudiziaria la cui esecuzione avverrà per il
tramite dell’Ente Locale.
4.3. L’attuazione dei provvedimenti di allontanamento di minori dal contesto di vita familiare abituale Il distacco di un minore dalla propria famiglia d’origine ovvero dal genitore collocatario, è un
processo molto delicato e complesso che può generare nel minore delle conseguenze gravemente traumatiche tali da ripercuotersi anche nell’età adulta, con una rilevanza sociale dirompente. Sicché diventa di estrema importanza che gli operatori chiamati all’attuazione di tali provvedimenti, siano specificamente preparati e si interroghino approfonditamente in ordine alle
migliori modalità da porre in essere nell’esecuzione.
Al fine di uniformare l’attività degli Assistenti Sociali a ciò preposti, ed al contempo garantire
che il loro operato sia informato alla tutela del minore e volto al sostegno dello stesso e della
sua famiglia d’origine, nel 2010 sono state elaborate dall’AIMMF 13 (Associazione Italiana dei
Magistrati per i minorenni e per la famiglia), delle linee guida per i processi di sostegno e di allontanamento del minore, confermate di recente in data 12 ottobre 2012 14.
13
Unitamente all’Associazione Nazionale Comuni Italiani, al Consiglio Nazionale Forense, al Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali, al Consiglio Superiore della Magistratura ed alla Commissione Minori dell’Associazione
Nazionale Magistrati.
14
Nel documento AIMMF del 12 ottobre 2012, in www.minoriefamiglia.it, sono stati affermati, in particolare, i seguenti
principi:
– È opportuno acquisire, ove possibile, il consenso – o quanto meno la non opposizione – all’esecuzione da parte degli interessati, anche collaborando con i difensori.
– Gli operatori che materialmente eseguono il provvedimento di allontanamento devono essere, come già insegna l’esperienza di altri Paesi, specializzati. È necessario prevedere una equipe stabile multi-professionale per accompagnare
l’evento di allontanamento, possibilmente composta da professionisti diversi da quelli che hanno in carico il minore e
la famiglia.
– L’utilizzo della Forza Pubblica durante le procedure di allontanamento nei casi di assoluta necessità non deve avvenire in
31
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 I criteri ispiratori di tali principi si rinvengono, in particolare, nella necessità di informazione e
coinvolgimento dei genitori del minore oggetto di tutela, nell’importanza della specializzazione
degli operatori preposti al singolo caso, nell’attenzione che deve essere prestata al momento dell’attuazione della decisione dell’allontanamento: dalla necessità che gli Agenti della Forza Pubblica non intervengano in uniforme, all’opportunità di scegliere luoghi e modalità che arrechino al minore il minor trauma possibile.
Particolare sensibilità, inoltre, deve essere rivolta dagli Operatori all’approccio con il minore,
che deve essere ascoltato ed accolto in tutte le sue manifestazioni di espressione, ivi compresi i
suoi desideri e le sue aspettative.
Analoghe prescrizioni sono state adottate anche dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali, intervenuto a definire delle Linee Guida sulle procedure di allontanamento/esecuzione coattiva di bambini/ragazzi dal proprio nucleo famigliare, al fine di dettare delle regole comuni a cui riportarsi in occasione degli interventi di allontanamento del minore 15.
Particolare rilievo viene posto sull’importanza che i Genitori vengano informati delle misure di
protezione poste in essere e della facoltà di nominare un difensore che possa seguirli nell’iter
giudiziario attivato a tutela del minore.
Tra le linee operative elaborate dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali, vi è
inoltre un auspicio, e nel contempo un monito rivolto ai Genitori ed ai loro difensori, ai quali
viene richiesto di collaborare con i Servizi nel percorso di tutela del minore, con la precisazione
che l’allontanamento è solo uno dei momenti, di certo quello più duro e doloroso, del progetto
di recupero del minore che deve avere come fine la riunificazione familiare.
Tra le linee guida viene inoltre ribadita l’importanza di evitare, se non nei casi di estrema necessità, l’intervento della Forza Pubblica, così da non far percepire «al minore il solo intervento
autoritativo, ma piuttosto la valenza tutelante ed ai genitori di non cogliere il solo lato sanzionatorio,
ma anche di accoglimento. Così facendo sarà possibile portare a termine un’esecuzione coatta senza
coattività» 16.
L’esecuzione compiuta ed elaborata dai Servizi con un tale spirito, alimenta il rapporto di fiducia con i genitori del minore, in difetto viene compromessa l’opportunità di una collaborazione futura dei genitori con il Servizio. Accade di frequente, nella prassi, che l’allontanamento di un figlio avvenga senza alcun preavviso, né alcuna preparazione dei genitori e del figlio
all’evento. Spesso gli stessi genitori non hanno la percezione della gravità della situazione,
non sono nemmeno a conoscenza della pendenza di un procedimento presso il Tribunale dei
Minori, sicché si trovano a vivere l’allontanamento come una ingiusta ed immotivata privazione.
uniforme, e devono essere scelti modi e luoghi che rendano l’evento il meno traumatico possibile per il minore e per i suoi
familiari.
– Ogni situazione va studiata e progettata tenendo conto della sua unicità e specificità.
– Particolare attenzione va dedicata all’ascolto del minore e ai luoghi e ai modi in cui esso avviene, incentivando la
creazione di spazi neutri, per gli incontri protetti. È importante spiegare, tenendo conto dell’età e della capacità di
comprensione, la situazione, le ragioni del provvedimento e il suo significato. È importante ascoltare i vissuti e i sentimenti, i problemi e le aspettative del minore, accoglierlo in un luogo idoneo e considerare per quanto sia possibile i
suoi desideri.
– Appare particolarmente importante che le decisioni dell’Autorità Giudiziaria sui reclami proposti avverso i provvedimenti di allontanamento siano adottate in tempo sufficientemente breve.
15
CONSIGLIO NAZIONALE DELL’ORDINE DEGLI ASSISTENTI SOCIALI, Linee Guida sulle procedure di allontanamento/esecuzione coattiva di bambini/ragazzi dal proprio nucleo famigliare, documento visionabile sul sito Internet www.assistentisociali.org.
16
A. CARUSO, L’attuazione dell’obbligo di consegna dei minori nella realtà del nostro Paese oggi, Franco Angeli, Milano, 2000,
p. 37.
32
FOCUS L’intervento del Servizio purtroppo spesso genera nelle persone, così duramente segnate, dei
sentimenti di rabbia e di disperazione che vanno ad inficiare le basi di un rapporto di costruttiva collaborazione. La qualità della comunicazione e l’individuazione, da subito, di un progetto
concreto che dia ragione di questo primo doloroso distacco, finalizzato all’attuazione di un progetto concreto per quel bambino, potrà dare un senso anche ad un atto così traumatico. Il risultato dipende dalla sensibilità dei singoli operatori chiamati all’esecuzione. Senza dubbio la valutazione dei processi di comunicazione e gli esiti degli stessi rappresentano dei momenti importanti, sui quali deve concentrarsi l’attività dei Servizi se si vogliono creare le premesse per
una relazione collaborativa, in grado di consentire la realizzazione del progetto di tutela del
minore ed il suo rientro in famiglia.
4.4. La delicatezza del compito di accompagnamento del minore nel momento del distacco e del rientro nella famiglia d’origine Il momento del distacco dalla famiglia, d’altro canto, rappresenta soprattutto per il minore una
fase traumatica del suo vissuto, che può venire percepita come perdita di riferimenti vitali, generatrice di senso di colpa, abbandono, paura. Diviene dunque di fondamentale importanza che
il minore sia accompagnato da operatori il più possibile preparati e sensibili che possano occuparsi di lui con la massima dedizione. L’Assistente Sociale dovrà quindi essere in grado di spiegare al minore, tenendo conto della sua età e della sua capacità di comprensione, qual è la situazione, quali le ragioni del provvedimento e il suo significato. È indispensabile che l’Operatore
ascolti i suoi vissuti e i suoi sentimenti, i suoi problemi e le sue aspettative, che lo accolga in un
luogo idoneo e consideri, per quanto possibile, i suoi desideri.
Analoga attenzione e sensibilità sarà richiesta anche a coloro che si occuperanno del minore in
difficoltà a separazione avvenuta nel caso di collocamento del minore in Comunità o in Casa
famiglia. Le strutture affidatarie devono conoscere la situazione del minore e la motivazione del
provvedimento, condividere le modalità di rapporto con i familiari, rispettare le prescrizioni,
collaborare al progetto socio-educativo per il minore, offrire l’ascolto attento e curare l’accompagnamento del rientro in famiglia originaria o in affidamento familiare 17.
Il rapporto interpersonale diretto, costante, stabile con una figura di riferimento è lo strumento in grado di produrre un reale processo di cambiamento nel ragazzo che lo avvii alla piena maturità.
In realtà pochi sono gli operatori disposti a sopportare il gravoso impegno dell’elaborazione di
vicende umane molto dolose, ancorché tale professione implichi e richieda a chi la sceglie un’opzione consapevole volontaristica ed umana di cura del benessere morale e materiale di minori.
La rilevanza sociale del loro ruolo è di tutta evidenza.
La sensibilità dell’operatore diventa quindi un tassello indispensabile per il buon esito dell’intervento di sostegno del minore, separato dalla famiglia d’origine. Una recente ricerca condotta
dall’Università di Padova, presentata il 7 dicembre 2012 18, ha dato voce ai ragazzi che hanno
vissuto in prima persona esperienze di accoglienza, lontani dalle loro famiglie.
17
Sono queste alcune delle prescrizioni contenute nelle Linee di indirizzo per l’affidamento familiare, cit. elaborate nel corso
dell’indagine Bambine e bambini temporaneamente fuori dalla famiglia di origine – Affidamenti familiari e collocamenti in comunità, realizzata dall’Istituto degli Innocenti di Firenze, su incarico del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, e
presentate in Conferenza stampa il 22 novembre 2012.
18
V. BELOTTI-P. MILANI-M. IUS-C. SATTA-S. SERBATI, Crescere fuori famiglia. Lo sguardo degli ascolti e le implicazioni per il
lavoro sociale, Grafiche Bernardi, Pieve di Soligo (TV), 2012.
33
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 Il gruppo di ricerca ha saputo trarre un decalogo di “raccomandazioni” utili all’operatore per
capire di cosa abbia bisogno il minore, quando subisce la separazione dai propri famigliari,
cosa gli è quotidianamente richiesto per essere d’aiuto a chi si trova in una situazione così
dolorosa.
Ciò che il minore richiede è, ancora una volta, di essere ascoltato, coinvolto nelle decisioni che
lo riguardano, accompagnato nel percorso di crescita studiato per lui. Chiede agli adulti di riferimento coerenza, affetto, fedeltà, ma soprattutto attenzione e sostegno per il suo futuro.
34
FOCUS L’ASSEGNAZIONE DELLA CASA CONIUGALE ED ESECUTORIETÀ DEL TITOLO (CASS. 31 GENNAIO 2012, n. 1367) Marina Blasi
Avvocato del Foro di Roma
Sommario: 1. Premessa. – 2. La natura dell’assegnazione della casa coniugale alla luce della sentenza della Corte
Cass. civ., Sez. III, 31 gennaio 2012, n. 1367. – 3. Sull’efficacia esecutiva dei provvedimenti di assegnazione e revoca dell’assegnazione della casa coniugale. – 4. Profili di criticità della sentenza della Corte Cass. civ., Sez. III, 31
gennaio 2012, n. 1367.
1. Premessa La Corte Cass. civ., Sez. III, con la sent. 31 gennaio 2012, n. 1367 ha affrontato un tema nuovo
relativo all’efficacia esecutiva del provvedimento di revoca dell’assegnazione della casa coniugale. La Corte ha affermato la natura speciale del diritto di abitazione della casa familiare, la
quale non esiste senza allontanamento dalla casa familiare di chi non ne sia titolare (nel caso
dell’attribuzione) e che, quando smette di esistere con la revoca, determina una situazione eguale
e contraria in capo a chi lo abbia perduto, con conseguente necessario allontanamento dello
stesso. In base alla sentenza tale natura consente al provvedimento/sentenza di essere eseguito
per adeguare la realtà al decisum, anche se il profilo della condanna non sia esplicitato, proprio
in quanto la condanna al rilascio è implicita, essendo connaturata al diritto, sia quando esso
viene attribuito, sia quando viene revocato.
Il caso riguarda un processo di separazione giudiziale dei coniugi, nel cui corso il tribunale, con
la sentenza che definiva il giudizio, revocava l’assegnazione della casa familiare alla moglie, modificando la precedente ordinanza presidenziale che aveva disposto tale assegnazione alla moglie medesima. Il marito notificava alla coniuge l’atto di precetto per il rilascio dell’immobile,
unitamente alla sentenza di primo grado munita di formula esecutiva (già confermata in sede di
appello). La moglie proponeva opposizione all’esecuzione, ex art. 615 c.p.c., lamentando la carenza del titolo esecutivo, privo dell’ordine di rilascio dell’immobile. Nel contraddittorio il Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Casarano, in persona del giudice monocratico, rigettava
l’opposizione (sent. 18 dicembre 2008). Avverso la suddetta sentenza, la moglie proponeva ricorso per cassazione con unico motivo, corredato da quesito. La Corte di Cassazione rigettava
il ricorso; compensando integralmente le spese tra le parti attesa la novità della questione di diritto trattata, mai affrontata dalla giurisprudenza di legittimità. La questione, ripetesi, è relativa
35
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 alla circostanza se la revoca dell’assegnazione della casa familiare – disposta, con provvedimento presidenziale o del giudice, o con sentenza, allorché non contenga esplicitamente la condanna al rilascio – sia, o meno, titolo idoneo per l’esecuzione.
Il ragionamento della Corte si fonda sull’enunciazione del principio in base al quale occorre
guardare al provvedimento di assegnazione e a quello di revoca in «un’ottica non parziale»,
considerandoli come specularmente analoghi in quanto aventi a oggetto il conferimento e la
revoca «dello stesso diritto», ancorché la «condanna al rilascio» prenda «direzioni diverse», rivolgendosi rispettivamente al non assegnatario e all’assegnatario che abbia perso tale qualifica.
Ciò premesso la Corte ribadisce che già prima della riforma dell’art. 282 c.p.c. (con cui è stata
riconosciuta la provvisoria esecutorietà per tutte le sentenze di primo grado) si riteneva che
l’immediata esecutività espressamente attribuita dall’art. 189 disp. att. c.p.c. ai provvedimenti
emessi in via temporanea e urgente nell’interesse dei coniugi e della prole valesse anche per le
sentenze che disponevano l’assegnazione, risultandone altrimenti mortificata la ratio di tempestività ed effettività della tutela sottesa alla norma. Infine definisce nuovamente la natura
dell’assegnazione che si sostanzia unicamente nel diritto di continuare a vivere nell’abitazione
familiare «senza l’altro coniuge» e costituisce un limite «di carattere eccezionale» rispetto all’ordinario assetto dei rapporti reali e personali sull’immobile.
Da tali presupposti la Corte fa derivare la conseguenza necessaria che così come il provvedimento con cui il diritto è attribuito contiene già in sé, implicitamente, la condanna al rilascio nei
confronti del non assegnatario, così come con la revoca, determinandosi «un effetto uguale e contrario a quello dell’assegnazione», in modo che «destinatario della condanna al rilascio» (anche
qui implicita) diventa colui che «non è più» assegnatario.
La sentenza merita approfondimento e rilievo con riguardo sia alla definizione della natura
dell’assegnazione della casa familiare, sia per l’enunciazione del principio sulla sua modalità di
attribuzione ed esecuzione, in quanto avalla il superamento della spesso oziosa superfetazione
della distinzione tra sentenze di condanne espresse ed implicite ai fini dell’esecuzione.
2. La natura dell’assegnazione della casa coniugale alla luce della sentenza della Corte Cass. civ., Sez. III, 31 gennaio 2012, n. 1367 La sentenza in esame affronta nuovamente il tema della natura dell’assegnazione della casa
coniugale. Fin dal periodo in cui l’assegnazione della casa familiare era regolata unicamente
in tema di separazione personale si è andata affermando un’opinione secondo la quale il diritto dell’assegnatario avrebbe avuto natura reale. In particolare vi era chi reputava che il diritto
in parola fosse un vero e proprio diritto reale di abitazione (e di uso dei mobili in arredo alla
casa). L’introduzione, nel 1987, all’art. 6, 6° comma, l. divorzio n. 898/1970, dell’espressa
previsione tanto della possibilità di trascrivere l’assegnazione della casa, quanto di opporla al
terzo acquirente ai sensi dell’art. 1599 c.c., poi, ha nettamente modificato la disciplina di riferimento. La novellazione, da un canto ha aggiunto un argomento testuale a favore della natura personale del diritto di godimento dell’assegnatario, e, d’altro canto, sancendo esplicitamente la trascrivibilità e assegnabilità del diritto dell’assegnatario, ha tolto dal campo alcuni
dei problemi pratici, tra quelli che esigevano la soluzione della questione sulla natura del diritto medesimo.
Di recente la natura del diritto dell’assegnatario della casa familiare è stata messa nuovamente
in discussione, in conseguenza dell’entrata in vigore della l. n. 54/2006, e in forza di essa, del-
36
FOCUS l’introduzione nel codice civile del nuovo art. 155 quater 1. Vi è stato, così, chi, nel rinvio disposto
dal recente art. 155 quater c.c. all’art. 2643 c.c. ai fini della trascrizione, ha letto un nuovo argomento a favore della natura reale del diritto dell’assegnatario 2. Peraltro è stato da altra dottrina
osservato, che il rinvio all’art. 2643 c.c. non è un argomento determinante per affermare la natura
reale del diritto dell’assegnatario, poiché nel catalogo degli atti soggetti a trascrizione ai sensi
dell’art. 2643 c.c. compaiono atti idonei a costituire non diritti reali, ma unicamente diritti personali di godimento. L’art. 155 quater c.c. nella sua formulazione introduce invero una distinzione
tra assegnazione della casa familiare e attribuzione del diritto di godimento. Il diritto di godimento ha il suo fondamento nell’interesse della prole prioritariamente tutelato. Detto interesse giustifica tanto l’assegnazione, quanto il conseguente diritto di godimento autonomo e qualificato.
L’eliminazione del riferimento al concetto di abitazione e la distinzione tra assegnazione e godimento, nonché l’aggiunta della previsione secondo la quale «dell’assegnazione il giudice tiene conto
nella regolamentazione dei rapporti economici tra genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà»,
depongono nel senso di un diritto personale di godimento, ma non ne escludono in virtù della
concreta regolazione dei rapporti economici, una configurazione reale. Purtuttavia si deve segnalare che la Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul profilo fiscale dell’assegnazione, e segnatamente riguardo all’Imposta comunale sugli immobili (ICI), ha puntualizzato che in capo
all’assegnatario si configura un diritto personale atipico di godimento 3.
La sentenza in esame al riguardo conferma tale ultimo orientamento precisando che «l’assegnazione si sostanzia unicamente nel diritto di continuare a vivere nell’abitazione familiare (al godimento della stessa) ... senza l’altro coniuge». Essa «nasce, formalmente nel 1975, con l’esigenza di
regolare le crisi coniugali; ha la funzione di perseguire interessi primari, di natura personale, essenzialmente collegati alla tutela dei figli». La Corte sposa quindi «la giurisprudenza costante, e la
dottrina assolutamente dominante», per la quale si tratta di diritto personale di godimento, sui
generis, la cui «caratteristica essenziale, connaturale alla funzione, è di costituire un limite rispetto a
un diritto dominicale di altri (l’altro coniuge o un terzo) sullo stesso bene» proprio per la collocazione nell’ambito dei rapporti familiari in crisi. Pertanto l’assegnazione «costituisce un limite, di
carattere eccezionale, posto all’ordinario assetto dei rapporti reali e obbligatori sull’immobile. L’unicità contenutistica/strutturale e il costituire un limite ai diritti degli altri sulla casa familiare, conforma il momento attributivo e la revoca».
La condivisibile interpretazione della natura dell’assegnazione della casa coniugale sposata
dalla sentenza in esame, trova conferma a parere di chi scrive, nel fatto che tale limite di carattere eccezionale all’assetto dei rapporti reali ed obbligatori trova il suo titolo solo nel prov-
1
Art. 155 quater. – Assegnazione della casa familiare e prescrizioni in tema di residenza.
«Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. Dell’assegnazione il giudice
tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà. Il diritto al godimento
della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva
more uxorio o contragga nuovo matrimonio. Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a
terzi ai sensi dell’articolo 2643.
Nel caso in cui uno dei coniugi cambi la residenza o il domicilio, l’altro coniuge può chiedere, se il mutamento interferisce con le
modalità dell’affidamento, la ridefinizione degli accordi o dei provvedimenti adottati, ivi compresi quelli economici».
2
Cfr. ad esempio: A. ZACCARIA, Opponibilità e durata dell’assegnazione della casa familiare, dalla riforma del diritto di famiglia alla nuova legge sull’affidamento condiviso, in Famiglia, persone e successioni, 2006, p. 779 s.; G. FANTICINI, L’espropriazione della casa familiare, in Atti del Convegno, La casa familiare, conflitti interpersonali e dinamiche sociali in Europa, Modena,
14 dicembre 2007; in corso di pubblicazione. Si veda altresì, G. FANTICINI, La custodia dell’immobile pignorato, in P.G. DE
MARCHI (a cura di), La nuova esecuzione forzata dopo la l. 18.6.09, n. 69, Zanichelli, Bologna, 2009.
3
Si veda Cass. n. 6192/2007.
37
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 vedimento giudiziale 4 che ha natura costitutiva, mentre qualora la casa venga assegnata al
genitore già titolare di altro diritto sulla stessa, il provvedimento ha natura dichiarativa 5. Non
solo l’assegnazione della casa familiare, ma anche la cessazione della stessa, è stata sempre subordinata, pur nel silenzio della legge, ad una valutazione del giudice di rispondenza all’interesse della prole. La pronuncia di un provvedimento estintivo sembra necessaria per rendere
la cessazione opponibile a terzi mediante la trascrizione. È evidente che la natura dell’assegnazione è connaturata quanto al suo venire in essere al provvedimento giudiziario la cui
esecutività immediata è insita nel diritto stesso che va a costituire. Diversamente, qualora abbia natura dichiarativa tale provvedimento non influirà né conterrà neppure implicitamente
una condanna al rilascio, ma sarà influente per gli altri provvedimenti relativi alla prole e nei
rapporti tra i coniugi.
3. Sull’efficacia esecutiva dei provvedimenti di assegnazione e revoca dell’assegna‐
zione della casa coniugale La Suprema Corte procedendo dall’analisi della natura dell’assegnazione della casa coniugale
in merito all’attribuzione della stessa, precisa che «il diritto non può venire ad esistenza se non si
accompagna all’allontanamento dalla casa familiare dell’altro coniuge. Se non c’è l’allontanamento
(il rilascio) da parte dell’altro coniuge, non manca solo la possibilità di esercitare un diritto (in
astratto esistente sulla carta); manca il diritto stesso, essendo il godimento esclusivo l’unico contenuto
della assegnazione». Tale statuizione ai fini esecutivi comporta la sua eseguibilità «(in via breve,
tramite l’ufficiale giudiziario, o mediante normale procedura di esecuzione forzata) (Cass. 1 settembre 1997, n. 8317)» essendo la condanna implicita, e si riporta al consolidato orientamento di
legittimità per il quale «l’ordinanza attributiva del diritto ad uno dei coniugi di abitare la casa familiare è soggetta, in mancanza di spontaneo adempimento, ad esecuzione coattiva (in via breve,
tramite l’ufficiale giudiziario, o mediante normale procedura di esecuzione forzata) (Cass. 1 settembre 1997, n. 8317)».
