Cass. Civ., S.U., 500/1999 Cass. Civ., S.U., 1207/2006 Corte Cost., 191/2006 Cass. Civ., S.U., 1359/2006 C. S., V^, 2822/2007 C.S., Ad. Plen., 12/2007 C.S., IV^, 248/2008 C.S., VI^, 5323/2006 Cassazione civile , sez. un., 22 luglio 1999, n. 500 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI Composta dagli Ill.mi Dott. Ferdinando ZUCCONI GALLI FONSECA Dott. Franco BILE Dott. Antonio IANNOTTA Dott. Francesco AMIRANTE Dott. Vincenzo CARBONE Dott. Rafaele CORONA Dott. Giovanni OLLA Dott. Alfio FINOCCHIARO Dott. Roberto PREDEN ha pronunciato la seguente Sigg.ri - Primo - Presidente - Presidente - Presidente - Rel. Magistrati: Presidente di Sezione di Sezione di Sezione Consigliere Consigliere Consigliere Consigliere Consigliere SENTENZA sul ricorso proposto da: COMUNE DI FIESOLE, in persona del Sindaco pro-tempore elettivamente domiciliato in Roma, Lungotevere Michelangelo 9, presso lo studio dell'avvocato Gian Marco Grez, rappresentato e difeso dall'avvocato Fausto Falorni, giusta delega in calce al ricorso; - ricorrente contro VITALI GIORGIO, elettivamente domiciliato in Roma, Lungotevere Mellini 39, presso lo studio dell'avvocato Maurizio Marucchi, rappresentato e difeso dall'avvocato Giuseppe Feri, giusta delega a margine del controricorso; - controricorrente per regolamento preventivo di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 2186-96 del Tribunale di Firenze; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26-03-99 dal Consigliere Dott. Roberto PREDEN; uditi gli Avvocati Fausto FALORNI, per il ricorrente, Giorgio VITALI, per se stesso; udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale Dott. Paolo DETTORI che ha concluso per la giurisdizione del giudice ordinario. Fatto Con atto notificato il 1°.4.1996, Giorgio Vitali conveniva davanti al Tribunale di Firenze il Comune di Fiesole per sentirlo condannare al risarcimento dei danni conseguenti al mancato inserimento, nel piano regolatore generale adottato dal Comune con deliberazione del 16.7.1971, tra le zone edificabili, dell'area di proprietà dell'istante oggetto di convenzione di lottizzazione stipulata con l'ente locale il 3.6.1964. Deduceva che il detto P.R.G. era stato annullato dal Consiglio di Stato, con decisione del 22.1.1990, per difetto di motivazione circa le ragioni che avevano indotto l'amministrazione a disattendere la convenzione. Sosteneva che, pur essendo venuta meno, per effetto di successiva variante del P.R.G. adottata nel 1984, la possibilità di realizzare la convenzione, dovevano essere risarciti i pregiudizi economici subiti nel periodo di vigenza del piano originario, che aveva illegittimamente impedito la realizzazione della lottizzazione. Il Comune resisteva ed eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice ordinario. Nel corso del giudizio il Comune ha proposto regolamento preventivo di giurisdizione. Ha resistito con controricorso il Vitali. Entrambe le parti hanno depositato memoria. Diritto 1. Con l'istanza di regolamento preventivo deduce il ricorrente che la domanda di risarcimento del danno conseguente al mancato inserimento nel P.R.G. del Comune di Fiesole, adottato nel 1971, tra le zone edificabili, dell'area di proprietà del resistente oggetto di precedente convenzione di lottizzazione, stipulata nel 1964, è improponibile per difetto assoluto di giurisdizione. Premette il ricorrente, in punto di fatto, che, giusta variante al P.R.G. approvata nel 1984, per l'area di proprietà del Vitali era stata prevista destinazione incompatibile con l'attuazione delle lottizzazione; che il P.R.G. del 1971 era stato riadottato dal Comune, per la parte annullata dal Consiglio di Stato, con deliberazione del 20.3.1990, con specifica motivazione relativa al mancato inserimento dell'area di proprietà del Vitali oggetto della convenzione di lottizzazione del 1964, in quanto destinata a verde agricolo; che il Consiglio di Stato, adito in sede di giudizio di ottemperanza della decisione del 22.1.1990, con decisione n. 800-95, aveva respinto il ricorso, sul rilievo che l'annullamento del P.R.G. del 1971 per difetto motivazione non precludeva all'Amministrazione la riproduzione dell'atto emendato del vizio accertato. Tanto precisato, osserva che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, il privato che aspiri alla realizzazione di iniziative edificatorie è titolare, nei confronti della P.A., di una posizione di mero interesse legittimo, e non già di diritto soggettivo perfetto, poiché a fronte della posizione del privato vi sono le potestà pubblicistiche della P.A. in materia di disciplina dell'assetto del territorio. Tale posizione non muta neppure a seguito della stipula di convenzione di lottizzazione, poiché questa non determina la nascita di un diritto soggettivo nei confronti del Comune, che mantiene il potere di mutare la disciplina dell'assetto del territorio, e quindi di eliminare, con successive varianti dello strumento urbanistico generale, le possibilità edificatorie previste dalla convenzione di lottizzazione. Consegue che, anche dopo la stipula della convenzione di lottizzazione, l'aspettativa del privato ad edificare concretamente (previo rilascio della concessione edilizia) è sempre da qualificare in termini di interesse legittimo, sicché l'eventuale illegittimo esercizio del potere di pianificazione del territorio deve essere denunciato davanti al giudice amministrativo. In tal senso richiama le sentenze di questa S.C. n. 4587-76; n. 4833-80; n. 2951-81; n. 44288; n. 1589-90. Osserva ancora che non rileva l'avvenuto annullamento, da parte del Consiglio di Stato, del P.R.G. del 1971, nella parte in cui non recepiva la convenzione di lottizzazione, destinando la relativa area a verde agricolo, poiché, per giurisprudenza costante, l'annullamento dell'atto amministrativo, denunciato dal privato come lesivo di un interesse legittimo, non è di per sè idoneo a mutare la qualificazione della posizione del privato nei confronti del potere di cui l'atto è espressione, che, essendo all'origine di interesse legittimo, resta tale. In tale senso richiama le sentenze n. 4833-80; n. 2951-91; n. 442-88; n. 1589-90; n. 3963-94; 10800-94. Sostiene, conclusivamente, che, avendo incontestabilmente natura di interesse legittimo la posizione giuridica soggettiva dedotta dell'attore a fondamento della domanda di risarcimento dei danni, in applicazione del remoto e costante orientamento della S.C., che esclude la risarcibilità degli interessi legittimi, deve negarsi la sussistenza di una posizione soggettiva tutelata dall'ordinamento e va dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione per improponibilità della domanda. In tal senso richiama le sentenze n. 442-88; n. 7213-86; n. 4944-91; n. 3963-94. 2. Il ricorso ripropone la questione della risarcibilità degli interessi legittimi, o meglio il problema della configurabilità della responsabilità civile, ai sensi dell'art. 2043 c.c., della P.A. per il risarcimento dei danni derivanti ai soggetti privati dalla emanazione di atti o di provvedimenti amministrativi illegittimi, lesivi di situazioni di interesse legittimo. È noto che questa S.C., con giurisprudenza definita dalla dottrina "monolitica" o addirittura "pietrificata", è costante da vari decenni nel fornire una risposta sostanzialmente negativa al quesito. Ritengono tuttavia queste S.U. di dover riconsiderare il proprio orientamento. Non possono infatti essere ignorati: a) il radicale dissenso sempre manifestato dalla quasi unanime dottrina, che ha criticato i presupposti dell'affermazione, individuati nella tradizionale lettura dell'art. 2043 c.c. e denunciato come iniqua la sostanziale immunità della P.A. per l'esercizio illegittimo della funzione pubblica che essa determina; b) il progressivo formarsi di una giurisprudenza di legittimità volta ad ampliare l'area della risarcibilità ex art. 2043 c.c., sia nei rapporti tra privati, incrementando il novero delle posizioni tutelabili, che nei rapporti tra privati e P.A., valorizzando il nesso tra interesse legittimo ed interesse materiale sottostante (elevato ad interesse direttamente tutelato); c) le perplessità più volte espresse dalla Corte costituzionale circa l'adeguatezza della tradizionale soluzione fornita all'arduo problema (sent. n. 35-1980; ord. n. 165-1998); d) gli interventi legislativi di segno opposto alla irrisarcibilità, culminati nel d.lgs. n. 80 del 1998, che, nell'operare una cospicua ridistribuzione della competenza giurisdizionale tra giudice ordinario e giudice amministrativo in base al criterio della giurisdizione esclusiva per materia, ha attribuito in significativi settori al giudice amministrativo, investito di giurisdizione esclusiva (comprensiva, quindi, delle questioni concernenti interessi legittimi e diritti soggettivi), il potere di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del "danno ingiusto". 3. Ripercorrendo la giurisprudenza di questa S.C., può constatarsi che il principio della irrisarcibilità degli interessi legittimi si è formato e consolidato con il concorso di due elementi, l'uno di carattere formale (o meglio processuale), l'altro di carattere sostanziale: a) il peculiare assetto del sistema di riparto della giurisdizione nei confronti degli atti della P.A. tra giudice ordinario e giudice amministrativo, incentrato sulla dicotomia diritto soggettivo - interesse legittimo e caratterizzato dall'attribuzione ai due giudici di diverse tecniche di tutela (il giudice amministrativo, che conosce degli interessi legittimi, può soltanto annullare l'atto lesivo dell'interesse legittimo, ma non può pronunciare condanna al risarcimento in relazione alle eventuali conseguenze patrimoniali dannose dell'esercizio illegittimo della funzione pubblica, mentre il giudice ordinario, che pur dispone del potere di pronunciare sentenze di condanna al risarcimento dei danni, non può conoscere degli interessi legittimi); b) la tradizionale interpretazione dell'art. 2043 c.c., nel senso che costituisce "danno ingiusto" soltanto la lesione di un diritto soggettivo, sul rilievo che l'ingiustizia del danno, che l'art. 2043 c.c. assume quale componente essenziale della fattispecie della responsabilità civile, va intesa nella duplice accezione di danno prodotto non iure e contra ius; non iure, nel senso che il fatto produttivo del danno non debba essere altrimenti giustificato dall'ordinamento giuridico; contra ius, nel senso che il fatto debba ledere una situazione soggettiva riconosciuta e garantita dall'ordinamento medesimo nella forma del diritto soggettivo perfetto (sent. n. 4058-69; n. 2135-72; 5813-85; n. 8496-94; n. 1540-95). 3.1. Il tema della irrisarcibilità degli interessi legittimi è stato in primo luogo affrontato ed esaminato, da queste S.U., sotto il profilo del difetto di giurisdizione. In relazione a fattispecie in cui il privato, ottenuto dal giudice amministrativo l'annullamento dell'atto lesivo di una posizione avente la originaria consistenza di interesse legittimo, aveva proposto davanti al giudice ordinario domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla lesione di detta posizione giuridica soggettiva (rimasta immutata nel suo originario spessore malgrado l'annullamento del provvedimento negativo, poiché questo si limita a ripristinare la situazione antecedente), le S.U., in sede di regolamento preventivo, hanno costantemente dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione. Hanno invero tratto argomento dall'avvenuto esaurimento della tutela erogabile in virtù dell'ordinamento, poiché il giudice amministrativo aveva ormai fornito la tutela rimessa la suo potere, mentre davanti al giudice ordinario non poteva essere proposta domanda di risarcimento del danno da lesione di posizione avente la consistenza dell'interesse legittimo, non essendo prevista dall'ordinamento, alla stregua del quale doveva essere vagliata la pretesa secondo il criterio del c.d. petitum sostanziale (costantemente applicato da questa S.C.), l'invocata tutela, perché riservata, ai sensi dell'art. 2043 c.c., ai soli diritti soggettivi (in tal senso: sent. n. 1484-81; n. 4204-82; n. 6776-83; n. 5255-84; n. 436-88; n. 2723-91; n. 4944-91; n. 7550-91; n. 1186-97). In senso critico si è osservato, peraltro, che l'adozione di una pronuncia siffatta, e cioè di una decisione che afferma l'inesistenza del diritto azionato, resa in sede di regolamento preventivo determina, di fatto, una anticipata decisione sfavorevole sul merito. Va ancora ricordato che, nella diversa ipotesi in cui la pretesa risarcitoria fosse stata zionata davanti al giudice ordinario prima di aver ottenuto dal giudice amministrativo l'annullamento dell'atto lesivo, la giurisprudenza di queste S.U. ha invece dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo, configurandosi di fronte al provvedimento autoritativo solo interessi legittimi (in tal senso: sent. n. 1917-90: n. 858691; n. 2857-92; n. 10800-94; n. 5520-96; n. 9478-97). I noti limiti della giurisdizione amministrativa determinavano tuttavia la necessaria limitazione della successiva pronuncia del giudice amministrativo alla sola pronuncia di annullamento, con conseguente riproposizione della situazione dianzi illustrata. 3.2. Secondo un diverso indirizzo di queste S.U., manifestatosi in tempi più recenti, la questione relativa alla risarcibilità degli interessi legittimi non attiene propriamente alla giurisdizione, bensì costituisce questione di merito. Si è infatti affermato che con la proposizione di una domanda di risarcimento la parte istante fa valere un diritto soggettivo, sicché bene la domanda è proposta davanti al giudice ordinario, che, in linea di principio, è giudice dei diritti (a parte i casi di giurisdizione esclusiva), al quale spetta stabilire, giudicando nel merito, sia se tale diritto esista e sia configurabile, sia se la situazione giuridica soggettiva dalla cui lesione la parte sostenga esserle derivato danno sia tale da determinare, a carico dell'autore del comportamento illecito, l'insorgere di una obbligazione risarcitoria (in tal senso: sent. n. 10453-97; n. 1096-98; ma già in precedenza, per l'affermazione che si tratta di questione di merito e non di giurisdizione, sent. n. 6667-92; n. 8836-94; n. 5477-95; n. 1030-96). Va comunque rilevato che, in forza di tale indirizzo (che appare essenzialmente rivolto a delimitare, restringendoli, i confini del regolamento preventivo, e non già ad incidere sul tema di fondo della risarcibilità degli interessi legittimi), la decisione rimessa al giudice di merito risulta comunque vincolata (e di segno negativo), in ragione della persistente vigenza del principio che vuole limitata la risarcibilità ex art. 2043 c.c. al solo danno da lesione di diritti soggettivi (non espressamente contrastato dalle dette decisioni). 3.3. Può constatarsi, quindi, che i due menzionati orientamenti approdano entrambi al medesimo risultato negativo circa la questione della risarcibilità dei danni conseguenti alla lesione dell'interesse legittimo: a) nel primo caso, è la stessa S.C., in sede di regolamento preventivo, a negare (anticipatamente) l'accesso alla tutela; b) nel secondo, la decisione negativa è soltanto differita, essendo rimessa al giudice del merito l'adozione di una pronuncia dal contenuto già prefigurato. Ed in entrambi i casi, in definitiva, l'ostacolo insormontabile è costituito da una ragione di ordine sostanziale, e cioè dalla tradizionale lettura dell'art. 2043 c.c., che identifica il "danno ingiusto" con la lesione di un diritto soggettivo. Ora, non può negarsi che dal descritto stato della giurisprudenza deriva una notevole limitazione della responsabilità della P.A. nel caso di esercizio illegittimo della funzione pubblica che abbia determinato diminuzioni o pregiudizi alla sfera patrimoniale del privato. Ma una siffatta isola di immunità e di privilegio, va ancora rilevato, mal si concilia con le più elementari esigenze di giustizia. Queste S.U. ritengono quindi di dover affrontare alla radice il problema, riconsiderando la tradizionale interpretazione dell'art. 2043 c.c., che identifica il "danno ingiusto" con la lesione di un diritto soggettivo. Interpretazione che, è bene precisarlo subito, pur costantemente riaffermata in termini di principio, è stata poi frequentemente disattesa (o meglio aggirata) da una cospicua giurisprudenza, che ha realizzato, di fatto, un notevole ampliamento dell'area della risarcibilità dei danni ex art. 2043 c.c., ponendo così le premesse per il definitivo abbandono dell'interpretazione tradizionale. Di tale percorso è opportuno ripercorrere i punti salienti. 4. È noto che la giurisprudenza di questa S.C. ha compiuto una progressiva erosione dell'assolutezza del principio che vuole risarcibile, ai sensi dell'art. 2043 c.c, soltanto la lesione del diritto soggettivo, procedendo ad un costante ampliamento dell'area della risarcibilità del danno aquiliano, quantomeno nei rapporti tra privati. Un primo significativo passo in tale direzione è rappresentato dal riconoscimento della risarcibilità non soltanto dei diritti assoluti, come si riteneva tradizionalmente, ma anche dei diritti relativi (va ricordata anzitutto la sent. n. 174-71, alla quale si deve la prima affermazione del principio, successivamente ribadita da varie pronunce, che esprimono un orientamento ormai consolidato: sent. n. 2105-80; n. 555-84; n. 5699-86; n. 9407-87). È quindi seguito il riconoscimento della risarcibilità di varie posizioni giuridiche, che del diritto soggettivo non avevano la consistenza, ma che la giurisprudenza di volta in volta elevava alla dignità di diritto soggettivo: è il caso del c.d. diritto all'integrità del patrimonio o alla libera determinazione negoziale, che ha avuto frequenti applicazioni (sent. n. 2765-82; n. 4755-86; n. 1147-92; n. 3903-95), ed in relazione al quale è stata affermata, tra l'altro, la risarcibilità del danno da perdita di chance, intesa come probabilità effettiva e congrua di conseguire un risultato utile, da accertare secondo il calcolo delle probabilità o per presunzioni (sent. n. 6506-85; n. 665791; n. 781-92; n. 4725-93). Ma ancor più significativo è stato il riconoscimento della risarcibilità della lesione di legittime aspettative di natura patrimoniale nei rapporti familiari (sent. n. 4137-81; n. 6651-82; n. 1959-95), ed anche nell'ambito della famiglia di fatto (sent. n. 2988-94), purché si tratti, appunto, di aspettative qualificabili come "legittime" (e non di mere aspettative semplici), in relazione sia a precetti normativi che a principi etico - sociali di solidarietà familiare e di costume. Siffatta evoluzione giurisprudenziale è stata condivisa nella sostanza della dottrina, che ha apprezzato le ragioni di giustizia che la ispiravano, ma ha tuttavia avuto buon gioco nel rilevare che la S.C., pur riaffermando il principio dell'identificazione del "danno ingiusto" con la lesione del diritto soggettivo, in pratica lo disattendeva sempre più spesso, "mascherando" da diritto soggettivo situazioni che non avevano tale consistenza, come il preteso diritto all'integrità del patrimonio, le aspettative, le situazioni possessorie. La via maestra che la dottrina suggeriva era invece quella di prendere atto che l'art. 2043 c.c. non costituisce norma secondaria (di sanzione) rispetto a norme primarie (di divieto), ma racchiude in sè una clausola generale primaria, espressa dalla formula "danno ingiusto", in virtù della quale è risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell'ingiustizia, in quanto lesivo di interessi ai quali l'ordinamento, prendendoli in considerazione sotto vari profili (esulanti dalle tematiche del risarcimento), attribuisce rilevanza. 5. Maggior resistenza ha mostrato invece la giurisprudenza di questa S.C. in riferimento alla risarcibilità degli interessi legittimi. Ma anche sotto tale profilo risulta che la soluzione negativa ha visto progressivamente ristretto il suo ambito di applicazione, grazie ad operazioni di trasfigurazione di alcune figure di interesse legittimo in diritti soggettivi, con conseguente apertura dell'accesso alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., a questi ultimi tradizionalmente riservata. Ciò è stato possibile focalizzando l'attenzione sull'interesse materiale sotteso (o correlato) all'interesse legittimo. L'interesse legittimo non rileva infatti come situazione meramente processuale, quale titolo di legittimazione per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo, del quale non sarebbe quindi neppure ipotizzabile lesione produttiva di danno patrimoniale, ma ha anche natura sostanziale, nel senso che si correla ad un interesse materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione (in termini di sacrificio o di insoddisfazione) può concretizzare danno. Anche nei riguardi della situazione di interesse legittimo l'interesse effettivo che l'ordinamento intende proteggere è pur sempre l'interesse ad un bene della vita: ciò che caratterizza l'interesse legittimo e lo distingue dal diritto soggettivo è soltanto il modo o la misura con cui l'interesse sostanziale ottiene protezione. L'interesse legittimo va quindi inteso (ed ormai in tal senso viene comunemente inteso) come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo e consistente nell'attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione dell'interesse al bene. In altri termini, l'interesse legittimo emerge nel momento in cui l'interesse del privato ad ottenere o a conservare un bene della vita viene a confronto con il potere amministrativo, e cioè con il potere della P.A. di soddisfare l'interesse (con provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dell'istante), o di sacrificarlo (con provvedimenti ablatori). Si delinea così, in riferimento alle diverse forme della protezione, la distinzione, ormai acquisita e di uso corrente, tra "interessi oppositivi" ed "interessi pretensivi", secondo che la protezione sia conferita al fine di evitare un provvedimento sfavorevole ovvero per ottenere un provvedimento favorevole: i primi soddisfano istanze di conservazione della sfera giuridica personale e patrimoniale del soggetto; i secondi istanze di sviluppo della sfera giuridica personale e patrimoniale del soggetto. Altre distinzioni sono certamente configurabili, in relazione a diversi profili - atteso che la categoria dell'interesse legittimo si palesa unitaria solo con riferimento all'accesso alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, e cioè ai fini dell'annullamento in sede giurisdizione del provvedimento illegittimo, mentre si diversifica ed assume varie configurazioni se considerata a fini diversi, ivi compreso quello della eventuale tutela risarcitoria -, ma soltanto a quella suindicata ritiene il Collegio di limitare la sua attenzione, in ragione della rilevanza che ha assunto, come subito si vedrà, nel tema in esame. 