Dunque sotto il profilo dell’esecuzione costituisce titolo esecutivo per il rilascio il provvedimento presidenziale ex art. 708 c.p.c., indipendentemente dalla condanna al rilascio, con riguardo alle statuizioni concernenti l’assegnazione della casa coniugale, in quanto avendo funzione di assicurare il godimento dell’immobile destinato ad abitazione familiare, esso ha idoneità a consentire l’immissione nel possesso del ben al coniuge assegnatario, così consentendo
di dare attuazione al diritto riconosciuto 6, ovvero alla normale procedura di esecuzione forzata.
Nella prima ipotesi giudice competente per l’esecuzione sarà quello che ha emesso il provvedimento (o quello competente per il merito se è iniziato il relativo giudizio), mentre nella seconda ipotesi la competenza si radica in capo al giudice dell’esecuzione 7. La Corte rammenta
che anche in origine, in un contesto ordinamentale di non generale esecutività delle sentenze
non passate in giudicato, la disposizione attributiva di efficacia esecutiva espressamente riferita
solo ai provvedimenti temporanei e urgenti nell’interesse dei coniugi e della prole si riteneva
estesa anche alle sentenze.
4
C.M. BIANCA, Diritto Civile. La famiglia. Le successioni, Giuffrè, Milano, 2005, p. 222.
B. DE FILIPPIS, Affidamento condiviso dei figli nella separazione e nel divorzio, Cedam, Padova, 2007, p. 122.
6
Trib. Nocera Inferiore 27 gennaio 2005.
7
Cass. n. 8317/2007.
5
38
FOCUS Rispetto al momento della revoca, in una visione non parziale del provvedimento stesso, «essendo venuto meno ... il diritto speciale attribuito, cioè essendo stata esclusa la fruizione della casa familiare in capo a colui che ne aveva il godimento esclusivo, si determina un effetto uguale e contrario a
quello dell’assegnazione; cosi, destinatario della condanna al rilascio (esplicita e/o implicita) diventa chi non è più assegnatario, con il conseguente riespandersi dell’ordinario regime giuridico sulla
casa familiare». Tale soluzione non interferirebbe secondo la sentenza con la giurisprudenza consolidata che, prima della formazione della cosa giudicata, ritiene eseguibili solo le sentenze di
condanna (Cass. 6 febbraio 1999, n. 1037), comprese le statuizioni di condanna alle spese, indipendentemente dalla accessorietà al capo di condanna (Cass. 10 novembre 2004, n. 21367);
che esclude l’esecutività di condanne consequenziali, in rapporto di sinallagmaticità con capi
aventi natura costitutiva, nei quali l’effetto costitutivo si produce solo con il giudicato (S.U. 22
febbraio 2010, n. 4059).
Sul punto occorre soffermarsi in quanto in generale, la sentenza di primo grado che ha natura
costitutiva o dichiarativa non è provvisoriamente esecutiva, in quanto l’esecutività può derivare
solo dal passaggio in giudicato della sentenza stessa. In realtà non solo le sentenze di condanna
ma anche quelle costitutive possono essere, indipendentemente da un’esplicita statuizione in
tal senso del Giudice, se contengono una condanna implicita, desumibile anche dalla sola motivazione o dalla funzione stessa che il titolo è chiamato a svolgere, immediatamente esecutive
(Cass. civ., Sez. III, 26 gennaio 2005, n. 1619) 8. Nel caso esaminato, infatti, per la natura del
diritto di assegnazione – che si sostanzia solo nel godimento esclusivo senza l’altro coniuge,
con la conseguenza che non esiste senza rilascio del non titolare (nel caso dell’attribuzione) e
comporta un contestuale obbligo di rilascio quando viene meno il suo unico contenuto (nel caso di revoca) – non si pone il problema della scissione temporale tra effetti costitutivi ed effetti
consequenziali (condanna al rilascio) perché il provvedimento/sentenza, di assegnazione e di
revoca, contiene in se stesso una condanna al rilascio.
L’orientamento espresso dalla sentenza in esame deve essere salutato con favore, in quanto
persegue una chiara finalità di semplificazione ed, in specie, elimina la superfetazione tra condanne principali e condanne accessorie ad una declaratoria dichiarativa o costitutiva, ma soprattutto perché è più plausibile e più confacente ai capisaldi del sistema. Quindi nel caso di
specie l’esecuzione provvisoria di cui all’art. 282 c.p.c. trova legittima attuazione con riferimento alla condanna implicita di rilascio, in quanto l’esigenza di esecuzione della sentenza
scaturisce dalla stessa funzione che il titolo è destinato a svolgere. Si tratta di una conseguenza, in una chiave più ampia da quella che potrebbe trarsi dal richiamo al dato letterale
dell’esecutività, in quanto la base normativa della generalizzata efficacia di tutte le pronunce
ancora non passate in giudicato è rappresentata dall’art. 282 c.p.c., salvi i casi in cui la legge
disponga diversamente. La provvisoria esecutività delle sole pronunce di condanna secondo
tale orientamento è un corollario, la cui fonte non proviene dall’art. 282 c.p.c. bensì dalla
stessa ratio dell’esecuzione forzata.
In tale ottica è necessario individuare quali diritti ricevano coattiva soddisfazione per mezzo dei
processi di esecuzione specifica descritti nell’art. 2930 c.c. e siano perciò dedotti nelle domande
dirette alle sentenze, che di quei processi sono titoli (art. 474 c.p.c.). Si tratta sicuramente dei diritti di godimento su di una cosa mobile o immobile, determinata, di fattispecie in cui la norma
sostanziale già garantisce quel godimento al soggetto-attivo, per cui l’insoddisfazione del diritto,
che giustifica le sentenze e le esecuzioni in discorso, può, in ogni caso, consistere solo nel fatto
che un’altrui situazione di possesso o di detenzione sulla cosa ne impedisce illegittimamente il
8
R. VACCARELLA-M. GIORGETTI, Codice di Procedura Civile annotato con giurisprudenza, Utet, Torino, 2007, p. 968 ss.
39
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 godimento. Gli strumenti giurisdizionali in tali casi sono necessari perché la tutela, che l’ordinamento sostanziale garantisce al possesso e alla detenzione, ancorché illegittimi, non consente
al soggetto attivo di conseguire da sé il godimento che per legge gli spetta.
Sono quindi estranei alla tutela in esame tutti i diritti cui corrisponda, dal lato passivo, un dovere di dare, di fare o di non fare, che non si limiti al sacrificio del mero possesso o della mera detenzione, ma consista in un comportamento costitutivo, per legge, esso solo o con altri elementi, di una fattispecie produttiva di modificazioni giuridiche sul patrimonio o comunque sulla sfera
sostanziale dell’obbligato 9.
Alla luce di tali considerazioni la sentenza o il provvedimento di assegnazione e di revoca di assegnazione della casa coniugale, contenente anche solo implicitamente la condanna al rilascio,
essendo un bene immobile specificamente individuato, non può che rientrare nel novero
dell’art. 2930 c.c., il quale si riferisce alla consegna di cosa determinata, e non può che essere
titolo esecutivo, indipendentemente dalla condanna esplicita al rilascio.
Dal momento che è imprescindibile la determinatezza del bene oggetto dell’esecuzione, occorre accennare all’individuazione della casa coniugale, in quanto la definizione della stessa postula di per sé una serie di conseguenze anche ai fini esecutivi. Per casa familiare si intende il luogo
dove si svolge in modo continuo e prevalente la convivenza familiare 10, il luogo che costituisce
il centro di aggregazione della famiglia, degli interessi e delle abitudini in cui si esprime la vita
familiare e si svolge la continuità delle relazioni domestiche, connotato da caratteri di stabilità e
continuità. Ai fini dell’individuazione della casa familiare da assegnare ai sensi dell’art. 155 quater c.c., il giudice deve tenere conto della residenza familiare, indipendentemente dalla diversa
residenza anagrafica. Non può ritenersi motivo valido a costituire deroga al criterio preferenziale,
previsto dall’art. 155 c.c., la destinazione a studio professionale di parte dell’abitazione coniugale, considerato che l’attività professionale può adeguatamente essere svolta anche in altro luogo 11. Qualificata la casa familiare in relazione alla funzione di centro di aggregazione, non possono essere considerate tali le case acquistate durante la convivenza matrimoniale con la finalità di divenire casa familiare ma che non lo sono mai diventate per il sopravvenire della crisi o
che sono state abitate solo da uno dei coniugi dopo la cessazione della convivenza 12 mancando
l’elemento qualificante del centro attrattivo della communio. Allo stesso modo non può essere
oggetto del provvedimento un immobile in cui i coniugi ancora non si sono trasferiti 13 o che
era già stato abbandonato 14, anche se solo poco tempo prima della separazione, o ancora quell’immobile utilizzato, sia pur per lunghi periodi dell’anno, ma come casa di villeggiatura. Deve
dunque escludersi ogni immobile di cui i genitori avessero la disponibilità o comunque usassero in via temporanea o saltuaria. Individuato l’immobile qualificabile “casa familiare”, deve poi
analizzarsi la possibilità della sua estensione. La Corte costituzionale con la pronuncia n. 454/
1989, ha chiarito che la casa familiare è quel complesso di beni funzionalmente attrezzato per
assicurare l’esistenza domestica della comunità familiare, pertanto non è esauribile nell’immobile, poiché esso non sarebbe certo idoneo a garantire alla prole la continuazione del tenore di
9
L. MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei diritti, in Trattato di Diritto Civile, a cura di F. Vassalli, vol. XIV, tomo IV, Utet,
Torino, 1991, p. 176 ss.
10
Cass. n. 3934/1980, n. 9157/1993, n. 2338/2006.
11
Cass. civ., Sez. I, 28 ottobre 2003, n. 16152.
12
Si veda la sentenza della Corte App. Roma, Sez. PF, 27 maggio 2009, n. 2244; Cass. civ., Sez. I, 14 dicembre 2007, n. 26476.
13
Si veda Cass. civ., Sez. I, 27 febbraio 2009, n. 4816.
14
Al riguardo la Corte App. civ., Catania, dec. 21 maggio 2009, in tema di modifica delle condizioni di divorzio, ha ritenuto
che un appartamento che, da alcuni anni, non risulti più arredato e inagibile, per la mancata esecuzione dei lavori di manutenzione necessari e non particolarmente onerosi, ha perso i connotati propri della casa coniugale.
40
FOCUS vita realizzato nel periodo della convivenza dei genitori, comprendendo la normale dotazione
di beni mobili e suppellettili per l’uso quotidiano di essa.
L’assegnazione si estende inoltre alle pertinenze della casa familiare quali la cantina e il box, dal
momento che esse costituendo pertinenza dell’abitazione devono seguire le sorti della cosa
principale. In merito all’estensione della casa familiare, qualora questa venga limitata alla parte
occorrente ai bisogni delle persone conviventi della famiglia, il giudice potrebbe limitare l’assegnazione a quella parte di casa familiare realmente occorrente ai bisogni delle persone conviventi, tenendo conto delle esigenze di vita dell’altro coniuge, e delle possibilità di godimento
separato ed autonomo dell’immobile, attraverso modesti accorgimenti o piccoli lavori, così consentendo ai minori di poter accedere con facilità al genitore non collocatario-assegnatario di
una parte dell’immobile originariamente unitario 15.
Considerato dunque la complessità della definizione della casa coniugale, il provvedimento di
assegnazione e revoca sarà eseguibile solo qualora non sorgano problematiche relative alla sua
identificazione, o qualora sia specificamente indicato, problemi potrebbero sorgere riguardo
all’identificazione dei beni mobili in essa contenuti.
4. Profili di criticità della sentenza della Corte Cass. civ., Sez. III, 31 gennaio 2012, n. 1367 La sentenza in esame, superate le sopra esposte criticità circa l’individuazione del bene, non è
stata esente da critiche 16 che hanno preso le mosse proprio dal principio per cui il provvedimento di revoca deve essere analizzato in un’ottica non parziale, e per il quale il conferimento e la revoca dell’assegnazione abbiano ad oggetto lo stesso diritto, rispetto ai quali la condanna al rilascio prende direzioni diverse. Viene al riguardo eccepito che non possa estendersi alla revoca il principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità per il quale per
l’esecuzione dei provvedimenti temporanei e urgenti, adottati dal presidente del tribunale o
dal giudice istruttore nel procedimento di separazione personale, siano soggetti, in mancanza
di spontaneo adempimento, ad esecuzione coattiva in via breve, a mezzo dell’ufficiale giudiziario competente, salvo che il beneficiario del provvedimento preferisca avvalersi, come gli è
alternativamente consentito, della normale procedura di esecuzione forzata (si veda Cass. 1°
settembre 1997, n. 8317, nonché Cass. n. 5696/1984). Tale è l’orientamento seguito anche
dalla giurisprudenza di merito per l’assegnazione 17, ma secondo altro orientamento di merito, l’efficacia esecutiva del provvedimento di assegnazione va circoscritta nei soli confronti
dell’altro coniuge 18. Si è eccepito che l’effetto del provvedimento di revoca è solo quello di
rimuovere l’esclusiva nel godimento del bene, già riconosciuta a favore dell’assegnatario, ma
non quello di imporre a quest’ultimo tout court – per di più in via implicita – un preciso e
univoco comportamento (di rilascio). Ciò in quanto la revoca non ha come unico effetto il
rilascio dell’immobile da parte del non assegnatario, anzi potrebbe non prevederlo e determinarlo affatto. Potrebbe infatti essere legittimo il comportamento dell’ex assegnatario, che
15
Cass. n. 26586/2009.
Si veda M. FIORINI, Non convince l’equivalenza tra i provvedimenti che dispongono e cancellano diritti sull’alloggio, in Guida
dir., Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2012, p. 45 ss.
17
Trib. Nocera Inferiore, ord. 18 aprile 2005, in Giur. merito, 2005, I, p. 2348.
18
Trib. Arezzo, ord. 11 gennaio 2011, secondo cui «qualora la casa coniugale, assegnata con ordinanza alla moglie, sia già
abitata da un comodatario, verso quest’ultimo non può essere azionata la suddetta ordinanza, utilizzabile invece per estromettere
l’altro coniuge».
16
41
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 pretenda di continuare a occupare l’immobile in forza di un proprio titolo di godimento, senza che questo risulti espressamente dal provvedimento di revoca. Occorre quindi partire dal
titolo del godimento del bene. Nell’ipotesi di casa di proprietà esclusiva del non assegnatario,
che quindi con la revoca vede eliminato il vincolo di carattere eccezionale al suo diritto, la revoca coinciderà con la condanna al rilascio da parte dell’assegnatario non proprietario. Ma vi
sono frequenti casi in cui l’immobile è in comproprietà tra i coniugi, tra un coniuge ed un
terzo, tra i coniugi e terzi. In tali casi il provvedimento di revoca non sembra sufficiente ad
integrare la condanna al rilascio. La situazione di genitori comproprietari della casa coniugale
è la più frequente, sia che si tratti della casa caduta in comunione legale, sia che si tratti di acquisto in comunione ordinaria. In tal caso, nonostante la revoca, l’ex assegnatario ha diritto
di permanere nell’immobile in base alle regole della comunione finché non intervenga una
divisione che ne determini la perdita della titolarità. Ancora, a parere di chi scrive possono
sorgere problemi nel caso in cui la casa familiare è goduta a titolo di locazione, per il quale
l’art. 6 della legge sull’equo canone espressamente prevede che «in caso di separazione giudiziale o di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nel contratto di locazione
succede al conduttore l’altro coniuge se il diritto di abitare nella casa familiare sia stato attribuito
dal giudice a quest’ultimo. Analogamente in caso di separazione consensuale e di nullità matrimoniale se i coniugi hanno così convenuto», determinando una successione ex lege dell’assegnatario all’originario conduttore nel contratto di locazione. Il rapporto con l’originario conduttore, estinto con l’assegnazione non è più suscettibile di reviviscenza, anche nel caso di abbandono della casa da parte dell’affidatario, o di revoca dell’assegnazione. Spesso accade che
un genitore della coppia, od anche un terzo, conceda in comodato un immobile di sua proprietà affinché sia destinato a casa coniugale. L’orientamento consolidato della Cassazione è
sempre stato nel senso di ammettere l’assegnabilità con la conseguenza che il coniuge affidatario subentra nel rapporto di comodato così come subentra nel contratto di locazione 19. In
tale caso parte comodante non potrà utilizzare il provvedimento di revoca quale titolo esecutivo per il rilascio in via coattiva nei confronti dell’ex assegnatario, ma dovrà procurarsene
uno ad hoc instaurando un’apposita azione per occupazione senza titolo.
Viene quindi in considerazione il più ampio problema relativo all’efficacia esecutiva del provvedimento nei confronti dei terzi, la cui esclusione troverebbe conferma nella sent. n. 13664/
2003, secondo la quale il provvedimento di rilascio della casa familiare emanato nei confronti
del coniuge, non può essere fatto valere nei confronti del terzo che si trovi nel godimento dell’immobile in forza di un titolo che gli assicuri un possesso autonomo incompatibile con la pretesa fatta valere in via esecutiva, e ciò sino a quando il coniuge assegnatario non si sia munito di
titolo esecutivo valido nei confronti del terzo.
Sulla base della nuova formulazione dell’art. 474 c.p.c. introdotta dalla l. n. 80/2005 l’istituto
può essere così ricostruito: 1) in forza di titoli esecutivi di natura giudiziale, previsti dall’art.
474, 2° comma, n. 1, è possibile promuovere qualunque tipo di esecuzione forzata; 2) in base
ai titoli esecutivi di natura stragiudiziale di cui all’art. 474, 2° comma, n. 2, c.p.c. (scritture
private autenticate relativamente alle obbligazioni di denaro in esse contenute, le cambiali,
nonché gli altri titoli di credito ai quali la legge attribuisce espressamente la stessa efficacia) è
possibile promuovere solo l’espropriazione forzata; 3) in base ai titoli esecutivi di natura
stragiudiziale di cui all’art. 474, 2° comma, n. 3, c.p.c. (atti ricevuti da notaio o altro pubblico
ufficiale) è possibile promuovere sia l’espropriazione forzata che l’esecuzione per consegna o
rilascio ex art. 605 ss. c.p.c.
19
Cass. n. 929/1995; Cass. n. 10258/1997.
42
FOCUS Le recenti modifiche legislative 20, nell’evidente intento di consentire un più agevole accesso
alla tutela esecutiva, hanno da un lato esteso la categoria di titoli esecutivi, inserendovi le scritture private autenticate; e dall’altro hanno previsto che l’esecuzione per consegna o rilascio
possa avvenire sulla base degli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale. Tali modifiche hanno determinato grandi implicazioni dal punto di vista pratico, oltre che giuridico, come
la sentenza testè commentata.
20
La l. n. 80/2005 così come modificata dalla l. n. 263/2005.
43
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 SPESE STRAORDINARIE NELLA CRISI DELLA FAMIGLIA ED ESECUZIONE FORZATA Bianca Ferramosca
Giudice dell’esecuzione del Tribunale di Roma
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Mantenimento e spese straordinarie. – 3. L’efficacia esecutiva dei provvedimenti
che dispongono in merito al riparto delle spese straordinarie nei processi della famiglia nella giurisprudenza di legittimità e di merito. – 4. Le Sezioni Unite sulla determinabilità extratestuale del titolo esecutivo. – 5. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione Il tema dell’efficacia esecutiva dei provvedimenti di natura economica in favore della prole
emessi nei giudizi della crisi famigliare riveste indubbio rilievo incidendo sulla concreta attuazione della tutela di situazioni sostanziali di rango costituzionale quali quelle afferenti il
dovere ed il diritto di entrambi i genitori di mantenere, istruire ed educare la prole così da garantire una crescita equilibrata ed adeguata alle capacità, inclinazioni naturali ed aspirazioni dei
figli 1.
L’argomento presenta, come vedremo, taluni aspetti problematici legati anche all’incerto discrimine interpretativo tra le diverse tipologie di esborsi che vengono solitamente previste e
disciplinate nei provvedimenti in esame, abbiano essi ad oggetto la separazione o il divorzio
ovvero la regolazione provvisoria pendente iudicio dei rapporti patrimoniali tra coniugi in
crisi.
Sotto il profilo più strettamente processuale si tratta di verificare se i provvedimenti che dispongono in merito al riparto delle spese straordinarie nei processi della famiglia abbiano o
meno natura di titolo esecutivo 2.
Il dibattito sul punto si è riacceso in seguito alla sentenza della Sezione III della Suprema Corte 3 che, come vedremo, limitatamente ad alcune tipologie di cc.dd. “spese straordinarie” (quelle mediche e scolastiche ordinarie) sembra superare il prevalente orientamento giurispruden-
1
Si tratta della previsione contenuta nell’art. 30 Cost. e specificata nelle disposizioni del codice civile di cui agli artt. 147,
148 e 155 c.c.
2
L’argomento verrà trattato nel paragrafo 3.
3
Sent. 23 maggio 2011, n. 11316, su cui oltre nel testo al paragrafo 3.
44
FOCUS ziale sia di merito che di legittimità che nega la natura di titolo esecutivo ai provvedimenti in
esame.
Sul tema in esame è, poi, destinato ad incidere anche il recente arresto delle Sezioni Unite 4 in
tema di compatibilità con la natura di titolo esecutivo dell’operazione interpretativa volta a colmare le lacune del titolo esecutivo ricorrendo, se del caso, anche a dati extratestuali.
2. Mantenimento e spese straordinarie Il tema in esame rende necessaria un’analisi, sia pur breve, delle varie categorie di esborsi
che solitamente vengono in rilievo nella disciplina della crisi della famiglia con riguardo alla
prole.
La materia del mantenimento dei figli è regolata dagli artt. 147, 155 e 261 c.c., come in ultimo
novellati dalla l. 8 febbraio 2006, n. 54 dopo la prima riforma del 1975.
In tale contesto normativo, la previsione, eventuale, dell’obbligo di corrispondere un assegno
mensile da parte di uno dei genitori in favore dell’altro volto a coprire il mantenimento della prole è ammessa «ove necessario, ... al fine di realizzare il principio di proporzionalità» (cfr. art. 155,
4° comma, c.c.), ossia allorquando il mantenimento diretto dei due genitori, stabilito come regola, darebbe luogo ad apporti non proporzionati ai rispettivi redditi, sostanze e capacità di lavoro professionale e casalingo, ciò che normalmente accade, ad esempio, nell’ipotesi di affidamento esclusivo, o comunque di significativa differenza tra i tempi e modi della presenza dei
figli presso l’uno o l’altro genitore (cfr. anche l’art. 148 c.c.).
Nella determinazione della misura del contributo di mantenimento l’art. 155, 4° comma, dispone, innanzitutto, che si abbia riguardo alle esigenze della prole (da intendersi con riferimento all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale e all’assistenza morale e materiale) garantendo alla stessa, per quanto possibile, un tenore di vita analogo a quello goduto
in precedenza ma anche ai tempi di permanenza presso i genitori, alle risorse economiche a
disposizione di ciascuno di essi ed alla valenza economica dei compiti domestici di cura da
questi assunti 5.
I riferiti criteri vanno valutati tenendo necessariamente presente il regime di vita dei figli ordinario ed il contesto socio-economico in cui gli stessi sono inseriti 6, ossia una condizione di
normalità idonea a ripetersi eguale nel tempo che, taluno in dottrina 7, nel tentativo di chiarire il
discrimine tra le diverse tipologie di esborsi e valorizzando la natura dell’assegno mensile come
rata di un contributo annuale, delimita all’arco temporale di un anno.
La quantificazione del contributo periodico, in definitiva, non è ancorata a schemi astratti ma
esclusivamente ai concreti bisogni della prole ed alla effettiva capacità patrimoniale dei genitori
il cui variare legittima la richiesta di modifica della misura dell’assegno da parte del genitore interessato.
4
La sentenza Cass. civ., S.U., 2 luglio 2012, n. 11066, in Pluris on line, 2012, su cui oltre nel testo al paragrafo 4.
Si tratta dei criteri che cristallizzano l’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale consolidatasi prima della riforma del
2006 per il quale, ultimo, cfr. ex multis, Cass. nn. 3979/2002 e 6197/2005.
6
Cfr. nella giurisprudenza di legittimità la recente sentenza Cass. civ., Sez. I, 8 giugno 2012, n. 9372.
7
V. in proposito L. OLIVIERO, L’assegno a favore del coniuge e dei figli, in G. FERRANDO-L. LENTI (a cura di), La separazione personale dei coniugi, in Trattato teorico-pratico di diritto privato, diretto da G. Alpa-S. Patti, Cedam, Padova, 2011, p. 442 ss.; R.
RUSSO, Ancora sull’assegno divorzile: la Cassazione conferma l’orientamento, nota a Cass.civ., 2 luglio 2007, in Famiglia e diritto,
2007, 12, p. 1097.
5
45
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 Proprio per tale sua natura, accade che l’assegno si riveli inadeguato a fronteggiare esigenze
imprevedibili ed eccezionali della prole, che comportano spese rilevanti in rapporto alla misura
del contributo periodico.
A tali ultime esigenze sopperisce, nel silenzio della legge, l’istituto giurisprudenziale delle cc.dd.
“spese straordinarie” che prevede a carico del genitore non affidatario o non collocatario, in aggiunta al mantenimento con assegno 8, l’obbligo di fare fronte alle spese “straordinarie” pro quota
– in ragione delle diverse capacità patrimoniali dei genitori – ovvero per intero, quando l’altro
genitore sia privo di reddito.
Nella giurisprudenza si ritiene prevalentemente 9 che, per spese “straordinarie”, debbano intendersi quelle che – sebbene sostenute per la medesima tipologia di esigenze (medico-sanitarie, ludico-ricreative, sportive, scolastiche) già considerate nella determinazione dell’assegno di
mantenimento, a differenza di queste ultime, per la loro rilevanza e/o imprevedibilità e/o imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita dei figli, considerato anche il contesto socio-economico in cui essi sono inseriti.
Vi è, però, anche qualche decisione che ritiene compatibili con la straordinarietà della spesa i
caratteri della periodicità laddove si tratti di spese gravose, necessarie – o, comunque, utili – ma
non volte alla soddisfazione di normali esigenze di vita quotidiana 10.
La previsione riguardante tali spese svolge, quindi, la funzione quasi di “valvola di sicurezza”
del sistema a garanzia dei principi di proporzionalità e di adeguatezza dell’obbligo di contribuzione di entrambi i genitori al mantenimento dei figli.
Per tale rilevante funzione svolta, nella giurisprudenza di legittimità si sono ritenute incongrue
le disposizioni di una contribuzione a detto titolo una tantum o forfettariamente ricompresa
nell’assegno di mantenimento a carico del genitore onerato: tali forme di previsione, infatti, nel
caso della sopravvenuta esigenza di una spesa rilevante (ad esempio, per ragioni sanitarie), tale
da assorbire non solo il contributo mensile, ma anche quello annuale, potrebbero comportare il
verificarsi di un grave nocumento non solo nei confronti del coniuge presso il quale il figlio è
collocato, ma soprattutto nei riguardi della prole, che correrebbe il rischio di vedersi privata
– non consentendolo le possibilità economiche del genitore collocatario – di cure necessarie o
di altri indispensabili apporti 11.
La loro previsione, dunque, non può che essere indeterminata proprio perché imprevedibili ed
imponderabili sono le concrete esigenze che ne giustificano l’esborso ovvero anche rilevante l’entità della spesa necessaria a soddisfarle.
A parte l’incerto confine tra la categoria di spese in esame e quella del contributo periodico, altro elemento di criticità nella disciplina delle spese straordinarie risiede nella mancata coincidenza tra esse e le decisioni c.d. “di maggiore interesse” che, ex art. 155, 3° comma, c.c., devono
essere assunte di comune accordo dai genitori 12 – cosicché, per consolidato indirizzo giuri8
Ma secondo parte della dottrina anche per i casi di mantenimento diretto: cfr. A. ARCERI, L’affidamento condiviso, Ipsoa,
Milano, 2007, p. 169 ss.
9
Cfr. la sentenza della Suprema Corte richiamata supra nella nota 6 e, nella giurisprudenza di merito: Trib. Minori Bari 6
ottobre 2010 secondo cui: «Le spese mediche e di istruzione sono da annoverarsi nelle spese straordinarie solo ove non rientrino
nella vita normale del minore. Pertanto si ritengono straordinarie le spese che trascendono le ordinarie esigenze di vita; è dunque
opportuno tenere conto – nella statuizione dell’assegno di mantenimento – di tutte le spese che caratterizzano la normale vita del
figlio, in modo da ridurre le occasioni di conflittualità».
10
Cfr. Trib. Lamezia Terme 4 maggio 2005, in Famiglia e diritto, 2005, p. 615 ss.
11
In termini per tale esempio la decisione della Suprema Corte citata nella nota 6 che precede.
12
Al di là del principio della concertazione, che nell’affido condiviso deve permeare, nell’interesse del minore, i comportamenti e le scelte di entrambi i genitori secondo quanto precisato nella sentenza citata alla nota 6.
46
FOCUS sprudenziale 13, le spese “straordinarie” ma non “di maggiore interesse” possono essere decise
dal coniuge affidatario senza che sia profilabile un onere di previa concertazione con il coniuge
onerato con gli innegabili e delicati problemi in tema di onere di informazione e di eventuale
mancato consenso ovvero di espresso e motivato dissenso che si profilano.
Quanto al suo regime, a differenza dell’assegno mensile, la spesa straordinaria va rimborsata
una volta che sia stata effettivamente sostenuta previa presentazione dei relativi giustificativi di
spesa.
La generale panoramica appena svolta permette di evidenziare come non siano sempre agevoli
le operazioni interpretative sottese alle decisioni di ritenere una spesa sostenuta nell’interesse
della prole come “straordinaria” ovvero inclusa nell’importo forfettario determinato a titolo di
assegno di mantenimento, o, ancora, di valutare come legittima la pretesa di rimborso per il caso di mancato concerto e/o mancata previa informazione o di espressa e motivata opposizione
del genitore obbligato basata sui criteri stabiliti dall’art. 155, 4° comma, c.c.
3. L’efficacia esecutiva dei provvedimenti che dispongono in merito al riparto delle spese straordinarie nei processi della famiglia nella giurisprudenza di legittimità e di merito Secondo il recente orientamento della Suprema Corte 14 e la gran parte delle decisioni della giurisprudenza di merito 15, il provvedimento giudiziario con cui, in sede di separazione personale
dei coniugi, si stabilisca, ai sensi dell’art. 155, 2° comma, c.c., quale modo di contribuire al mantenimento della prole, che il genitore non affidatario paghi, pro quota o per intero, le spese
straordinarie relative ai figli, richiede, nell’ipotesi di non spontanea attuazione da parte dell’obbligato, al fine di legittimare l’esecuzione forzata, in forza del disposto dell’art. 474, 1° comma,
c.p.c., un ulteriore intervento del giudice della cognizione, volto ad accertare l’avveramento dell’evento futuro ed incerto cui è subordinata l’efficacia della condanna, ossia la effettiva sopravvenienza degli specifici esborsi contemplati dal titolo e la relativa entità, non suscettibili di essere desunte sulla base degli elementi di fatto contenuti nella prima pronuncia.
In attuazione del riferito orientamento, la via da percorrere da parte del coniuge anticipatario
per munirsi di titolo (e quindi accertare la reale sopravvenienza dei pagamenti e l’esatta entità
dell’obbligo) è quella del ricorso al procedimento monitorio nell’ambito del quale prova scritta
dell’esistenza del credito è rappresentata sia dal provvedimento posto a fondamento della domanda che dalla diversa successiva documentazione di riferimento che attesti l’effettività dell’esborso sostenuto e la natura ed entità dello stesso 16.
13
Cfr. Cass. civ. 5 maggio 1999, n. 4459, in Giust. civ., 1999, p. 1565 ss.; Cass. civ., Sez. I, 28 gennaio 2009, n. 2182, in CED
Cassazione, 2009; Cass. civ., Sez. I, 12 aprile 2010, n. 8676, in CED Cassazione, 2010; Cass. civ., Sez. I, 27 aprile 2011, n.
9376, in CED Cassazione, 2011; Cass. civ., Sez. I, 26 settembre 2011, n. 19607, in CED Cassazione, 2011.
14
V. Cass. civ., Sez. I, 28 gennaio 2008, n. 1758, in Riv. esec. forz., 2008, p. 1; Cass. civ., Sez. I, 24 febbraio 2011, n. 4543, in
CED Cassazione, 2011.
15
Cfr. Trib. Piacenza 2 febbraio 2010, in Corr. merito, 2010, 6, p. 606; Trib. Novara 5 novembre 2009, in NovaraIUS.it,
2010; Trib. Bologna 18 marzo 2010, in Ilcaso.it, 2011; Trib. Palermo, Sez. I, 9 marzo 2009, in Banca dati PLATINUM,
2010; App. Roma, Sez. II, 23 novembre 2006, in Banca dati PLATINUM, 2007.
16
In tal senso in dottrina: S. PATTI, Diritto della famiglia, Giuffrè, Milano, 2011, p. 549; G. CONTIERO, Il mantenimento dei
figli maggiorenni nella separazione e nel divorzio: presupposti, modalità, durata, Giuffrè, Milano, 2011, p. 56 ss.; M.A. LUPOI,
Separazione e divorzio. Attività e questioni processuali, Maggioli, Rimini, 2011, p. 281 ss.; G. GIUSTI, Le spese straordinarie per
il mantenimento dei figli non autosufficienti ed esecutività dell’ordinanza emessa in sede di separazione o divorzio, in Giur. merito
2011, p. 992 ss.; A. SOLDI, Manuale dell’esecuzione forzata, Cedam, Padova, 2009, p. 32 ss.
47
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 Il riferito prevalente orientamento giurisprudenziale si fonda su un’applicazione rigorosa del
disposto dell’art. 474 c.p.c., secondo cui «l’esecuzione forzata non può aver luogo che in virtù di
un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile».
Al riguardo, in via di estrema sintesi, si ritiene che: la liquidità sta indicare l’espressione del credito di danaro o di altre cose mobili fungibili in una misura determinata, così rimanendo escluso ogni credito espresso in modo generico; l’esigibilità significa che l’eventuale condizione cui
il credito risulta sottoposto deve essersi realizzata e l’eventuale termine essere venuto a scadenza 17; diritto certo, infine, è quello che viene individuato nel titolo in modo esatto e compiuto
quanto a contenuto e limiti 18.
In dottrina c’è chi 19 ha sostenuto che, sotto il profilo della “esigibilità” i provvedimenti in esame non porrebbero particolari problemi di compatibilità potendo proporsi per essi una riconduzione alla categoria della condanna condizionale, ossia quella condanna che, «subordinando la
propria efficacia ad un evento futuro ed incerto, è ammessa nell’ordinamento giuridico italiano poiché,
oltre a rispondere ad esigenze di economia di giudizio, non pone affatto in essere una condanna da valere per il futuro, ma accerta l’esistenza attuale dell’obbligo di eseguire una determinata prestazione e il
condizionamento, del pari attuale, di tale obbligo ad una circostanza il cui avveramento, da accertarsi
in sede esecutiva senza bisogno di ulteriori indagini di merito, fa sì che la sentenza acquisti efficacia di
titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile, ai sensi dell’art. 474 c.p.c.» 20.
Secondo la richiamata opinione, in particolare, l’effettivo esborso potrebbe ricostruirsi quale
circostanza condizionante che rende il diritto alla ripetizione (pro quota o per intero) delle
spese straordinarie, già accertato in sede giudiziale, immediatamente esigibile anche in via coattiva.
In realtà gli aspetti critici, ritenuti dall’orientamento interpretativo prevalente ostativi ad una
qualificazione dei provvedimenti in esame quali titoli esecutivi, si imperniano sui requisiti della
certezza e della liquidità ove si consideri che la disposizione contenuta nel provvedimento indica solo un criterio giuridico di imputazione per spese future ed incerte nell’an e nel quantum
17
In tali termini C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, vol. IV, Giappichelli, Torino, 2011, pp. 37 e 38 che, per entrambi i
detti requisiti evidenzia la necessità che essi non solo debbano esistere ma ance risultare dal titolo avuto riguardo alla sua
funzione di individuare e documentare il diritto eseguibile per l’organo esecutivo il quale deve solo portarlo ad esecuzione
senza necessità di valutazioni giuridiche.
18
In realtà quello riferito nel testo è l’orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte per la quale v. Cass. civ., 25
febbraio 1983, n. 1455 e di una parte della dottrina tra cui S. SATTA, Commentario del codice di procedura civile, III ed., Vallardi, Milano, 1965, p. 86; N. PICARDI, Manuale del processo civile, Giuffrè, Milano, 2010, p. 575; per altra parte della dottrina –
tra cui V. ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, III, Jovene, Napoli, 1957, p. 12; C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, cit., p. 38 la certezza è conseguenza dell’esistenza del titolo stesso nel senso che il diritto risulta certo in quella
concreta misura determinata ed indicata dall’ordinamento come sufficiente nel momento in cui ha attribuito a taluni atti la
qualità di titolo esecutivo; c’è, poi, chi sostiene (A. MASSARI, voce Titolo esecutivo, in Noviss. Dig. it., XIX, 1973, p. 379) che
il requisito di cui si tratta non possa venire riferito all’esistenza degli estremi obiettivi del diritto ma solo all’esatta determinazione del soggetto a favore del quale e nei cui confronti si deve eseguire il titolo e chi (F.P. LUISO, Diritto processuale civile, vol. III, Giuffrè, Milano, 2011, p. 22) ritiene che l’espressione “diritto certo” vada riferita esclusivamente all’esecuzione
per consegna o rilascio e all’esecuzione per obblighi di fare.
19
F. DANOVI, La Cassazione amplia le maglie del titolo esecutivo per le spese «straordinarie» (mediche e scolastiche) nei processi di famiglia, in Riv. dir. proc., 2012, pp. 1066 e 1067.
20
Sulla condanna condizionale nei termini riferiti nel testo: Cass. civ., Sez. II, 22 dicembre 1986, n. 7841, in Fonte Mass.
Giur. it., 1986; sulla condanna condizionale, in dottrina per tutti: C. MANDRIOLI, In tema di condanna a prestazione condizionata, in Giur. it., 1956, I, 1, p. 810 e Diritto processuale civile, vol. I, Giappichelli, Torino, 2011, pp. 75 e 76 ove si distingue l’istituto della condanna condizionale nelle sue due forme – di cui l’una propriamente detta condanna condizionale, in
cui la condizione investe soltanto la condanna, e l’altra, la c.d. condanna a prestazione condizionata, in cui la condizione appartiene al diritto accertato – dalla condanna in futuro tese ad ottenere una condanna attuale ad una prestazione soggetta ad
un termine e, dunque eseguibile solo dopo la scadenza del termine.
48
FOCUS mentre è solo con l’effettivo esborso che sorge il diritto alla ripetizione delle spese straordinarie
sopportate nell’interesse della prole.
L’orientamento della giurisprudenza di merito che riconosce natura di titolo esecutivo ai provvedimenti in esame è certamente minoritario 21.
In dette decisioni, si valorizzano i dati contenuti nel provvedimento (riguardanti l’individuazione dei criteri generali di riparto e l’indicazione della tipologia di spese e delle eventuali modalità di comunicazione e/o documentazione di esse) al fine di affermarne la natura esecutiva con
riguardo a tutte quelle spese future di cui l’avente diritto sia in grado, in sede esecutiva, di documentare la conformità ai detti dati.
In esse, pur tuttavia, non viene affrontato il nodo problematico a monte della compatibilità dei
requisiti di certezza e liquidità con un credito, di fatto, non ancora sorto e, quindi, necessariamente indeterminato perché futuro ed eventuale e, con essa, anche della legittimità di una integrazione del titolo esecutivo con dati non solo extratestuali ma anche extraprocessuali e futuri.
Affronta ex professo il richiamato nodo interpretativo la sentenza della Sezione III civile della
Suprema Corte 23 maggio 2011, n. 11316, che, dal “calderone” delle “spese straordinarie”, previste e disciplinate nei provvedimenti giudiziari ex art. 155, 2° comma, c.c., scorpora una categoria – quella delle spese mediche e scolastiche – e per essa solo ritiene integrati i requisiti di
certezza ab origine, determinabilità e liquidabilità richiesti dall’art. 474 c.p.c. per la qualificazione della relativa previsione in termini di titolo esecutivo purché le spese successivamente sostenute siano comprovabili sulla scorta di documentazione di spesa rilasciata da strutture pubbliche o da altri soggetti che siano specificati nel titolo ovvero concordati preventivamente tra i
coniugi.
La Suprema Corte giunge a tale soluzione secondo il seguente percorso argomentativo:
– le spese mediche e scolastiche si distinguono dalle altre “spese straordinarie” («siccome riguardanti eventi il cui accadimento sia oggettivamente incerto») poiché, secondo nozioni di
comune esperienza, sono esborsi frequenti e, quindi, assai probabili e prevedibili tanto da
poter essere ritenuti sostanzialmente certi ed indeterminati solo nel quando e nel quantum;
– la loro successiva determinazione e liquidazione è agevole sulla base di apposita documentazione di spesa rilasciata da strutture pubbliche («attesa la natura della funzione da esse esercitata e la particolare attendibilità da riconoscersi») o dagli altri soggetti eventualmente specificati nel titolo ovvero concordati preventivamente tra i coniugi;
21
Cfr. Trib. Roma, Sez. IV, 16 febbraio 2009, in PLATINUM, 2009: nelle ipotesi in cui il precetto venga intimato per il recupero di spese straordinarie, può, in linea di principio sussistere un titolo valido ed esecutivo ai sensi dell’art. 474 c.p.c.,
senza che necessariamente sia precostituito un decreto ingiuntivo. Ciò, tuttavia, è possibile ravvisare nei casi in cui le somme
richieste in virtù del provvedimento di separazione siano corredate della certezza e della liquidità; circostanza che può emergere nelle fattispecie ove le spese, in linea di statuizione poste a carico di entrambe le parti per il 50%, siano dettagliatamente e
documentalmente comprovate, come provato o non contestato sia il previo accordo tra i coniugi per quelle somme che lo
richiedono quale condizione di esigibilità, in guisa che nessuna indagine debba essere condotta fuori ed in aggiunta all’accertamento dell’obbligo già contenuto nel provvedimento presidenziale.
Trib. Bari, Sez. II, 20 ottobre 2005, Massima redazionale, in PLATINUM, 2005: l’opposizione al precetto con la quale si
contesta la sussistenza dei requisiti di certezza e liquidità del credito, deve essere rigettata qualora espressamente nella sentenza di separazione (che costituisce il titolo del credito), si sia posto a carico del coniuge separato l’obbligo di pagare la
metà delle spese straordinarie scolastiche, mediche e dentistiche dei figli «dietro preventiva comunicazione e successiva documentazione della madre affidataria». Pertanto nel titolo stesso, pur non potendo essere prevista la misura in cifra reale
delle spese di volta in volta da rimborsare, trattandosi di spese straordinarie, erano espressamente indicati i criteri per la
quantificazione del credito, con la conseguenza che, una volta effettuata la comunicazione preventiva della spesa a cura del
coniuge affidatario nei riguardi dell’altro coniuge, e una volta rimessa a questi la documentazione della spesa erogata, siano
maturate le condizioni, espressamente previste dal titolo, per la attribuzione al credito dei requisiti di certezza, liquidità ed
esigibilità.
49
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 – la ricorrenza a tale forma di documentazione corrisponde, per nozioni di comune esperienza, a criteri di ordinaria frequenza statistica tanto da poter essere considerata quale «implicito elemento estrinseco al titolo, ma da esso evidentemente presupposto, idoneo a completarne il
comando» 22.
L’interpretazione offerta dalla Suprema Corte risponde in modo espresso all’esigenza di effettività e rafforzamento della tutela delle obbligazioni che attengono al mantenimento della prole,
scongiurando, per tale tipologia di spese, l’ineluttabilità di un ricorso preventivo ed obbligatorio al giudice della cognizione per la formazione di altro titolo esecutivo.
Del pari, il Collegio non manca di tenere conto della posizione del soggetto obbligato considerando impregiudicata la possibilità di una sua contestazione in merito all’effettività della spesa
od alla sua riconducibilità alla categoria di esborsi posta a suo carico con il mezzo delle opposizioni a precetto o all’esecuzione.
4. Le Sezioni Unite sulla determinabilità extratestuale del titolo esecutivo Come già anticipato al principio, sul tema in esame utili spunti di riflessione si ricavano dalla
recente pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione con la sent. 2 luglio 2012, n. 11066 23,
che affronta il dibattuto tema della interpretazione extratestuale dei provvedimenti decisori giudiziali con impliciti riflessi sul connesso tema della determinabilità dell’oggetto dell’accertamento
contenuto nel titolo esecutivo.
In particolare, per quanto rileva con riguardo al tema in trattazione, le Sezioni Unite sono state
chiamate a dirimere il conflitto esistente tra le sezioni semplici in merito alla possibilità di ritenere valido titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c. la sentenza che contenga la condanna al pagamento di un credito non specificamente determinato, ma comunque determinabile attraverso dati
provenienti da fonti normative con semplici calcoli aritmetici effettuati sulla scorta di dati desumibili da atti e documenti prodotti nel giudizio e non contestati dall’altra parte 24.
Le Sezioni Unite pervengono ad una soluzione positiva della questione proponendo, in tal modo, il superamento dell’orientamento interpretativo che identifica il titolo esecutivo con il do22
Al riguardo, F. DANOVI, op. cit., p. 1070 osserva: «si ritrova così tra le pieghe della sentenza l’idea che il titolo esecutivo possa
compiere una relatio non soltanto a metodi di calcolo, ma più in generale a elementi successivi integrativi della fattispecie creditoria, nei confronti dei quali esprimerebbe una sorta di aprioristico placet».
23
In Pluris on line, 2012.
24
Nella motivazione della sentenza sono così sintetizzati i diversi orientamenti delle sezioni semplici della Cassazione
in argomento: «... Così, nel campo dell’esecuzione forzata per obblighi di fare o non fare, si rinvengono nella giurisprudenza
della Corte decisioni che, quando si tratta di superare incertezze lasciate dalla formulazione del provvedimento del giudice fatto valere come titolo esecutivo, affermano che tali incertezze si prestano ad essere superate attraverso gli atti del processo in cui
la decisione da eseguire è stata pronunziata e tra questi le relazioni di consulenza (Cass. 14 marzo 2003 n. 3786; 22 febbraio
2008 n. 4651).
Nel campo dell’esecuzione forzata per espropriazione un indirizzo della giurisprudenza della Corte, presente in particolare nella
sezione lavoro, nega invece valore di titolo esecutivo alla decisione di condanna, quando il documento cui questa è consegnata non
contiene gli elementi sufficienti a rendere liquido il credito con calcolo puramente matematico, e così nega che si possa fare riferimento ad elementi esterni, non desumibili dal titolo, pur se presenti nel processo che ha portato alla formulazione della condanna
(Cass. 21 novembre 2006 n. 24649; 23 aprile 2009 n. 9693; 28 aprile 2010 n. 10164).
La via da battere perché il creditore sia munito di titolo è indicata nell’accesso alla procedura per decreto di ingiunzione, da chiedere in
base ai documenti che la parte istante pone a base della liquidazione del credito (Cass. 5 febbraio 2011 n. 2516).