5.1. Con riferimento agli interessi legittimi, la giurisprudenza di questa S.C., pur riaffermandone in linea di principio la irrisarcibilità (non già per ragioni inerenti alla sua assenza, ma) quale necessario corollario della lettura tradizionale dell'art. 2043 c.c., ha manifestato una tendenza progressivamente estensiva dell'area della risarcibilità (dei danni derivanti dalla lesione di alcune figure di interesse legittimo), nel caso di esercizio illegittimo della funzione pubblica mediante attività giuridiche. Nessun limite è stato invece ravvisato, come è noto, in relazione ai comportamenti materiali della P.A., indiscussa fonte di responsabilità aquiliana (possono ricordarsi le seguenti pronunce: sent. n. 737-70; n. 2851-76; n. 9550-92; n. 3939-96). Ed ulteriore estensione del principio ha riguardato la violazione dei c.d. limiti esterni della discrezionalità, ravvisata in ipotesi in cui la P.A., omettendo di svolgere attività di vigilanza o di informazione, o compiendo erroneamente attività di certificazione, aveva determinato danni a terzi (vanno menzionate in proposito: sent. n. 6667-92; n. 8836-94; n. 9593-94; n. 5477-95; n. 1030-96). La tecnica è stata assai simile a quella, già descritta, utilizzata per ampliare l'area della risarcibilità ex art. 2043 c.c. nei rapporti tra privati, e cioè l'elevazione di determinate figure di interessi legittimi (diversificate per contenuto e forme di protezione) a diritti soggettivi. Ciò si verifica, infatti, quando si ammette la risarcibilità del c.d. diritto affievolito, e cioè dell'originaria situazione di diritto soggettivo incisa da un provvedimento illegittimo che sia stato poi annullato dal giudice amministrativo con effetto ripristinatorio retroattivo (in tal senso, tra le pronunce risalenti: sent. n. 543-69; n. 5428-79; tra quelle più recenti: sent. n. 12317-92; n. 6542-95). La vicenda può invero essere anche intesa in termini di tutela di un "interesse legittimo oppositivo", considerando che il provvedimento illegittimo estingue il diritto soggettivo, ed il privato riceve tutela grazie alla facoltà di reazione propria dell'interesse legittimo, prima davanti al giudice amministrativo, per l'eliminazione dell'atto, e successivamente davanti al giudice ordinario, che dispone del potere di condanna al risarcimento, per la riparazione delle ulteriori conseguenze patrimoniali negative. L'esigenza di ravvisare un diritto soggettivo che rinasce è palesemente dettata dalla necessità di muoversi nell'area tradizionale dell'art. 2043 c.c.. Ed analoga considerazione può valere in relazione all'ipotesi (che costituisce sviluppo di quella precedente) della c.d. riespansione della quale beneficia anche il diritto soggettivo (non originario ma) nascente da un provvedimento amministrativo, qualora sia stato annullato il successivo provvedimento caducatorio dell'atto fonte della posizione di vantaggio (tra le più rilevanti decisioni che accolgono tale ricostruzione, apparsa alla dottrina alquanto "barocca", possono ricordarsi: sent. n. 5145-79; sent. n. 5027-92; sent. n. 2443-83; sent. n. 656-86; sent. n. 2436-97; sent. n. 3384-98). Anche nell'ambito di tale vicenda può invero rilevarsi che il privato, una volta acquisita in forza del provvedimento amministrativo (di concessione, autorizzazione, licenza, ammissione, iscrizione e così via) la posizione di vantaggio, risulta titolare di un "interesse legittimo oppositivo" alla illegittima rimozione della detta situazione, del quale si avvale utilmente sia per eliminare l'atto, sia per ottenere la reintegrazione dell'eventuale pregiudizio patrimoniale sofferto (rivolgendosi in successione ai due diversi giudici, poiché nessuno dei due è titolare di giurisdizione piena: ed è palese la macchinosità del sistema che, di regola, richiede tempi lunghissimi). Vale, anche in riferimento a tale ulteriore ipotesi, l'osservazione già svolta circa le ragioni che imponevano di ravvisare un diritto soggettivo. 5.2. Da quanto detto emerge un assetto giurisprudenziale caratterizzato dalla limitazione della tutela piena (di annullamento e, successivamente, risarcitoria, nelle due diverse sedi) ai soli "interessi legittimi oppositivi" (elevati a diritti soggettivi mediante operazioni di trasfigurazione), con esclusione, quindi, dei soli "interessi legittimi pretensivi" (che invece una autorevole dottrina avrebbe voluto "promuovere", considerandoli come "diritti in attesa di espansione"). È questo il caso, emblematico, della c.d. aspettativa edilizia: la giurisprudenza di questa S.C. dopo aver ravvisato nello ius aedificandi una posizione di diritto soggettivo (sent. n. 1324-61; n. 800-63), ha infatti successivamente qualificato come interesse legittimo (pretensivo) la posizione del privato che aspiri al rilascio della licenza edilizia (possono ricordarsi, ad esempio: sent. n. 1589-90; n. 2382-92; n. 3732-94). Posizione che non muta la sua originaria consistenza anche nel caso in cui il provvedimento di diniego venga annullato, poiché l'eliminazione dell'atto negativo riproduce la situazione preesistente, suscettiva di evolversi in senso favorevole o sfavorevole in relazione all'esercizio del potere amministrativo di accogliere o disattendere le istanze di sviluppo della sfera giuridica dell'istante. Ma anche l'affermazione testè enunciata, circa l'irrisarcibilità degli interessi legittimi pretensivi va rettificata, per negare l'assolutezza. Nella giurisprudenza di questa S.C. è dato infatti individuare anche ipotesi nelle quali è stata riconosciuta la risarcibilità di interessi legittimi pretensivi: si tratta di casi, puntualmente segnalati dalla dottrina, degli interessi legittimi pretensivi lesi da fatto - reato (sent. n. 5813-85 e n. 1540-95, entrambe relative ad ipotesi di aspettative di avanzamento di carriera o di assegnazione di funzioni superiori da parte di pubblici dipendenti, frustrate da procedure concorsuali irregolari nelle quali era stata ravvisata ipotesi di reato: in tal caso il limite tradizionale dell'art. 2043 c.c. è stato superato applicando l'art. 185 c.p., che non richiede l'ingiustizia del danno). E va ancora ricordato che, ritenendosi configurabile una posizione di interesse legittimo (pretensivo) anche nei rapporti tra privati, questa S.C., ha riconosciuto la risarcibilità della lesione di tale posizione per effetto dell'illegittimo esercizio di "poteri privati" (nella specie nell'ambito di un rapporto di lavoro con un ente pubblico economico) (sent. n. 5668-79). 5.3. Può quindi concludersi, in esito alla compiuta rassegna (meramente esemplificativa, e quindi senza pretese di completezza), che anche il principio della irrisarcibilità degli interessi legittimi (pretensivi, in quanto per quelli oppositivi il limite è stato superato con le tecniche sopra descritte), malgrado sia tenacemente ribadito, risulta meno granitico di quanto comunemente si ritiene. Una nuova lettura della giurisprudenza di questa s.c., più attenta a coglierne la progressiva evoluzione, consente quindi di ritenere che il principio risulta ormai vacillante, e che sono maturi i tempi per una sua radicale revisione, cogliendo l'intimo significato di una linea di tendenza già presente in singole pronunce di questa S.C. (nella quale non sono mancate espresse sollecitazioni a superare l'orientamento tradizionale: v., in tal senso, l'obiter della sentenza n. 4083-96, al quale la dottrina ha dato particolare risalto, leggendolo come sintomo di una disagio interno alla C.S. a fronte della perdurante riaffermazione del principio negativo). 6. Concorrono altresì a giustificare un ripensamento della soluzione negativa i vari interventi di segno contrario all'affermato principio dell'irrisarcibilità degli interessi legittimi che si rinvengono nella recente legislazione. 6.1. Va anzitutto ricordato il riconoscimento, sotto la spinta dell'ordinamento comunitario, dell'azione di risarcimento (davanti al giudice ordinario previo annullamento dell'atto ad opera del giudice amministrativo) ai soggetti che abbiano subito una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori o di forniture (art. 13 della legge n. 142 del 1990, di recepimento della direttiva comunitaria n. 665-89, la cui disciplina è stata successivamente estesa agli appalti di servizi ed ai c.d. settori esclusi; la disposizione è stata peraltro abrogata dall'art. 35, comma 5 del d.lgs. n. 80 del 1998). Sul rilievo che il diritto comunitario non conosce la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi e che nella suindicata materia il privato (secondo il nostro ordinamento) è titolare di posizioni di interesse legittimo, si è sostenuto che la menzionata normativa avrebbe introdotto nel nostro ordinamento una ipotesi di risarcibilità di interessi legittimi, e si è suggerito di riconoscerle forza espansiva ultrasettoriale, così conformando l'ordinamento interno a quello comunitario (il cui primato è ormai incontroverso) ed evitando disparità di trattamento, nell'ordinamento interno, nell'ambito della generale figura dell'interesse legittimo. Il suggerimento non è stato tuttavia accolto da questa S.C., che ha ritenuto di attribuire alla suindicata normativa carattere eccezionale, traendone conferma del principio, costantemente affermato, della irrisarcibilità, non suscettivo di essere posto in discussione da una norma dettata con riferimento ad uno specifico settore (sent. n. 2667-93; n. 3732-94; n. 10800-94). Si tratta tuttavia di un indirizzo formatosi in riferimento al contingente assetto del diritto positivo, suscettivo quindi di riconsiderazione a fronte di successive modifiche dell'ordinamento: e modifiche consistenti si sono in effetti verificate, come ora si vedrà. 6.2. In contrapposizione al diniego, opposto da questa S.C. con le suindicate sentenze, di rivedere il tradizionale orientamento negativo, si rinvengono anzitutto, sul piano legislativo, ulteriori tentativi di ampliamento della responsabilità civile della P.A. per danni conseguenti all'esercizio illegittimo della funzione pubblica. Tra questi va menzionato, a titolo esemplificativo, quello perseguito dall'art. 32 della legge n. 109 del 1994, recante la previsione del rimedio risarcitorio, nelle forme di cui al citato art. 13 della legge n. 142 del 1990, in materia di appalti pubblici, ma non realizzato, perché la legge fu successivamente sospesa e la suindicata norma venne poi sostituita dall'art. 9-bis del d.l. n. 101 del 1995 (NDR: L. 02.06.1995 n. 216 art. 9 bis), introdotto dalla legge di conversione n. 216 del 1995, che non confermò il rimedio. Merita un cenno anche l'art. 5, comma 8, del d.l. n. 101 del 1993, che prevedeva la responsabilità del soggetto responsabile del procedimento per i danni arrecati al singolo per il ritardo nel rilascio della concessione edilizia, ma che non trovò conferma nella legge di conversione n. 493 del 1993 (un esauriente catalogo degli interventi legislativi, non approdati ad esito positivo, è racchiuso nell'ord. n. 165 del 1998 della Corte costituzionale, che ne sottolinea comunque la natura "settoriale"). No vale opporre che si tratta di iniziative che, per varie ragioni, non hanno avuto realizzazione, poiché anche tali interventi, solo tentati, dimostrano l'esistenza di una situazione in via di evoluzione, contrassegnata dalla consapevolezza del legislatore circa l'inadeguatezza della soluzione offerta dalla giurisprudenza in materia di responsabilità civile della P.A. per l'esercizio illegittimo della funzione pubblica. 6.3. In tale quadro evolutivo si inserisce appunto, con indubbia forza innovativa, la disciplina introdotta dal d.lgs. n. 80 del 1998, con il quale è stata data attuazione alla delega contenuta nell'art. 11, comma 4, lettera q), della legge n. 59 del 1997, che aveva previsto la devoluzione al giudice ordinario di tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti della P.A. (già attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo), e la contestuale estensione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali conseguenziali, ivi comprese quelle concernenti il risarcimento dei danni, in materia di edilizia, urbanistica e servizi pubblici. L'art. 29 del d.lgs. n. 80 del 1998 (che ha sostituito l'art. 68 del d.lgs. n. 29 del 1993) ha invero devoluto al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, la quasi totalità delle controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (già riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo), con potere di disapplicazione, in via incidentale, degli atti amministrativi presupposti, se illegittimi (con esclusione della c.d. pregiudizialità amministrativa nel caso di contemporanea pendenza del giudizio di impugnazione dell'atto davanti al giudice amministrativo: art. 68, comma 1, nel nuovo testo), e di adozione di tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi, estintivi e di condanna (art. 68, comma 2, nel nuovo testo). A loro volta gli artt. 33 e 34 hanno devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi (art. 33), nonché quelle aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti ed i comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia urbanistica ed edilizia (art. 34), mentre l'art. 35, comma 1, ha stabilito che il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli artt. 33 e 34, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del "danno ingiusto" (secondo modalità disciplinate dal comma 2). Risulta in tal modo compiuta dal legislatore una decisa scelta nel senso del superamento del tradizionale sistema del riparto della giurisdizione in riferimento alla dicotomia diritto soggettivo - interesse legittimo, a favore della previsione di un riparto affidato al criterio della materia. In particolare, per quanto concerne il giudice amministrativo, viene delineata una nuova giurisdizione esclusiva su determinate materie (di rilevante interesse sociale ed economico): nuova (rispetto a quella preesistente) perché nel contempo esclusiva, nel significato tradizionale di giurisdizione amministrativa indifferentemente estesa alla cognizione degli interessi legittimi e dei diritti, e piena, in quanto non più limitata all'eliminazione dell'atto illegittimo, ma estesa alla reintegrazione delle conseguenze patrimoniali dannose dell'atto, perché comprensiva del potere di disporre il risarcimento del "danno ingiusto" (già precluso dall'art. 7, comma 3, della legge n. 1034 del 1971, che riservava al giudice ordinario, anche nelle materie attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, le questioni relative ai diritti patrimoniali conseguenziali, comunemente identificati con il risarcimento del danno, e che è stato abrogato in tale parte dall'art. 35, comma 4, con conseguente estensione dei poteri del giudice amministrativo anche nelle ulteriori ipotesi di giurisdizione esclusiva previste da altre norme precedenti). Ora, non può negarsi che la suindicata disciplina incide in modo significativo sul tema della risarcibilità degli interessi legittimi, sia sotto il profilo strettamente processuale, concernente il riparto delle competenze giurisdizionali, sia sotto il profilo sostanziale, in quanto coinvolge il generale tema dell'ambito della responsabilità civile ex art. 2043 c.c. Per quanto riguarda il primo profilo, va osservato, in primo luogo, che l'opzione a favore di una estensione delle ipotesi di giurisdizione esclusiva, per la cui individuazione rileva la materia e non già la qualificazione della posizione giuridica soggettiva in termini di interesse legittimo o di diritto soggettivo, determina una sensibile attenuazione della generale rilevanza della distinzione tra le due figure (che pur permane nei settori non coperti dalla giurisdizione esclusiva, sicché la categoria dell'interesse legittimo continua a porsi come figura essenziale - ed unitaria - ai fini dell'accesso alla giurisdizione amministrativa di annullamento); in secondo luogo, che la scelta, compiuta dal legislatore, di realizzare davanti al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, con cognizione estesa indifferentemente agli interessi legittimi ed ai diritti soggettivi, in riferimento a vasti e rilevanti settori della vita sociale ed economica (i pubblici servizi, l'urbanistica e l'edilizia), la concentrazione di una tutela potenzialmente esaustiva per la posizione soggettiva lesa dall'esercizio illegittimo della funzione pubblica, sembra implicare la volontà di equiparare, quanto a tutela giurisdizionale, le due posizioni (che, è bene ribadirlo, gli artt. 24 e 113 Cost. pongono su un piano di pari dignità), e di assicurare effettività alla tutela giurisdizionale, evitando la necessità del successivo ricorso a due giudici diversi (che costituisce grave limitazione dell'effettività della tutela giurisdizionale, ed il cui abbandono, espressamente ribadito anche in relazione alla nuova giurisdizione del lavoro dall'art. 29 del d. lgs. 80 del 1998, non può che essere salutato con favore). Quanto al secondo profilo, va rilevato che di particolare interesse è il richiamo, contenuto nell'art. 35, comma 1, nella parte in cui estende la tutela anche al risarcimento dei danni, alla clausola "danno ingiusto". È infatti inequivocabile il riferimento all'analoga espressione che si rinviene nell'art. 2043 c.c., ma non può negarsi che l'effettuato richiamo si presta ad una duplice lettura: a) nel senso che il legislatore abbia avuto presente il "danno ingiusto" come inteso dalla giurisprudenza "pietrificata" della S.C., e quindi come lesione dei soli diritti soggettivi; b) nel senso che la formula "danno ingiusto" sia stata consapevolmente impiegata nell'accezione più ampia, che pur vive nelle opinioni della generalità della dottrina e che il legislatore aveva già in precedenza mostrato di voler fare propria, con tentativi di scarsa efficacia. Si conferma, quindi, la già avvertita esigenza di affrontare alla radice il problema, compiendo una scelta tra le due contrapposte letture dell'art. 2043 c.c., incentrate sulla diversa qualificazione del "danno ingiusto". 7. Una indiretta sollecitazione nel suindicato senso si può cogliere, d'altra parte, anche nelle già ricordate pronunce con le quali la Corte costituzionale non ha mancato di rilevare come la tesi che vuole non risarcibili i danni patrimoniali cagionati dall'esercizio illegittimo della funzione pubblica a posizioni di interesse legittimo, in base ad una delle possibili interpretazioni dell'art. 2043 c.c., determina l'insorgere di un problema di indubbia gravità, che richiede "prudenti soluzioni normative, non solo nella disciplina sostanziale ma anche nel regolamento delle competenze giurisdizionali" (sent. n. 35-89), "e nelle scelte tra misure risarcitorie, indennitarie, reintegrative in forma specifica e ripristinatorie, ed infine nella delimitazione delle utilità economiche suscettibili di ristoro patrimoniale nei confronti della P.A." (ord. n. 165-98). Il monito, o l'invito, ancorché riferito al legislatore, non può infatti non coinvolgere anche questa S.C., poiché anche alla giurisprudenza di legittimità è consentito di intervenire con efficacia nella dibattuta questione, nell'esercizio del suo potere di interpretare le norme, procedendo a riconsiderare la tradizionale interpretazione del concetto di "danno ingiusto". 8. È noto che l'opinione tradizionale, formatasi dopo l'entrata in vigore del codice civile del 1942, secondo la quale la responsabilità aquiliana si configura come sanzione di un illecito, si fonda sulle seguenti affermazioni: l'art. 2043 c.c. prevede l'obbligo del risarcimento del danno quale sanzione per una condotta che si qualifica come illecita, sia perché contrassegnata dalla colpa del suo autore, sia perché lesiva di una posizione giuridica della vittima tutelata erga omnes da altra norma primaria; l'ingiustizia menzionata dall'art. 2043 c.c. è male riferita al danno, dovendo piuttosto essere considerata attribuito della condotta, ed identificata con l'illiceità, da intendersi nel duplice senso suindicato; la responsabilità acquiliana (*) postula quindi che il danno inferto presenti la duplice caratteristica di essere contra ius, e cioè lesivo di un diritto soggettivo (assoluto), e non iure, e cioè derivante da un comportamento non giustificato da altra norma. In senso contrario, aderendo ai rilievi critici che la dottrina assolutamente prevalente ha mosso alle suindicate affermazioni, può tuttavia osservarsi, per un verso, che non emerge dal tenore letterale dell'art. 2043 c.c. che oggetto della tutela risarcitoria sia esclusivamente il diritto soggettivo (e tantomeno il diritto assoluto, come ha convenuto la giurisprudenza di questa S.C. con la sentenza n. 17471, con orientamento divenuto poi costante); per altro verso, che la scissione della formula "danno ingiusto", per riferire l'aggettivazione alla condotta, costituisce indubbia forzatura della lettera della norma, secondo la quale l'ingiustizia è requisito del danno. Non può negarsi che nella disposizione in esame risulta netta la centralità del danno, del quale viene previsto il risarcimento qualora sia "ingiusto", mentre la colpevolezza della condotta (in quanto contrassegnata da dolo o colpa) attiene all'imputabilità della responsabilità. L'area della risarcibilità non è quindi definita da altre norme recanti divieti e quindi costitutive di diritti (con conseguente tipicità dell'illecito in quanto fatto lesivo di ben determinate situazioni ritenute dal legislatore meritevoli di tutela), bensì da una clausola generale, espressa dalla formula "danno ingiusto", in virtù della quale è risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell'ingiustizia, e cioè il danno arrecato non iure, da ravvisarsi nel danno inferto in difetto di una causa di giustificazione (non iure), che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento (altra opinione ricollega l'ingiustizia del danno alla violazione del limite costituzionale di solidarietà, desumibile dagli artt. 2 e 41, comma 2, Cost., in riferimento a preesistenti situazioni del soggetto danneggiato giuridicamente rilevanti, e sotto tale ultimo profilo le tesi sostanzialmente convergono). Ne consegue che la norma sulla responsabilità aquiliana non è norma (secondaria), volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme (primarie), bensì norma (primaria) volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell'attività altrui. In definitiva, ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante. Quali siano gli interessi meritevoli di tutela non è possibile stabilirlo a priori: caratteristica del fatto illecito delineato dall'art. 2043 c.c., inteso nei sensi suindicati come norma primaria di protezione, è infatti la sua atipicità. Compito del giudice, chiamato ad attuare la tutela ex art. 2043 c.c., è quindi quello di procedere ad una selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, poiché solo la lesione di un interesse siffatto può dare luogo ad un "danno ingiusto", ed a tanto provvederà istituendo un giudizio di comparazione degli interessi in conflitto, e cioè dell'interesse effettivo del soggetto che si afferma danneggiato, e dell'interesse che il comportamento lesivo dell'autore del fatto è volto a perseguire, al fine di accertare se il sacrificio dell'interesse del soggetto danneggiato trovi o meno giustificazione nella realizzazione del contrapposto interesse dell'autore della condotta, in ragione della sua prevalenza. Comparazione e valutazione che, è bene precisarlo, non sono rimesse alla discrezionalità del giudice, ma che vanno condotte alla stregua del diritto positivo, al fine di accertare se, e con quale consistenza ed intensità, l'ordinamento assicura tutela all'interesse del danneggiato, con disposizioni specifiche (così risolvendo in radice il conflitto, come avviene nel caso di interesse protetto nella forma del diritto soggettivo, soprattutto quando si tratta di diritti costituzionalmente garantiti o di diritti della personalità), ovvero comunque lo prende in considerazione sotto altri profili (diversi dalla tutela risarcitoria), manifestando così una esigenza di protezione (nel qual caso la composizione del conflitto con il contrapposto interesse è affidata alla decisione del giudice, che dovrà stabilire se si è verificata una rottura del "giusto" equilibrio intersoggettivo, e provvedere a ristabilirlo mediante il risarcimento). In particolare, nel caso (che qui interessa) di conflitto tra interesse individuale perseguito dal privato ed interesse ultraindividuale perseguito dalla P.A., la soluzione non è senz'altro determinata dalla diversa qualità dei contrapposti interessi, poiché la prevalenza dell'interesse ultraindividuale, con correlativo sacrificio di quello individuale, può verificarsi soltanto se l'azione amministrativa è conforme ai principi di legalità e di buona amministrazione, e non anche quando è contraria a tali principi (ed è contrassegnata, oltre che da illegittimità, anche dal dolo o dalla colpa, come più avanti si vedrà). 