Al predetto orientamento se ne contrappone altro – seguito in prevalenza dalla sezione terza, ma presente anche nella sezione
lavoro – che consente l’integrazione extratestuale, a condizione che i dati di riferimento siano stati acquisiti al processo in cui
il titolo giudiziale si è formato (Cass. 8 maggio 2003 n. 6983; 29 novembre 2004 n. 22427; 15 marzo 2006 n. 5683; 17
aprile 2009 n. 9245)».
50
FOCUS cumento in cui è consacrato l’obbligo da eseguire e da tale identificazione fa discendere il divieto di interpretazione extratestuale.
Il substrato argomentativo della decisione in esame fonda le sue radici nella considerazione che,
per i provvedimenti giudiziari cui la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva, l’idoneità a fondare la relativa azione dipende dalla valutazione che l’ordinamento esprime circa
l’altrettale idoneità dei relativi procedimenti ad accertare i diritti vantati nel processo, idoneità
che a sua volta deriva dalla cognizione al loro riguardo da svolgersi nelle pertinenti forme del
contraddittorio.
Spostato, in tal modo, il fuoco della idoneità alla esecuzione del provvedimento giudiziale dall’individuazione dell’obbligo come individuato nel “documento” giudiziario all’accertamento che
legittima la prima (inteso come «tutto ciò che il giudice di merito è stato messo in grado di accertare
ed è dimostrabile che abbia accertato»), le Sezioni Unite ritengono del tutto legittima l’operazione ermeneutica volta ad integrare le eventuali lacune delle dichiarazioni del giudicante contenute nel provvedimento con ciò che gli è stato richiesto dalle parti ed appare discusso nel
processo di guisa che, in tal modo, non si dà spazio ad un inammissibile accertamento mancato
ma ad una possibile precisazione dell’oggetto dello stesso.
È nel precetto che, secondo la Suprema Corte, il creditore sarà onerato di indicare con precisione la prestazione richiesta e di spiegarne i perché sulla base delle eventuali integrazioni provenienti dagli atti acquisiti legittimamente al processo di cognizione e ritenuti posti a fondamento della decisione del giudice allorquando valuti il percorso argomentativo esposto dal giudice lacunoso ma, comunque, determinabile.
Il debitore, a sua volta, avrà la possibilità di contestare la pretesa creditoria (perché ritenuta negata o non accertata) utilizzando lo strumento dell’opposizione al precetto o agli atti esecutivi
ex art. 617 c.p.c. (ove intenda dedurre la mancata specificità della richiesta formulata con il precetto idonea a mostrarne la sua derivazione dal titolo esecutivo) ovvero quello dell’opposizione
al precetto o all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. ove, invece, intenda contestare la specificità dell’oggetto della condanna espressa nel titolo (giudizio nell’ambito del quale il creditore potrebbe, eventualmente, proporre domanda riconvenzionale ai fini dell’accertamento di quanto possa essere ritenuto non già accertato) ovvero, infine, sollecitando i poteri ufficiosi del giudice dell’esecuzione (a cui il creditore potrebbe controdedurre).
Il tutto, «nella misura del possibile, ma anche del dovuto in termini di efficacia della funzione giurisdizionale, ne sarà resa possibile la effettiva definizione della controversia ed evitato di dare spazio a
comportamenti solo dilatori».
5. Considerazioni conclusive È proprio la soluzione ponderatamente offerta dalle Sezione Unite, ed appena illustrata, ad
evidenziare le criticità della sentenza della Suprema Corte n. 11316/2011, analizzata al paragrafo 3, laddove consente l’integrazione del titolo esecutivo con dati documentali estranei al
processo che lo ha formato, in quanto futuri, e, quindi, non sottoposti al contraddittorio della
parte onerata.
Come visto, la determinabilità dell’oggetto della decisione giudiziale consentita dalle Sezioni
Unite è limitata alla sola operazione ermeneutica della portata del titolo e rimane, per la qual cosa, saldamente ancorata al solo materiale probatorio previamente acquisito nel processo restando
preclusa la possibilità di integrare il titolo attraverso documenti sorti in epoca successiva alla
sua formazione.
51
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 Peraltro, la soluzione accolta nella sent. n. 11316/2011, dettata da evidenti e condivisibili esigenze di effettività della tutela di crediti di rilevanza costituzionale, comporterebbe non poche
difficoltà di ordine pratico nella concreta gestione della procedura esecutiva.
Farraginosa si presenterebbe già la fase pre-esecutiva dovendo ipotizzarsi la necessità che la notificazione del titolo in forma esecutiva, imposta dall’art. 479 c.p.c., riguardi anche la documentazione integrativa dello stesso che determina l’ammontare del credito che verrà precettato e che
il precetto indichi il credito intimato e le ragioni della sua sussumibilità nella categoria delle c.d.
“spese straordinarie”.
Appesantita diverrebbe la fase introduttiva della procedura esecutiva dovendosi l’ufficiale giudiziario munire del titolo esecutivo prima di iniziare l’espropriazione forzata (cfr. art. 513 c.p.c.)
e, quindi, nel caso di specie, anche dei documenti sulla cui base il credito è stato determinato
nell’atto di precetto (le fatture e le ricevute attestanti gli esborsi sostenuti) venendo, altresì,
chiamato ad una valutazione giuridica in ordine al problema della corretta riconducibilità dell’esborso alle diverse tipologie di spese previste nel titolo.
Altrettanto gravata risulterebbe anche la fase dinanzi al giudice dell’esecuzione (allorquando
venisse richiesto di autorizzare la vendita dei beni staggiti ovvero di assegnare il credito pignorato), onerato del controllo ufficioso dell’esatta portata del titolo.
Infine, non sembra affatto funzionale alle esigenze di speditezza del procedimento esecutivo, in
virtù della sua natura basata sul principio dell’audizione e non del contraddittorio (cfr. art. 485
c.p.c.), l’insorgere delle inevitabili parentesi di accertamento in sede di ordinaria cognizione (nelle forme delle opposizioni pre ed endo-esecutive) determinate dalla necessità di recuperarne la
mancanza in ordine alla determinazione del credito.
A ben vedere, infatti, la menzionata sentenza non fa che subordinare la necessità del previo
contraddittorio delle parti in ordine alla esistenza del credito alla reazione del debitore minacciato o addirittura già aggredito nei suoi beni patrimoniali.
Ciò comporta una prima criticità determinata dalla circostanza che, nel nostro sistema processuale, la posticipazione del contraddittorio rispetto all’accertamento del credito costituisce un’ipotesi residuale ed eccezionale e, quindi, non estensibile oltre i casi espressamente previsti (tra
i quali, ad esempio, il procedimento per ingiunzione ex art. 633 c.p.c.).
Ma, ancor di più, tale posticipazione del contraddittorio stride con la natura delle opposizioni
all’esecuzione minacciata o promossa sulla base di un titolo giudiziale, che, nel caso di specie,
avrebbe ad oggetto l’effettivo accertamento del credito in esso contenuto, generalmente precluso al giudice dell’esecuzione per effetto del limite generale ed assoluto del giudicato, ovvero,
della litispendenza e delle preclusioni nel frattempo maturate.
Non va dimenticato, infine, che, una volta iniziato il procedimento esecutivo, la liberazione dei
beni pignorati, di regola, consegue solo all’accertamento definitivo dell’inesistenza del diritto a
procedere all’esecuzione forzata: di talché per un verso la soluzione prospettata dalla Suprema
Corte sembra aggravare notevolmente la posizione del debitore esecutato e dall’altro espone
assai più facilmente il creditore alla responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.
Conclusivamente, non può che ribadirsi la validità del prevalente orientamento giurisprudenziale esposto all’inizio del paragrafo 3: per le spese straordinarie, anche se, per ipotesi, prevedibili ed ordinarie, ove non incluse nell’importo dell’assegno di mantenimento (come sarebbe
auspicabile secondo quanto precisato nel paragrafo 2) l’unica strada percorribile è il ricorso al
giudice della cognizione per munirsi di titolo esecutivo.
Va, peraltro, sottolineato che la sede ideale per attuare il contemperamento delle opposte esigenze è quella cognitiva dinanzi al giudice della separazione, come espressamente suggerito nella
stessa decisione della Suprema Corte, attraverso una previa indicazione, accurata e precisa, del52
FOCUS le modalità con cui gli oneri ricollegati agli obblighi in esame dovranno essere affrontati per il
futuro e la scrupolosa determinazione dell’assegno di mantenimento in modo da ricomprendervi tutte le spese ordinarie perché oggettivamente prevedibili nell’arco dell’anno di riferimento.
Un provvedimento giudiziale chiaro e determinato nella prospettiva delle sua eseguibilità forzosa in caso di inottemperanza del soggetto obbligato è la migliore risposta alle esigenze di efficacia della funzione giurisdizionale oltreché costituire precipuo dovere del decidente, la cui
violazione incentiva la conflittualità tra le parti e le pratiche dilatorie che tutti gli operatori sperimentano quotidianamente.
53
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 I PROVVEDIMENTI DI MODIFICA DELLE CONDIZIONI DELLA SEPARAZIONE (E DEL DIVORZIO) NON SONO IMMEDIATAMENTE ESECUTIVI, ESSENDO SOGGETTI ALLA DISCIPLINA DI CUI ALL’ART. 741 C.P.C. (Nota a Cass. 27 aprile 2011, n. 9373) Alberto Figone
Avvocato del Foro di Genova e Docente di Diritto Privato nella Scuola di specializzazione per le professioni legali, Università di Genova
La sentenza della Corte Cass. 27 aprile 2011, n. 9373 affronta una questione estremamente rilevante nella pratica, sulla quale manca una specifica elaborazione giurisprudenziale: ci si chiede infatti se i decreti, resi dal Tribunale a definizione di un procedimento ex art. 710 c.p.c. per
la modifica delle condizioni della separazione, siano immediatamente esecutivi o meno. La Suprema Corte, Sez. I civ., perviene alla soluzione negativa, dopo aver confrontato le discipline della
separazione e del divorzio, alla luce dei principi generali del codice di rito. La complessità della
questione è peraltro confermata dal fatto che una (relativamente di poco) successiva sentenza
della stessa Corte Cass. civ., Sez. III, ha invece affermato il principio opposto, ponendosi in posizione critica nei confronti della decisione in esame 1.
Come è noto, l’art. 710 c.p.c. prevede che le parti possano sempre richiedere la modifica dei
provvedimenti in favore del coniuge e della prole contemplati in una sentenza di separazione
giudiziale (ovvero in un decreto di omologa di una consensuale, come nel caso di specie); analoga previsione è contenuta nell’art. 9, 1° comma, l. divorzio. Le norme sono espressione del più
generale principio per cui quei provvedimenti sono operativi “rebus sic stantibus”, dovendo necessariamente il regime di separazione, o di divorzio, adattarsi a modifiche di fatto sopravvenute. È previsto espressamente che la domanda al Tribunale debba essere proposta «con le forme
del procedimento in camera di consiglio», e dunque con ricorso, sulla scorta di quanto dispone
l’art. 737 c.p.c. La disposizione dell’art. 710 c.p.c., nella sua attuale formulazione, venne introdotta dal legislatore con l. n. 331/1988; in epoca precedente quel procedimento era infatti assoggettato alle forme ordinarie del processo di cognizione (e, dunque, il regime dell’esecutività
della relativa sentenza era quello generale di cui all’art. 282 c.p.c., che in allora l’affidava ad un
provvedimento del giudice su istanza di parte). La modifica per il rito camerale fu giustificata
da ragioni di snellezza e celerità del procedimento. La questione dell’esecutività del provvedimento reso a definizione di quel procedimento peraltro non ebbe a mutare: l’art. 741 c.p.c. escludeva ed esclude che i provvedimenti resi nella forma camerale siano immediatamente esecutivi, potendo acquisire efficacia immediata solo a seguito di una valutazione del Giudice, in
presenza di “ragioni di urgenza”.
1
Cfr. Cass. 20 marzo 2012, n. 4376, in Foro it., 2012, I, p. 1010 ed in Famiglia, persone e successioni, 2012, 3, p. 388.
54
FOCUS La modifica dell’art. 282 c.p.c., operata con l. n. 353/1990 (in forza del quale la sentenza di
primo grado è per legge provvisoriamente esecutiva tra le parti) non ha riguardato la disciplina
dei provvedimenti di modifica della separazione (o del divorzio) di cui agli artt. 710 c.p.c. e 9,
l. n. 898/1970; tali norme infatti richiamano espressamente la disciplina dei procedimenti in
camera di consiglio e, dunque, la già richiamata previsione dell’art. 741 c.p.c.
Un’interpretazione, strettamente legata al dato normativo, dovrebbe allora condurre alla conclusione per cui il decreto reso a definizione di un procedimento ex art. 710 c.p.c. sarebbe privo
di efficacia esecutiva ex lege (e poco importa se la modifica riguardi una separazione giudiziale,
ovvero una consensuale); tale efficacia potrebbe acquisire solo per espressa previsione del
Giudice, ovvero quando fosse spirato il termine per il reclamo, senza che l’impugnazione sia
stata interposta. Ed è questa l’interpretazione fornita dalla sentenza in esame, la quale osserva
nel contempo come la tendenza legislativa ad uniformare la disciplina della separazione personale a quella del divorzio, in forza del ben noto art. 23 della l. n. 74/1987, non possa spingersi al
punto da ritenere estensibile ai giudizi di modifica delle condizioni di separazione il disposto
dell’art. 4, 14° comma, l. n. 898/1970, ove è previsto che «per la parte relativa ai provvedimenti
di natura economica la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva». La norma infatti fa
riferimento alla “sentenza” (ossia al provvedimento, che definisce un giudizio contenzioso) con
esclusione del “decreto” (proprio del rito camerale).
Le decisione annotata, pur nel suo rigore argomentativo, suscita perplessità, che la dottrina ha
già evidenziato 2. I procedimenti di revisione di separazione (e di divorzio) presentano infatti
indubbia natura contenziosa ed i decreti che li definiscono hanno funzione decisoria, sì da essere equiparabili a sentenze in senso sostanziale. L’utilizzo dello schema procedimentale della camera di consiglio non appare tale da sconfessare quanto sopra, per almeno tre ordini di considerazioni: a) da tempo è superata l’idea che la volontaria giurisdizione (che si estrinseca nell’adozione del rito camerale) rifletta la gestione di meri interessi e non di diritti soggettivi: e di ciò
se ne ha riprova proprio nei procedimenti ex art. 710 c.p.c., ove si controverte di diritti di natura personale (tanto dei genitori, quanto del minore), ma anche patrimoniale (la misura dell’assegno per il coniuge e per i figli, l’assegnazione della casa); b) lo stesso legislatore aveva inizialmente assoggettato i procedimenti di modifica al rito ordinario contenzioso, così confermando la gestione di diritti soggettivi; c) occorre evitare disparità di trattamento tra il regime previsto in sentenza e quello di cui al decreto, a fronte di una modifica della situazione di fatto che
non rende più adeguate le previsioni della sentenza stessa.
Un’ulteriore considerazione si impone: come è noto il 3° comma dell’art. 710 c.p.c. legittima il
Giudice, nel corso del procedimento, ad adottare provvedimenti provvisori quando il giudizio
non possa essere immediatamente definito. Si tratta di provvedimenti anticipatori della tutela
che potrebbe scaturire dalla decisione finale, per loro natura necessariamente esecutivi. Parrebbe allora contraddittorio ipotizzare un’efficacia esecutiva del provvedimento interinale, per poi
negarla a quello finale; e ciò senza contare che nello schema generale della tutela camerale, come disciplinato dagli artt. 737 ss. c.p.c., non è prevista la possibilità di corrispondenti provvedimenti anticipatori.
I decreti resi all’esito del procedimento ex art. 710 c.p.c. presentano dunque natura decisoria e
lo stesso carattere definitivo proprio delle sentenze di separazione nella regolamentazione della
crisi coniugale (nel senso che la “definitività” è assoggettata al generale principio “rebus sic stantibus”), ed altrettanto deve dirsi per i decreti ex art. 9, l. n. 898/1970. Correttamente, pertanto,
2
Cfr. F. TOMMASEO, Sull’efficacia di titolo esecutivo dei decreti che rivedono le condizioni di separazione coniugale, in Famiglia e
diritto, 2011, 10, p. 878.
55
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 la Corte di Cassazione, innovando rispetto ad un orientamento contrario, in oggi ammette il ricorso straordinario ex art. 111 Cost. in sede di legittimità avverso i relativi decreti resi dalla Corte
d’Appello 3. Del pari, in più occasioni si è ritenuto ammissibile il ricorso per cassazione avverso
i decreti della Corte d’Appello emessi ai sensi dell’art. 317 bis c.c., prospettandosi in caso contrario grave disparità tra i figli, a seconda che siano nati all’intero di un matrimonio, ovvero al di
fuori di esso 4: l’adozione dello schema camerale non rende i decreti meno “definitivi” delle corrispondenti statuizioni contemplate in una sentenza di separazione o di divorzio. Un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 710 c.p.c. dovrebbe allora condurre a ritenere allo
stesso applicabile la disciplina generale dell’art. 282 c.p.c. in luogo di quella dell’art. 741 c.p.c.,
con conseguente attribuzione dell’efficacia esecutiva ex lege ai decreti del tribunale, a prescindere
da una esplicita attribuzione in tal senso da parte del giudicante (ferma restando la possibilità
di chiedere la sospensione dell’efficacia esecutiva alla Corte d’Appello, investita del reclamo, ex
art. 283 c.p.c.). Quanto meno, secondo quanto affermato in alcune decisioni di merito, la provvisoria esecutorietà dovrebbe valere per le statuizioni di carattere economico 5.
L’interpretazione da ultimo prospettata, come si è anticipato, è stata fatta propria da altra pronuncia del Supremo Collegio, che è pervenuta a conclusioni opposte rispetto a quella qui annotata 6.
Merita peraltro un’attenta considerazione la parte finale della sentenza annotata, con cui la
Cassazione, ben consapevole della complessità della questione sottoposta al suo esame, auspica un intervento del legislatore. La legge recentemente approvata sullo status unico della
filiazione, oggi in attesa di promulgazione e pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale nulla di specifico dispone al riguardo, ma all’art. 3 prevede che i procedimenti de potestate (e in particolare, per quanto qui rileva, quelli ex art. 317 bis c.c., divenuti di competenza del tribunale ordinario, a seguito della novellazione dell’art. 38 disp. att. c.c.) siano trattati «in ogni caso in
camera di consiglio», e definiti «con provvedimenti immediatamente esecutivi». Il legislatore dunque ha inteso superare il disposto dell’art. 741 c.p.c. Ciò in base ad un principio immanente
nell’ordinamento, che non può non riguardare anche i procedimenti di modifica delle condizioni di separazione o divorzio.
3
Cfr., per tutte, Cass. 17 giugno 2009, n. 14093, in Nuova giur. civ. comm., 2010, 1, p. 80; Cass. 24 gennaio 2008, n. 1584, in
Famiglia e diritto, 2008, 5, p. 511; contra, con riferimento peraltro alle sole statuizioni relative ai figli minori, Cass. 18 gennaio 2002, n. 14781, in Guida dir., 2003, 1, p. 80.
4
Cfr. Cass. 21 marzo 2011, n. 6319, in Famiglia e diritto, 2011, 11, p. 987; Cass. 19 aprile 2010, n. 9277, in Famiglia, persone
e successioni, 2010, 7, p. 508; contra Cass. 13 settembre 2012, n. 15341; Cass. 20 novembre 2010, n. 23578.
5
Cfr. App. Milano 25 febbraio 2004, in Famiglia e diritto, 2005, 5, p. 521; Trib. Catania 25 maggio 2010, in Giur. it., 2011,
5, p. 1131.
6
Cfr. nota 1.
56
FOCUS RELAZIONI FAMILIARI: VIOLAZIONE DEI PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE CIVILE. FORME DI TUTELA PENALE Gianluca Luongo
Avvocato penalista del Foro di Roma
Sommario: 1. Premessa. – 2. I diritti dei coniugi e dei minori: provvedimenti di tutela emanati dal Giudice civile e
dal Giudice per i minorenni. – 3. La tutela penale di ordine generale. – 3.1. L’art. 388 c.p. – 3.2. L’art. 570 c.p. –
4. La pratica attuazione dei provvedimenti del G.O. e del G.M.: de iure condendo.
1. Premessa Il provvedimento con il quale il Giudice è chiamato a decidere una controversia mira a ristabilire
l’equilibrio turbato dal comportamento che ha determinato la violazione di un diritto espressamente previsto come tale dalla legge.
Il potere di dirimere i conflitti e di emanare decisioni vincolanti assegnato all’Autorità Giudiziaria rappresenta una parziale cessione di sovranità che ogni consociato fa, per il solo fatto di
essere parte di uno Stato-Nazione, sin dal principio e una volta per tutte nel momento stesso in
cui viene ad esistenza; essa rappresenta il prezzo – necessario – imposto a ciascuno di noi affinché nell’ordinamento giuridico non prevalga la regola del più forte ma la regola democratica
della tutela dei diritti che ogni Nazione è disposta a riconoscere per l’ordinata e civile convivenza.
Al fine di graduare gli interventi volti a ripristinare l’equilibrio turbato, ogni ordinamento giuridico prevede una gradualità di risposte, anche e soprattutto quale diretta conseguenza della gravità della violazione commessa.
Il ricorso al Giudice civile è certamente uno dei rimedi previsti dall’ordinamento giuridico per
la tutela di posizioni giuridiche soggettive riconosciute dalla legge; naturalmente il suo intervento
può essere provocato non solo per dirimere una controversia, ma anche per ratificare un accordo intervenuto tra due persone (si pensi alla omologa del Tribunale dell’accordo tra i coniugi
nel caso di separazione personale consensuale), al quale la legge attribuisce un tale rilievo da
richiedere un controllo di legalità sul suo contenuto, senza che il Giudice possa operare alcuna
integrazione della volontà negoziale delle parti, fatta salva la facoltà del Tribunale di integrare o
sostituire d’ufficio gli accordi relativi ai figli minori 1.
1
Cass. 8 marzo 1995, n. 2700.
57
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 Nei casi più gravi l’ordinamento appresta una tutela penale mediante la repressione della condotta che integri gli estremi di una fattispecie prevista dalla legge come reato.
In un paese come l’Italia, nel quale tuttavia la presenza di norme spesso discordanti o, nella migliore delle ipotesi, scarsamente coordinate tra loro, determina un ricorso massiccio alla supplenza del potere giudiziario, sia la tutela civile che la tutela penale dei diritti sconta purtroppo
l’impatto di un numero esorbitante di domande.
Nella congestione del sistema giudiziario tale spirale determina:
– in campo penale l’attribuzione, di fatto, in capo all’Autorità Giudiziaria inquirente di una
discrezionalità nella scelta dei diritti ai quali riconoscere tutela in via prioritaria che, a Costituzione vigente, rappresenta un vulnus di non poco momento al quale è indispensabile porre
rimedio;
– in campo civile un inaccettabile ritardo nell’emanazione del provvedimento che definisce il
procedimento, tale da determinarne molto spesso la sostanziale inefficacia.
2. I diritti dei coniugi e dei minori: provvedimenti di tutela emanati dal Giudice civile e dal Giudice per i minorenni Con il matrimonio i coniugi acquistano diritti e doveri reciproci; la loro tutela è certamente rimessa alla cognizione del giudice civile, il quale emette un provvedimento la cui osservanza
può essere imposta al coniuge inadempiente in via coatta.
Nella maggior parte dei casi tuttavia, fatti salvi i rapporti tra i coniugi che attengano la sfera patrimoniale, la pratica attuazione delle decisioni assunte dall’Autorità Giudiziaria passa necessariamente attraverso la collaborazione del coniuge soccombente.