9. Una volta stabilito che la normativa sulla responsabilità aquiliana ha funzione di riparazione del "danno ingiusto", e che è ingiusto il danno che l'ordinamento non può tollerare che rimanga a carico della vittima, ma che va trasferito sull'autore del fatto, in quanto lesivo di interessi giuridicamente rilevanti, quale che sia la loro qualificazione formale, ed in particolare senza che assuma rilievo determinante la loro qualificazione in termini di diritto soggettivo, risulta superata in radice, per il venir meno del suo presupposto formale, la tesi che nega la risarcibilità degli interessi legittimi quale corollario della tradizionale lettura dell'art. 2043 c.c. La lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di altro interesse (non di mero fatto ma) giuridicamente rilevante, rientra infatti nella fattispecie della responsabilità aquiliana solo ai fini della qualificazione del danno come ingiusto. Ciò non equivale certamente ad affermare la indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale. Potrà infatti pervenirsi al risarcimento soltanto se l'attività illegittima della P.A. abbia determinato la lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento. In altri termini, la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima (e colpevole) della P.A., l'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell'ordinamento positivo. Per quanto concerne gli interessi legittimi oppositivi, potrà ravvisarsi danno ingiusto nel sacrificio dell'interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio conseguente all'illegittimo esercizio del potere. Così confermando, nel risultato al quale si perviene, il precedente orientamento, qualora il detto interesse sia tutelato nelle forme del diritto soggettivo, ma ampliandone la portata nell'ipotesi in cui siffatta forma di tutela piena non sia ravvisabile e tuttavia l'interesse risulti giuridicamente rilevante nei sensi suindicati. Circa gli interessi pretensivi, la cui lesione si configura nel caso di illegittimo diniego del richiesto provvedimento o di ingiustificato ritardo nella sua adozione, dovrà invece vagliarsi la consistenza della protezione che l'ordinamento riserva alle istanze di ampliamento della sfera giuridica del pretendente. Valutazione che implica un giudizio prognostico, da condurre in riferimento alla normativa di settore, sulla fondatezza o meno della istanza, onde stabilire se il pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva, e cioè di una situazione che, secondo la disciplina applicabile, era destinata, secondo un criterio di normalità, ad un esito favorevole, e risultava quindi giuridicamente protetta. 10. Occorre ora chiedersi quali conseguenze comporta la nuova lettura della normativa sulla responsabilità aquiliana in tema di riparto di giurisdizione. La questione, dovendo la Corte pronunciarsi nell'ambito di un giudizio pendente alla data del 30.6.1998, va esaminata con riferimento alla disciplina vigente, in tema di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, anteriormente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 80 del 1998, che ha introdotto le già richiamate significative innovazioni circa il criterio di riparto. La nuova normativa trova infatti applicazione, secondo quando prevede la disciplina transitoria dettata dall'art. 45, comma 18, in relazione alle controversie di cui agli artt. 33 e 34 instaurate a partire dal 1.7.1998, mentre resta ferma la giurisdizione prevista dalla precedente normativa per i giudizi pendenti alla data del 30.6.1998. Ora, ritengono queste S.U. che, alla stregua della nuova lettura dell'art. 2043 c.c., va senz'altro confermato, con le necessarie precisazioni, l'indirizzo secondo il quale non dà luogo a questione di giurisdizione, ma attiene al merito, la contestazione circa la risarcibilità degli interessi legittimi. Deve infatti ribadirsi, ai fini del giudizio sulla giurisdizione, in relazione ai giudizi pendenti alla data del 30.6.1998: a) che l'azione di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. nei confronti della P.A. per esercizio illegittimo della funzione pubblica bene è proposta davanti al giudice ordinario, quale giudice al quale spetta, in linea di principio (secondo il previgente ordinamento), la competenza giurisdizionale a conoscere di questioni di diritto soggettivo, poiché tale natura esibisce il diritto al risarcimento del danno, che è diritto distinto dalla posizione giuridica soggettiva la cui lesione è fonte di danno ingiusto (che può avere, indifferentemente, natura di diritto soggettivo, di interesse legittimo, nelle sue varie configurazioni correlate alle diverse forme della protezione, o di interesse comunque rilevante per l'ordinamento); b) che stabilire se la fattispecie di responsabilità della P.A. per atti o provvedimenti illegittimi dedotta in giudizio sia riconducibile nel paradigma dell'art. 2043 c.c., secondo la nuova lettura, costituisce questione di merito, atteso che l'eventuale incidenza della lesione su una posizione di interesse legittimo non deve essere valutata ai fini della giurisdizione, bensì ai fini della qualificazione del danno come ingiusto, in quanto lesivo di un interesse giuridicamente rilevante; c) che una questione di giurisdizione è configurabile soltanto se sussiste, in relazione alla materia nella quale è sorta la fattispecie, una giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, estesa alla cognizione dei diritti patrimoniali conseguenziali, e quindi delle questioni relative al risarcimento dei danni (ipotesi che non si ravvisa nel caso in esame, poiché, pur vigendo, ai sensi dell'art. 16 della legge n. 10 del 1977, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in tema di diniego di concessione edilizia, tale giurisdizione non è estesa ai diritti patrimoniali conseguenziali in ragione del limite posto dall'art. 7 della legge n. 1034 del 1971). 11. Per quanto concerne, invece, il merito della pretesa, la nuova lettura dell'art. 2043 c.c. alla quale queste S.U. sono pervenute, impone di fornire alcune precisazioni circa i criteri ai quali deve attenersi il giudice di merito. Qualora sia stata dedotta davanti al giudice ordinario una domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. nei confronti della P.A. per illegittimo esercizio della funzione pubblica, il detto giudice, onde stabilire se la fattispecie concreta sia o meno riconducibile nello schema normativo delineato dall'art. 2043 c.c., dovrà procedere, in ordine successivo, a svolgere le seguenti indagini: a) in primo luogo, dovrà accertare la sussistenza di un evento dannoso; b) procederà quindi a stabilire se l'accertato danno sia qualificabile come danno ingiusto, in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l'ordinamento, che può essere indifferentemente un interesse tutelato nelle forme del diritto soggettivo (assoluto o relativo), ovvero nelle forme dell'interesse legittimo (quando, cioè, questo risulti funzionale alla protezione di un determinato bene della vita, poiché è la lesione dell'interesse al bene che rileva ai fini in esame, o altro interesse (non elevato ad oggetto di immediata tutela, ma) giuridicamente rilevante (in quanto preso in considerazione dall'ordinamento a fini diversi da quelli risarcitori, e quindi non riconducibile a mero interesse di fatto); c) dovrà inoltre accertare, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei noti criteri generali, se l'evento dannoso sia riferibile ad una condotta (positiva o omissiva) della P.A.; d) provvederà, infine, a stabilire se il detto evento dannoso sia imputabile a dolo o colpa della P.A.; la colpa (unitamente al dolo) costituisce infatti componente essenziale della fattispecie della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.; e non sarà invocabile, ai fini dell'accertamento della colpa, il principio secondo il quale la colpa della struttura pubblica sarebbe in re ipsa nel caso di esecuzione volontaria di atto amministrativo illegittimo, poiché tale principio, enunciato dalla giurisprudenza di questa S.C. con riferimento all'ipotesi di attività illecita, per lesione di un diritto soggettivo, secondo la tradizionale interpretazione dell'art. 2043 c.c. (sent. n. 884-61; n. 814-67; n. 16-78; n. 5361-84; n. 3293-94; n. 6542-95), non è conciliabile con la più ampia lettura della suindicata disposizione, svincolata dalla lesione di un diritto soggettivo; l'imputazione non potrà quindi avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell'azione amministrativa, ma il giudice ordinario dovrà svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell'illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente (da riferire ai parametri nella negligenza o imperizia), ma della P.A. intesa come apparato (in tal senso, v. sent. n. 5883-91) che sarà configurabile nel caso in cui l'adozione e l'esecuzione dell'atto illegittimo (lesivo dell'interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità. Rispetto al giudizio che, nei termini suindicati, può svolgersi davanti al giudice ordinario, non sembra ravvisabile la necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento. Questa è stata infatti in passato costantemente affermata per l'evidente ragione che solo in tal modo si perveniva all'emersione del diritto soggettivo, e quindi all'accesso alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., riservata ai soli diritti soggettivi, e non può quindi trovare conferma alla stregua del nuovo orientamento, che svincola la responsabilità aquiliana dal necessario riferimento alla lesione di un diritto soggettivo. E l'autonomia tra le due giurisdizioni risulta ancor più netta ove si consideri il diverso ambito dei giudizi, ed in particolare l'applicazione, da parte del giudice ordinario, ai fini di cui all'art. 2043 c.c., di un criterio di imputazione della responsabilità non correlato alla mera illegittimità del provvedimento, bensì ad una più complessa valutazione, estesa all'accertamento della colpa, dell'azione amministrativa denunciata come fonte di danno ingiusto. Qualora (in relazione ad un giudizio in corso) l'illegittimità dell'azione amministrativa (a differenza di quanto è avvenuto nel procedimento in esame) non sia stata previamente accertata e dichiarata dal giudice amministrativo, il giudice ordinario ben potrà quindi svolgere tale accertamento al fine di ritenere o meno sussistente l'illecito, poiché l'illegittimità dell'azione amministrativa costituisce uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 2043 c.c. 12. Esula dall'oggetto del presente giudizio vagliare la coerenza degli affermati principi in relazione alle controversie instaurate a partire dal 1°.7.1998, ma non può non rilevarsi, per completezza di esame, che la realizzata concentrazione davanti al giudice amministrativo della giurisdizione piena (di annullamento e di risarcimento) nelle materia attribuite alla giurisdizione esclusiva del detto giudice (sia essa "nuova" o "vecchia", poiché la coerenza del sistema indurrebbe a ritenere che la tutela risarcitoria sia erogabile dal giudice amministrativo in entrambi i casi, superando il limite della lettera dell'art. 35, commi 1, 4 e 5) risolve in radice il problema di cui si è finora discusso. Qualora, peraltro, la fattispecie produttiva di danno sia insorta nell'ambito di materia non attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, dovrebbe ritenersi applicabile il principio affermato in riferimento ai giudizi pendenti, anche per quanto concerne l'accertamento diretto, da parte del giudice ordinario, dell'illegittimità dell'atto amministrativo quale elemento costitutivo della fattispecie dell'illecito civile nei sensi definiti dalla presente decisione, così realizzandosi anche su tale versante una sorta di concentrazione di tutela (come del resto espressamente prevede l'art. 68, comma 1, del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo sostituito dall'art. 29, comma 1, del d.lgs. n. 80 del 1998, per la materia del lavoro). Si tratta, tuttavia, con ogni evidenza, di questione che riguarda una disciplina ancora in evoluzione (risulta alla Corte che è all'esame del Parlamento un disegno di legge, n. 2934 del Senato, recante disposizioni in materia di giustizia amministrativa, che sembra volto ad ampliare i poteri di tutela risarcitoria del giudice amministrativo), e comunque meritevole di approfondimento, sulla quale queste S.U. si riservano di intervenire non appena se ne presenterà l'occasione. 13. In conclusione, il ricorso per regolamento di giurisdizione va dichiarato inammissibile: la questione con esso proposta, alla stregua delle suesposte considerazioni, non configura questione di giurisdizione, bensì questione di merito. 14. Sussistono giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese del giudizio di cassazione. P.Q.M La Corte dichiara il ricorso inammissibile e compensa le spese. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle sezioni unite civili della Corte di cassazione, il 26.3.1999. Cassazione civile , sez. un., 23 gennaio 2006, n. 1207 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CARBONE Vincenzo - Primo Presidente aggiunto Dott. SENESE Salvatore - Presidente di sezione Dott. PRESTIPINO Giovanni - Consigliere Dott. SABATINI Francesco - Consigliere Dott. ALTIERI Enrico - Consigliere Dott. VITRONE Ugo - rel. Consigliere Dott. LO PIANO Michele - Consigliere Dott. PICONE Pasquale - Consigliere Dott. BERRUTI Giuseppe M. - Consigliere ha pronunciato la seguente: ordinanza sul ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione proposto da: R.L., elettivamente domiciliato in Roma, Via delle Quattro Fontane, n. 16, presso l'avv. PICOZZA Eugenio che lo rappresenta e difende per procura a margine del ricorso; - ricorrente nei confronti del: COMUNE DI SPEZZANO NELLA SILA; - intimato Intimato nel giudizio pendente tra le parti dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria con il N.R.G. 163 del 2003; udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 24 novembre 2005 dal Relatore Cons. Dr. Ugo VITRONE; lette le richieste del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto, come modificate in udienza dall'Avv. Gen. Dott. IANNELLI Domenico che ha concluso per la dichiarazione della giurisdizione del giudice ordinario. Fatto Che con decisione del 16 febbraio 2000 il Consiglio di Stato confermava la pronuncia del Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria che aveva annullato la deliberazione della Giunta del Comune di Spezzano nella n. 1005 del 1998 avente a oggetto l'espropriazione, tra altri, di un fabbricato appartenente a R.L., sito in Piazza (OMISSIS), destinato alla demolizione per la realizzazione del progetto di arredo urbano della frazione di (OMISSIS); che con ricorso notificato il 29 gennaio 2003 R.L. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria il Comune di Spezzano nella Sila per sentirlo - condannare al risarcimento dei danni per la demolizione del fabbricato in misura di Euro. 452.355,00; che il ricorrente ha proposto regolamento preventivo di giurisdizione sostenendo che nella specie la controversia appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario. Diritto Che il Giudice amministrativo, tanto nell'esercizio della giurisdizione generale di legittimità quanto nell'esercizio della giurisdizione esclusiva, conosce di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento dei danni ai sensi della l.1034/1971, art.7, come modificato dal d.lgs. 80/1998; che la giurisdizione esclusiva in materia di edilizia ed urbanistica di cui al predetto d.lgs. 80/1998, art.34, va interpretata - all'esito degli interventi della Corte Costituzionale - non già come istituzione di una nuova figura di giurisdizione esclusiva e piena con riferimento all'intero ambito delle controversie relative ad atti, provvedimenti e comportamenti delle amministrazioni pubbliche, bensì come mera estensione dell'ambito della la giurisdizione già spettante alle controversie aventi a oggetto i diritti patrimoniali consequenziali, con l'attribuzione al privato di un ulteriore strumento di tutela nei suoi rapporti con la Pubblica Amministrazione (sent. 281/2004); che nella materie suddette la giurisdizione amministrativa si configura come giurisdizione sugli atti e sui provvedimenti, restando esclusa dal suo ambito la cognizione sui meri comportamenti della Pubblica Amministrazione (sent. 204/2004); che la connessione legale tra tutela demolitoria e tutela risarcitoria è peraltro subordinata al l'iniziativa del ricorrente il quale resta libero di esercitare in un unico contesto entrambe le azioni passando attraverso il giudizio di ottemperanza per ottenere il risarcimento del danno, ovvero di riservarsi l'esercizio separato dell'azione risarcitoria dopo aver ottenuto l'annullamento dell'atto o del provvedimento illegittimo, proponendo la sua domanda al Giudice ordinario, cui compete in via generale la cognizione sulle posizioni di diritto soggettivo; che pertanto, salva restando l'attribuzione al Giudice ordinario della cognizione incidentale sull'atto amministrativo e del potere di disapplicarlo ne dell'atto illegittimo nei casi in cui esso venga in rilievo non già come causa della lesione del diritto soggettivo dedotto in giudizio, ma solo come mero antecedente sicchè la questione della sua legittimità venga a prospettarsi come pregiudiziale in senso tecnico, resta esclusa dalla sua giurisdizione l'azione risarcitoria avente a oggetto il pregiudizio derivante da un atto amministrativo definitivo per difetto di tempestiva impugnazione, essendogli precluso il sindacato in via principale sull'atto o sul provvedimento amministrativo; che, conseguentemente, qualora non venga in contestazione il legittimo esercizio dell'attività amministrativa - come avviene nei caso in cui l'atto amministrativo sia stato annullato o revocato dall'Amministrazione nell'esercizio del suo potere di autotutela, ovvero sia stato rimosso a seguito di pronuncia definitiva del giudice amministrativo, ovvero ancora abbia esaurito i suoi effetti per il decorso del termine di efficacia ad esso assegnato dalla legge - l'azione risarcitoria rientra nella giurisdizione generale del giudice ordinario, non operando nella specie la connessione legale fra tute la demolitoria e tutela risarcitoria; che, facendo applicazione di tali principi alla fattispecie in esame dev'essere dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario; che la natura delle questioni sottoposte all'esame della Corte costituisce giusta causa di compensazione delle spese giudiziali; tutto ciò considerato. P.Q.M LA CORTE Decidendo a sezioni unite, dichiara la giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria e dispone la compensazione totale delle spese giudiziali. Così deciso in Roma, il 24 novembre 2005. Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2006 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Annibale MARINI Presidente - Franco BILE Giudice - Giovanni Maria FLICK “ - Francesco AMIRANTE “ - Ugo DE SIERVO “ - Romano VACCARELLA “ - Paolo MADDALENA “ - Alfio FINOCCHIARO “ - Alfonso QUARANTA “ - Franco GALLO “ - Luigi MAZZELLA “ - Gaetano SILVESTRI “ - Sabino CASSESE “ - Maria Rita SAULLE “ - Giuseppe TESAURO “ ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo B), trasfuso nell’art. 53, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), promossi con ordinanze del 22 ottobre 2004 e del 5 maggio 2005 dal Tribunale amministrativo per la Calabria sui ricorsi proposti da Marzano Fabrizio ed altri contro il Ministero dell’interno ed altri e da Carè Ilario contro il Comune di Nardodipace, iscritte ai numeri 36 e 425 del registro ordinanze 2005 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 7 e 37, prima serie speciale, dell’anno 2005. Udito nella camera di consiglio dell’8 marzo 2006 il Giudice relatore Romano Vaccarella. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 22 ottobre 2004 (n. 36 del 2005), il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria ha sollevato, in riferimento agli artt. 25 e 102, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), nella parte in cui devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «le controversie aventi per oggetto […] i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti ad esse equiparati, conseguenti alla applicazione delle disposizioni del testo unico», segnatamente allorché detti comportamenti riguardino progetti la cui dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza sia intervenuta prima dell’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001. 1.1.– Il giudizio, introdotto nell’anno 2000, nel corso del quale il dubbio è stato prospettato, ha avuto origine da una causa intentata dagli eredi del titolare di un fondo, oggetto di accessione invertita, contro il Ministero dell’interno, l’Ente nazionale per le strade (ANAS) e il Concordato preventivo IGIEMME, già impresa Grandinetti Michele costruzioni s.n.c. (quest’ultima in qualità di concessionaria per l’espropriazione e per l’esecuzione dei lavori), al fine di ottenere il ristoro dei danni subiti in conseguenza della perdita della proprietà di un immobile, che, durante il periodo di occupazione disposta in vista della realizzazione di un’opera pubblica, aveva subìto una radicale trasformazione, in mancanza di un valido decreto di esproprio. 1.2.– In punto di rilevanza, osserva il rimettente che il comma 1 dell’art. 53 del d.P.R. n. 327 del 2001 devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «le controversie aventi per oggetto […] i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti ad esse equiparati, conseguenti alla applicazione delle disposizioni del testo unico», mentre il successivo comma 3 mantiene ferma la giurisdizione del giudice ordinario per le sole controversie riguardanti «la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa». Rileva quindi come la giurisprudenza, nell’affrontare le problematiche di diritto transitorio connesse all’entrata in vigore del testo unico sulle espropriazioni, abbia distinto tra norme di carattere sostanziale e norme di carattere processuale, condivisibilmente ritenendo queste ultime, e quindi anche l’art. 53, applicabili a tutti i giudizi pendenti, pur se introdotti prima dell’entrata in vigore del testo unico stesso: del resto – rileva il rimettente – la predetta norma si salda, ad essi sostituendosi, con l’art. 34, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), e con l’art. 7, lettera b), della legge 21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa), che già attribuivano tali controversie al giudice amministrativo. L’applicazione del primo comma dell’art. 53 comporta, pertanto, che la cognizione della controversia dedotta in giudizio – che «verte in ordine alla domanda di riparazione del pregiudizio subito dal privato in conseguenza di un comportamento materiale dell’amministrazione qualificabile come illecito» – spetta al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva. 1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, ricorda il giudice a quo che la Corte costituzionale, con la sentenza 204/2004, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 1, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, comma 1, lettera b), della legge 21 luglio 2000, n. 205, nella parte in cui prevede la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie aventi per oggetto «gli atti, i provvedimenti e i comportamenti», anziché delle sole controversie aventi per oggetto «gli atti e i provvedimenti», delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti alle stesse equiparati, in materia urbanistica ed edilizia, e cioè in una materia che abbraccia tutti gli aspetti dell’uso del territorio, ivi compresa la disciplina dell’acquisizione dei beni all’amministrazione a seguito, o per effetto, di procedimenti espropriativi. Orbene, le stesse argomentazioni che hanno indotto il giudice delle leggi alla declaratoria di incostituzionalità, nei termini innanzi precisati – e segnatamente l’ affermazione secondo cui nei «comportamenti […] la pubblica amministrazione non esercita nemmeno mediatamente […] alcun pubblico potere», e che «la mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio» non è sufficiente «perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo (il quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice “della” pubblica amministrazione, con violazione degli artt. 25 e 102, secondo comma, della Costituzione») –, si presterebbero ad operare con riferimento alla devoluzione al giudice amministrativo dei comportamenti della pubblica amministrazione in materia espropriativa, a meno che essi non riguardino progetti in relazione ai quali la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza sia stata pronunziata dopo l’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001: e invero in tal caso ben potrebbe l’amministrazione avvalersi del disposto dell’art. 43, comma 1, per il quale «valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni». La previsione di un siffatto potere di dichiarazione «postuma» di pubblica utilità dell’opera, connotato da evidenti profili di discrezionalità, consentirebbe infatti – nella prospettiva adottata dalla Corte costituzionale con riguardo all’ipotesi, per vero di portata minore, di uso, da parte della pubblica amministrazione, di strumenti intrinsecamente privatistici, in quanto forma di esercizio «mediato» del potere pubblico – di ritenere giustificata l’attribuzione della materia al giudice amministrativo. Il medesimo potere, peraltro, differenzierebbe nettamente la fattispecie di cui all’art. 53 del d.P.R. n. 327 del 2001, da quella di cui all’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998; il che spiegherebbe anche perché la Corte nella sentenza 204/2004 non ritenne di estendere d’ufficio la statuizione di illegittimità anche a tale ultima norma, ex art. 27 della legge 11 marzo 1953 n. 87. Sottolinea, infine, il rimettente che nel caso dedotto in giudizio la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dell’opera è intervenuta «ben prima del 30 giugno 2003». 1.4.– Per le ragioni esposte il TAR per la Calabria ritiene non manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001, nella parte in cui devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «le controversie aventi per oggetto […] i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti ad esse equiparati, conseguenti alla applicazione delle disposizioni del testo unico», segnatamente allorché detti comportamenti riguardino progetti la cui dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza è intervenuta prima dell’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001, per violazione degli artt. 25 e 102, secondo comma, della Costituzione. 2.– Con ordinanza del 5 maggio 2005 (n. 425 del 2005), il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo B) – «cui è conforme l’art. 53, comma 1, del d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327» – per contrasto con l’art. 103 della Costituzione, nella parte in cui prevede la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie concernenti i comportamenti delle amministrazioni pubbliche, e dei soggetti equiparati, in materia di espropriazione per pubblica utilità. 2.1.– Il dubbio è stato prospettato nel corso di un giudizio proposto dal proprietario di un terreno, oggetto di decreto di occupazione d’urgenza emesso dal Sindaco del Comune di Nardodipace in data 14 gennaio 1992, in vista della realizzazione, entro cinque anni dalla data dell’immissione in possesso, di infrastrutture di carattere turistico-sportivo. Decorso tale termine senza che fosse stato emesso provvedimento di esproprio né corrisposta alcuna indennità, il ricorrente, dopo avere adìto il Tribunale di Vibo Valentia, che aveva dichiarato il proprio difetto di giurisdizione a conoscere la controversia, aveva chiesto al Tribunale amministrativo regionale per la Calabria la condanna del convenuto al pagamento dell’indennità di occupazione nonché al risarcimento del danno per la perdita del diritto dominicale conseguente all’irreversibile trasformazione del fondo. 2.2.– Osserva il rimettente che quest’ultima domanda si fonda sull’avvenuto perfezionamento di una fattispecie di occupazione acquisitiva, nella quale l’acquisto della proprietà del fondo, in mancanza di tempestivo e formale provvedimento di esproprio, si ricollega alla sua irreversibile trasformazione, avvenuta nell’ambito di un procedimento ablativo iniziato con una valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità. Peraltro – osserva il rimettente – rispetto a tale parte del petitum si impone la verifica della sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, posto che, dopo l’introduzione del giudizio, è intervenuta la sentenza della Corte 204/2004, dichiarativa della parziale illegittimità, per contrasto con l’art. 103 della Costituzione, dell’art. 34, comma 1, del decreto legislativo n. 80 del 1998, modificato dall’art. 7, comma 1, lettera b), della legge n. 205 del 2000 nella parte in cui, comprendendo nella giurisdizione esclusiva, anche i «comportamenti», estende la cognizione del giudice amministrativo a controversie nelle quali la pubblica amministrazione non esercita nemmeno mediatamente, «e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici, alcun pubblico potere». Ricorda segnatamente il giudice a quo che il fenomeno dell’occupazione acquisitiva è stato unanimemente ricondotto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia urbanistica, prevista dall’art. 34, comma 1, del menzionato decreto legislativo n. 80 del 1998, in considerazione del riferimento, contenuto in tale disposizione, ai «comportamenti» delle amministrazioni e dell’ampia nozione di «urbanistica» accolta dal comma 2 della stessa norma, secondo una prospettiva fatta propria anche dal giudice delle leggi, nella sentenza innanzi menzionata. Segnala quindi che, ai fini della decisione della controversia dedotta in giudizio, assume rilevanza l’art. 53 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325, il quale, parzialmente riproduttivo dell’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998, e non toccato dalla pronuncia di incostituzionalità, afferma la perdurante vigenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in ordine alle controversie concernenti fattispecie di appropriazione acquisitiva. Precisa, in particolare, il giudicante di non condividere l’assunto secondo cui l’intervento attuato dalla Consulta nei confronti dell’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998 avrebbe travolto anche l’art. 53, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001, nella parte in cui estende la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai «comportamenti» della pubblica amministrazione: a suo avviso, tale approdo ermeneutico sarebbe in contrasto con le previsioni di legge – e segnatamente con l’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), in base al quale spetta alla Corte costituzionale individuare le disposizioni la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata – oltre che contraddetto e dalla diversa estensione della previsione racchiusa nella norma censurata, estesa anche agli accordi, e dal suo carattere speciale rispetto al disposto dell’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998. Segnala altresì il rimettente che l’art. 53 del d.P.R. n. 327 del 2001 si inserisce nel contesto normativo delle espropriazioni, in cui vi è una forte accentuazione dei poteri di carattere autoritativo e in cui sono presenti norme, come l’art. 43, che, sia pure in vista del superamento del fenomeno dell’occupazione appropriativa, «sembrerebbero strettamente collegate alla previsione concernente la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in ordine ai comportamenti dell’amministrazione pubblica», quanto meno con riferimento alla mera utilizzazione del bene per finalità di pubblico interesse. 2.3.– In punto di non manifesta infondatezza, osserva il Tribunale rimettente che gli argomenti che indussero la Corte costituzionale a dichiarare la parziale illegittimità dell’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998, ben potrebbero riferirsi anche all’art. 53, comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325. E, invero, nella menzionata pronuncia, il Giudice delle leggi, escluso che l’art. 103 della Costituzione abbia conferito al legislatore ordinario una assoluta e incondizionata discrezionalità nell’individuazione delle materie da devolvere alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ritenne non conforme al dettato costituzionale l’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998, nella parte in cui estendeva detta giurisdizione, in materia urbanistica ed edilizia, anche ai comportamenti, così allargando l’ambito della giurisdizione esclusiva a fattispecie in cui la pubblica amministrazione non esercita, neppure mediatamente, un pubblico potere. La decisione della Corte costituzionale avvalorerebbe allora il dubbio di contrasto col medesimo parametro anche dell’art. 53 del testo unico delle espropriazioni, norma che, benché non meramente riproduttiva dell’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998, e speciale rispetto ad essa, riconduce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo fattispecie nelle quali l’acquisto della proprietà del bene si realizza in conseguenza di meri comportamenti della pubblica amministrazione. 2.4.– In ordine alla rilevanza della questione, osserva il rimettente che il giudizio, concernente una fattispecie acquisitiva perfezionatasi prima dell’entrata in vigore del nuovo testo unico in materia di espropriazioni, avvenuta il 30 giugno 2003, è stato introdotto successivamente a tale data, risultando il ricorso notificato il 26 settembre 2003 e depositato il successivo 13 ottobre. Di modo che, ai sensi dell’art. 5 del codice di procedura civile, non possono esservi dubbi sull’applicabilità alla fattispecie dedotta in giudizio della norma sospettata di illegittimità. 2.5. – Per le ragioni esposte, il TAR per la Calabria dubita della compatibilità, con l’art. 103 della Costituzione, dell’art. 53, comma 1, del decreto legislativo n. 325 del 2001, nella parte in cui prevede la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie concernenti i comportamenti delle amministrazioni pubbliche, e dei soggetti equiparati, in materia di espropriazione per pubblica utilità. Considerato in diritto 1.– Il TAR per la Calabria, sede di Catanzaro, solleva, con ordinanza n. 36 del 2005, in riferimento agli artt. 25 e 102, comma secondo, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), e con ordinanza n. 425 del 2005, in riferimento all’art. 103 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo B), disposizione trasfusa nell’art. 53, comma 1, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, innanzi menzionato, nella parte in cui devolvono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto i «comportamenti» delle pubbliche amministrazioni, e dei soggetti ad esse equiparati, in materia di espropriazione per pubblica utilità. Entrambe le ordinanze – emesse nel corso di giudizi nei quali era stata proposta domanda di risarcimento dei danni per avere subìto, il fondo di proprietà dei ricorrenti, radicali trasformazioni durante il periodo di occupazione disposta per la realizzazione di un’opera pubblica senza che fosse intervenuto il decreto di esproprio – osservano che l’art. 53, comma 1, prevede la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie aventi ad oggetto (anche) «i comportamenti» delle pubbliche amministrazioni, e cioè la medesima ipotesi che questa Corte – con la sentenza 204/2004 – ha espunto, ritenendola costituzionalmente illegittima, dall’art. 34, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), come sostituito dall’art. 7, comma 1, lettera b), della legge 21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa). L’ordinanza n. 36 del 2005 precisa che il dubbio circa la conformità a Costituzione della norma de qua non avrebbe ragion d’essere ove la dichiarazione di pubblica utilità ed urgenza fosse stata pronunciata dopo l’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001 (e cioè dopo il 30 giugno 2003: art. 1 del decreto legislativo n. 302 del 2002), dal momento che in tal caso opererebbe (ex art. 57 del d.P.R. n. 327, come modificato dal citato art. 1 del decreto legislativo n. 302 del 2002) anche l’art. 43 del medesimo d.P.R., il quale attribuisce alla pubblica amministrazione il potere (certamente sindacabile dal giudice amministrativo) di acquisire l’immobile, «modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità», al patrimonio indisponibile con «condanna al risarcimento del danno e con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo»; poiché nel caso sottoposto al suo esame la dichiarazione di pubblica utilità è intervenuta «ben prima del 30 giugno 2003», la previsione (che sarebbe certamente di diritto sostanziale) dell’art. 43 non potrebbe operare e, pertanto, ci si troverebbe in una situazione perfettamente analoga a quella che era disciplinata dall’art. 34 (dichiarato incostituzionale dalla sentenza 204/2004), del quale l’art. 53, comma 1, riproduce (aggiungendovi soltanto «gli accordi») il contenuto. 2.– Va rilevato che mentre una ordinanza (n. 425 del 2005) vede nella dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, una sorta di completamento di quanto, ex art. 27 della legge n. 87 del 1953, già con la sentenza 204/2004 questa Corte avrebbe potuto fare; l’altra (n. 36 del 2005) osserva che il mancato utilizzo da parte della Corte dello strumento della dichiarazione consequenziale di illegittimità costituzionale si giustificherebbe per il collegamento, sopra ricordato, della previsione di cui all’art. 53, comma 1, con quella di cui all’art. 43: sicché, ove tale collegamento ratione temporis non operi, il riferimento ai “comportamenti” dovrebbe essere cassato come lo fu quello contenuto nell’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998. Ne discende che il petitum delle due ordinanze diverge in ciò, che l’una (n. 425) sollecita una pronuncia che definitivamente espunga dalla norma censurata la locuzione “i comportamenti”, mentre l’altra (n. 36) chiede che la Corte ciò faccia relativamente ai giudizi nei quali non potrebbe trovare applicazione la norma (ritenuta) di diritto sostanziale (art. 43), che, sola, giustifica la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in quanto contempla un potere della pubblica amministrazione sindacabile da parte di quel giudice. 3.– Questa Corte, con la sentenza 204/2004, ha giudicato di questioni di legittimità costituzionale che investivano, da un lato, l’art. 33 (relativo ai pubblici servizi) e, dall’altro, l’art. 34 (relativo all’edilizia ed urbanistica) del d.lgs. n. 80 del 1998, come modificati dall’art. 7 (lettere a e b) della legge n. 205 del 2000, in quanto con tali norme il legislatore aveva «sostituito al criterio di riparto della giurisdizione fissato in Costituzione, e costituito dalla dicotomia diritti soggettivi-interessi legittimi, il diverso criterio dei “blocchi di materie”» (punto 2.1. del Considerato in diritto). La Corte ha osservato che le censure mosse dai giudici rimettenti «colgono nel segno nella parte in cui denunciano l’adozione, da parte del legislatore ordinario del 1998-2000, di un’idea di giurisdizione esclusiva ancorata alla pura e semplice presenza, in un certo settore dell’ordinamento, di un rilevante pubblico interesse», laddove «è evidente che il vigente art. 103, primo comma, Cost., non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell’attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare “particolari materie” nelle quali “la tutela nei confronti della pubblica amministrazione” investe “anche” diritti soggettivi». «Tale necessario collegamento delle “materie” assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive – e cioè con il parametro adottato dal Costituente come ordinario discrimine tra le giurisdizioni ordinaria ed amministrativa – è espresso dall’art. 103 laddove statuisce che quelle materie devono essere “particolari” rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità: e cioè devono partecipare della loro medesima natura, che è contrassegnata dalla circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo», sicché, «da un lato, è escluso che la mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo […] e, dall’altro lato, è escluso che sia sufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo» (punto 3.2.). Sulla base di tali premesse, questa Corte – dopo aver distinto nell’ambito dell’art. 33 le ipotesi in cui la materia dei servizi pubblici era legittimamente devoluta al giudice amministrativo in quanto «la pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo» da quelle prive di tale connotato (punto 3.4.2.) – ha osservato che «analoghi rilievi investono la nuova formulazione dell’art. 34», la quale «si pone in contrasto con la Costituzione nella parte in cui, comprendendo nella giurisdizione esclusiva – oltre “gli atti e i provvedimenti” attraverso i quali le pubbliche amministrazioni […] svolgono le loro funzioni pubblicistiche in materia urbanistica ed edilizia – anche “i comportamenti”, la estende a controversie nelle quali la pubblica amministrazione non esercita – nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici – alcun pubblico potere» (punto 4.3.3. del Considerato in diritto). 3.1.– Discende, dalla sommaria esposizione dell’iter argomentativo seguito dalla sentenza 204/2004, che non è corretta la premessa dalla quale implicitamente muovono entrambe le ordinanze di rimessione, e cioè che, avendo questa Corte espunto dalla disposizione di cui all’art. 34 la locuzione “i comportamenti”, tale espunzione non possa non estendersi all’identica locuzione impiegata nell’art. 53, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001. Tale tesi, infatti, si fonda esclusivamente sulla circostanza che, con il suo dispositivo, la sentenza 204/2004 ha inciso sul testo dell’art. 34, ma trascura del tutto non soltanto la motivazione che è alla base di quel dispositivo, ma anche, e soprattutto, la valenza che la locuzione espunta aveva, specie in relazione alla questione di legittimità costituzionale allora sottoposta alla Corte, nella disposizione dell’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998. Ed infatti, nell’affrontare la questione del se fosse costituzionalmente legittimo devolvere alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “blocchi di materie” ed in particolare l’intera “materia urbanistica ed edilizia” (comprensiva, la prima, di “tutti gli aspetti dell’uso del territorio”), questa Corte ha ravvisato – come risulta dalla motivazione della sentenza – nella locuzione “i comportamenti” lo strumento utilizzato dal legislatore per operare l’indiscriminata devoluzione che si andava a censurare: sicché l’espunzione di tale locuzione, per la funzione “di chiusura” assegnatale dal legislatore nell’art. 34, valeva a ribadire che la “materia edilizia ed urbanistica” non poteva essere devoluta “in blocco” alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ma poteva esserlo nei limiti precisati nella motivazione. 