In questi casi l’ostruzionismo eventualmente opposto dal soccombente rischia di pregiudicare
le pur legittime aspettative del vincitore, il quale si trova a dover superare difficoltà a volte quasi
insormontabili.
È per questa ragione che l’ordinamento prevede forme di tutela, per così dire indiretta, dei provvedimenti giurisdizionali.
Si pensi ad esempio all’obbligo di fedeltà reciproca o all’obbligo di assistenza morale previsti
dall’art. 143 c.c.; essi non possono certo essere imposti mediante una decisione giurisdizionale,
tuttavia la loro violazione può determinare l’addebito della sentenza di separazione e, nei casi più
gravi in cui sia accertata la violazione di diritti fondamentali della persona costituzionalmente
garantiti, un obbligo risarcitorio a carico del coniuge responsabile della condotta lesiva 2.
Il mancato rispetto di un provvedimento con il quale sia stata giudizialmente accertata la violazione di un diritto espone infine l’autore della condotta ad una responsabilità finanche di tipo
penale.
Infatti l’ordinamento penale prevede forme di tutela e di repressione dei comportamenti di inosservanza agli obblighi imposti dai provvedimenti assunti dall’Autorità giudiziaria.
Sebbene il fine che si propone la norma sia quello di tutelare l’autorità e l’effettività della giustizia, l’effetto che ne consegue è quello di dissuadere l’inosservanza di un provvedimento emesso
dal giudice civile e di reprimere quei comportamenti che abbiano violato tale disposizione, approntando di fatto una tutela indiretta al diritto accertato in via primaria con il provvedimento
giurisdizionale violato dall’autore del reato.
2
Cass. 15 settembre 2011, n. 18853; Cass. 1° giugno 2012, n. 8862.
58
FOCUS In posizione per così dire intermedia tra la prima forma di tutela e i casi più gravi di responsabilità penale, il legislatore ha previsto con la l. n. 154/2001 l’introduzione di una serie di rimedi
(gli ordini di protezione e di allontanamento del coniuge o di altro convivente), che hanno dotato l’ordinamento civilistico di strumenti efficaci nella tutela diretta delle relazioni familiari.
Si tratta, come noto, dell’art. 342 bis c.c., con il quale il giudice, in caso di condotta gravemente
pregiudizievole per l’integrità fisica o morale, o per la libertà del coniuge o del convivente, può
pronunciare i provvedimenti previsti dall’art. 342 ter (ordini di protezione).
Secondo l’art. 342 ter: «Con il decreto di cui all’articolo 342 bis il giudice ordina al coniuge o convivente, che ha tenuto la condotta pregiudizievole, la cessazione della stessa condotta e dispone l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole prescrivendogli altresì, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall’istante, ed in particolare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d’origine, ovvero al domicilio
di altri prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della
coppia, salvo che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per esigenze di lavoro.
Il giudice può disporre, altresì, ove occorra l’intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro
di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e
l’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati; il pagamento periodico
di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui al primo comma, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento e prescrivendo, se
del caso, che la somma sia versata direttamente all’avente diritto dal datore di lavoro dell’obbligato,
detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante.
Con il medesimo decreto il giudice, nei casi di cui ai precedenti commi, stabilisce la durata dell’ordine
di protezione, che decorre dal giorno dell’avvenuta esecuzione dello stesso. Questa non può essere superiore a un anno e può essere prorogata, su istanza di parte, soltanto se ricorrano gravi motivi per il
tempo strettamente necessario (1).
Con il medesimo decreto il giudice determina le modalità di attuazione. Ove sorgano difficoltà o contestazioni in ordine all’esecuzione, lo stesso giudice provvede con decreto ad emanare i provvedimenti più
opportuni per l’attuazione, ivi compreso l’ausilio della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario (2)».
In tali casi l’esecuzione di un ordine di protezione non necessità della collaborazione del destinatario del provvedimento di allontanamento, poiché per sua stessa natura esso è destinato ad
essere imposto coattivamente nei confronti del destinatario, al quale non viene richiesta nessuna collaborazione ai fini della sua applicazione.
3. La tutela penale di ordine generale A differenza degli ordini di protezione il ricorso alla giustizia penale comporta una forma di tutela indiretta, in quanto anche la sentenza con la quale si accerti la violazione della norma prevista dalla legge come reato non determina, di per sé sola, il ristabilimento dell’equilibrio violato, ma punisce unicamente l’autore di quella condotta per il solo fatto di averla posta in essere.
Sotto un profilo più generale e di politica criminale è tuttavia possibile attribuire alla tutela penale una forza dissuasiva nei confronti di comportamenti contra legem, potendosi ricomprendere in questa ampia categoria naturalmente anche quelle condotte che siano pregiudizievoli per
il coniuge, il convivente o i figli.
Esaminare la portata e l’effettiva incidenza di alcune norme deputate alla protezione delle relazioni in ambito familiare non appare pertanto esercizio superfluo.
59
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 3.1. L’art. 388 c.p. Per primo deve essere esaminato l’art. 388 c.p.
Esso ha una portata generale, poiché riguarda la mancata, dolosa attuazione di un provvedimento assunto dall’Autorità giudiziaria.
Non specificamente un provvedimento in materia di protezione familiare, anche se in verità – e
lo si vedrà – il 2° comma fa espresso riferimento alle ipotesi di violazione dei provvedimenti in
materia di affidamento dei figli o di persone incapaci.
Non a caso l’applicazione pratica che se ne è avuta in questi anni ha molto spesso riguardato
proprio la violazione delle decisioni assunte dal giudice in materia di regolazione dei rapporti tra
coniugi nella fase post-matrimoniale.
L’esame della natura dei provvedimenti che può assumere il giudice civile in materia di protezione familiare è fondamentale al fine di poter verificare la possibilità di fare ricorso alla predetta tutela penale nei casi più gravi di loro violazione.
Il codice Rocco, già nella sua originaria formulazione del 1930, prevedeva una tutela generalizzata nei confronti di quei comportamenti contrari al disposto di una sentenza emanata dall’Autorità giudiziaria civile.
Si tratta della fattispecie criminosa prevista e punita per l’appunto dall’art. 388 c.p., rubricato
sotto il titolo Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice.
La sua formulazione ha subìto numerose parziali modifiche nel corso degli ultimi trent’anni, ad
opera dapprima della l. 24 novembre 1981, n. 689 (in materia di depenalizzazione), poi della
l. 24 febbraio 2006, n. 52 (legge sull’affidamento condiviso), sino alla completa riscrittura operata con la l. 15 luglio 2009, n. 94 in materia di sicurezza pubblica, con la quale è stata introdotta
l’attuale formulazione che tuttavia ricalca per la maggior parte quella già in vigore in precedenza.
Per i fini che qui più direttamente interessano, l’art. 388 c.p. è un delitto che punisce: «Chiunque, per sottrarsi all’adempimento degli obblighi nascenti da un provvedimento dell’autorità giudiziaria, o dei quali è in corso l’accertamento dinanzi all’autorità giudiziaria stessa, compie, sui propri
o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti, o commette allo stesso scopo altri fatti fraudolenti, è punito, qualora non ottemperi alla ingiunzione di eseguire il provvedimento, con la reclusione fino a tre
anni o con la multa da euro 103 a euro 1.032.
2. La stessa pena si applica a chi elude l’esecuzione di un provvedimento del giudice civile, ovvero
amministrativo o contabile, che concerna l’affidamento di minori o di altre persone incapaci, ovvero
prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito» 3.
3
Si riporta in nota la completa formulazione dell’art. 388 c.p.: «Chiunque, per sottrarsi all’adempimento degli obblighi nascenti da un provvedimento dell’autorità giudiziaria, o dei quali è in corso l’accertamento dinanzi all’autorità giudiziaria stessa, compie, sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti, o commette allo stesso scopo altri fatti fraudolenti, è punito, qualora non
ottemperi all’ingiunzione di eseguire il provvedimento, con la reclusione fino a tre anni o con la multa da euro 103 a euro 1.032.
La stessa pena si applica a chi elude l’esecuzione di un provvedimento del giudice civile, ovvero amministrativo o contabile, che concerna
l’affidamento di minori o di altre persone incapaci, ovvero prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito.
Chiunque sottrae, sopprime, distrugge, disperde o deteriora una cosa di sua proprietà sottoposta a pignoramento ovvero a sequestro giudiziario o conservativo è punito con la reclusione fino a un anno e con la multa fino a euro 309.
Si applicano la reclusione da due mesi a due anni e la multa da euro 30 a euro 309 se il fatto è commesso dal proprietario su una
cosa affidata alla sua custodia, e la reclusione da quattro mesi a tre anni e la multa da euro 51 a euro 516 se il fatto è commesso
dal custode al solo scopo di favorire il proprietario della cosa.
Il custode di una cosa sottoposta a pignoramento ovvero a sequestro giudiziario o conservativo che indebitamente rifiuta, omette o
ritarda un atto dell’ufficio è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 516.
La pena di cui al quinto comma si applica al debitore o all’amministratore, direttore generale o liquidatore della società debitrice
che, invitato dall’ufficiale giudiziario a indicare le cose o i crediti pignorabili, omette di rispondere nel termine di quindici giorni o
effettua una falsa dichiarazione.
Il colpevole è punito a querela della persona offesa».
60
FOCUS Il 6° comma chiarisce trattarsi di una serie di delitti perseguibili a querela della persona offesa,
per i quali è certamente ammesso il tentativo e può aversi il concorso di persone nel reato qualora la pratica attuazione di un provvedimento giurisdizionale sia ostacolato dall’opera di più
soggetti.
Per quanto concerne il termine per proporre querela esso andrà esaminato caso per caso. Laddove il provvedimento la cui autorità è stata disattesa presupponga la collaborazione del destinatario per la sua attuazione, il termine ricomincerà a decorrere ogniqualvolta l’agente ponga in
essere un comportamento che ne impedisca o pregiudichi l’efficacia, fatta salva naturalmente in
caso di giudizio l’applicazione dell’istituto della continuazione ai sensi dell’art. 81 c.p. qualora
sia accertato che il soggetto agente abbia ripetutamente violato il precetto normativo, in tempi
diversi o con più condotte, attraverso la violazione del medesimo o di diversi provvedimenti giurisdizionali afferenti lo stesso rapporto nell’esecuzione di un medesimo disegno criminoso.
Tale fattispecie penale ha quale bene giuridico tutelato – secondo la più risalente giurisprudenza 4 – quello riguardante l’autorità delle decisioni giudiziarie assunte; secondo altro indirizzo esso
atterrebbe alla tutela dell’esigenza costituzionale di effettività della giurisdizione 5.
Come tale ne è certamente ammesso il concorso con altre norme, quali ad esempio l’art. 570 c.p.,
il cui bene giuridico tutelato è quello all’assistenza familiare quale strumento (secondo un’indicazione risalente alle origini del codice Rocco) «di rafforzamento e di salvaguardia dell’istituto
etico-giuridico della famiglia» 6.
La formulazione dell’art. 388 c.p. ha, come detto, subìto tre parziali riscritture, che tuttavia non
ne hanno stravolto l’impianto e le caratteristiche originarie; a partire dal fatto che essa è una
norma penale in bianco.
Le norme penali in bianco sono tutte quelle norme che attribuiscono un rilievo penale a condotte assunte in violazione non tanto – o meglio non solo e non in via diretta – della norma
stessa (nel caso di specie l’art. 388 c.p.), quanto di un precetto da individuare caso per caso; la
condotta in oggetto risulterà pertanto violata, nel caso di specie, tutte quelle volte in cui sarà
ravvisata la violazione dolosa di un provvedimento giudiziario specificamente emanato e facente stato nei confronti del soggetto ritenuto responsabile della condotta.
Inutile dilungarsi sulla conformità di siffatte norme con l’ordinamento costituzionale vigente,
ripetutamente riconosciuta dalla Consulta; in tale ambito appare sufficiente richiamare quanto
affermato dal Giudice delle leggi nelle note sentt. n. 282/1990, n. 333/1991 e n. 295/2002, con
le quali in ordine alla delimitazione dei rapporti tra legge penale e fonti subordinate alla medesima si rileva essere giurisprudenza consolidata «il ritenere che il principio di legalità in materia
penale è soddisfatto, sotto il profilo della riserva di legge, allorquando la legge determina con sufficiente specificazione il fatto cui è riferita la sanzione penale. In corrispondenza della ratio garantista
della riserva è infatti necessario che la legge consenta di distinguere tra la sfera del lecito e la sfera dell’illecito, fornendo a tal fine un’indicazione normativa sufficiente ad orientare la condotta dei consociati» (cfr. anche sentenza Corte cost. n. 364/1988).
Tornando all’esame dell’art. 388 c.p., appare importante richiamare una pronuncia della Suprema Corte di Cassazione in materia di conoscibilità del provvedimento giudiziario da parte
del soggetto responsabile della condotta contraria alla sua autorità.
Con la sent. 9 gennaio 2004, n. 314 infatti la Sezione VI penale della Corte di Cassazione ha
sancito un importante principio di diritto, stabilendo che il reato di mancata esecuzione dolosa
4
Cass. pen. 27 febbraio 1986.
Cass., S.U., n. 36692/2007.
6
Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo del codice penale.
5
61
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 di un provvedimento del giudice postula necessariamente che esso sia stato previamente portato a conoscenza del destinatario secondo le regole processuali che disciplinano la conoscibilità
degli atti.
Secondo i giudici di legittimità non può avere alcun rilievo il fatto che il destinatario ne abbia
avuto altrimenti cognizione, poiché la responsabilità della sua violazione può essere accollata al
soggetto responsabile solo laddove le forme di conoscibilità previste dal codice di procedura civile siano state integralmente e puntualmente rispettate 7.
Con riferimento alla natura dei provvedimenti giudiziari sussumibili nel dettato normativo è
evidente lo sforzo compiuto dal legislatore del 2009 di adeguare la lettera della norma all’interpretazione ormai di gran lunga prevalente nella giurisprudenza, sia di merito che di legittimità,
che aveva di fatto già ampliato la platea dei «provvedimenti dell’autorità giudiziaria» la cui inosservanza può essere sanzionata, nei casi più gravi, attraverso il rimedio previsto dall’art. 388 c.p.,
travalicando il concetto formale di “sentenza”.
Non a caso la modifica legislativa introdotta ha riguardato proprio la sostituzione del concetto
di “provvedimento dell’autorità giudiziaria” al concetto di “sentenza di condanna”, che in origine
limitava il campo applicativo della norma al mancato rispetto di quei provvedimenti resi in forma di sentenza, o comunque emessi in seguito ad un procedimento di plena cognitio, con la conseguenza di escludere tutti quelli che non fossero stati emanati all’esito di una completa attività
istruttoria.
Significativo sotto tale profilo il balzo in avanti compiuto dalla Corte di Cassazione nel 2004,
quando ha ritenuto applicabile la suddetta fattispecie di reato anche alla mancata esecuzione
dolosa di un lodo arbitrale 8.
Più di recente piena conferma all’operatività della norma, anche con riferimento alla inosservanza di provvedimenti emessi dal Tribunale per i Minorenni, lo si rinviene in una sentenza con
la quale la Corte di Cassazione ha confermato la condanna inflitta in secondo grado di giudizio
dalla Corte d’Appello di Trieste nei confronti del genitore affidatario della minore, responsabile di non aver evitato che il suo astio verso l’ex coniuge si riverberasse negativamente sul rapporto
di questo con la figlia, tanto da aver determinato in costei, come accertato dai servizi sociali, un
forte disagio sino al punto da indurla al rifiuto dell’altra figura genitoriale.
In tale circostanza anche l’intervento del Tribunale per i Minorenni a tutela della minore non
aveva sortito alcun effetto, poiché il provvedimento emanato era stato ancora una volta eluso
con una condotta consapevolmente preordinata alla sua inosservanza 9.
Per quel che concerne l’elemento psicologico di tale reato si può correttamente affermare che
sia sufficiente il semplice dolo generico, ovvero la coscienza e la volontà di disobbedire al provvedimento del giudice 10.
Il reato di cui al 2° comma dell’art. 388 c.p. è istantaneo e si consuma nel momento in cui l’agente, dolosamente, non ottemperi ad un provvedimento del giudice civile emesso per la finalità indicata in tale norma, sia tenendo un comportamento positivo (consistente nel compiere atti
che gli siano vietati), sia tenendo un comportamento omissivo (ovvero astenendosi dal compiere
atti che gli siano stati imposti dal giudice).
7
In questo caso la Suprema Corte ha escluso il reato sul rilievo che non risultava ritualmente comunicato il provvedimento
cautelare di natura possessoria emesso fuori udienza dal giudice civile, ritenendo irrilevante la circostanza che l’imputato
aveva ricevuto comunque notizia della decisione avendo preso visione di copia del provvedimento spedito in forma esecutiva ed avendo ricevuto lettura dello stesso da parte della polizia giudiziaria.
8
Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 230606/2004.
9
Cass. pen., Sez. VI, sent. 29 settembre 2011, n. 35513.
10
Ancora una vota Cass. pen., Sez. VI, sent. 29 settembre 2011, n. 35513.
62
FOCUS Proprio in quest’ultimo caso la Corte di Cassazione ha ritenuto perseguibile penalmente chi
elude il provvedimento del giudice che attribuisce all’ex coniuge il potere di esercitare il diritto
di visita nei confronti delle figlie.
Nel caso de quo il comportamento “omissivo” posto in essere dall’ex coniuge affidatario dei figli
minori che non li educa e non li sensibilizza ad avere un rapporto con l’altro genitore può costituire l’“elusione” dolosa di un provvedimento del giudice.
La Suprema Corte fornisce in tal caso una interpretazione estensiva dell’art. 388 c.p., ricomprendendovi anche il comportamento del genitore separato che, non attivandosi per far sì che i
figli minori vedano l’altro coniuge secondo quanto stabilito dal giudice, si riflette negativamente sulla psicologia degli stessi 11.
Le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione hanno posto fine nel 2007 al dibattito concernente la portata della condotta elusiva 12.
Secondo la predetta sentenza: «Il mero rifiuto di ottemperare ai provvedimenti giudiziali previsti
dall’art. 388 c.p., comma II, non costituisce comportamento elusivo penalmente rilevante, a meno che
la natura personale delle prestazioni imposte ovvero la natura interdittiva dello stesso provvedimento
esigano per l’esecuzione il contributo dell’obbligato».
Prima di tale arresto giurisprudenziale si registravano sostanzialmente due diversi orientamenti
della Suprema Corte sul concetto di “elusione” del provvedimento emesso dall’Autorità giudiziaria: secondo l’orientamento più risalente, con il termine elusione doveva «identificarsi qualunque mero comportamento attivo o negativo – anche privo di scaltrezza – diretto semplicemente
ad ostacolare l’esecuzione del provvedimento del Giudice» 13; al contrario un orientamento più restrittivo della portata della norma riteneva che «ai fini della sussistenza del reato di elusione di un
provvedimento del giudice non sarebbe sufficiente un mero comportamento omissivo, essendo necessario un comportamento attivo ovvero commissivo del soggetto, diretto a frustrare o quanto meno a
rendere difficile l’esecuzione del provvedimento giudiziale, ciò perché la semplice inattività viene perseguita dalla legge con sanzioni di carattere civilistico appositamente predisposte» 14.
Da ultimo le Sezioni Unite, se da un lato hanno messo un punto individuando i limiti del concetto di elusione unicamente sulla base della natura dell’obbligo imposto con il provvedimento
giudiziale cui l’autore del reato non ha ottemperato, dall’altro hanno invero riaperto i termini di
una diatriba che sembrava ormai superata, che atteneva all’esatta individuazione del bene giuridico tutelato dall’art. 388 c.p.
Con la suddetta sentenza infatti la Suprema Corte, giungendo ad annullare senza rinvio la sentenza del giudice di merito che aveva condannato l’imputato sull’assunto che il mero rifiuto di
ottemperare al provvedimento giurisdizionale rilevasse in sé, per il sol fatto di aver pregiudicato
l’autorità dell’esecuzione di un provvedimento di natura giurisdizionale, ha implicitamente affermato che il bene giuridico tutelato è non tanto (o meglio non solo) l’autorità di una decisione giudiziaria, quanto la necessità di tutelare l’effettiva esecuzione o eseguibilità di quel provvedimento, assumendo così rilevanza solo quei comportamenti che, «tenuto conto anche della natura degli obblighi imposti» rappresentino un ostacolo all’effettività della tutela giurisdizionale 15.
11
Cass. pen., Sez. VI, sent. 9 marzo 2000, n. 2925.
Cass. pen., S.U., sent. n. 36692/2007.
13
Cass. pen., sent. 4 giugno 1990.
14
Cass. pen., sent. 19 marzo 1991.
15
La questione atteneva ad un procedimento in materia possessoria, mentre invece come già evidenziato resta fermo l’assunto che per quanto concerne la questione di cui al 2° comma dell’art. 388 c.p. è sufficiente la mera condotta omissiva per
integrare la fattispecie punitiva, vertendosi in materia nella quale è indispensabile la collaborazione del destinatario del
provvedimento.
12
63
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 Tale protezione vale per tutti i provvedimenti relativi all’affidamento di minori, compresi i provvedimenti interinali, il provvedimento con il quale il Presidente del Tribunale omologa l’accordo intervenuto tra i coniugi ai sensi dell’art. 711 c.p.c. e, come già evidenziato, i provvedimenti
del Tribunale per i Minorenni (provvedimenti da pochi giorni di competenza del Tribunale
ordinario ai sensi della nuova legge sulla parità dei figli naturali e legittimi), compreso il provvedimento che autorizzi un determinato soggetto alla frequentazione con il minore, il cui impedimento – integrato anche solo sotto il profilo psicologico di aver precluso al minore, con il
proprio comportamento, che egli addivenisse ad un atteggiamento positivo nei confronti della
frequentazione con il genitore non affidatario – rileva ai fini della norma al nostro esame.
3.2. L’art. 570 c.p. Ai fini che interessano il presente contributo non vi è affatto coincidenza tra la norma penale in
questione ed il contenuto delle norme civilistiche poste a tutela delle obbligazioni alimentari.
La scelta del legislatore è infatti, sin dalle origini, stata quella di disciplinare autonomamente
l’ambito di intervento di tale norma, anzitutto sotto il profilo del significato da dare all’espressione “mezzi di sussistenza”, che come riconosciuto dalla giurisprudenza consolidata in materia
è indipendente dalla valutazione effettuata dal giudice civile in relazione all’obbligo alimentare
e a quello di mantenimento 16.
Secondo una risalente opinione (Leone, Delogu), l’art. 570 c.p. avrebbe un carattere dualistico,
in quanto deputato – al 1° comma – alla tutela degli obblighi di assistenza morale inerenti la
potestà genitoriale e la qualità di coniuge, mentre al 2° comma alla tutela degli obblighi di assistenza economica.
Più di recente è stato invece ribadito il carattere unitario della natura della tutela apprestata dalla norma, non potendosi scindere la tutela morale da quella giuridica; tuttavia è indubitabile
che essa si presenti come una norma a più fattispecie, con autorevole dottrina (Antolisei) che
ha escluso che le ipotesi di reato previste al 2° comma abbiano natura circostanziale rispetto alla fattispecie del 1° comma. In termini applicativi le differenze non sono di poco conto sotto il
profilo sanzionatorio.
Ne consegue infatti che la violazione di distinti precetti individuati dalla norma da luogo ad una
pluralità di violazioni, da cui deriva l’irrogazione di tante sanzioni quante saranno state le violazioni (salva l’applicazione in sede giudiziale dell’istituto della continuazione ex art. 81 c.p.).