3.2.– La questione di legittimità costituzionale sulla quale questa Corte è ora chiamata a pronunciarsi investe (non più la pretesa del legislatore ordinario di attribuire alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “in blocco” la materia edilizia ed urbanistica, ma) specificamente la conformità a Costituzione – e, segnatamente, agli artt. 25, 102, comma secondo, e 103 – della norma che, in tema di espropriazione per pubblica utilità, devolve «alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto», oltre che «gli atti, i provvedimenti, gli accordi», anche «i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti ad esse equiparati»; questione che, per quanto si è fin qui osservato, non può essere risolta attraverso la semplice e meccanica estensione a questa disposizione dell’espunzione (solo perché, allora, operata) della locuzione de qua dall’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998. Va, altresì, precisato che, non essendo implausibile la tesi per cui l’art. 53, in quanto norma processuale (e non anche l’art. 43, in quanto norma di diritto sostanziale), troverebbe applicazione nei giudizi aventi ad oggetto fattispecie non governate, quanto al diritto sostanziale, dal d.P.R. n. 327 del 2001, la questione di legittimità costituzionale ora all’esame della Corte concerne l’art. 53, comma 1, esclusivamente nella sua valenza di norma attributiva della giurisdizione al giudice amministrativo, e pertanto senza che in alcun modo possa esserne coinvolta la norma nella parte in cui – essendo applicabile l’art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001 – presuppone la possibilità che sia sindacato dal giudice amministrativo l’esercizio, da parte della pubblica amministrazione, del potere di acquisire al suo patrimonio indisponibile l’immobile modificato. Peraltro la questione sollevata è rilevante nei giudizi a quibus perché, non essendo implausibile la tesi dell’immediata applicabilità dell’art. 53, comma 1, quale norma processuale (specie a giudizi incardinati nella vigenza dell’art. 34 del d. lgs. n. 80 del 1998, come modificato dalla legge n. 205 del 2000) e pendendo la causa davanti al giudice amministrativo, l’eventuale carenza di sua giurisdizione a norma dell’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998 – a seguito dell’espunzione della locuzione “i comportamenti” operata da questa Corte – legittimerebbe (ex art. 5 del codice di procedura civile) una pronuncia declinatoria della giurisdizione solo ove fosse dichiarata costituzionalmente illegittima la disposizione dell’art. 53, comma 1, che ex novo rende il giudice amministrativo munito di giurisdizione: se è vero, infatti, che la giurisdizione si determina con riguardo alla legge vigente al momento della proposizione della domanda, è anche vero che il sopravvenire della giurisdizione in capo al giudice che originariamente ne era (o ne era divenuto) sfornito impedisce – per pacifica giurisprudenza – la pronuncia declinatoria. 4.– Le questioni sono fondate nei limiti di seguito precisati. 4.1.– Entrambe le fattispecie oggetto dei giudizi a quibus sono riconducibili alle ipotesi tradizionalmente denominate (in giurisprudenza e dottrina) di occupazione appropriativa (ovvero, anche, di accessione invertita o espropriazione sostanziale): il che si verifica quando il fondo è stato occupato a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, e pertanto nell’ambito di una procedura di espropriazione, ed ha subìto una irreversibile trasformazione in esecuzione dell’opera di pubblica utilità senza che, tuttavia, sia intervenuto il decreto di esproprio o altro atto idoneo a produrre l’effetto traslativo della proprietà. Tale fenomeno viene contrapposto a quello cosiddetto di occupazione usurpativa, caratterizzato dall’apprensione del fondo altrui in carenza di titolo: carenza universalmente ravvisata nell’ipotesi di assenza ab initio della dichiarazione di pubblica utilità, e da taluni anche nell’ipotesi di annullamento, con efficacia ex tunc, della dichiarazione inizialmente esistente ovvero di sua inefficacia per inutile decorso dei termini previsti per l’esecuzione dell’opera pubblica. Nel caso dell’occupazione appropriativa, perfezionandosi con l’irreversibile trasformazione del fondo la traslazione in capo all’amministrazione del diritto di proprietà, il proprietario del fondo non può che chiedere la tutela per equivalente, laddove, nel caso dell’occupazione usurpativa (rectius: nelle ipotesi – in relazione a taluna delle quali non v’è unanimità di consensi – ad essa riconducibili) il proprietario può scegliere tra la restituzione del bene e, ove a questa rinunci così determinando il prodursi (dei presupposti) dell’effetto traslativo, la tutela per equivalente. 4.2.– È evidente che la soluzione della questione di legittimità costituzionale in esame non può che muovere da quanto questa Corte, con la più volte citata la sentenza 204/2004, ha statuito riguardo all’art. 35 (come modificato dall’art. 7, lettera c, della legge n. 205 del 2000) del d.lgs. n. 80 del 1998; statuizione, va precisato, e non già obiter dictum, in quanto la Corte – investita della questione di legittimità costituzionale della devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dei “blocchi di materie” relative ai servizi pubblici ed all’edilizia ed urbanistica e del potere, altresì, di giudicare di azioni risarcitorie riconosciutogli come attributo della giurisdizione esclusiva – non poteva non considerare, quanto meno con riferimento al disposto dell’art. 35, comma 1, se anche la tutela risarcitoria fosse configurabile come una “materia” devoluta in blocco alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In proposito questa Corte ha statuito che «il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova “materia” attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione». 4.3.– I principi appena ricordati impongono di escludere che, per ciò solo che la domanda proposta dal cittadino abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno, la giurisdizione competa al giudice ordinario: ciò dicendo non intende questa Corte prendere posizione sul tema della natura della situazione soggettiva sottesa alla pretesa risarcitoria, ovvero sulla natura (di norma secondaria, id est sanzionatoria di condotte aliunde vietate, oppure primaria) dell’art. 2043 cod. civ., ma esclusivamente ribadire che laddove la legge – come fa l’art. 35 del d.lgs. n. 80 del 1998 – costruisce il risarcimento del danno, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, come strumento di tutela affermandone – come è stato detto – il carattere “rimediale”, essa non viola alcun precetto costituzionale e, anzi, costituisce attuazione del precetto dell’art. 24 Cost. laddove questo esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva e sia resa in tempi ragionevoli. In altri termini, al precedente sistema che, in considerazione della natura intrinseca di diritto soggettivo della situazione giuridica conseguente all’annullamento del provvedimento amministrativo, attribuiva al giudice ordinario «le controversie sul risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti amministrativi» (così l’art. 35, comma 5, del d. lgs. n. 80 del 1998, come modificato dall’art. 7, lettera c della legge n. 205 del 2000), il legislatore ha sostituito (appunto con l’art. 35 cit.) un sistema che riconosce esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per l’illegittimo esercizio della funzione. Da ciò consegue che, ai fini del riparto di giurisdizione, è irrilevante la circostanza che la pretesa risarcitoria abbia – come si ritiene da alcuni –, o non abbia, intrinseca natura di diritto soggettivo: avendo la legge, a questi fini, inequivocabilmente privilegiato la considerazione della situazione soggettiva incisa dall’illegittimo esercizio della funzione amministrativa, a questa Corte competeva (e compete) solo di valutare se tale scelta del legislatore – di collegare, cioè, quanto all’attribuzione della giurisdizione, la tutela risarcitoria a quella della situazione soggettiva incisa dal provvedimento amministrativo illegittimo – confligga, o non, con norme costituzionali; ciò che, con la più volte ricordata sentenza 204/2004, questa Corte ha escluso. 5.– Le considerazioni fin qui esposte rendono palese che la questione di legittimità costituzionale sollevata dalle ordinanze de quibus non può risolversi in base al solo petitum, id est alla domanda di risarcimento del danno, bensì considerando il fatto, dedotto a fondamento della domanda, che si assume causativo del danno ingiusto. Con espressione ellittica l’art. 53, comma 1, individua (anche) nei “comportamenti” della pubblica amministrazione il fatto causativo del danno ingiusto, in parte qua riproducendo il contenuto dell’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998 (come modificato dall’art. 7 della legge n. 205 del 2000). Tale previsione è costituzionalmente illegittima là dove la locuzione, prescindendo da ogni qualificazione di tali “comportamenti”, attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo controversie nelle quali sia parte − e per ciò solo che essa è parte − la pubblica amministrazione, e cioè fa del giudice amministrativo il giudice dell’amministrazione piuttosto che l’organo di garanzia della giustizia nell’amministrazione (art. 100 Cost.). Viceversa, nelle ipotesi in cui i “comportamenti” causativi di danno ingiusto – e cioè, nella specie, la realizzazione dell’opera – costituiscono esecuzione di atti o provvedimenti amministrativi (dichiarazione di pubblica utilità e/o di indifferibilità e urgenza) e sono quindi riconducibili all’esercizio del pubblico potere dell’amministrazione, la norma si sottrae alla censura di illegittimità costituzionale, costituendo anche tali “comportamenti” esercizio, ancorché viziato da illegittimità, della funzione pubblica della pubblica amministrazione. In sintesi, i principi sopra esposti – peraltro già enunciati da questa Corte con la sentenza 204/2004 – comportano che deve ritenersi conforme a Costituzione la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie relative a “comportamenti” (di impossessamento del bene altrui) collegati all’esercizio, pur se illegittimo, di un pubblico potere, laddove deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva di “comportamenti” posti in essere in carenza di potere ovvero in via di mero fatto. L’attribuzione alla giurisdizione del giudice amministrativo della tutela risarcitoria – non a caso con la medesima ampiezza, e cioè sia per equivalente sia in forma specifica, che davanti al giudice ordinario, e con la previsione di mezzi istruttori, in primis la consulenza tecnica, schiettamente “civilistici” (art. 35, comma 3) – si fonda sull’esigenza, coerente con i principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost., di concentrare davanti ad un unico giudice l’intera tutela del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica (così Corte di cassazione, sez. un., 22 luglio 1999, n. 500 ), ma non si giustifica quando la pubblica amministrazione non abbia in concreto esercitato, nemmeno mediatamente, il potere che la legge le attribuisce per la cura dell’interesse pubblico. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo B), trasfuso nell’art. 53, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), nella parte in cui, devolvendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative a «i comportamenti delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti ad esse equiparati», non esclude i comportamenti non riconducibili, nemmeno mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 maggio 2006. Annibale MARINI, Presidente Romano VACCARELLA, Redattore Depositata in Cancelleria l'11 maggio 2006. Cassazione civile , Sezioni Unite, ordinanza n. 13659/2006 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CARBONE Vincenzo - Presidente Aggiunto Dott. PRESTIPINO Giovanni - Presidente di sezione Dott. SENESE Salvatore - Presidente di sezione Dott. SABATINI Francesco - Consigliere Dott. ALTIERI Enrico - Consigliere Dott. VITRONE Ugo - Consigliere Dott. LO PIANO Michele - Consigliere Dott. PICONE Pasquale - rel. Consigliere Dott. BERRUTI Giuseppe Maria - Consigliere ha pronunciato la seguente: ordinanza sull'istanza di regolamento della giurisdizione proposta da: C.A., elettivamente domiciliato in Roma, Via Giuseppe Pisanelli, n. 2, presso l'avv. Gnisci Leonardo, che lo difende conprocura speciale apposta a margine del ricorso; - ricorrente contro UNIVERSITA' - intimata – STATALE DEGLI STUDI DI PISA, in persona del rettore incarica; e contro F.E., elettivamente domiciliato in Roma, Via Vicenzo Ambrosio, n. 4, presso l'avv. Alessandro Bellomi, che, unitamenteall'avv. Conticelli Giulio, lo difende con procura a margine del controricorso; - resistente – in relazione a giudizio pendente dinanzi al Tribunale di Firenze (R.g. n. 4464/2003) promosso da C.A. con citazione del 13-3-2003. Nella Camera di consiglio del 24.11.2005: lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero in persona delSostituto Procuratore Generale Dott. Ciccolo Pasquale, che ha chiestodichiararsi la giurisdizione amministrativa; lette le memorie depositate dal C. e dal F.; sentiti gli avv. Gnisci e Conticelli; sentita la relazione del Cons. Dott. Picone. Fatto 1. C.A. propone istanza per il regolamento della giurisdizione in relazione a giudizio pendente dinanzi al Tribunale di Firenze (R.g. n. 4464/03), promosso nei confronti dell'Università degli studi di Pisa e di F.E. con citazione del 3 maggio 2003, per la condanna dei convenuti, in solido, al risarcimento dei danni cagionatigli dall'illegittima esclusione dal corso di dottorato di ricerca. L'istante, premesso che le parti convenute avevano eccepito il difetto di giurisdizione ordinaria, chiede che le Sezioni unite della Corte di Cassazione dichiarino competente il giudice ordinario. 2. Riferisce il C. che, previa partecipazione al concorso indetto dall'Università di Pisa, era stato ammesso al corso per il conseguimento del dottorato di ricerca in storia, istituzioni e relazioni internazionali dei Paesi extraeuropei, relatore e tutore il prof. F.E.. Durante lo svolgimento del corso, dopo il primo anno, il prof. F. aveva, assunto comportamenti di contrapposizione e ostacolo della sua attività di ricerca, culminati nella presentazione di una relazione sull'atti vita del dottorando "volutamente quanto ingiustamente negativa". Con Decreto del rettore 12 dicembre 1999, n. 01/1607, era stata disposta la sua esclusane dal proseguimento del corso sulla base della relazione del prof. F., approvata dal collegio dei docenti. 3. Resiste con controricorso F.E., mentre non ha svolto attività di resistenza l'Università; con le conclusioni scritte il Pubblico ministero ha chiesto dichiararsi la giurisdizione del giudice amministrativo trattandosi di pretesa risarcitoria consequenziale all'ambito di giurisdizione riconosciuta al giudice amministrativo dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63, comma 4. Hanno depositato memorie il C. ed il F. Diritto 1. La Corte, a sezioni unite, in parziale difformità dalle conclusioni del Pubblico Ministero, regola la giurisdizione nel senso che appartiene alla cognizione del giudice amministrativo la controversia promossa nei confronti dell'Università degli studi di Pisa; alla cognizione del giudice ordinario la controversia promossa nei confronti del prof. F.E.. 2. Va premesso che, nel caso di specie, non viene in rilievo l'ambito attribuito alla giurisdizione amministrativa dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63, comma 4, relativamente alle controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Il dottorato di ricerca, come disciplinato dal D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382 (Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonchè sperimentazione organizzativa e didattica) - e successive modificazioni e integrazioni - è titolo accademico che si consegue all'esito di un corso preordinato a sviluppare autonome capacità di ricerca scientifica, attraverso le quali evidenziare originalità creativa e rigore metodologico (e, difatti, le relative prove di esame sono intese ad accertare l'attitudine del candidato alla ricerca scientifica: stesso D.P.R. n. 382 del 1980, art. 71, comma 4). L'ammissione al corso, quindi, non instaura un rapporto di lavoro, nè ha natura retributiva l'eventuale borsa di studio attribuita al dottorando. 3. Gli effetti dannosi sono collegati dal C. sia alle modalità di gestione del corso, sia, in particolare, al decreto rettoriale di esclusione. Secondo le disposizioni del D.P.R. n. 382 del 1980, art. 68, in vigore all'epoca dei fatti (l'articolo è stato abrogato dalla L. 3 luglio 1998, n. 210, art. 6, a far data dall'anno successivo all'entrata in vigore del decreto ministeriale di cui all'art. 4, comma 2, della detta legge - D.M. 30 aprile 1999, n. 224 -), il titolo di dottore di ricerca è conseguito a seguito di svolgimento di attività di ricerca, successive al conseguimento del diploma di laurea, che abbiano dato luogo, con contributi originali, alla conoscenza in settori uni o interdisciplinari; la stessa norma precisa i contenuti degli studi; contempla, alla fine di ciascun anno, la presentazione di particolareggiata relazione sull'attività e le ricerche svolte al collegio dei docenti; prevede, infine, che la valutazione dell'assiduita e dell'operosità possa portare a proporre al rettore l'esclusione dal proseguimento del corso di dottorato di ricerca. Non si può, perciò, dubitare della sussistenza di una fattispecie di esercizio di attività autoritativa dell'amministrazione universitaria, quanto all'ammissione al corso, alle verifiche e controlli sul suo svolgimento, all'esclusione dallo stesso. La pretesa risarcitoria, quindi, è stata proposta con riguardo all'uso dannoso della funzione amministrativa, sia, come si diceva, in relazione alle modalità di organizzazione, indirizzo e controllo dei corsi (si vedano le numerose illegittimità imputate al tutor, prof. F.), sia, e soprattutto, con riguardo al provvedimento di esclusione dal proseguimento del corso. 4. L'appartenenza alla giurisdizione amministrativa di legittimità (che si configura anche in ambito di materie di giurisdizione esclusiva) del controllo sulle determinazioni dell'amministrazione universitaria in ordine ai corsi di dottorato, discende dalla sicura attribuzione di "poteri" all'amministrazione, discrezionali, o anche vincolati - in quanto radicati sopra giudizi tecnico-scientifici, espressioni di discrezionalità cd. tecnica - siccome le norme escludono sicuramente la configurabilità di pretese del dottorando protette con la consistenza del diritto soggettivo quanto allo svolgimento dei corsi e al conseguimento del titolo. 5. Le sezioni unite sono chiamate a pronunciarsi sulla questione di giurisdizione in tema di responsabilità civile della p.a. connessa ad attività provvedimentale. L'argomento, a partire dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, ha dato origine, com'è noto, ad un vasto dibattito in dottrina ed in giurisprudenza, in particolare dopo le decisioni di parziale illegittimità costituzionale pronunciate da giudice delle leggi con le sentenze 6 luglio 2004, n. 204 e 28 luglio 2004, n. 281, sulla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in relazione alla L. 21 luglio 2000, n. 205 ("Disposizioni in materia di giustizia amministrativa"): decisioni alle quali si è di recente aggiunta la sentenza 3 maggio 2006, n. 191, con cui è stato dichiarato in parte illegittimo il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 327, art. 53, comma 1 ("Testo unico delle disposizioni legislative in materia di espropriazioni per pubblica utilità"). Orbene, due sono gli aspetti di questo tema, cui le sezioni unite sono chiamate a dare risposta: come, dopo la L. 205 del 2000, è ripartita tra giudice ordinario e giudice amministrativo la tutela giurisdizionale intesa a far valere la responsabilità della p.a. da attività provvedimentale illegittima; se la parte si può limitare a chiedere il risarcimento del danno, senza dover anche chiedere l'annullamento e quale sia il regime di tale diversa forma di tutela giurisdizionale, una volta che la si ammetta. E, per una corretta impostazione del problema - sia sulle modifiche del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, intervenute negli anni dal 1992 al 2000, sia sugli effetti della dichiarazione di incostituzionalità del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, dell'art. 33, commi 1 e 2, e art. 34, comma 1, come novellati dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 7 - è opportuno prendere l'avvio dalle considerazioni svolte dalla Corte costituzionale, nella sentenza 204, sui lavori preparatori della Costituzione. 6. In quella sede, come ha osservato la Corte, si ribadi "l'indispensabile riassorbimento nella Costituzione dei principi fondamentali della L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E", ispirati al principio dell'unità della giurisdizione, ma vi emerse il contrasto tra la tesi - perdente - a favore del giudice unico ("l'esercizio del potere giudiziario in materia civile, penale e amministrativa appartiene esclusivamente ai giudici ordinari") e quella vincente, per il mantenimento di giudici diversi da quelli ordinaria quali Consiglio di Stato e Corte dei conti ("una divisione dei vari ordini di giudici ... ognuno dei quali fa parte a sè"). La regola tradizionale del riparto della giurisdizione - se si tratta di diritti soggettivi la giurisdizione è del giudice ordinario, se è fatto valere un interesse legittimo la giurisdizione appartiene al giudice amministrativo - trova il proprio antecedente storico e logico nella L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, artt. 2 e 4, tuttora vigenti. Se la legge è uguale per tutti, anche per la p.a., il cittadino che ha subito un pregiudizio ad un suo diritto può rivolgersi al giudice ordinario e il giudice si limiterà a conoscere gli effetti dannosi dell'atto amministrativo, senza sindacare le scelte discrezionali, del tutto autonome, della p.a.. La legge del 1865 realizza così il principio dell'unità della giurisdizione, ma questa regola si rivelerà non idonea ad assicurare una tutela adeguata al cittadino, sia per la grande quantità di controversie che la legge abolitiva del contenzioso riservava all'autorità amministrativa, così sottraendola al sindacato giurisdizionale, sia per una certa timidezza del giudice ordinario nel dare applicazione ai principi sanciti dalla L. del 1865, allegato E. E' in questa situazione che, nel 1889, si registra la scelta per l'introduzione del sindacato sugli atti amministrativi da parte di un organo consultivo, il Consiglio di Stato, la cui natura giurisdizionale viene poi esplicitamente affermata con la L. n. 642 del 1907 istitutiva della 5^ Sezione del Consiglio di Stato. L'area delle situazioni tutelabili davanti a un giudice è in tal modo ampliata. L'assetto così realizzato trova conferma nel R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, (Consiglio di Stato). Questo assetto non viene d'altro canto inciso dalla introduzione della "giurisdizione esclusiva". La giurisdizione sui diritti è devoluta al Consiglio di Stato in casi tassativamente enumerati, a conferma della regola generale posta alla base del riparto. Si tratta di una giurisdizione esclusiva, obiettivamente diversa, allora, da quella voluta dal legislatore in questi ultimi anni. Limitata a pochi "casi di confine", la sua introduzione è spiegata con la difficoltà di distinguere nel l'aggrovigliato intreccio tra diritti soggettivi e interessi legittimi, anche se la sua introduzione stava ad indicare un chiaro recupero della logica propria del contenzioso amministrativo abolito nel 1865. Tale è l'assetto cristallizzato nella Costituzione del 1948, che all'art. 24 da riconoscimento sostanziale alla tutela sia del diritto soggettivo che dell'interesse legittimo e mentre all'art. 103 c.p.c., comma 1, limita la giurisdizione del giudice amministrativo in tema di diritti soggettivi alle "particolari materie" indicate dalla legge, nell'art. 113 c.p.c., rimette alla legge di indicare il giudice che può annullare l'atto amministrativo e le conseguenze dell'annullamento. Questo assetto continua a riflettersi nella legislazione successiva, sino al D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80. Invero, come nei nove "particolari" casi enucleati nel R.D. 30 settembre 1923, n. 2840, art. 8 (ribaditi nel R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, della L. n. 1034 del 1971, artt. 29 e 7) così in quelli successivamente introdotti (tra gli altri: L. n. 1185 del 1967, art. 11; L. n. 10 del 1977, art. 16; L. n. 47 del 1985, art. 35; L. n. 210 del 1985, art. 11; L. n. 241 del 1990, artt. 11 e 15; L. n. 287 del 1990, art. 33, comma 1.; D.Lgs. n. 74 del 1992, art. 7, comma 11; L. n. 109 del 1994, art. 4, comma 7; L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 25; L. n. 249 del 1997, art. 1, comma 26), sono sempre rimaste riservate al giudice ordinario le questioni attinenti ai diritti patrimoniali consequenziali, compreso il risarcimento del danno. Ma, vale la pena di notarlo, è in questo assetto normativo che la giurisprudenza ha nel tempo elaborato, e con costanza applicato, i principi dell'irrisarcibilità dell'interesse legittimo, della degradazione del diritto ad interesse e della pregiudizialità amministrativa. Sicchè non sarà senza ragione, se questo assetto normativo ed il bagaglio dei concetti che sono valsi a dargli spiegazione, apparirà richiedere modifiche, una volta che si affermerà, con il D.Lgs. n. 80 del 1998, la contraria regola della risarcibilità dell'interesse legittimo. 7. Facendo un passo indietro e tornando al riparto delle giurisdizioni, va detto che il dibattito restava aperto, non tanto sull'ubi consistam del riparto, non più contestato, quanto sull'esatta individuazione dei rispettivi territori, dei diritti e degli interessi, che non vivevano in mondi separati, poichè gli uni e gli altri costellavano il rapporto tra privato e p.a., vagando da un rapporto di coesistenza ad uno di successione, in situazioni dal confine incerto, a volte dubbio, di "facile trapasso" (Cass., sez. un., 5 dicembre 1987 n. 9095 e 9096). Il sistema - al di là di qualche decisione provocatoria della Cassazione, rimasta isolata (Cass., sez. 1^, 3 maggio 1996 n. 4083), o di eccezioni di incostituzionalità, poi disattese (Corte Cost., 8 maggio 1998 n. 165) - è durato dal 1865 fino al 1992 (un periodo lungo ben 127 anni). A metterlo in crisi sono stati i principi comunitari in tema di appalti pubblici di lavori o forniture. L'introduzione di una fattispecie di risarcibilità degli interessi legittimi lesi, in violazione del diritto comunitario, viene alla luce con la L. 19 febbraio 1992, n. 142, art. 13 (Legge Comunitaria del 1991). In attuazione della direttiva del consiglio Ce n. 665/89 del 21 dicembre 1989, si riconosceva, in materia di aggiudicazione di appalti pubblici, la possibilità di ottenere, dopo l'annullamento dell'atto lesivo da parte del giudice amministrativo, il risarcimento del danno dal giudice ordinario. Tuttavia, l'itinerario da percorrere apparve subito particolarmente gravoso, in quanto si obbligava il privato ad adire prima il giudice amministrativo per l'annullamento e, poi, il giudice ordinario per il risarcimento del danno, così mettendo in discussione il principio di effettività della tutela giurisdizionale sancito dall'art. 24 Cost.. Il legislatore italiano, in un primo tempo, estese la norma anche agli appalti dei settori esclusi (L. 19 dicembre 1992, n. 489, art. 11) e poi agli appalti di servizi (L. 22 febbraio 1994, n. 146, art. 11, lett. i): legge comunitaria per il 1993), ma, per negare la valenza dirompente sul precedente riparto, si preferì considerarla "una norma di settore e non di portata generale" (Cass., sez. un., 20 aprile 1994 n. 3732). Di qui un deciso cambiamento di rotta con la soppressione del richiamo della L. n. 142 del 1992, art. 13 contenuto nella L. 11 febbraio 1994, n. 109, art. 32, comma 3, per effetto della novella introdotta dal D.L. 3 aprile 1995, n. 101, convertito con modifiche nella L. 2 giugno 1995, n. 216. La "rivoluzionaria disposizione" è stata infine espressamente abrogata dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 35, u.c. (divenuto L. n. 205 del 2000, art. 7, u.c.), insieme con "ogni altra disposizione che prevede la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento del danno Conseguente all'annullamento di atti amministrativi". Si può dunque dire, per un verso, che la disposizione introdotta con la L. n. 142 del 1992 ha contribuito a smantellare il precedente sistema orientato ad evitare il risarcimento del danno da lesione dell'interesse legittimo; e per altro verso che per il suo mezzo sono state poste le premesse perchè la Corte costituzionale sia stata indotta a riconoscere nella concentrazione delle tutele dinanzi allo stesso giudice una piena attuazione dell'art. 24 Cost.. 8. E' nel quadro sino ad ora descritto che il legislatore di fine secolo introduce una nuova specie di giurisdizione esclusiva, separata anche dalla giurisdizione di legittimità e ancorata a "settori" dell'ordinamento pubblico, con rilevante presenza di un pubblico interesse. Il Governo con il D.Lgs. n. 80 del 1998 - anche superando i limiti della delega conferita dalla L. 15 marzo 1997, n. 59, art. 11, comma 4, lett. g), - e, dopo la dichiarazione di incostituzionalità (Corte Cost. 17 luglio 2000, n. 292), il Parlamento con la L. n. 205 del 2000, attribuiscono i "settori particolari" degli appalti e servizi pubblici nonchè dell'edilizia e urbanistica ad una "nuova" giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, estesa anche ai diritti patrimoniali consequenziali e al risarcimento del danno. Il legislatore, inoltre, estende la nuova giurisdizione non solo alle vecchie ipotesi di "servizi pubblici, edilizia ed urbanistica", ma a qualsiasi fattispecie di giurisdizione esclusiva vecchia o nuova. Si porta a compimento l'indirizzo che vede nella giurisdizione esclusiva "il ramo più fertile e cioè più proiettato nel futuro della giurisdizione amministrativa". Nel contempo, la risarcibilità dell'interesse legittimo, già prevista dal D.Lgs. n. 80 del 1998 (ma ricondotta dalle sentenze della Corte Costituzionale n. 292 del 2000 e n. 281 del 2004 nei limiti della delega conferita con la L. n. 59 del 1997) è estesa all'intero ambito delle situazioni giuridiche giustiziabili davanti al giudice amministrativo. 9. In conclusione, l'ordinamento ha ora accolto il principio della risarcibilità della lesione dell'interesse legittimo in conseguenza dell'illegittimità dell'atto amministrativo, prevedendo - in attuazione della regola della concentrazione - che il giudice amministrativo può conoscere di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno e disporlo. 10. Il tessuto normativo che è alla base della soluzione da adottare si può così sintetizzare. Il D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 35, come sostituito dalla L. n. 205 del 2000, art. 7, lettera c), nel comma 1 stabilisce che "Il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto". Il citato articolo, nel comma 4 (sostituendo il primo periodo della L. n. 1034 del 1971, art. 7, comma 3), prevede che "Il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali". A sua volta, il comma 2 disciplina le modalità di determinazione della somma dovuta, disponendo che ".. il giudice amministrativo può stabilire i criteri in base ai quali l'amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell'avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, con il ricorso previsto dal testo unico approvato con R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, art. 27, comma 1, numero 4), può essere chiesta la determinazione della somma dovuta". 11. La dichiarazione di incostituzionalità non ha colpito la normativa appena ricordata; ha invece riguardato la L. n. 205 del 2000, art. 7 per la mancata esclusione dall'ambito della giurisdizione esclusiva delle controversie "nelle quali può essere del tutto assente ogni profilo riconducibile alla pubblica amministrazione - autorità", con il ritorno alla dicotomia "diritti soggettivi - interessi legittimi", ripudiando il diverso criterio dei "blocchi di materie" che mirava a trasformare il giudice amministrativo nel "giudice dell'amministrazione". Si afferma in proposito che la giurisdizione esclusiva introdotta dalla L. n. 205 del 2000 appare configgere con i parametri costituzionali ed è qualitativamente diversa dalla precedente, che riguardava specifiche controversie "connotate non già da una generica rilevanza pubblicistica, bensì dall'intreccio di situazioni soggettive qualificabili come interessi legittimi e come diritti soggettivi". Si precisa che l'adozione, da parte del legislatore del 1998-2000, di un'idea di giurisdizione esclusiva, ancorata alla pura e semplice presenza, in un certo settore dell'ordinamento, di un rilevante pubblico interesse, avrebbe presupposto la modifica dell'art. 103 Cost., mai approvata, nel senso che "la giurisdizione amministrativa ha ad oggetto le controversie con la pubblica amministrazione nelle materie indicate dalla legge" (Atto Camera 7465, 13^ Legislatura). Viceversa, il vigente art. 103 Cost., comma 1 "non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare particolari materie, nelle quali, la tutela nei confronti della pubblica amministrazione investe anche diritti soggettivi". Il collegamento delle "materie" assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive è espresso dall'art. 103 Cost. laddove statuisce che quelle materie devono essere "particolari" rispetto a quelle già devolute alla giurisdizione generale di legittimità, in cui la p.a. agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo. In conclusione, il legislatore ordinario ben può ampliare l'area della giurisdizione esclusiva, ma con riguardo a "materie particolari" in cui la giurisdizione naturale sugli interessi attrae la cognizione dei diritti concorrenti e strettamente connessi. Ciò comporta che la mera partecipazione della p.a. al giudizio non è sufficiente per radicare la giurisdizione del giudice amministrativo - "il quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice "della" pubblica amministrazione: con violazione dell'art. 25 Cost. e art. 102 Cost., comma 2" - e, inoltre, non è sufficiente "il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perchè questa possa essere devoluta al giudice amministrativo". Sono, pertanto, sottratte alla funzione unificante della Corte di cassazione le sole pronunce che investano i diritti soggettivi nei confronti dei quali, nel rispetto della "particolarità" della materia nel senso sopra chiarito, il legislatore ordinario abbia legittimamente previsto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo su diritti e interessi, nonchè quelle che riguardano le forme di tutela che il giudice amministrativo ritenga di accordare all'interesse legittimo. 12. Si tornerà sulle conseguenze che, dalle precedenti affermazioni di principio, la Corte ha tratto a proposito del modo in cui il legislatore ha configurato le materie di giurisdizione esclusiva delineate nel D.Lgs. n. 80 del 1998, artt. 33 e 34 modificati dalla L. n. 205 del 2000: punto sul quale la Corte si è ancora soffermata nella sentenza n. 191 del 2006 a proposito del ruolo che, nel campo dell'espropriazione, assumono comportamenti volti alla anticipata realizzazione di opere, pur sempre dichiarate di pubblica utilità, 13. Qui interessa soffermarsi sul punto che la dichiarazione di incostituzionalità non ha investito le disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 80, art. 35 come riformulate dalla L. n. 205 del 2000, art. 7, lett. c). La Corte ha osservato che "il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova materia attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione". Su questa parte della motivazione della sentenza 204, la Corte è tornata nella sentenza n. 191 di questo anno. Ha in particolare considerato come sia da escludere che "per ciò solo che la domanda proposta dal cittadino abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno, la giurisdizione competa al giudice ordinario": ed ha osservato che dove "la legge - come fa il D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 35 - costruisce il risarcimento del danno, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, come strumento di tutela affermandone - come è stato detto - il carattere "rimediale", essa non viola alcun precetto costituzionale e, anzi, costituisce attuazione del precetto dell'art. 24 Cost. laddove questo esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva e sia resa in tempi ragionevoli". "In altri termini" - ha osservato la Corte - "al precedente sistema che, in considerazione della natura intrinseca di diritto soggettivo della situazione giuridica conseguente all'annullamento del provvedimento amministrativo, attribuiva al giudice ordinario le controversie sul risarcimento del danno conseguente all'annullamento di atti amministrativi (così il D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 35, comma 5, come modificato dalla L. n. 205 del 2000, art. 7, lett. c)) il legislatore ha sostituito (appunto con l'art. 35 cit.) un sistema che riconosce esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per l'illegittimo esercizio della funzione". 14. Il lungo cammino sin qui percorso nel ricostruire la vicenda normativa è valso a rendere intelligibile quale si debba oggi considerare il punto d'arrivo nella ricerca della soluzione del primo degli aspetti segnalati all'inizio, ovverosia in base a quali criteri si trovi oggi ad essere stabilito il riparto tra le giurisdizioni. Rilevano a questo fine due momenti ed in particolare la situazione soggettiva del cittadino considerata nel suo aspetto statico e gli effetti che l'ordinamento ricollega all'azione amministrativa una volta che questa sia esercitata. La tutela giurisdizionale contro l'agire illegittimo della pubblica amministrazione spetta al giudice ordinario, quante volte il diritto del privato non sopporti compressione per effetto di un potere esercitato in modo illegittimo o, se lo sopporti, quante volte l'azione della pubblica amministrazione non trovi rispondenza in un precedente esercizio del potere, che sia riconoscibile come tale, perchè a sua volta deliberato nei modi ed in presenza dei requisiti richiesti per valere come atto o provvedimento e non come mera via di fatto. A questo fine, si ritiene che vada richiamato il principio di diritto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 204 del 2000, secondo cui la giurisdizione del giudice amministrativo resta in ogni caso delimitata dal collegamento con l'esercizio in concreto del potere amministrativo secondo le forme tipiche previste dall'ordinamento: ciò sia nella giurisdizione esclusiva che nella giurisdizione di annullamento. Il che non si verifica quando l'amministrazione agisca in posizione di parità con i soggetti privati, ovvero quando l'operare del soggetto pubblico sia ascrivibile a mera attività materiale, con la consapevolezza che si verte in questo ambito ogni volta che l'esercizio del potere non sia riconoscibile neppure come indiretto ascendente della vicenda. Esemplificando, l'amministrazione deve essere convenuta davanti al giudice ordinario in tutte le ipotesi in etti l'azione risarcitoria costituisca reazione alla lesione di diritti incomprimibili, come la salute (Cass. 7 febbraio 1997 n. 1187; 8 agosto 1995 n. 8681; 29 luglio 1995 n. 8300; 20 novembre 1992 n. 12386; 6 ottobre 1979 n. 5172) o l'integrità personale. Deve ancora essere convenuta davanti al giudice ordinario, quante volte la lesione del patrimonio del privato sia l'effetto indiretto di un esercizio illegittimo o mancato di poteri, ordinati a tutela del privato (Cass. 29 luglio 2005 n. 15916; 2 maggio 2003 n. 6719): qui si è nell'ambito delle controversie meramente risarcitorie già contemplate nel D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 33, comma 2, nel testo anteriore alla riformulazione attuatane con la sentenza 204 del 2004, la cui previsione non è più necessaria, nella misura in cui in esse è ravvisarle, più in generale, la reazione a meri comportamenti lesivi dell'amministrazione. Nel settore delle occupazioni illegittime, sono poi chiaramente ascrivibili alla giurisdizione ordinaria le forme di occupazione "usurpativa", caratterizzate dal tratto, che la trasformazione irreversibile del fondo si produce in una situazione in cui una dichiarazione di pubblica utilità manca affatto. E alla stessa conclusione si deve pervenire nel caso in cui il decreto di espropriazione è pur stato emesso, e però in relazione a bene, la cui destinazione ad opera di pubblica utilità la si debba dire mai avvenuta giuridicamente od ormai venuta meno, per mancanza iniziale o sopravvenuta scadenza del suo termine d'efficacia. Dove per contro la situazione soggettiva, nei termini che si sono indicati, si presenta come interesse legittimo, la tutela risarcitoria ne va chiesta al giudice amministrativo. Conviene a tale riguardo soffermarsi su alcune fattispecie la cui classificazione ha sin qui dato luogo a discussione ed il cui tratto peculiare si rinviene nella circostanza che oggetto della domanda non è l'annullamento di un atto, ma appunto solo il risarcimento del danno. Riconducigli alla giurisdizione del giudice amministrativo appaiono i casi in cui la lesione di una situazione soggettiva dell'interessato è postulata come conseguenza d'un comportamento inerte, si tratti di ritardo nell'emissione di un provvedimento risultato favorevole o di silenzio. Ciò che viene qui in rilievo è bensì un comportamento, ma il comportamento si risolve nella violazione di una norma che regola il procedimento ordinato all'esercizio del potere e perciò nella lesione di una situazione di interesse legittimo pretensivo (Ad. pl. 15 settembre 2005, n. 7). non di un diritto soggettivo. Presenta analogie con questa situazione, quella valutata dalla Corte costituzionale nella sua più recente decisione, dove parimenti l'accesso al giudice amministrativo non è segnato da una domanda di annullamento, ma si considera che ad attrarre la fattispecie nell'orbita della sua giurisdizione possa valere la presenza di un concreto riconoscibile atto di esercizio del potere: quel potere, in particolare, che si è manifestato nella dichiarazione di pubblica utilità. 15. - Resta da affrontare quello che all'inizio si è indicato come secondo aspetto problematico della tutela del cittadino di fronte all'attività provvedimentale illegittima della pubblica amministrazione, ovverosia la possibilità di domandare la sola tutela risarcitoria. Da quando nell'ordinamento si è preso a considerare risarcibile la lesione di un interesse legittimo, è emerso il tema se il privato si possa limitare a rivendicare per il diritto o l'interesse leso la sola tutela risarcitoria e quale possa essere il trattamento processuale di tale domanda. 