Nel 2007 la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, esprimendosi su tale dibattito, ha stabilito in
relazione alle ipotesi di cui al 2° comma che «ove più siano le omissioni (per es. nel caso in cui l’agente fosse tenuto a separati versamenti) deve ritenersi, sia pure con identiche conseguenze sul trattamento sanzionatorio, l’esistenza del reato continuato di cui al primo cpv. dell’art. 81 in esame e non
il concorso formale. È dunque corretta la soluzione dei giudici di merito che hanno ritenuto l’esistenza del concorso formale perché l’agente, con un’unica omissione, ha commesso più violazioni della
medesima disposizione di legge (art. 81 c.p., comma 1)» 17.
L’elemento soggettivo, rinvenibile nel dolo, consiste nella coscienza e volontà di sottrarsi agli
obblighi di assistenza familiare con il compimento di uno dei fatti indicati dalla norma.
Il delitto in esame è reato permanente in quanto lo stato di consumazione perdura per tutto il
tempo in cui si manifesta la condotta omissiva e viene a cessare solo per effetto di una contraria
iniziativa dell’agente.
16
17
Cass. pen., sent. 21 marzo 1996, n. 5523, in Cass. pen., 1997, p. 1024.
Cass. pen., S.U., 20 dicembre 2007, n. 8413.
64
FOCUS È configurabile il concorso tra l’art. 570 e l’art. 572 c.p., allorché l’agente renda intollerabile la
vita al punto da costringere le vittime ad interrompere la convivenza e stabilirsi al di fuori della
residenza familiare, e faccia mancare agli stessi i mezzi di sussistenza riducendoli in stato di completa povertà, per averli abbandonati.
Per “mezzi di sussistenza”, pacificamente, la Cassazione intende quanto è necessario per la sopravvivenza dei familiari dell’obbligato nel momento storico in cui il fatto avviene (cfr. Cass.
pen., Sez. VI, n. 1172/1999, Cass. pen., Sez. VI, n. 3450/1998).
Perché possa parlarsi di inottemperanza al dovere di non far mancare i mezzi di sussistenza, occorre poi che, da un lato, sussista lo “stato di bisogno” dell’avente diritto; e, dall’altro, la “concreta capacità economica” del soggetto obbligato.
Per “stato di bisogno” deve intendersi la mancanza di risorse economiche proprie da parte del
soggetto avente diritto; ma tale condizione non è esclusa dal fatto che quest’ultimo esegua lavori retribuiti in modo modesto, saltuariamente, e neppure dal fatto che egli si sia poi determinato a trovare un lavoro per sopperire alla propria condizione di indigenza, né che altri soggetti
contribuiscano finanziariamente in suo favore: anzi, tali circostanze possono offrire un elemento di valutazione deponente per l’effettività dello stato di bisogno indotto dall’inadempienza
dell’altro coniuge.
Quanto alla “capacità economica” dell’obbligato, essa può definirsi come la disponibilità di introiti sufficienti a soddisfare le esigenze minime di vita degli aventi diritto; la loro mancanza,
perché possa escludersi la responsabilità del soggetto tenuto alla prestazione, deve essere incolpevole e deve, altresì, estendersi all’intero periodo in cui si sono verificate le inadempienze
(cfr. Cass. pen. n. 7806/1998). Né il delitto è escluso dalla circostanza che il reo sia disoccupato, a meno che la disoccupazione sia incolpevole (cfr. Cass. pen. n. 27245/2002), e comunque
in tali casi l’onere della prova subisce una sorta di inversione, con l’imputato chiamato a dare
dimostrazione di essere nell’impossibilità di osservare gli obblighi concernenti la fornitura dei
mezzi di sussistenza 18.
Particolarmente esigente è la posizione della giurisprudenza quando il soggetto avente diritto è
il figlio minore: infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità e con riferimento alla capacità
economica dell’obbligato, l’impossibilità assoluta della somministrazione dei mezzi di sussistenza esclude il reato di cui all’art. 570, 2° comma, n. 2, c.p. solo quando sia incolpevole, giacché l’obbligato è tenuto ad adoperarsi per adempiere la sua prestazione.
Quanto invece allo stato di bisogno del minore avente diritto, la giurisprudenza della Suprema
Corte ha chiarito che la mancata corresponsione dell’assegno per il mantenimento del figlio
minore stabilito in sede di separazione dei coniugi integra la fattispecie di cui all’art. 570 c.p., in
base alla presunzione semplice che il minore sia incapace di produrre reddito proprio, presunzione suscettibile di essere superata laddove il minore disponga di redditi patrimoniali sempre
che non si tratti di retribuzione per attività lavorativa, la quale, anzi, costituisce prova dello stato di bisogno (cfr. Cass. pen., Sez. VI, n. 26725/2003).
È poi noto che, quando la condotta violatrice dell’art. 570 c.p. si esplichi nell’omissione da parte del genitore non affidatario dei mezzi di sussistenza ai figli minori o inabili al lavoro, il reato
sussiste anche se l’altro genitore provvede in via sussidiaria a corrispondere ai bisogni della prole.
Infatti l’eventuale convincimento del genitore inadempiente di non essere tenuto, in una tale
18
«In particolare la lamentata asserita mancanza di prova dell’elemento soggettivo del reato non ha ragion d’essere, sol che si rilevi che la sentenza di appello chiarisce idoneamente come non siano emersi dati di sorta asseveranti alcuna reale impossibilità ad
adempiere da parte dell’imputato, cui specificamente incombeva di fornire dimostrazione di segno contrario» (Cass. pen., Sez.
VI, 15 febbraio 2005, n. 10085).
65
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 situazione, all’assolvimento del suo primario dovere, non integra un’ipotesi di ignoranza scusabile di una norma, la quale inoltre corrisponde ad un’esigenza morale universalmente avvertita
(cfr. Cass. pen., Sez. VI, n. 17692/2004).
Va aggiunto che il delitto in esame, perseguibile normalmente a querela della persona offesa, è
invece perseguibile d’ufficio quando la condotta costituita dal far mancare i mezzi di sussistenza è posta in essere in danno dei figli minori.
4. La pratica attuazione dei provvedimenti del G.O. e del G.M.: de iure condendo Purtroppo le cronache degli ultimi mesi del 2012 hanno raccontato la triste vicenda dell’ennesimo figlio conteso.
È il caso del minore di Cittadella, in provincia di Padova, prelevato a forza dal padre – coadiuvato dalle forze di polizia e dai servizi sociali – all’interno dell’istituto scolastico che frequenta,
in esecuzione di un provvedimento della Corte d’Appello.
La vicenda, per la crudezza delle immagini riprese da uno dei familiari del minore, ha destato
profondissima e motivata angoscia; poiché essa certamente non rappresenta un evento isolato,
è necessario riflettere sull’adeguatezza e sull’efficacia dei rimedi previsti in casi analoghi dal nostro ordinamento, nella convinzione che in casi del genere si rischia di provocare danni ancora
maggiori di quelli che si vorrebbero evitare.
Posto che gli ordini di protezione, ai sensi degli artt. 342 bis e 342 ter c.c., non sono applicabili
al caso di specie in quanto destinati unicamente alla tutela reciproca dei coniugi o dei conviventi e non a quella del figlio minore nei confronti del genitore che assuma una condotta riconosciuta come contraria ai suoi interessi, o addirittura dannosa per il suo sviluppo psico-fisico, il
problema del caso di Cittadella non è tanto quello di introdurre nuovi istituti di diritto sostanziale civile, posto che quelli esistenti appaiono in verità adeguati, quanto piuttosto far sì che i
relativi procedimenti si svolgano nel più breve tempo possibile e, una volta conclusa la fase cognitiva ed emanata la decisione, siano previsti strumenti adeguati per la loro attuazione.
Di quella vicenda sappiamo dai mezzi di informazione che il prelievo coatto del minore presso
l’istituto scolastico è stato in realtà l’epilogo di una serie di tentativi posti in essere in precedenza
dal padre, purtroppo non andati a buon fine a causa dell’ostruzionismo della madre e dei parenti.
Quell’epilogo così traumatico per il minore è la conseguenza della inadeguatezza degli strumenti
previsti in tali casi dall’ordinamento e della insufficienza delle risorse organizzative a disposizione delle diverse autorità, giudiziaria, di pubblica sicurezza e dei servizi sociali, chiamate a dare pratica attuazione alle decisioni in materia familiare.
Pur con la difficoltà di esaminare un caso del quale si conoscono solo i contorni generali per
averli appresi dai mezzi di informazione e pur nella convinzione che il ricorso alla tutela penale
debba sempre essere considerato l’estrema ratio, soprattutto perché si rischia ancora una volta
di provocare un danno al minore anziché punire coloro che sono responsabili delle sue difficoltà, in casi analoghi a quello al nostro esame esso appare per molti versi ineludibile.
Nel momento stesso in cui la condotta di un genitore sia grave al punto da indurre un giudice
ad assumere un provvedimento di decadenza della potestà, o comunque l’allontanamento del
minore dal genitore affidatario, diviene ineludibile considerare l’esecuzione pratica di quella decisione come prioritaria, al fine di tutelare l’integrità psico-fisica del minore.
Ciò vuol dire utilizzare tutti gli strumenti che l’ordinamento prevede per imporre, con urgenza
e determinazione, quel provvedimento e porsi in prospettiva la domanda sull’adeguatezza di
quelli esistenti.
Non a caso il legislatore del 1930, nel redigere l’art. 388 c.p., si era già dimostrato pienamente
66
FOCUS consapevole del fatto che la materia dell’affidamento necessita di una tutela speciale, e per certi
versi rafforzata, tanto da aver previsto un’autonoma fattispecie che è quella contenuta nel 2°
comma del suddetto articolo, di cui si è già dibattuto.
Ragionando de iure condendo, ad avviso dell’autore è necessario prevedere la facoltà per l’Autorità Giudiziaria inquirente di adottare nei confronti del genitore responsabile di aver gravemente e ripetutamente ostacolato l’esecuzione di un provvedimento assunto a tutela della salute del figlio minore una misura di custodia cautelare, che consenta di evitare il ripetersi di episodi come quello che ha visto, suo malgrado, protagonista il bambino di Cittadella di Padova.
Ora come ora infatti l’art. 388 c.p. non consente né il fermo dell’indiziato di delitto né l’applicazione di una misura cautelare personale, neppure nei casi di flagranza più gravi.
Vietata dai limiti edittali è anche la facoltà per la magistratura inquirente di adottare una delle
misure coercitive di cui al Capo II, Titolo I del Libro IV, c.p.p. in materia di protezione familiare.
Infatti l’art. 282 bis (Allontanamento dalla casa familiare), anch’esso introdotto in parallelo con
gli ordini di protezione familiare contenuti nel codice civile in occasione dell’approvazione della l. n. 154/2001, fatta salva la contestazione di uno dei reati previsti e puniti dagli artt. 570, 571,
600 bis, 600 ter, 600 quater, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies e 609 octies, può essere
applicato solo nel caso in cui si proceda per un reato che prevede una pena superiore nel massimo a tre anni.
Posto che l’art. 388 c.p. prevede una pena alla reclusione pari nel massimo a tre anni è evidente
che tale facoltà non rientra negli strumenti utilizzabili in caso di contestazione di una simile condotta di reato.
Se si considera infine che la durata media di un processo penale si attesta in Italia sui sei anni, si
comprende agevolmente come anche l’effetto deterrente dell’apertura di un procedimento penale sia pressoché nullo; senza contare che anche l’effetto repressivo in caso di pronunzia di
una sentenza di condanna è fortemente ridotto in caso di incensuratezza dell’imputato, il quale
giovandosi dei benefici previsti dalla legge non correrebbe alcun rischio di essere ristretto.
A fronte di tali incertezze è invece relativamente certo che i danni all’integrità psico-fisica del
minore sarebbero nel frattempo divenuti definitivi, senza che l’ordinamento abbia avuto la forza e l’autorevolezza per impedirli.
Con tutte le cautele del caso è allora certamente utile aprire una discussione sulla necessità di
introdurre una serie di innovazioni, prevedendo l’adozione di strumenti cautelari di natura penale che siano in grado di evitare situazioni come quella che ha dovuto subire il bambino di Civitella di Padova, formando operatori ad hoc e dotandoli delle necessarie risorse per dirimere i
conflitti familiari e tutelare i minori vittime di essi.
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AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 IL TRIBUNALE DELLA FAMIGLIA O LE SEZIONI SPECIALIZZATE PRESSO I 1
TRIBUNALI ORDINARI? STATO DELL’ARTE E PROSPETTIVE Giulia Sarnari
Avvocato del Foro di Roma
A seguito dell’assemblea nazionale dell’AIAF, tenutasi a Milano il 17-18-19 maggio 2012 (i cui
lavori sono pubblicati nel numero straordinario 2012 di questa rivista), l’AIAF Veneto – Sezione territoriale di Vicenza – con il patrocinio del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Vicenza, in coordinamento con l’AIAF Nazionale, il 26 ottobre 2012 ha nuovamente affrontato il
tema della riforma ordinamentale e procedimentale del diritto di famiglia, ciò in occasione di
incontro organizzato a Vicenza presso Palazzo Gualdo, dal titolo Il Tribunale della famiglia o le
sezioni specializzate presso i Tribunali Ordinari? Stato dell’arte e prospettive.
A tale Convegno l’AIAF ha invitato la Senatrice Avv. Elisabetta Alberti Casellati ad illustrare il
suo progetto di l. delega n. 3323, che la Commissione Giustizia del Senato, in data 12 giugno
2012, ha deliberato di adottare come testo base e per il quale l’associazione, con Le Osservazioni dell’AIAF in merito alla Riforma Ordinamentale del Giudice delle Relazioni Familiari e ai Disegni di Legge n. 3040, 3323, 3266, 2844, 3276, 2252 e 2441 all’esame della Commissione Giustizia
del Senato, il 25 giugno 2012 sul proprio sito web, aveva già espresso condivisione, prevedendo,
detto progetto, la istituzione di sezioni specializzate presso la sede di ogni Tribunale e Corte
d’Appello, invece della istituzione del Tribunale della Famiglia, di cui in altri progetti di riforma, invece, si va parlando da tempo.
Il progetto di legge è stato analizzato e discusso dalla Senatrice Casellati a confronto con il prof.
Ferruccio Tommaseo, il quale si è occupato di affrontare alcune criticità che riguardano la parte ordinamentale della riforma e con il prof. Andrea Graziosi, il quale ha dedicato ampio spazio
agli aspetti più strettamente tecnico-processuali del progetto, ciò con il pregevole coordinamento del dott. Paolo Corder, il quale, come è noto, da tempo si occupa di queste tematiche e
che ha suscitato e indirizzato il confronto in maniera organica e costruttiva, facendo emergere
continui spunti di riflessione.
Il dott. Corder, in premessa, ha introdotto il tema, ricordando che: «Da decenni si discute della
necessità di provvedere ad una riforma organica della giustizia minorile e per la famiglia. Si sono alternati numerosi disegni di legge, di vario stampo, che mai hanno visto la luce. Attualmente giacciono
in Parlamento vari disegni di legge e tra questi i più significativi sono quelli, rispettivamente, a firma
della senatrice Casellati più altri e a firma della senatrice Serafini più altri. Tutti sembrano condividere l’urgenza di provvedere finalmente ad un riassetto del sistema, soprattutto per porre fine alla
non più sostenibile differenza tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori del matrimonio. Come è
noto, ancora oggi, nell’anno 2012, in caso di crisi del rapporto tra i genitori, i primi andranno davanti
1
Resoconto del Convegno organizzato dall’AIAF Veneto, Sezione territoriale di Vicenza, 26 ottobre 2012.
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FOCUS al giudice ordinario del Tribunale che seguirà il rito della separazione e divorzio, mentre i secondi si
ritroveranno dinnanzi al Tribunale distrettuale per i minorenni, con un rito del tutto diverso e con la
presenza di giudici laici all’interno del Collegio. Una differenza che non ha più alcun senso, sol che si
pensi che oggi la famiglia non è più vista come centro di imputazione di diritti e interessi superindividuali, ma come luogo di espressione dei diritti soggettivi individuali dei suoi membri e sol che ponga
mente al fatto che oggi non vi è un solo modello di famiglia ma vi è un variegato arcipelago di famiglie (omissis). Si contrappongono diverse filosofie e differenti approcci culturali. E tale dialettica trova espressione in scelte che ritroviamo nei vari disegni di legge. E allora si discute se sia opportuno
creare una sezione specializzata per la famiglia all’interno di ciascun Tribunale ordinario ovvero se
sia più efficace un autonomo Tribunale per la famiglia. In discussione è la posizione dei giudici laici
presso gli attuali Tribunale per i minorenni. Oggetto di profonda riflessione è la scelta del rito o dei
riti applicabili dinanzi la sezione specializzata per la famiglia o il Tribunale per la famiglia: il rito
della separazione e divorzio, il rito sommario o quello camerale? Ancora, le nuove sezioni specializzate dovranno o meno occuparsi anche della materia penale? E dovranno assommare tutte le attuali
competenze del giudice ordinario, del giudice tutelare e del tribunale per i minorenni in materia di
persona e di relazioni famigliari?».
Non ha mancato di offrire un pregevole contributo anche il Presidente del Tribunale di Vicenza, dott. Oreste Carbone, e la posizione dell’AIAF, come emersa in maniera condivisa dall’assemblea di Milano di maggio 2012, è stata esposta dall’Avv. Gabriella de Strobel e dall’Avv.
Giulia Sarnari.
***
Il prof. Ferruccio Tommaseo ha fatto pervenire un estratto della sua relazione, che di seguito si
riporta, ed è importante porre in evidenza che, nonostante siano diverse le criticità dallo stesso
evidenziate, il prof. Tommaseo ha espresso chiaramente condivisione per l’istituzione delle sezioni specializzate presso ogni Tribunale e Corte d’Appello: «Il disegno di legge volto a istituire
presso i tribunali ordinari sezioni specializzate per la persona e la famiglia, presentato lo scorso 29
maggio dalla senatrice Casellati, è il contributo più significativo dato dalla XVI legislatura al tentativo di istituire un nuovo organo giudiziario che riesca non soltanto a dare effettiva tutela all’interesse
superiore del minore, ma anche a rendere più adeguato l’intervento della giurisdizione civile nel delicato settore dello stato delle persone e dei rapporti familiari.
Non mi soffermo sull’opportunità di una scelta che vuole conservare il tribunale per i minorenni nella
sua attuale composizione riservandogli le competenze in materia penale: una scelta che secondo certi
ambienti spezzerebbe in modo inopportuno l’unità della giurisdizione in materia minorile. Si tratta
di affidare al nuovo organo di giustizia una competenza molto diversificata riguardante lo stato giuridico delle persone, la tutela dei minori nell’ambito dei rapporti familiari e i giudizi innescati dalla
crisi della famiglia. Un compito difficile poiché si tratta di disciplinare l’esercizio della giurisdizione
là dove l’applicazione del diritto oggettivo si intreccia con valutazioni metagiuridiche della realtà
familiare e di evitare che l’intervento giudiziale rischi di aggravare invece di risolvere le situazioni patologiche che si verificano nei rapporti familiari.
È da decenni che si parla di una riforma della giustizia in materia familiare e minorile e sono numerosi i progetti elaborati in sede parlamentare a partire almeno dagli anni Settanta, tutti decaduti per
fine legislatura o respinti in sede parlamentare: così è stato per il disegno di legge governativo presentato nel 2002 che prevedeva l’istituzione di sezioni specializzate per la famiglia e per i minori, ma
respinto dalla Camera accogliendo una pregiudiziale di incostituzionalità ravvisata nell’aver previsto una composizione soltanto togata dell’organo, reputata incompatibile con quella specializzazione
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AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 richiesta per dare effettiva tutela alla famiglia e ai minori. Una censura questa niente affatto convincente poiché la Costituzione, nello stabilire che presso gli organi giudiziari ordinari possono istituirsi
“sezioni specializzate per determinate materie anche con la partecipazione di cittadini idonei
estranei alla magistratura”, si limita a considerare la presenza di giudici non togati soltanto una
possibile opzione offerta al legislatore, un’opzione recentemente rifiutata nell’istituire le sezioni specializzate in materia di impresa.
Una lettura questa della norma costituzionale confermata nel 2003 anche dal giudice delle leggi
quando, nell’affermare che i tribunali per i minorenni fondano attualmente la loro specializzazione
sull’apporto dei giudici laici, non ha affatto escluso che la specializzazione dell’organo possa trovare
la propria fonte anche soltanto in una specifica preparazione culturale del giudicante e quindi, per
riprendere quanto scrive Proto Pisani, in una sua “specializzazione soggettiva” eventualmente rafforzata dall’apporto dato da esperti della condizione minorile.
Il disegno di legge Casellati si fa carico di questa esigenza non soltanto con il prevedere che l’istituenda sezione sia formata dando preferenza “ai magistrati che per almeno due anni abbiano svolto funzioni di giudice nei procedimenti in materia di famiglia o quelle di giudice tutelare o di giudice dei
tribunali per i minorenni”, ma anche affidando alla Scuola superiore della magistratura la loro formazione specialistica e il loro aggiornamento. La specializzazione riguarda anche gli uffici di procura
presso i quali verrebbe istituita un “gruppo di lavoro specializzato” che si avvale dell’apporto dei servizi sociali o di altri organismi operanti nel settore del disagio minorile e familiare.
Ancora, ed è questa una significativa innovazione voluta dal disegno di legge, è previsto che l’apporto
delle necessarie conoscenze metagiuridiche provenga da una commissione tecnica consultiva istituita
presso ciascuna sezione specializzata formata da esperti in psichiatria, psicologia e pedagogia, ai quali è
espressamente affidato “il compito di assistere le sezioni nel compimento di accertamenti tecnici”, un
compito da assolvere applicando le norme sulla consulenza tecnica d’ufficio previste dal codice di rito.
Aggiunge il testo normativo che è esclusa ogni loro partecipazione “ad attività dal contenuto decisionale”, il che non esclude affatto l’esercizio di poteri istruttori delegati, quali l’audizione del minore.
Si è voluto così dare visibilità alla specializzazione dell’organo creando una struttura precostituita e
permanente a cui il giudicante possa attingere, ove necessario, le conoscenze tecniche multidisciplinari
per dare alle controversie familiari e minorili ogni opportuna soluzione che valga a risolvere, per quanto
possibile, situazioni spesso penose e complesse e, quando si tratta di minori, capaci di interpretarne il
superiore interesse come vuole il patrio legislatore e il diritto convenzionale.
È significativo che il progetto e la relazione che l’accompagna richiamino le convenzioni internazionali sui diritti dei fanciulli. Invero, le esigenze e gli obiettivi della giustizia familiare mutano profondamente quando occorre tutelare gli interessi dei minori e l’amministrazione della giustizia minorile
deve necessariamente essere una “amichevole” nei confronti dei minori, una giustizia “a misura dei
minori” affidata a procedimenti in cui l’interesse del minore non è soltanto obiettivo da raggiungere,
ma anche regola di giudizio e misura della giustizia del provvedimento.
Invero, mancano del tutto riferimenti alle Linee guida sulla giustizia minorile adottate nel novembre
2010 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa: un’omissione questa davvero inattesa e alla
quale occorre rimediare. Si tratta di indicazioni date agli Stati della Grande Europa affinché essi adeguino la propria legislazione a quanto statuito dalla Convenzione di Strasburgo ma anche regolino
con norme più favorevoli l’esercizio dei diritti dei minori.
Anche l’Unione europea ha voluto fare proprie queste indicazioni con un documento del febbraio
2011, elaborato dalla Commissione, un documento che contiene un articolato Programma avente come
specifico oggetto la tutela dei diritti dei minori. La Commissione afferma che creare “una giustizia a
misura del minore” è un obiettivo a cui rivolgere l’azione dell’Unione e, fra le azioni previste allo
scopo, la Commissione indica proprio l’uso delle ricordate “Linee guida”.
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FOCUS Il disegno di legge, per adeguarsi alle indicazioni date dal Consiglio d’Europa, dovrebbe contenere
espliciti riferimenti ai principi delle Linee guida affinché il Governo modelli su queste ultime i futuri
decreti legislativi: questo non comprometterebbe l’impianto complessivo della riforma, poiché molti
adempimenti previsti dalla Linee guida ben potrebbero essere affidati ai membri delle istituende
Commissioni consultive. Mi riferisco, ad esempio, alla mediazione familiare che le Linee guida incoraggiano “quando possano servire al meglio l’interesse superiore del minore”, ma anche all’esercizio delle funzioni amministrative.
Resta aperto il problema delle forme con le quali rivestire i procedimenti di competenza del nuovo
giudice. Mi limito ad osservare che la varietà delle controversie familiari e minorili non è compatibile
con le strette maglie di un procedimento uniforme, poiché diversi sono gli obiettivi assegnati dal legislatore all’attività giurisdizionale. Invero, giurisdizione contenziosa e giurisdizione volontaria sono
qui compresenti e la varietà delle situazioni giuridiche che danno corpo alle competenze del nuovo
organo di giustizia giustifica l’esistenza di forme differenziate di tutela giurisdizionale. Una scelta
diversa rischia di vanificare l’obbligo d’agire con prontezza che la Convenzione di Strasburgo fa gravare sui giudici per evitare che la tutela giurisdizionale dei minori soffra di “inutili ritardi”, un obiettivo questo alla cui attuazione deve mirare ogni riforma della giustizia in materia familiare. Il disegno di legge Casellati non cade nell’errore di proporre un rito uniforme per le controversie affidate al
nuovo giudice specializzato, ma non vi è chiarezza nelle indicazioni che la legge delegante dovrebbe
dare al Governo su questo fondamentale punto. Così, accanto a un rito uniforme da applicare a tutti
i procedimenti contenziosi e da costruire seguendo i principi del giusto processo, un rito speciale dovrebbe disciplinare in modo uniforme i giudizi di separazione e di divorzio nonché quelli relativi
all’affidamento e al mantenimento dei figli naturali.
Il progetto prevede ancora che i giudizi contenziosi, anche quelli finora trattati in forma cameralcontenziosa, nei quali siano ravvisabili “prevalenti caratteri di semplificazione nella trattazione o
nell’istruzione della causa” ovvero in cui prevalgano “esigenze di celerità” possono essere assoggettati
dal legislatore delegato alle forme del procedimento sommario di cognizione senza possibilità di conversione nel rito ordinario. Una scelta discutibile poiché è meglio affidarsi ancora alle forme del rito camerale, integrate e rafforzate secondo le indicazioni del diritto vivente, che a quelle del procedimento sommario cognitivo per cui il giudice provvede “nel modo che ritiene più opportuno, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio” una deregulation aggravata dal divieto fatto al giudice di
transitare al rito ordinario, come già dispone il d.lgs. n. 150/2011 sulla semplificazione dei riti.
Ancora, il disegno di legge fa riferimento ai procedimenti di natura non contenziosa come, ad esempio, alla separazione consensuale: per questi soltanto sembra conservato il rito camerale con la precisazione che la difesa tecnica è necessaria soltanto nella fase di reclamo (art. 3, lett. g). Infine, si fa riferimento agli affari di competenza del giudice tutelare: essi pure saranno affidati alle sezioni specializzate chiamate peraltro a decidere in composizione monocratica nelle forme del rito camerale, se si
tratta di affari di volontaria giurisdizione, ritengo secondo il rito contenzioso uniforme di cui alla lett.
a) se si tratta dell’amministrazione di sostegno anche se sarebbe utile, sul punto, una regola chiarificatrice.
Il disegno di legge fa espresso riferimento alla tutela cautelare sia pure limitatamente ai provvedimenti d’urgenza, provvedimenti da pronunciare applicando il rito cautelare uniforme di cui agli artt. 669
bis ss. c.p.c. Mi chiedo però se non sorgano problemi per quanto riguarda l’applicazione nel nuovo
contesto della regola sull’ultrattività dei provvedimenti cautelari anticipatori prevista dall’art. 669
octies. Manca invece qualsiasi riferimento all’esecuzione dei provvedimenti pronunciati dalle sezioni
specializzate e la soppressione dell’ufficio del giudice tutelare fa venir meno l’eventualità di affidare a
tale ufficio le funzioni di giudice dell’esecuzione di tali provvedimenti, come del resto la stessa senatrice Casellati aveva suggerito in un suo precedente progetto.
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AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 Ancora, c’è solo qualche vago accenno alla difesa tecnica confermandone come è ovvio la necessità nei
procedimenti contenziosi ma anche rendendola facoltativa nei procedimenti non contenziosi, salvo
che nei giudizi di reclamo. Manca invece qualsiasi riferimento al difensore del minore e alla difesa
d’ufficio, nonché sulla loro specializzazione richiesta, come già ho ricordato, dalle Linee guida almeno per quanto riguarda la giustizia minorile».
Il prof. Andrea Graziosi, intervenuto successivamente, ha espresso piena condivisione per la
creazione delle sezioni specializzate in materia di persone e di famiglia presso i Tribunali e le
Corti di Appello, evidenziando alla Senatrice Casellati di apprezzare che con il suo d.d.l. abbia
aderito con convinzione a questa opzione, rispetto alla scelta del Tribunale della Famiglia, ciò
perché, la famiglia è certamente una formazione sociale importantissima nell’assetto della nostra società e un luogo essenziale per la realizzazione della persona, ma non costituisce centro
di imputazione di diritti. I diritti sono imputabili ai singoli soggetti che partecipano alla famiglia
e quindi istituire un Tribunale della famiglia come se la famiglia fosse un soggetto autonomo,
portatore di diritti può ingenerare fraintendimenti. La ragione lessicale, peraltro, non è irrilevante, in quanto il termine famiglia è molto impegnativo ed evoca diversi concetti sotto il profilo etico, culturale, storico, morale e politico e pertanto suscettibile di molte letture, potendo
includere la sola famiglia fondata sul matrimonio, una nozione di famiglia molto più ampia che
ricomprenda la unione stabile tra un uomo e una donna, ma anche tra due soggetti dello stesso
sesso. L’elasticità di questo concetto se coniugata con la funzione di un organo giudiziario, può
avere effetti discriminatori rispetto alla tutela di certi diritti, che possono rientrare o non nell’ambito di azione di questo Tribunale della Famiglia, a seconda del concetto di famiglia che si
accoglie e questo non è accettabile perché i diritti soggettivi, in quanto tali, devono sempre trovare la medesima tutela giurisdizionale a prescindere da quale sia il contesto familiare in cui si
esprimono.
Il prof. Graziosi ha affermato che complessivamente, nel suo impianto di fondo, il disegno di
legge delega della Senatrice Casellati si muove nella giusta direzione, in quanto mira a mettere
ordine in una materia nella quale, al momento, vi è una pluralità di organi giudiziari (Tribunale
ordinario, Tribunale per i Minorenni e Giudice Tutelare) le cui competenze si intersecano e si
sovrappongono, ma anche una molteplicità di riti e norme processuali applicabili e che l’aspetto più importante e condivisibile del progetto di legge della Senatrice Casellati è la parificazione del trattamento processuale dei figli legittimi e dei figli naturali, vexata quaestio, sulla quale
non si può procrastinare una soluzione legislativa definitiva e chiara.
Il prof. Graziosi, tuttavia, ha espresso alcune perplessità per quanto attiene ad alcuni profili di
ordine processuale.
In primo luogo, rispetto all’art. 3, lett. a), d.d.l., osserva che non è chiaro che cosa si intenda affermare con la enunciazione del principio di rappresentanza processuale dei minori o degli incapaci, se si intenda la necessaria introduzione del potere del Giudice di nominare al minore un
curatore speciale, sempre e comunque, o solo ed unicamente tutte le volte in cui ravvisi un potenziale conflitto di interessi tra minore e genitore.
In secondo luogo, prevedere che l’ascolto del minore (ancora, l’art. 3, lett. a) sia limitato espressamente ai casi in cui vi è controversia sul suo affidamento o sulla sua educazione ed istruzione
e in ogni caso in cui ciò sia necessario nell’interesse del minore, non è corretto, in quanto l’art.
12 della Convenzione sui diritti del fanciullo, prevede l’ascolto del minore in tutti i provvedimenti che lo riguardano. Questa limitazione normativa sull’ascolto dei minori sarebbe in contrasto con il diritto internazionale di formazione pattizia, cui l’Italia è assoggettata avendo ratificato le convenzioni e rappresenterebbe comunque un passo indietro rispetto all’attuale disciplina di cui all’art. 155 sexies c.c. che prevede il dovere del giudice di sentire il minore.
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FOCUS A riguardo della necessarietà dell’intervento del P.M., che nel d.d.l. della Senatrice Casellati è
previsto come obbligatorio, alla lettera d) dell’art. 3, il prof. Graziosi, sul portato di quanto sino
ad oggi si è verificato circa la marginalità di questa parte processuale nei procedimenti familiari,
esprime serie perplessità e auspica, semmai, che in sede di attuazione si preveda un ruolo attivo,
realmente attivo del P.M., ma solo in quei procedimenti, tipo quelli de potestate, nei quali vi è la
centralità della tutela del minore.
Per quanto riguarda lo schema processuale di cui alla lett. i) dell’art. 3 d.d.l., che sembra rimandare al modello del procedimento sommario di cognizione di cui all’art. 702 bis c.p.c., entrato
in vigore il 4 luglio 2009, il prof. Graziosi ha manifestato forti dubbi, non fosse altro perché,
come è noto, tale procedimento ha dato pessima prova di sé. L’obiezione primaria comunque,
è che trattandosi di procedimenti volti alla tutela di diritti soggettivi pieni, è giusto che abbiano
un procedimento a cognizione piena.
Anche il prof. Graziosi come il prof. Tommaseo, infine, nota la mancanza e sollecita la integrazione, di una espressa e chiara previsione normativa in materia di esecuzione dei provvedimenti in ambito familiare, anche questa necessità avvertita da tempo e che ciclicamente torna ad interessare, laddove si verificano episodi che balzano, per la loro drammaticità, agli onori della
cronaca.
Come evidenziato, un interessante spunto di riflessione lo ha offerto il dott. Oreste Carboni, il
quale premettendo di aderire pienamente alla opzione “sezioni specializzate” rispetto al c.d.
“Tribunale della famiglia” e pur essendo d’accordo per la dedizione esclusiva dei magistrati prescelti per la materia della famiglia e dello stato delle persone, esprime perplessità sulla possibilità che questa scelta possa trovare applicazione nei Tribunali medio – piccoli, nei quali “limitare” le competenze di una sezione alle materie indicate può creare difficoltà organizzative, auspicando anche che l’iter parlamentare si confronti con quanto è in corso di decisione a livello
ministeriale relativamente alla revisione degli organici degli uffici giudiziari, ciò «per scongiurare la morte prematura della riforma».
Il dott. Carbone, al pari del prof. Tommaseo, ha anche espresso qualche perplessità e curiosità
sulla prevista istituzione della commissione tecnico-consultiva destinata ad «affiancare i giudici
negli accertamenti specialistici», anche se il dott. Carbone ritiene che sia chiaro dalla lettura della
norma che a questa commissione il Legislatore intenda attribuire solo un compito di ausilio
nelle indagini tecniche.
***
In conclusione l’AIAF non ha che potuto ribadire la posizione già espressa all’assemblea di Milano e portata nuovamente, sia pur sinteticamente, all’attenzione dei relatori con i quali si è condiviso che si debba velocemente volgere alla concentrazione degli affari in materia familiare avanti un giudice specializzato presso il Tribunale Ordinario, con ricongiungimento di tutti gli affari
civili, già di competenza del Tribunale per i minorenni e ciò anche in applicazione del principio
di prossimità, questo perché si ritiene con estrema convinzione che i diritti che scaturiscono
dalle relazioni familiari, siano essi personali, che patrimoniali siano diritti soggettivi di elevatissimo rango costituzionale, da non sottrare alla giurisdizione.
Nel confronto con i processualisti e la Senatrice Casellati sul modello processuale applicabile,
l’AIAF ha ribadito che è possibile prevedere un rito unico che, sul modello del rito del lavoro,
abbia una norma introduttiva che enunci tutte le possibili controversie familiari latu sensu intese, con specifiche eccezioni, un modello che in occasione dell’Assemblea di Milano, l’AIAF ha
progettato, con lo sguardo attento ad ogni possibile scenario di conflitto e non solo alla separa-
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AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 zione, al divorzio e alla determinazione del regime di affidamento e mantenimento del figlio naturale riconosciuto e cercando di tenere fuori un numero limitatissimo di ipotesi di controversie.
Questo rito nuovo, comunque sia pensato (e si possono senz’altro ipotizzare diverse opzioni)
deve portare ad un processo con le regole costituzionali del giusto processo, un modello processuale a cognizione piena con forme e termini predeterminati e poteri delle parti e del Giudice anch’essi predefiniti, volto essenzialmente a disciplinare l’urgenza, che è il dato caratterizzante
di queste vertenze e non una eventualità, l’essenza stessa della attività di giurisdizione in questo
ambito.
Altra condizione imprescindibile per l’AIAF è che si “definisca” in via ordinamentale un Giudice effettivamente terzo, sia nella sua capacità specialistica di indirizzare il processo che in quella
di assumere la decisione. A riguardo, si è ribadita la posizione già espressa e cioè che il rafforzamento del ruolo del P.M. è necessario, al fine di garantire la terzietà del Giudice sia esso agente
che interveniente prevedendo la istituzione di una sezione specializzata presso la Procura della
Repubblica che agisca o intervenga in base a limiti predefiniti per legge, che impediscano pericolosi arbitri, come, non a torto, si teme, (ma gli attuali e illimitati poteri di ufficio che il Giudice
ha in queste procedure, non sono ancor più pericolosi, laddove deprimono qualsiasi possibilità
di contraddittorio?), limiti che, peraltro, già sussistono in forza degli artt. 16 e 19 della Convenzione di New York, dell’art. 13 della Convenzione di Strasburgo e dell’art. 8 della CEDU,
come il dott. Sergio nel corso dell’assemblea di Milano ha evidenziato efficacemente per incoraggiare gli scettici ad intraprendere questa via.
In relazione alla previsione nel d.d.l. della Senatrice Casellati della “commissione tecnica consultiva” anche l’AIAF ha espresso chiaramente che non vi debbano essere equivoci di sorta sulla funzione di detto “organo” che possano poi ingenerare in sede di attuazione una svalutazione
del principio di terzietà del Giudice.
Quelli che vengono definiti i “saperi diversi” che devono necessariamente entrare nell’attività
di giurisdizione del processo familiare, sono in primo luogo la preparazione specialistica del
Giudice Togato, la preparazione specialistica dell’Avvocato e, come detto, la preparazione specialistica del P.M.
Il Giudice che assume la decisione, sia di indirizzo del processo, che finale, deve trovarsi in una
posizione di reale terzietà rispetto alla contrapposizione delle parti, deve decidere in base a criteri discrezionali di legge, non deve abdicare alla sua funzione in favore di “saperi diversi” che
peraltro, non sono solo quelli della psicologia e della sociologia, ma anche quelli contabili, tributari, statistici.
Anche in questo confronto, l’AIAF non ha potuto che ribadire che qualsiasi progetto di riforma
deve definitivamente puntare ad attrarre la materia delle relazioni familiari nella giurisdizione,
che in questo ambito deve trovare se stessa, magari in un quadro normativo di diritto sostanziale modificato in base al cambiamento dei tempi, come l’Avv. De Strobel ha evidenziato nel ricordare che nell’assemblea di Milano, l’AIAF si è espressa sui modelli di famiglia possibili anche
con attenzione a ciò che si sta verificando fuori del nostro Paese, sulla necessità della valorizzazione della libertà negoziale, sui regimi patrimoniali, sull’addebito della separazione e la responsabilità endofamiliare, su come debbano essere intesi oggi i rapporti personali ed economici tra
i soggetti delle relazioni familiari.
L’AIAF, anche in questo contesto, ha nuovamente auspicato che il sistema avverta realmente la
necessità della specializzazione di tutti gli attori del processo (avvocati, giudici, pubblici ministeri), e che il ricorso al sapere diverso (come ausilio, nel senso tecnico del termine della procedura civile), avvenga solo dopo che le parti e il Giudice abbiano attinto a tutte le proprie competenze specialistiche attraverso il corretto uso della CTU.
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FOCUS In tal senso, se questa commissione tecnica, prevista nel progetto della Senatrice Casellati, fosse poi anche in fase attuativa, strutturata come ausilio del Giudice nella fase istruttoria, senza
alcuna limitazione del contraddittorio e senza alcuna attività di supplenza della attività giurisdizionale, rispetto al cui operato il Giudice si pone pur sempre come il perito dei periti, nulla quaestio: certo è che la preoccupazione che sia poi qualcosa d’altro sussiste.
Peraltro, vi è da considerare che se il Giudice e gli avvocati e il P.M. sono specializzati, il ricorso
al sapere diverso mediante CTU è sicuramente anche limitato rispetto a quanto non avviene attualmente, laddove la “delega” all’ausiliario sembra sia diventata la routine, anziché la eccezionalità.
***
Nel corso di questo incontro si è discusso della riforma sulla unificazione dello stato giuridico
dei figli, tutti auspicando che oltre ad una parificazione tra figli nati nel matrimonio e quelli nati
fuori dal vincolo coniugale sotto il profilo del diritto sostanziale, il Parlamento provvedesse ad
attrarre i conflitti relativi all’affidamento e alla determinazione del contributo al mantenimento
dei figli naturali nella competenza di un unico organo giurisdizionale, quello ordinario, divenuta ormai inaccettabile la dicotomia Tribunale ordinario-Tribunale per i Minorenni.
In data 27 novembre 2012 è stato approvato il d.d.l. n. 2519 che a modifica disp. att. c.c., attribuisce alla competenza del Tribunale Ordinario le controversie relative all’affidamento e alla
determinazione del contributo al mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio e anche le
controversie di cui all’art. 333 c.c. nei casi in cui pende tra le parti giudizio di separazione, di divorzio o ai sensi dell’art. 316 c.c.
Si tratta di un grande passo in avanti, che si confida sia nella direzione definitiva della istituzione delle sezioni specializzate presso i Tribunali ordinari.
Tuttavia, macroscopica, ora, dinanzi allo stesso Giudice, è divenuta la odiosa questione della
differenza del rito applicabile alle controversie relative all’affidamento dei figli nati nel matrimonio e a quelle relative ai figli nati fuori del matrimonio, stabilendo, l’art. 3 del d.d.l. n. 2519,
che nei procedimenti in materia di affidamento e di mantenimento dei minori che sono trasmigrati al Tribunale Ordinario, si applica l’art. 710 c.p.c.; una così smaccata differenza di trattamento processuale tra questioni identiche non dovrà permanere a lungo, tanto più che il legislatore con tale d.d.l. ha voluto eliminare ogni possibile distinzione, anche lessicale e ha avuto la
sensibilità di entrare nel concreto della tutela dei diritti dei figli, che sono sempre uguali a prescindere dal vincolo che lega i genitori, affrontando la parità di trattamento anche per quel che
riguarda le garanzie patrimoniali (art. 3 i-bis).
Alcuni primi commenti ritengono questa differenza nel rito dinanzi allo stesso Giudice una incongruenza che “non deve far scandalizzare”, laddove sarà il Giudice Ordinario con la esperienza mutuata dai giudizi di separazione e di divorzio a dover fare uguale applicazione dei principi e delle garanzie patrimoniali e quindi utilizzare i medesimi strumenti già previsti oggi per la
separazione e per il divorzio nei procedimento camerali.
Tale notazione, tuttavia, non convince; senz’altro nell’attesa di una riforma organica, così dovrà
essere, ma, considerato che si ribadisce sempre e ovunque che la materia è “delicata”, non ci si
può accontentare di individuare, ancora una volta, prassi processuali virtuose.
Da anni, si evidenziava che la disparità di trattamento sul piano della tutela processuale costituisce una disparità di trattamento reale, inaccettabile e che, al contrario, “deve far scandalizzare”.
Chi si è occupato con grande approfondimento di questa tematica, ha in più occasioni ben evidenziato che nel processo camerale mancano tutte le garanzie tipiche del processo ordinario,
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AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 quali le norme che regolano la instaurazione del contraddittorio, le norme che disciplinano
l’attività istruttoria e soprattutto manca una fase iniziale volta a disciplinare l’urgenza: tutto è rimesso alla discrezionalità del Giudice. (Cfr., tra tutti, A. GRAZIOSI, La Responsabilità genitoriale.
Profili processuali, in Il Governo della Famiglia, Atti del Convegno di Bologna 17-18 aprile 2009,
Quaderno AIAF n. 2, 2009, p. 157 ss., il quale evidenzia che per quanto riguarda le procedure
che si svolgono su base consensuale, la disparità di trattamento di tipo processuale è ancora più
marcata, laddove le condizioni concordate tra i genitori di figli nati nel matrimonio hanno efficacia solo se sono sottoposte al vaglio del Tribunale o con il giudizio di omologa del verbale di
separazione consensuale o con il giudizio espresso in sede di sentenza ex art. 4, 16° comma, l. n.
898/1970 e succ. modifiche, mentre i genitori di figli naturali ben possono accordarsi privatamente circa l’esercizio della responsabilità genitoriale senza che su questi accordi sia prevista la
necessarietà del controllo giudiziale).
Altro dato importante da evidenziare, con specifico riguardo a quanto emerso nel dibattito al
convegno di Vicenza con la Senatrice Casellati, è che, da subito (ma soprattutto nel rito che si
andrà ad attuare) non potrà non assumere rilevanza che nel d.d.l. n. 2519 sia stato ribadito (con
la introduzione dell’art. 315 bis, 3°comma, c.c.), che il figlio che ha compiuto 12 anni – ed anche prima ove capace di discernimento, deve essere ascoltato.
Così disponendo, il Legislatore ha ribadito, ancora una volta, non solo quanto prevede l’art. 155
sexies c.c. ma, prima ancora, quanto previsto dalla Convenzione sui diritti del fanciullo (l. 27
maggio 1991, n. 176), dalla Convenzione di Strasburgo (l. 20 marzo 2003, n. 77) e dall’art. 23
del Regolamento c.d. Bruxelles II bis, che limita il riconoscimento negli stati membri di quelle
decisioni assunte, senza che il minore sia stato ascoltato. Diversamente nel d.d.l. della Senatrice
Casellati, è previsto l’ascolto del minore, ma per i soli «casi in cui vi è controversia sul suo affidamento o sulla sua educazione ed istruzione e in ogni caso in cui ciò sia necessario nell’interesse preminente del minore».
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FOCUS SOLUZIONI GLOBALI A QUESTIONI GLOBALI. L’esecuzione dei provvedimenti giudiziali nel Diritto internazionale privato. L’applicazione delle Convenzioni internazionali in Inghilterra e in Galles Suzanne Todd
Partner, Family Team, Withers LLP (London)
Sommario: 1. La Convenzione dell’Aja del 1996 sulla Protezione dei Minori e il nuovo Regolamento Bruxelles II. – 2. La Convenzione sull’esazione internazionale di prestazioni alimentari nei confronti di figli e di altri
membri della famiglia. – 3. Conclusioni.
Una delle questioni più rilevanti – forse addirittura la più rilevante – in materia di contenzioso
riguarda l’esecuzione dei provvedimenti giudiziali. Questi, infatti, sia che derivino dalla decisione del giudice o dall’accordo delle parti, non sono di alcuna utilità qualora non possano essere
eseguiti.