16. Sino alla più recente sentenza della Corte costituzionale, si erano manifestate sul punto due posizioni ermeneutiche in assoluto contrasto tra loro. Secondo una prima, più diffusa opinione, "tutta amministrativa", il D.Lgs. n. 80 del 1998 e la L. n. 205 del 2000 avrebbero attribuito, in via generale, al giudice amministrativo la cognizione delle pretese di risarcimento del danno da atti illegittimi della p.a., in sede di giurisdizione esclusiva (in virtù dell'art. 35, comma 1) o di legittimità (in virtù del comma 4), che entrambe hanno ora assunto il connotato di giurisdizione "piena". In tal senso è apparso orientarsi il Consiglio di Stato, secondo cui la ratio della riforma iniziata con il D.Lgs. n. 80 del 1998 e completata con la L. n. 205 del 2000 è stata quella di concentrare davanti ad un unico giudice, quello amministrativo, in coerenza con l'art. 24 Cost., ogni forma di tutela, anche risarcitoria, nei confronti della p.a., quando viene in gioco la lesione di interessi legittimi (Cons. Stato, sez. 6^, 18 giugno 2002 n. 3338; Ad. plen. 26 marzo 2003 n. 4; Ad plen. 30 agosto 2005 n. 8). In particolare, alcune pronunce (Ad plen. 4 del 2003) hanno fatto propria la tesi per cui le norme richiamate avrebbero previsto, come necessaria condizione per l'accesso alla tutela risarcitoria, che nel termine di decadenza per l'impugnazione fosse anche esperita con esito favorevole l'azione di annullamento, ancorchè la tutela risarcitoria possa essere richiesta non insieme, ma successivamente. Ciò in ragione del principio della cd. pregiudiziale amministrativa. L'annullamento avrebbe dovuto essere richiesto in via principale nel termine di decadenza, perchè al giudice amministrativo non è consentita la cognizione incidentale della illegittimità degli atti amministrativi nè esso è munito del potere di disapplicazione. Consegue che, se la tutela di annullamento non è richiesta nel termine per l'impugnazione del provvedimento, questo diviene inoppugnabile, precludendo l'accesso non solo alla tutela risarcitoria erogabile dal giudice amministrativo, ma anche a quella che potesse essere chiesta al giudice ordinario, facendo valere l'atto illegittimo come elemento costitutivo dell'illecito civile (secondo la sent. 500 del 1999 delle S.U.). Il Consiglio di Stato aveva peraltro ammesso che l'azione risarcitoria potesse essere proposta in taluni casi davanti al giudice amministrativo come domanda autonoma (Cons. Stato, sez. 6^, 18 giugno 2002 n. 3338). E ciò, oltre che nei casi di danno da ritardo, in quelli in cui l'annullamento del provvedimento vi sia già stato, ad opera dello stesso giudice amministrativo (ad esempio in epoca in cui la giurisdizione amministrativa non era ancora una giurisdizione "piena") od a seguito di annullamento su ricorso amministrativo o straordinario o di annullamento di ufficio. Nello scenario così delineato, la giurisdizione del giudice amministrativo sulle pretese risarcitorie del cittadino che si assume leso in una posizione giuridica sostanziale (di diritto o di interesse legittimo) dall'esercizio illegittimo della funzione amministrativa non dovrebbe concorrere con una, sia pur residuale, giurisdizione del giudice ordinario. Ovvio che il giudice amministrativo, nato come giudice dell'atto e non del rapporto, avrà non poche difficoltà a distinguere il danno specie sotto il profilo della determinazione del quantum del danno risarcibile: dovrà mutuare le regole civilistiche sul concetto stesso di danno come fatto, sul nesso di causalità, anche ipotetico (si pensi all'art. 1221 c.c.), sui criteri di valutazione ex art. 1223, 1225, 1226 c.c., art. 1227 c.c., comma 1 (concorso di cause) e comma 2 (danni evitabili con l'ordinaria diligenza). Una diversa ricostruzione, "tutta civilistica", è stata prospettata da parte della dottrina, muovendo dai principi affermati dalla sent. 500 del 1999 delle S.U.. Punto di partenza ne è la qualificazione della pretesa risarcitoria come diritto soggettivo, sia nei confronti del privato che della p.a., in una concezione che nega rilevanza ai successivi interventi normativi, i quali non potrebbero scalfire, con il mero collegamento processuale, la tutela sostanziale riconosciuta al diritto soggettivo, nei confronti di chiunque azionato. Si è mossi dalla considerazione che, secondo la Corte costituzionale, "il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova "materia" attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della p.a.". Il profilo di connessione processuale non avrebbe escluso tuttavia che la tutela sia apprestata ad una posizione sostanziale avente natura di diritto soggettivo: il diritto al risarcimento del danno ingiusto. Il danno ingiusto, determinato dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante (sia esso diritto soggettivo o interesse legittimo: sent. 500 del 1999), sarebbe fonte di una obbligazione di risarcimento (ex art. 2043 c.c. o ex art. 1218 c.c. secondo il possibile diverso atteggiarsi della responsabilità della p.a.), mentre la parte che chiede il risarcimento aziona sempre un diritto soggettivo. La sentenza n. 204 del 2004 della Corte Costituzionale avrebbe, quindi, solo negato che il novellato art. 35 abbia istituito una nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo avente ad oggetto il diritto al risarcimento del danno. Il punto rilevante, nella decisione della Corte, sarebbe stato là dove si è rilevato che l'attribuzione dell'ulteriore strumento della tutela risarcitoria, venuto ad aggiungersi a quello classico della tutela di annullamento, è valsa a configurare la giurisdizione del giudice amministrativo, in attuazione del precetto dell'art. 24 Cost., come giurisdizione atta a garantire piena ed effettiva tutela alle situazioni soggettive ad essa devolute, per evitare al cittadino di doversi rivolgere a due diversi ordini di giudici, cioè a quello amministrativo per conseguire prima l'annullamento e poi a quello ordinario per ottenere il risarcimento del danno, come diritto patrimoniale consequenziale. E' stato messo in dubbio che la Corte abbia inteso riferirsi soltanto alla giurisdizione esclusiva (art. 35, comma 1), ovvero anche a quella generale di legittimità (art. 35, comma 4), ma si è considerato corretto attribuire ampia valenza alla ravvisata estensione dei poteri del g.a. in entrambe le giurisdizioni, che risultano quindi connotate da pienezza. La Corte non si sarebbe peraltro in alcun modo espressa sulla natura del risarcimento del danno. Se, quindi, si tiene ferma la qualificazione del diritto al risarcimento del danno ingiusto come diritto soggettivo, resterebbe valido il principio di ordine generale secondo cui il giudice dei diritti soggettivi è il giudice ordinario (art. 2 della l.a.c.a). Di qui la conseguenza che il giudice della tutela risarcitoria sarebbe stato, di regola, il giudice ordinario. A questa regola l'art. 35, commi 1 e 4, avrebbe apportato deroga (secondo il criterio della connessione), col consentire che il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, possa disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto e che nell'esercizio della sua giurisdizione (di legittimità) possa conoscere di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno e agli altri diritti patrimoniali consequenziali. Non sarebbe stato tuttavia corretto sostenere che si tratti di una concentrazione necessaria, con attrazione inscindibile della tutela risarcitoria al seguito di quella di annullamento, in presenza di un atto amministrativo da impugnare. La concentrazione sarebbe infatti funzionale, in termini di pienezza ed effettività della tutela, alle esigenze del cittadino che chiede giustizia nei confronti della p.a., e pertanto non la si potrebbe ritenere doverosa e tale da dover essere praticata come unica via esclusiva. Nè, d'altra parte, sarebbe desumibile dal testo normativo - così come interpretato costituzionalmente - che al riconoscimento, in positivo, al giudice amministrativo del potere di disporre il risarcimento del danno ingiusto (comma 1) e di conoscere delle questioni relative all'eventuale risarcimento del danno (comma 4), si unisca, in negativo, la totale sottrazione di eguale potere al giudice ordinario. Il giudice amministrativo avrebbe potuto conoscere di questioni relative al risarcimento del danno e, cioè, di questioni attinenti ad un diritto soggettivo la cui cognizione è di regola attribuita al giudice ordinario, nel caso in cui il cittadino si fosse avvalso della facoltà di richiedere a tale giudice la tutela risarcitoria congiuntamente a quella di annullamento. In questa ipotesi, come è stato osservato, le norme in esame realizzerebbero una deroga alla giurisdizione per ragioni di connessione. Si è ancora notato che la prevista concentrazione troverebbe giustificazione nel tipo di tutela che, oltre a quella di annullamento, il giudice amministrativo può somministrare: una "tutela ulteriore" che è di completamento rispetto a quella primaria della quale postula l'esito positivo, nel senso che serve a rimuovere i pregiudizi che l'annullamento non ha potuto eliminare. E' per effetto della dipendenza della tutela ulteriore da quella di annullamento che il giudice amministrativo può prendere in esame questioni relative al risarcimento (ed agli altri diritti patrimoniali consequenziali) solo se gli è richiesto e ritiene di concedere l'annullamento dell'atto lesivo. Quanto alle conseguenze della omessa richiesta della tutela di annullamento nel termine di decadenza, con conseguente inoppugnabilità dell'atto, si è rilevato che la decadenza preclude la via della tutela di annullamento e, di conseguenza, della tutela risarcitoria di completamento (da erogare nelle peculiari forme di cui all'art. 35, comma 2). Non sarebbe invece precluso il ricorso alla sola tutela risarcitoria. Si è rilevato, infatti, che in un sistema in cui al cittadino sono riconosciuti sia la tutela di annullamento, sia quella risarcitoria (e questa nella duplice connotazione di tutela di completamento che al g.a. è dato somministrare ex art. 35, comma 2, e di tutela risarcitoria secondo le regole del diritto civile), non necessariamente le due forme di tutela debbono essere spese entrambe. Se il danneggiato dall'esercizio illegittimo del potere amministrativo non si vuole avvalere, non avendone interesse, della tutela costitutiva di annullamento del provvedimento lesivo della sua posizione giuridica sostanziale, ma ritiene, invece, conforme al suo concreto interesse avvalersi della sola tutela risarcitoria, potrà farlo, in via autonoma, davanti al giudice ordinario. Quest'ultimo non dovrà giudicare in via incidentale della legittimità dell'atto, in funzione della sua disapplicazione (art. 4, comma 1, l.a.c.a.), ma dovrà valutare il provvedimento solo come fatto, come elemento costitutivo dell'illecito. Non si porrebbe un problema di pregiudizialità in senso tecnico, poichè tale problema si poneva solo quando, prima della sentenza n. 500 del 1999, era necessario attendere l'annullamento per poter risarcire il danno arrecato dal sacrificio di situazioni di diritto degradato ad interesse. Una volta riconosciuto che la lesione dell'interesse protetto obbliga anche la p.a. al risarcimento del danno, è venuto meno il nesso di dipendenza della risarcibilità dal previo annullamento dell'atto. Nelle ipotesi in cui l'annullamento non fosse stato chiesto, potrebbe eventualmente porsi un problema attinente al merito della decisione, sotto il profilo se nel danno risarcibile rientri la situazione determinata dal provvedimento di cui non si sia voluto domandare l'annullamento. Nelle ipotesi in cui l'annullamento sia stato già disposto dallo stesso giudice amministrativo (in epoca in cui la giurisdizione amministrativa non era ancora una giurisdizione "piena"), a seguito di ricorso straordinario, o d'ufficio, ovvero nel caso in cui manchi l'atto, come avviene per il danno da ritardo, si sarebbe potuto egualmente adire per la tutela risarcitoria il giudice ordinario, poichè l'estensione della cognizione del giudice amministrativo alle questioni relative al risarcimento postula che la relativa tutela sia stata richiesta congiuntamente a quella di annullamento. 17. La sopravvenuta decisione della Corte costituzionale spiana la strada e indirizza la scelta verso la concentrazione della tutela risarcitoria presso il giudice amministrativo, ma lascia impregiudicato il punto del trattamento processuale della tutela risarcitoria. 18. - Le Sezioni unite - nell'esercizio della funzione di riparto della giurisdizione (artt. 31, 41 c.p.c., art. 360 c.p.c., n. 1, art. 362 c.p.c.; L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 37, comma 2) ad esse attribuito dal nuovo codice di rito (dopo la soppressione del Tribunale dei conflitti, istituito con L. 31 marzo 1877, n. 3761, cd. L. Mancini-Peruzzi) - ritengono che sia necessario accedere ad una soluzione, che, mentre tiene conto dei principi costituzionali che legano la tutela giurisdizionale offerta dai due ordini di giudici alle situazioni soggettive, alla luce del criterio enunciato dall'art. 103 Cost., fa propri i valori di effettività e concentrazione delle tutele sottesi all'art. 111 Cost. - e in particolare al principio della ragionevole durata dei processi - che la Corte costituzionale ha assunto come criterio-guida di interpretazione delle altre norme in materia di giustizia. 19. In quest'ottica, va adeguatamente ricordato che alla tutela risarcitoria dell'interesse legittimo nei confronti della pubblica amministrazione questa Corte è pervenuta non già estendendo la detta tutela dai diritti soggettivi agli interessi legittimi, - bensì affermando che, sul piano della tutela risarcitoria, non si può fare differenza tra interessi che trovano protezione diretta nell'ordinamento e interessi che trovano protezione attraverso l'intermediazione del potere amministrativo. Questa svolta - che cancella sul piano sostanziale, con riferimento alla tutela risarcitoria, il divario tra diritti ed interessi altrimenti rilevanti - matura in un momento storico in cui il legislatore ha imboccato la strada che lo porterà a configurare la giurisdizione del giudice amministrativo come una giurisdizione piena ed esige, di conseguenza, che sia data una più coerente lettura al sistema del riparto di giurisdizioni, in particolare una lettura che leghi la potestas iudicandi alla natura della situazione soggettiva. La tesi "tutta civilistica" non può essere condivisa allorchè disattende la svolta voluta dal legislatore di assicurare all'interesse legittimo una tutela piena, concentrata dinanzi a un unico giudice per il principio di effettività che reca in sè la ragionevolezza dei tempi di tutela. La soluzione, fatta propria dal legislatore del 2000 e in linea con la portata di "norma di sistema" riconosciuta dalla Corte costituzionale all'art. 24 Cost. con la sentenza 204 del 2004, da ultimo ribadita, è coerente con la riaffermazione del criterio tradizionale del riparto fondato non sulla distinzione tra le tecniche di tutela, bensì sulla natura sostanziale delle situazioni soggettive. D'altra parte, questa ricostruzione è coerente anche con il processo di evoluzione che caratterizza l'interesse legittimo, che va perdendo la sua tradizionale funzione meramente famulativa o ancillare rispetto all'interesse pubblico, per assumere un più marcato connotato sostanziale, coerentemente del resto con l'evoluzione della stessa nozione di interesse pubblico, al cui perseguimento si accompagna un aumento della discrezionalità, ma anche della connessa responsabilità dell'amministrazione. Deriva da ciò che - in linea di principio e salvo quanto si è già considerato - la giurisdizione sulla tutela dell'interesse legittimo non può che spettare al giudice amministrativo, sia nella tecnica della tutela di annullamento, sia nelle tecniche della tutela risarcitoria, in forma specifica o per equivalente: tecniche che non possono essere oggetto di separata e distinta considerazione ai fini della giurisdizione. 20. Del pari non può essere condivisa la soluzione cd. "amministrativa", dove, da una parte, pone un nesso inscindibile, non richiesto dalle norme di legge nè dal quadro costituzionale, tra tutela di annullamento e tutela risarcitoria (Ad. Plen. n. 4 del 2003), dall'altra, sembra ricomprendere nella giurisdizione amministrativa ogni contesto caratterizzato dalla presenza della funzione pubblica senza esigere che di tale funzione si sia avuto un concreto esercizio, nei modi e forme tipici del potere amministrativo, che soli consentono di riconoscere l'atto come espressione di un potere esistente. Dal primo punto di vista non è privo di rilievo il considerare che la teoria della pregiudizialità amministrativa, intesa come dipendenza del diritto al risarcimento dal previo annullamento, era maturata in un contesto nel quale da un lato si escludeva la risarcibilità del pregiudizio sofferto per il sacrificio di situazioni di interesse legittimo, dall'altro si era omologato al trattamento di questa situazione quella del diritto soggettivo degradato ad interesse. Nè è senza importanza considerare che la soggezione a termine di decadenza è prevista dalla legge per l'azione di annullamento e, in questo sistema, l'accertamento incidentale dell'illegittimità viene negato non solo per escludere che vizi prima non rilevati possano esserlo dopo dando luogo all'annullamento di provvedimenti che presuppongono quello non impugnato, ma anche perchè gli effetti dell'azione di annullamento non si esauriscono nel rapporto tra amministrazione e soggetto leso e, ben spesso, si rifrangono su altri soggetti in conflitto con chi sollecita l'annullamento. Ma, non di questo si tratta quando non l'annullamento dell'atto è preteso, bensì l'accertamento della illiceità della situazione determinata dalla sua adozione ed esecuzione, accertamento che esaurisce la sua rilevanza nel rapporto tra soggetto leso e pubblica amministrazione. Queste considerazioni, unitamente ai ricordati processi di cambiamento che caratterizzano l'interesse legittimo e la sua relazione con l'interesse pubblico, giustificano ampiamente l'abbandono di un approccio di tipo tradizionale. Ammettere la necessaria dipendenza del risarcimento dal previo annullamento dell'atto illegittimo e dannoso, anzichè dal solo accertamento della sua illegittimità significherebbe restringere la tutela che spetta al privato di fronte alla pubblica amministrazione ed assoggettare il suo diritto al risarcimento del danno, anzichè alla regola generale della prescrizione, ad una Verwirkung amministrativa, tutta italiana. La conclusione da accogliere è dunque che, dopo l'irruzione nel mondo del diritto della risarcibilità - effettiva e non solo dichiarata - anche dell'interesse legittimo, e dopo i ricordati tentativi dei primi anni novanta della doppia tutela (espressamente abrogata sia dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 35 sia " dalla L. n. 205 del 2000, art. 7, lett. c)), il legislatore di fine secolo non ha inteso ridurre la tutela risarcitoria al solo profilo di completamento di quella demolitaria, ma, mentre l'ha riconosciuta con i caratteri propri del diritto al risarcimento del danno, ha ritenuto di affidare la corrispondente tutela giudiziaria al giudice amministrativo, nell'intento di rendere il conseguimento di tale tutela più agevole per il cittadino. 21. In definitiva, si può affermare che entrambe le tesi su esposte ("tutta civilistica" e "tutta amministrativistica") conducono ad una possibile diminuzione dell'effettività della tutela del cittadino, in violazione dei principi derivanti dall'art. 24 Cost.. Quella civilistica, perchè finisce per frammentare o moltiplicare le sedi e i tempi della tutela giurisdizionale, per giunta secondo una direttrice che si allontana dalla regola del riparto. Quella amministrativistica, perchè rischia di assicurare all'interesse legittimo una protezione che comprime l'ambito della tutela risarcitoria riducendone, per modalità o contenuti, la portata. Essa altresì, secondo alcuni svolgimenti già segnalati, finisce con l'estendere l'area della giurisdizione amministrativa al di là della connessione con l'esercizio in concreto del potere pubblico. In una situazione del genere, l'osservazione secondo la quale il legislatore del 2000 ha opportunamente concentrato le forme di tutela dell'interesse legittimo in una sola sede giudiziaria deve essere accompagnata dalla consapevolezza della perdurante vigenza della L. 20 marzo 1865, artt. 2 e 4, all. E, che configurano comunque a tutela del cittadino la giurisdizione ordinaria come presidio per tutte le materie in cui- si faccia questione "di un diritto civile o politico". Il nostro sistema si basa appunto sull'art. 2907 c.c., cui fa riscontro l'art. 99 c.p.c., ed è un sistema di civil law, in cui il riconoscimento della posizione soggettiva da tutelare, cristallizzata dal riconoscimento costituzionale (artt. 24 e 113 Cost.), precede la tutela giurisdizionale. In un sistema del genere, la l. del 1865, art. 2 - secondo una lettura coerente con le disposizioni di cui al Titolo 4^ della Costituzione - costituisce, in definitiva, una norma di chiusura del sistema, che attribuisce al giudice ordinario il potere-dovere di assicurare la pienezza della tutela, quando altri valori di pari rilievo costituzionale non rendono legittimo il ricorso a diversi modelli di tutela. 22. Quante volte si sia in presenza di atti riferibili oltre che ad una pubblica amministrazione a soggetti ad essa equiparati ai fini della tutela giudiziaria del destinatario del provvedimento e l'atto sia capace di esplicare i propri effetti perchè il potere non incontra ostacolo in diritti incomprimibili della persona, la tutela giudiziaria deve dunque essere chiesta al giudice amministrativo. Gli potrà essere chiesta la tutela demolitoria e, insieme o successivamente, la tutela risarcitoria completiva. Ma la parte potrà chiedere al giudice amministrativo anche solo la tutela risarcitoria, senza dover osservare allora il termine di decadenza pertinente all'azione di annullamento. 