A rendere più complesse le questioni in materia di esecuzione contribuisce, spesso, il coinvolgimento di più ordinamenti giuridici. Trattati internazionali, regolamenti e convenzioni assicurano maggiore chiarezza e certezza a tale riguardo. Tra queste, la Conferenza dell’Aja di Diritto
Internazionale Privato (“HccH”) è un’organizzazione intergovernativa globale che predispone
convenzioni e regolamenti di Diritto Internazionale Privato.
Alcuni la definiscono come «un crogiuolo di tradizioni legali diverse ... (essa) sviluppa e rivede
strumenti giuridici multilaterali, che rispondono a bisogni globali». Il lavoro della Conferenza coinvolge 130 Paesi. Riunitasi per la prima volta nel 1983, ad oggi è convocata ogni quattro anni.
La Conferenza permette ai Paesi membri di concordare un approccio unitario su determinate
questioni-chiave, contribuendo in tal modo a conferire maggiore certezza e sicurezza in materia di contenzioso internazionale.
Spesso accade che, in caso di scioglimento di un matrimonio o di una relazione internazionale,
una delle parti decida di ritornare nel proprio Paese d’origine. Tale decisione può avere un impatto rilevante su un eventuale procedimento giudiziale in corso, dal momento iniziale (nel caso in cui una delle parti si affretti ad instaurare un procedimento di divorzio, nel timore che la
controparte invochi una diversa giurisdizione) alla conclusione (nel caso in cui una delle parti
richieda ad un giudice straniero di portare ad esecuzione un provvedimento). Quando ci sono
dei figli, è possibile che uno dei genitori desideri ritornare al proprio Paese d’origine assieme ai
figli. L’esecuzione di provvedimenti di questo genere in sistemi giuridici diversi richiede il superamento di vari ostacoli.
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AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 Il presente articolo si sofferma su due strumenti di diritto internazionale di famiglia, decisamente importanti e relativamente “nuovi”, relativi all’esecuzione di provvedimenti giudiziali
e destinati ad assumere, nei prossimi mesi, un ruolo centrale nel dibattito tra gli addetti ai lavori.
1. La Convenzione dell’Aja del 1996 sulla Protezione dei Minori e il nuovo Regolamento Bru‐
xelles II Dopo una lunga attesa, il 1° novembre 2012 la Convenzione dell’Aja del 1996 sulla Competenza, Legge Applicabile, Riconoscimento, Esecuzione e Cooperazione in materia di Responsabilità Genitoriale e Protezione dei Minori (la Convenzione dell’Aja del 1996) è entrata in vigore in Inghilterra e Galles. Dal 25 novembre 2012, la Convenzione dell’Aja del 1996 è in vigore in tutti gli
stati dell’Unione Europea, con l’esclusione del Belgio, dell’Italia e della Svezia. Entrerà in vigore in Svezia il 1° gennaio 2013.
La Convenzione dell’Aja del 1996 prevede il riconoscimento e l’esecuzione di provvedimenti
giudiziali e altre misure intese a proteggere i minori o i loro beni in tutti gli Stati Contraenti. Lo
scopo principale è quello di rafforzare la protezione dei minori nelle situazioni che presentano
profili di internazionalità.
La Convenzione dell’Aja del 1996 avrà un effetto simile (ma di portata più globale) al Reg.
(CE) n. 2201/2203 (il Nuovo Regolamento Bruxelles II). C’è una sovrapposizione tra i due strumenti: essenzialmente, quando una questione ricade nell’ambito di applicazione del nuovo Regolamento Bruxelles II, tale Regolamento ha precedenza sulla Convenzione dell’Aja del 1996
con riferimento a minori che siano abitualmente residenti in uno Stato membro dell’Unione
Europea (ad eccezione della Danimarca), nonché in materia di riconoscimento ed esecuzione in
o da parte di uno Stato membro dell’Unione Europea (ad eccezione della Danimarca) di sentenze emesse in un altro Stato membro (ad eccezione della Danimarca), indipendentemente dal
luogo di residenza abituale del minore.
Competenza giurisdizionale Il punto di partenza, sia per il nuovo Regolamento Bruxelles II che per la Convenzione dell’Aja
del 1996, è che il foro competente è quello della residenza abituale del minore. Se non è possibile stabilire quale sia la residenza abituale del minore, o se i minori coinvolti hanno status di
rifugiati, allora la giurisdizione competente sarà quella dello Stato Contraente sul cui territorio
si trova il minore.
La Convenzione dell’Aja del 1996, a differenza del Regolamento, nulla dice riguardo alla competenza giurisdizionale in caso di divorzio, separazione legale e annullamento del matrimonio.
Tuttavia, ove i genitori del minore assumano la qualità di parte in tali procedimenti, l’art. 10
prevede che l’autorità giudiziaria di uno Stato Membro che sia competente per il divorzio o la
separazione legale dei genitori rimanga competente anche in materia di protezione della persona o dei beni del minore. Ciò rispecchia la disposizione dell’art. 12 del nuovo Regolamento
Bruxelles II. Come già nel nuovo Regolamento Bruxelles II, conclusosi il procedimento riguardante la relazione tra i genitori, l’autorità giudiziaria dello Stato Membro che risultava competente in base a tale criterio cessa di esserlo.
L’art. 8 della Convenzione dell’Aja del 1996 e l’art. 15 del nuovo Regolamento Bruxelles II
disciplinano le azioni correlate. La Convenzione dell’Aja del 1996 prevede che l’autorità giudiziaria dello Stato Contraente che sia stata adita per prima possa decidere che l’autorità giu78
FOCUS diziaria di un altro Stato Contraente sia meglio in grado di valutare il superiore interesse del
minore. Inoltre, l’art. 9 introduce un meccanismo che permette al secondo Stato Contraente
di iniziare la discussione relativa al “superiore interesse del minore”. La Convenzione dell’Aja
del 1996 include nel concetto di autorità giudiziaria potenzialmente meglio in grado di valutare il superiore interesse del minore (assieme ad altri fattori) il giudice dello Stato che sia
stato adito dai genitori del minore perché si pronunci sul divorzio, la separazione legale o
l’annullamento del matrimonio degli stessi. Come per il nuovo Regolamento Bruxelles II, anche la Convenzione dell’Aja del 1996 incoraggia le autorità coinvolte a scambiare le proprie
opinioni in merito all’autorità giudiziaria ritenuta competente. In tal modo, la gestione dei
procedimenti correlati resta in mano alle stesse autorità giudiziarie, evitando lungaggini e spese
inutili.
Tuttavia, a differenza del nuovo Regolamento Bruxelles II, la Convenzione dell’Aja del 1996
non prevede espressamente il divieto per l’autorità giudiziaria del secondo Stato Contraente di
trasferire il procedimento all’autorità giudiziaria di un terzo Stato, e nemmeno prevede che il
trasferimento del procedimento all’autorità giudiziaria di un altro Stato ai sensi dell’art. 8 debba effettuarsi previo consenso di almeno una delle parti. Ciò conferisce agli Stati Contraenti il
potere di accordarsi sul giudice ritenuto competente, il che da un lato rappresenta un passo
importante verso il reciproco rispetto, non altrettanto verso la certezza del diritto.
In aggiunta, il nuovo Regolamento Bruxelles II permette all’autorità giudiziaria di mantenere
la propria competenza per tre mesi, al fine di modificare una sentenza che verta sul diritto di
visita e riguardi un minore che sia stato legittimamente trasferito in un altro Stato Membro, a
condizione che la persona titolare di tale diritto di visita continui a risiedere nello Stato
Membro d’origine. La Convenzione dell’Aja del 1996 non contiene alcuna disposizione a tal
riguardo.
Responsabilità genitoriale Una differenza importante tra i due strumenti è che, ai sensi dell’art. 16 della Convenzione dell’Aja del 1996, la responsabilità genitoriale sussistente secondo la legge dello Stato di residenza
abituale del minore resta ferma anche dopo il trasferimento del minore in un altro Stato. Questo significa che un genitore, che ottenga la responsabilità genitoriale in conformità alla legge di
uno Stato Contraente, non perderà tale responsabilità nel caso in cui il minore venga trasferito
in un altro Stato Contraente le cui leggi non attribuirebbero alcuna responsabilità a tale genitore. Il nuovo Regolamento Bruxelles II nulla dispone al riguardo.
Legge applicabile Per quanto riguarda la legge applicabile, la Convenzione dell’Aja del 1996 prevede che ciascuno Stato Contraente applichi la propria legge. Tuttavia, ove eccezionalmente si renda necessario per proteggere un minore o i suoi beni, si potrà applicare la legge di un altro Stato che presenti
uno stretto legame con la situazione in esame. Al mutamento della residenza abituale del minore, cambia anche la legge applicabile.
Riconoscimento ed esecuzione Con la Convenzione dell’Aja del 1996 le sentenze diverranno esecutive in altri Stati Contraenti a seguito della dichiarazione di esecutività o della trascrizione; trattasi di una procedura “semplice e rapida”. Come per il nuovo Regolamento Bruxelles II, non è prevista alcuna
possibilità di revisione nel merito della misura adottata. Tuttavia, è interessante notare che, a
79
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 differenza di quanto disposto dal Regolamento, la Convenzione non prevede la possibilità di
proporre opposizione contro la decisione resa sull’istanza intesa ad ottenere la dichiarazione
di esecutività.
Una volta che le misure ottenute in uno Stato Contraente siano state riconosciute in un altro
Stato Contraente, sono eseguite in quest’ultimo Stato come se fossero state adottate dalle proprie autorità, e quindi la legge nazionale in materia di esecuzione rimane rilevante. Vi è inoltre
una disposizione specifica (non contenuta nel nuovo Regolamento Bruxelles II) che potrebbe
complicare l’adozione di provvedimenti di natura esecutiva riguardanti il “superiore interesse
del minore”.
Sotto altri aspetti, la Convenzione dell’Aja del 1996 è molto più lungimirante del nuovo Regolamento Bruxelles II, e dimostra una piena comprensione del contenzioso internazionale in materia di famiglia. Per esempio, l’art. 35 permette ad una persona residente in uno Stato Contraente (in cui il minore non abbia residenza abituale) di richiedere all’autorità dello Stato in cui il
minore risiede di raccogliere informazioni o prove e/o di pronunciarsi sull’idoneità di quel genitore ad esercitare il diritto di visita. L’autorità giudiziaria del Paese di residenza del minore ha
l’obbligo di ammettere e prendere in considerazione tali informazioni o prove e può sospendere il procedimento fino al termine di tale procedura. Tutto questo agevola la cooperazione tra
le autorità giudiziarie dei due Paesi coinvolti. L’art. 24 prevede la possibilità di ottenere il riconoscimento anticipato dei provvedimenti giudiziali, particolarmente utile in caso di trasferimento; il genitore che rimane può decidere che l’autorità giudiziaria del Paese nel quale il minore
viene trasferito esegua il provvedimento che autorizza la visita. Si prevede che tale meccanismo
potrà costituire un’alternativa utile e più agevole rispetto alla richiesta di un provvedimento che
rispecchi quello già adottato dal giudice adito.
Le ragioni che possono determinare la negazione del riconoscimento di un provvedimento
giudiziale ai sensi della Convenzione dell’Aja del 1996 e del nuovo Regolamento Bruxelles II
sono simili. Tuttavia, la Convenzione prevede che il riconoscimento possa essere negato qualora il provvedimento sia stato adottato da un’autorità giudiziaria la cui competenza non era
fondata ai sensi delle disposizioni del Capitolo II. Il Regolamento non contiene disposizioni simili, e, ai sensi del medesimo, il riconoscimento verrà negato nel caso in sui il provvedimento
sia stato adottato in contumacia e non sia stata data alla parte contumace la possibilità di presentare le proprie difese.
2. La Convenzione sull’esazione internazionale di prestazioni alimentari nei confronti di figli e di altri membri della famiglia Un altro recente e significativo sviluppo nel campo del Diritto Internazionale Privato, che diverrà presto familiare sia ai legali inglesi che a quelli italiani, è la Convenzione sull’Esazione internazionale di prestazioni alimentari nei confronti di figli e di altri membri della famiglia (la
Convenzione sull’Esazione internazionale di prestazioni alimentari), che entrerà in vigore in Inghilterra e Galles il 20 dicembre 2012.
La Convenzione appronta una soluzione semplice ad una problematica che è stata per lungo
tempo considerata complicata e difficile. Si consente agli Stati Contraenti di costituire un’Autorità Centrale responsabile per l’esecuzione dei provvedimenti relativi a prestazioni alimentari
nei confronti di figli o di altri membri della famiglia e che presentino elementi di internazionalità. In questo modo l’esecuzione dovrebbe risultare più rapida, semplice e meno costosa. Ciò significa che l’Autorità Centrale per l’Inghilterra e il Galles può, in ultima istanza, ritirare la pa80
FOCUS tente di guida del convenuto a causa del mancato pagamento degli alimenti. Tuttavia, con la
Convenzione non può applicarsi la reclusione, che è la sanzione più severa a disposizione in caso di mancato pagamento degli alimenti ai figli in Inghilterra e Galles.
L’ambito di applicazione della Convenzione è più limitato rispetto all’equivalente Regolamento
UE sulla Competenza, Legge applicabile, Riconoscimento ed Esecuzione delle decisioni e sulla Cooperazione in materia di Obbligazioni Alimentari (n. 4/2009) (il Regolamento sulle Obbligazioni Alimentari), in quanto si applica esclusivamente al mantenimento dei figli e, in misura inferiore, al connesso
mantenimento del coniuge. Viceversa, l’ambito di applicazione del Regolamento include gli obblighi di prestazioni alimentari che sorgano da relazioni familiari e da “affinità” (concetto privo di definizione). Tuttavia, la Convenzione attribuisce alle Autorità Centrali poteri analoghi a quelli previsti dal Regolamento. Ai sensi dell’art. 5, infatti, tali Autorità hanno il potere di «ricercare per
quanto possibile soluzioni agli eventuali problemi derivanti dall’applicazione della Convenzione».
Più specificamente, ai sensi dell’art. 6, le loro funzioni includono: assistenza legale; localizzazione
del debitore; ottenimento delle informazioni sui mezzi finanziari dello stesso; incentivazione di
soluzioni amichevoli; assistenza nell’accertamento della discendenza; agevolazione nel recupero
dei crediti alimentari. In Inghilterra e Galles c’è già un organismo centrale che si occupa delle obbligazioni alimentari verso i figli (il Gruppo sul Mantenimento dei Figli interno al Dipartimento
Lavoro e Previdenza Sociale), ma non anche degli obblighi verso il coniuge. I costi di tale servizio
(che saranno senza dubbio significativi, in particolare nei Paesi in cui un simile organismo ancora
non esiste) ricadranno (salvo casi limite ed eccezionali) sulla stessa Autorità Centrale.
L’art. 11 elenca le informazioni richieste per la presentazione di un’istanza di esecuzione. In
particolare, si noti l’art. 2(b), il quale stabilisce che l’istanza debba indicare, per quanto conosciuti, i mezzi finanziari del debitore. Dalla recente sentenza pronunciata nel caso Kambiz Karoonian v CMEC and Gibbons v CMEC [2012] EWCA Civ 1379 risulta chiaramente che,
violare per evitare una violazione dei diritti umani del debitore, è essenziale che la parte istante
per l’esecuzione compia ogni possibile sforzo per stabilire quali siano i mezzi finanziari del debitore. Il debitore non è tenuto a provare che non ha sufficienti mezzi per pagare, in quanto è
l’istante che ha l’onere di provare che i mezzi dei debitore sono invece sufficienti all’adempimento del debito. Dal testo della Convenzione risulta quindi chiaro che l’istante e l’Autorità
Centrale hanno l’obbligo di lavorare congiuntamente per finalizzare l’istanza, e l’Autorità Centrale deve accertarsi che l’istanza soddisfi i requisiti indicati dalla Convenzione.
La Convenzione enfatizza la necessità di seguire un metodo veloce ed efficace. L’art. 12 prevede che le Autorità Centrali si tengano reciprocamente informate e condividano informazioni sui
casi di loro competenza e sullo sviluppo degli stessi.
Un’istanza di esecuzione può essere rigettata solo nel caso in cui «sia manifesto che i requisiti
indicati dalla Convenzione non sono stati soddisfatti». Uno Stato Contraente non può rigettare
un’istanza sulla sola base della mancanza di documenti o informazioni aggiuntive; in tal caso dovrebbe, infatti, richiedere che tali informazioni o documenti vengano forniti.
La Convenzione prevede che l’accessibilità al servizio sia eccellente, con l’inclusione di assistenza
legale gratuita per tutte le istanze relative al mantenimento di figli e per qualsiasi altra istanza, a
meno che la legge dello Stato permetta all’istante di presentare istanza senza alcuna necessità di
assistenza legale. Le circostanze nelle quali uno Stato possa rifiutare di fornire assistenza legale
gratuita sono decisamente limitate.
Come per il Regolamento sulle Obbligazioni Alimentari, c’è un limite ai nuovi procedimenti,
cosicché (salvo circostanze limitate), ove il creditore che ha ottenuto il provvedimento sia abitualmente residente in uno Stato Contraente, il debitore non può chiedere che tale provvedimento venga modificato o che venga adottata una nuova misura in uno Stato Contraente di81
AIAF RIVISTA 2012/3 settembre-dicembre 2012 verso. Ci sono alcune eccezioni, incluso il caso in cui un provvedimento già adottato non possa
essere riconosciuto, o il caso in cui lo Stato d’origine non possa o si rifiuti di esercitare la propria giurisdizione al fine di modificare il provvedimento.
Ai sensi dell’art. 20 della Convenzione, un provvedimento sarà riconosciuto e reso esecutivo se
esso è efficace nello Stato d’origine, e:
i) il convenuto, il creditore o il figlio erano abitualmente residenti nello Stato d’origine al momento d’inizio del procedimento. Se si fa affidamento sulla residenza abituale del figlio, allora il convenuto deve aver ivi vissuto con il figlio, o esser ivi risieduto provvedendo al mantenimento dello stesso;
ii) il convenuto ha accettato la competenza di tale Stato;
iii) vi era un provvedimento adottato da un’autorità giudiziaria competente a decidere sullo
stato personale o la responsabilità genitoriale, a meno che tale competenza non fosse basata
unicamente sulla nazionalità di una delle parti; e
iv) salvo il caso del mantenimento di figli, le parti si siano accordate sulla giurisdizione competente (tale accordo deve essere provato per iscritto).
L’art. 22 prevede le consuete ragioni determinanti la negazione del riconoscimento ed esecuzione, le quali si basano sul fatto che un provvedimento sia contrario all’ordine pubblico o incompatibile con altre misure che possono essere riconosciute e rese esecutive, o che non venga garantita
al convenuto il diritto di difesa. Tuttavia, la Convenzione permette che si neghi il riconoscimento
e l’esecuzione anche nel caso in cui un debito passato sia stato soddisfatto. Qualora il provvedimento possa essere riconosciuto e reso esecutivo, la Convenzione stabilisce che la procedura
debba essere rapida, e che le parti debbano esserne rapidamente informate. Non è previsto alcun
riesame nel merito del provvedimento. Quando un provvedimento è stato dichiarato esecutivo o
registrato per l’esecuzione, l’esecuzione procede senza necessità di ulteriori azioni da parte
dell’istante. Con riguardo al termine di prescrizione dell’azione, esso sarà quello più lungo tra il
termine previsto nello Stato d’origine e quello dello Stato in cui il provvedimento è eseguito.
3. Conclusioni Si auspica che le Convenzioni possano avere lo stesso successo della Convenzione dell’Aja del
1980 sugli Aspetti Civili della Sottrazione Internazionale di Minori, la quale ha costituito un eccellente esempio di approccio unitario ad una problematica difficile, ed ha funzionato bene. Se un
genitore trasferisce un minore in uno Stato Contraente senza il permesso dell’altro genitore (a
meno che il caso non ricada in una delle limitate eccezioni), tale Stato si assicurerà che il minore
venga restituito senza correre alcun rischio. Sarà poi il genitore che desidera trasferire il minore a
prendersi carico di iniziare il corretto procedimento presso la giurisdizione competente. In tal
modo si evita che vengano instaurati contestualmente due procedimenti in due Stati diversi.
La Convenzione analizzata nel presente articolo segue la scia innovativa della Convenzione del
1980, in quanto entrambe cercano di combinare una base giuridica internazionale con dei meccanismi di cooperazione. Qualora le Convenzioni ottengano un successo simile, si assisterà ad
un significativo passo in avanti nell’ottica della Convenzione dell’Aja, ovverosia operare al servizio di una comunità internazionale in cui le famiglie, le cui vite e attività trascendono i confini
di diversi sistemi giuridici, possano giovarsi di un alto livello di sicurezza giuridica.
82
EDITORIALE AIAF ‐ Organi statutari Presidente: Milena Pini
Vicepresidente: Luisella Fanni
Giunta Esecutiva: Milena Pini (Presidente), Luisella Fanni (Vicepresidente), Daniela Abram (AIAF
Emilia Romagna), Manuela Cecchi (AIAF Toscana), Remigia D’Agata (AIAF. Sicilia), Gabriella de Strobel
(AIAF Veneto), Liana Maggiano (AIAF Liguria), Antonina Scolaro (AIAF Piemonte)
Direttore Scuola di Alta Formazione dell’AIAF: Marina Marino
Comitato Direttivo Nazionale
Abruzzo
Maria Carla Serafini (presidente)
Federica Di Benedetto
Calabria
Stefania Mendicino (presidente)
Campania
Rosanna Dama (presidente)
Erminia Del Cogliano
Emilia Romagna
Daniela Abram (presidente)
Valeria Fabj, Lorenza Bond, Isabella Trebbi Giordani
Friuli Venezia Giulia
Maria Antonia Pili (presidente)
Graziella Cantiello
Lazio
Marina Marino (presidente)
Nicoletta Morandi, Costanza Pomarici, Giulia Sarnari
Liguria
Liana Maggiano (presidente)
Ilaria Felicetti, Alberto Figone
Lombardia
Franca Alessio (presidente)
Maurizio Bandera, Marisa Bedotti, Marina Bologni, Cinzia Calabrese, Cinzia Colombo, Giuseppina De Biasi, Antonella De Peri, Cesare Fiore, Stefania Lingua, Carla Loda, Francesca Mazzoleni, Gerardo Milani, Laura Pietrasanta, Milena Pini, Nicoletta Stefania Pisano, Mirella
Quattrone, Antonella Ratti
Marche
Anna Pelamatti Cagnoni (presidente)
Marina Guzzini
Piemonte
Antonina Scolaro (presidente)
Maria Cristina Bruno Voena, Cristina Giovando, Maria
Cristina Ottavis, Marina Torresini
Puglia
Ada Marseglia (presidente)
Sardegna
Luisella Fanni (presidente)
Vittorio Campus, Anna Marinucci, Francesco Pisano
Sicilia
Remigia D’Agata (presidente)
Cinzi Fresina, Antonio Leonardi, Caterina Mirto
Toscana
Manuela Cecchi (presidente)
Sandra Albertini, Gigliola Montano, Bruna Repetto, Sandra Tagliasacchi, Valeria Vezzosi
Umbria
Anna Maria Pacciarini (presidente)
Stefania Cherubini, Maria Rita Tiburzi
Veneto
Alessandro Sartori (presidente)
Roberta Bettiolo, Gaudenzia Brunello, Paola Cacco, Giuliana Castelletti, Francesca Collet, Lorenza Cracco, Guido Dalla Palma, Gabriella de Strobel, Caterina Evangelisti
Franzaroli, Anna Kusstascher, Rita Mondolo, Giovanna
Olivieri, Umberto Roma, Anna Sartor, Giulia Schiaffino,
Lara Sereno, Damiana Stocco, Assunta Todini, Daniela
Turci
Trentino Alto Adige
Elisabetta Peterlongo (presidente)
83
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