23. A proposito di questo secondo enunciato, merita da un lato soffermarsi qui sulle considerazioni, già svolte, che hanno condotto a questa interpretazione delle norme attributive della giurisdizione e dall'altro renderne esplicite le conseguente. Si è notato che, in rapporto alla tutela risarcitoria, è venuta meno sul piano del diritto sostanziale la differenza tra le situazioni che nell'ordinamento trovano protezione. L'evoluzione dell'ordinamento ha cioè condotto ad omologare gli interessi legittimi ai diritti quanto al bagaglio delle tutele: com'era stato per le situazioni di diritto soggettivo, di norma dotate, oltre che di tutela risarcitoria, anche di una tutela ripristinatoria, completata dal diritto al risarcimento del danno, così per gli interessi legittimi una tutela risarcitoria autonoma è stata affiancata alla tutela reale di annullamento, la sola di cui le situazioni di interesse legittimo erano prima dotate, e la tutela di annullamento è stata inoltre conformata in modo da comprendervi il risarcimento del danno, che con l'annullamento non si può elidere. Se dal piano delle forme di tutela ci si sposta a quello del riparto della funzione di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi nei confronti della pubblica amministrazione, un'interpretazione costituzionalmente orientata delle norme che hanno attribuito al giudice amministrativo la giurisdizione sul risarcimento del danno, consente di riconoscere loro la portata d'avere dato al giudice amministrativo giurisdizione anche solo in rapporto alla tutela risarcitoria autonoma. Ma ciò perchè, nel bilanciamento tra valori rilevanti sul piano costituzionale, è da riconoscere legittimità ad una norma che mentre concentra la tutela giurisdizionale presso il giudice amministrativo, non reca pregiudizio alla tutela sostanziale delle situazioni soggettive sacrificate dall'agire illegittimo della pubblica amministrazione. D'altra parte, questa interpretazione è la sola che riesce a rendere operanti insieme, per le situazioni soggettive di cui ora ci si occupa, il valore della giurisdizione piena e quello di una tutela sostanziale degli interessi legittimi non difforme da ogni altra situazione protetta in rapporto alla tutela risarcitoria. Sicchè dalla premessa discende in modo necessario la conseguenza che il giudice amministrativo non possa, allo stato della legislazione, se non esercitare la giurisdizione, che le norme gli attribuiscono quanto alla tutela risarcitoria autonoma, prescindendo dalle regole proprie della giurisdizione di annullamento. Si può obiettare, che è nella disponibilità del legislatore disciplinare la tutela delle situazioni soggettive assoggettando a termini di decadenza l'esercizio dell'azione. Tuttavia, una norma che oggi manca e che in modo esplicito assoggettasse ad un termine di decadenza la domanda di solo risarcimento del danno davanti al giudice amministrativo non porrebbe essere formulata nel senso di rendere il termine sostanzialmente eguale a quello cui è soggetta la domanda di annullamento, perchè ciò varrebbe a porre il diverso problema della legittimità di una disciplina che tornasse a negare la tutela risarcitoria autonoma per le situazioni soggettive sacrificate dall'esercizio illegittimo del potere della pubblica amministrazione. Resta da esplicitare un altro aspetto che inerisce in modo necessario all'avere affermato che la L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 7 ha dato al giudice amministrativo la giurisdizione sulla domanda autonoma di risarcimento del danno. Tutela risarcitoria autonoma delle situazioni di interesse legittimo significa tutela che spetta alla parte per il fatto che la situazione soggettiva è stata sacrificata da un potere esercitato in modo illegittimo e la domanda con cui questa tutela è chiesta richiede al giudice di accertare l'illegittimità di tale agire. Questo accertamento non può perciò risultare precluso dalla inoppugnabilità del provvedimento nè il diritto al risarcimento può essere per sè disconosciuto da ciò che invece concorre a determinare il danno, ovverosia la regolazione che il rapporto ha avuto sulla base del provvedimento e che la pubblica amministrazione ha mantenuto nonostante la sua illegittimità. Dunque, il rifiuto della tutela risarcitoria autonoma, motivato sotto gli aspetti indicati, si rivelerà sindacabile attraverso il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione. Il giudice amministrativo avrà infatti rifiutato di esercitare una giurisdizione che gli appartiene. 24. Al termine di questo lungo excursus, i principi di diritto enunciati da queste Sezioni Unite sono i seguenti: 1) la giurisdizione del giudice amministrativo sussiste in presenza di un concreto esercizio del potere, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano; 2) spetta al giudice amministrativo disporre le diverse forme di tutela che l'ordinamento appresta per le situazioni soggettive sacrificate dall'esercizio illegittimo del potere e tra queste forme di tutela rientra il risarcimento del danno; 3) Il giudice amministrativo rifiuta di esercitare la giurisdizione e la sua decisione, a norma dell'art. 362 c.p.c., comma 1, si presta a cassazione da parte delle sezioni (unite quale giudice del riparto della giurisdizione, se l'esame del merito della domanda autonoma di risarcimento del danno è rifiutato per la ragione che nel termine per ciò stabilito non sono stati chiesti l'annullamento dell'atto e la conseguente rimozione dei suoi effetti. 25. Va affermata, invece, la giurisdizione ordinaria sulla controversia promossa nei confronti del prof. F.E.. Ai fini della risoluzione del problema processuale non rileva stabilire se il F. abbia agito quale organo dell'Università, ovvero, a causa del perseguimento di finalità private, si sia verificata la cd. "frattura" del rapporto organico. Nell'uno, come nell'altro caso, l'azione risarcitoria è proposta nei confronti del funzionario in proprio, e, quindi, nel confronti di un soggetto privato, distinto dall'amministrazione, con la quale, al più, può risultare solidalmente obbligato (art. 28 Cost.). La questione di giurisdizione, infatti, dalla quale esulano le altre sopra accennate, va risolta esclusivamente sulla base dell'art. 103 Cost., che non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una pubblica amministrazione, o soggetti ad essa equiparati. 26. Al riguardo, la giurisprudenza delle sezioni unite si è espressa in modo univoco nel ritenere essenziale, perchè possa prospettarsi l'appartenenza della controversia alla giurisdizione amministrativa, che sia proposte nei confronti di soggetti titolari di poteri amministrativi (Cass. S.U. 22494/2004, 2560/2005, 7800/2005). Il principio ha trovato specifica applicazione per il caso di pretesa risarcitoria avanzata nei confronti del funzionario cui era imputata l'adozione di provvedimento illegittimo (Cass. S.U. 3357/1992) ed ulteriormente precisato nel senso che la controversia va devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario in quanto fondata sulla deduzione di un fatto illecito extracontrattuale e intercorrente tra privati, non ostando a ciò la proposizione della domanda anche nei confronti dell'ente pubblico sotto il profilo della responsabilità solidale dello stesso, attenendo al merito l'effettiva riferibilità all'ente dei comportamenti dei funzionari (Cass. S.u. 4591/2006). Va aggiunto che, in linea generale, la giurisdizione è inderogabile per ragioni di connessione (salva diversa, specifica, previsione normativa) e che il coordinamento tra le giurisdizioni su rapporti diversi ma interdipendenti può trovare soluzione secondo le regole della sospensione del procedimento pregiudicato (Cass. S.U. 3508/2003). 27. Conclusivamente, va dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione alla domanda di risarcimento del danno proposta nei confronti dell'Università degli studi di Pisa; la giurisdizione ordinaria per la domanda proposta contro il prof. F.E.. Sussistono, evidenti, giusti motivi per compensare le spese del giudizio tra il ricorrente e il F., mentre nulla va disposto per le spese nei confronti dell'Università, che non ha svolto attività difensive in questo giudizio. P.Q.M. La Corte, a sezioni unite, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda proposta nei confronti dell'Università degli studi di Pisa; dichiara la giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda proposta nei confronti di F.E.; compensa le spese del giudizio tra il C. e il F.. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civile, il 24 novembre 2005. Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2006 Consiglio di stato , sez. V, 31 maggio 2007, n. 2822 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso in appello n. 8186/2005, proposto da GLOBL BY FLIGHT S.P.A. corrente in MASSAFRA (TA), in persona del legale rappresentante p.t., in qualità di mandataria dell'ATI con Detrasud srl rappresentata e difesa dagli avv.ti prof. Ernesto Sticchi Damiani e Luigi Nilo con domicilio eletto in Roma presso il primo in via Bocca di Leone n. 78 (Studio BDL) contro AUSL TA/1 in persona del legale rappresentante p.t. rappresentata e difesa dall'avv. Filippo Panizzolo con domicilio in Roma via Cosseria n. 2 presso Alfredo Placidi SDA Logistica non costituita Demax q.le capogruppo ATI non costituita ATI - Arco non costituita ATI Rameco non costituita per la riforma della sentenza del TAR Puglia II sez. di Lecce n. 2775/2005, resa tra le parti, concernente AGGIUDICAZIONE SERVIZI DI CUSTODIA E GESTIONE MAGAZZINO C/O PRESIDIO OSPEDALIERO; Visto l'atto di appello con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'AUSL TA/1 Viste le memorie difensive; Visti gli atti tutti della causa; Alla pubblica udienza dell'11 luglio 2006, relatore il Consigliere Nicola Russo ed uditi, altresì, gli avvocati Sticchi Damiani e Ambrosino per delega di Panizzolo; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue: Fatto Con la sentenza oggetto del presente appello il TAR ha respinto il ricorso presentato avverso la determinazione assunta dall'AUSL appellata di non procedere all'aggiudicazione in favore dell'appellante della gara per cui è causa, in applicazione della clausola di gara che attribuiva tale facoltà in ipotesi di una sola offerta valida. E ciò in quanto le altre due offerte in gara erano risultate una inammissibile e l'altra non aveva superato la soglia di punteggio prevista per l'accesso alla fase finale di valutazione delle offerte economiche. Con l'atto di appello l'originaria ricorrente contesta la sentenza in particolare evidenziando come sia sulla base delle disposizioni di legge sia sulla base delle previsioni di gara, non sarebbe consentito ritenere integrata la fattispecie di una sola offerta valida, allorché vi siano state offerte ammesse e valutate e che solo in sede di apprezzamento tecnico non abbiano raggiunto il punteggio necessario per accedere alla fase finale della comparazione. In sede cautelare, con ordinanza n. 1230/06 la Sezione ha accolto l'istanza di sospensione «con il conseguente prosieguo delle operazioni di gara, salvi gli ulteriori provvedimenti dell'amministrazione» In vista dell'udienza di merito l'AUSL ha eccepito la sopravvenuta improcedibilità del ricorso allegando che la medesima amministrazione appellata con deliberazione direttoriale n. 962/06 l'AUSL riparrezzando le circostanza di pubblico interesse sottese alla determinazione di esternalizzare i servizi in oggetto e di indire la gara per cui è causa, ha motivatamente ritenuto di annullare (rectius revocare) l'indizione medesima e quindi l'intero procedimento di gara. In discussione e con le depositate note di udienza parte appellante che aveva depositato memoria illustrativa del merito della controversia, ha resistito alla eccepita eccezione di improcedibilità. Alla pubblica udienza dell'11 luglio 2006 il ricorso è stato spedito Diritto Assume valenza assorbente la eccezione proposta dall'AUSL appellata con memoria 29.6.06, relativa alla improcedibilità dell'originario ricorso introduttivo del giudizio. Ed invero l'AUSL ha allegato che, con deliberazione 962/06 la medesima amministrazione appellata, ha annullato la determinazione di porre in gara il servizio per cui in causa, sulla base di nuovo apprezzamento in termini di pubblico interesse. Trattasi, quindi, di revoca, come giustamente la medesima difesa dell'appellata qualifica l'atto in commento. Parte appellante con le depositate note di udienza e nel corso della stessa udienza di merito ha resistito all'eccezione di improcedibilità affermando che: - il nuovo atto, costituendo revoca e non autoannullamento, lascerebbe integro l'interesse alla decisione del ricorso "al fine di ottenere l'indennizzo di cui art.21-quinquies della l.241/1990.; - sussisterebbe comunque un interesse ad una "esemplare condanna alle spese"; - permarrebbe comunque l'interesse all'annullamento dell'atto impugnato in primo grado in vista della eventuale tutela risarcitoria; Tutti tali ordini argomentativi devono essere disattesi. Quanto al primo, l'ottenibilità dell'indennizzo ex art.21, è questione che afferisce direttamente alla determinazione di revoca e ai suoi effetti e quindi esula dall'ambito del presente giudizio. Quanto al secondo profilo, può evidenziarsi che alla luce della indubbia complessità della questione posta dal ricorso, anche a voler confermare, nel carattere sommario della delibazione volta alla cd. soccombenza virtuale, l'apprezzamento per le censure già manifestato dalla Sezione in sede cautelare, le spese meriterebbero comunque piena compensazione. alla stregua della peculiarità della fattispecie relativa alla complessa distinzione tra offerte invalide e offerte che non superano una determinata soglia di punteggio. Quanto infine al terzo profilo e cioè quanto all'interesse connesso alla eventuale prospettiva risarcitoria, deve, ad avviso del Collegio, farsi applicazione del recentissimo arresto delle Sezione Unite della Corte di Cassazione (nn. 13659 e 13660/06), secondo cui l'azione risarcitoria da lesione di interesse legittimo è proponibile: - innanzi al GA (e non innanzi al Giudice Ordinario, come pure si era in passato ritenuto da parte delle medesime SSUU); - e anche a prescindere dall'utile previo esperimento della domanda di annullamento. E, come tale, deve essere delibata dal G.A. all'uopo investito. A tal fine appare, però, opportuno completare le argomentazioni poste a base delle pronunce delle SSUU, evidenziando in primo luogo come le stesse, a ben vedere, non si pongono in aperta contraddizione con il noto arresto rappresentato da Ad. Plen. 4/2003, atteso che tracciano un possibile sbocco della successiva evoluzione ordinamentale recata dall'interpretazione che la Corte Costituzionale (con le note sentenze 204/2004 e 191/2006) ha fornito alla tutela risarcitoria da lesione di interessi legittimi. Il riferimento è in particolare al carattere "rimediale" della tutela risarcitoria così definito dal Giudice delle Leggi, che su tale base ha evidenziato come "la dichiarazione di incostituzionalità - pronunciata a carico di altre previsioni contenute nello stesso contesto normativo - non investe in alcun modo..... l’art.7 della l.205/2000 nella parte in cui (lettera c) sostituisce l’art.35 del d.lgs.80/1998"; atteso che "il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova materia attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubb+lica amministrazione". Sulla natura rimediale della tutela risarcitoria insiste la Corte Costituzionale con la sent.191/2006 evidenziando come la stessa "costituisca attuazione del precetto dell’art.24 Cost. là dove questo esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva". Pertanto, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell'attribuzione al GA della cognizione della domanda risarcitoria (per quel che qui rileva) da lesione di interesse legittimo, la Corte Costituzionale ha evidenziato - in sede di interpretazione che vincola l'operatore - come l'esigenza avvertita dal legislatore sia stata quella di allineare, quanto alle modalità e agli strumenti di tutela, le posizioni giuridiche soggettive qualificabili come interessi legittimi, alle posizioni giuridiche di diritto soggettivo (diverse, ma non per questo meritevoli di maggiore attenzione quanto agli strumenti di tutela). Così evidenziate le ragioni fondamentali poste a base del recente arresto delle SSUU, il Collegio rileva come il GA non abbia ragione di discostarsi dalle stesse, che condivisibilmente esaltano la rilevanza della figura soggettiva (interesse legittimo) tradizionalmente devoluta alla sua cognizione; e, inoltre, dopo precedenti diversi orientamenti, riconoscono nel medesimo GA il giudice cui si intesta la cognizione di ogni strumento di tutela relativo a tali posizioni giuridiche. Né, ad un attento esame, può affermarsi che riconoscere il rimedio risarcitorio da lesione di interesse legittimo si porrebbe in contraddizione con la condivisibilmente preclusa possibilità di disapplicazione dell'atto/provvedimento amministrativo. E ciò in quanto, a ben vedere, disporre il rimedio risarcitorio per gli effetti prodotti dal provvedimento vuol dire proprio postulare la sua efficacia e non già quindi la sua disapplicazione. Né contraddice il dovere della PA e degli attori dell'ordinamento, di agire nel rispetto di atti amministrativi efficaci, una volta che la responsabilità risarcitoria trova ragione proprio nell'atto amministrativo in ipotesi illegittimo e quindi si intesta alla PA che lo ha emesso e che non lo ha ritirato, ponendo quindi in essere l'esclusivo presupposto della sua efficacia. Allo stesso tempo il Collegio evidenzia come il sistema così delineato, presenti indubbi spazi di ulteriore completamento che dovranno necessariamente essere colmati per quanto possibile in via pretoria, auspicandosi anche un definitorio intervento normativo. Del resto la materia del processo amministrativo e delle questioni sostanziali conoscibili dal GA, rappresenta, soprattutto negli ultimi anni, uno dei non molti esempi di rapporto virtuoso tra evoluzione giurisprudenziale e consolidamento legislativo dei principi in tal modo acquisiti. Con riguardo alla specifica questione in esame, non par dubbio da un lato come non sembri rispondere a complessiva coerenza del sistema giurisdizionale rigettare l'approdo sistematico cui sono pervenute le SSUU alla luce della oggettiva novità recata dalla qualificazione che la Corte Costituzionale ha operato in ordine al "rimedio" risarcitorio. E ciò soprattutto una volta che tale approdo si presta ad essere completato in una prospettiva di coerenza evolutiva della definizione degli ambiti della cognizione del GA e del suo ruolo regolatore. In tale prospettiva, spetta al GA (la cui competenza giurisdizionale è stata ora condivisibilmente riconosciuta dalle SSUU) da un lato esercitare la competenza giurisdizionale sull'azione autonoma di risarcimento, dall'altro cercare di individuare gli ulteriori elementi necessari a completare l'integrato sistema di tutela che viene a determinarsi, anche nella prospettiva di un meditato e definitorio intervento legislativo. Trattasi di profili che ai fini dell'odierna pronuncia non è necessario affrontare e risolvere, apparendo peraltro opportuno evidenziarne gli ambiti di rilevanza. Trattasi peraltro di questioni niente affatto secondarie, ma che non per questo devono indurre a rigettare la prospettiva innovativamente e condivisibilmente abbracciata dalle SSUU. Tali questione possono essere come appresso enucleate. Si tratta in particolare di stabilire in primo luogo se il "rimedio" risarcitorio da lesione di interesse legittimi debba ritenersi sottoposto a decadenza (come è per il "rimedio" demolitorio/di annullamento) o a prescrizione (come è per l'azione risarcitoria da lesione di diritto soggettivo). E se, dunque, sia soggetto a termine di decadenza di 60 giorni come è per il rimedio demolitorio (ma sul punto le SSUU hanno avvertito in ordine al carattere eccessivo di tale contingentamento del termine che per l'azione di annullamento trova invece piena giustificazione nell'esigenza di stabilizzare la "regola" rinveniente dall'atto amministrativo, sulla base pertanto di esigenza non riproducibile in termini simmetrici, avendo riguardo al "rimedio" solo risarcitorio); ovvero a termine di prescrizione quinquennale (come è per la prescrizione quinquennale dell'azione risarcitoria da illecito aquiliano), con il rischio di un eccessivo dilatamento dei tempi di definizione di fattispecie che mantengono la peculiare importanza connessa all'esercizio del pubblico potere. Peraltro dovrebbe restare quale punto fermo che, in assenza del tempestivo esperimento del rimedio demolitorio/annullatorio, non sia possibile contemplare il risarcimento in forma specifica, atteso che ciò integrerebbe una fattispecie, essa sì, elusiva del termine normativamente previsto per l'esperimento dell'azione di annullamento. Dovrà infine valutarsi la possibilità di tener conto in sede di quantificazione del danno eventualmente risarcibile della scelta - da ponderarsi caso per caso - operata dall'interessato in ordine alla non attivazione del rimedio demolitorio/annullatorio (cfr. art.1227 c.c.). Trattasi come è ben chiaro di questioni che danno corpo all'avvertita necessità che il GA, se da un lato non deve sottrarsi all'ambito di giurisdizione che le SSUU hanno ritenuto di riconoscere anche nella prospettiva della cognizione della domanda autonoma di "rimedio risarcitorio", dall'altro è chiamato proprio da tale attribuzione a definire termini e limiti dell'esperibilità del rimedio, in tal modo fornendo anche elementi per l'auspicato autonomo intervento definitorio del legislatore. Tanto premesso, l'eccezione di improcedibilità sollevata dall'AUSL appellata non può, dunque, efficacemente essere contrastata con la prospettazione dell'interesse di parte appellante ad eventualmente proporre domanda risarcitoria, atteso che l'astratta proponibilità della stessa, come detto, non risulta condizionata al previo annullamento dell'atto amministrativo impugnato. Sussistono valide ragioni per disporre la compensazione delle spese del giudizio. P.Q.M Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione quinta, definitivamente pronunciando sull'appello in epigrafe, dichiara improcedibile il ricorso proposto in primo grado e, per l'effetto, annulla senza rinvio la sentenza impugnata. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio dell'11 luglio 2006 con l'intervento dei Sigg.ri: Emidio Frascione Presidente Raffaele Carboni Consigliere Chiarenza Millemaggi Cogliani Consigliere Nicola Russo Consigliere estensore Michele Corradino Consigliere Consiglio Stato a. plen., 22 ottobre 2007, n. 12 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Adunanza Plenaria, ha pronunciato la seguente DECISIONE sul ricorso in appello n. 8/2007 dell'Adunanza Plenaria (n. 1614/2006 della Sez. IV del Consiglio di Stato) proposto dalla Provincia di Mantova, in persona del Presidente in carica, rappresentata e difesa dal Prof. Avv. Paolo Colombo e dall'avv. Alessandro Sperati, elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo in Roma, Piazza Mazzini, n. 27. CONTRO Gatti Marino, rappresentato e difeso dall'avv. Elia Di Matteo, elettivamente domiciliato presso lo studio dell'avv. Francesco Da Riva Grechi in Roma, viale Bruno Buozzi, n. 109. NONCHE’ CONTRO Corso Eugenio, Merchiori Anna, Rabitti Marcello, Vanz Gloria e Nico Costruzioni s.r.l. non costituiti in giudizio. PER L'ANNULLAMENTO della sentenza non definitiva del TAR per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia 19 dicembre 2005, n. 1342. Visto il ricorso in appello con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del signor Gatti Marino; Vista l'ordinanza della Sezione IV. n. 3288/2007 del 19 giugno 2007 con cui è rimesso all'Adunanza Plenaria il ricorso n. 1614/2006; Visti gli atti tutti della causa; Relatore, alla pubblica udienza del 15 ottobre 2007, il Presidente Giovanni Ruoppolo e uditi l'avv. Paolo Colombo e l'avv. Elia Di Matteo; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue: Fatto La Sezione quarta, rimettendo, con sentenza 19 giugno 2007 n. 3288/07, all'Adunanza plenaria di decidere sulla questione di giurisdizione proposta dalla Provincia di Mantova con l'atto di appello in epigrafe, ha accertati e chiariti i fatti in maniera puntuale e completa. In questa sede, perciò, ci si può limitare a riferire sugli aspetti ancora rilevanti della vicenda rinviando, per una completa disamina, alla sentenza di remissione. Con provvedimento 30 aprile 1999 n. 119 la Giunta provinciale di Mantova, acquisite le correlate deliberazioni del Comune di Mendole e della Regione Lombardia, approvava il progetto per la esecuzione della circonvallazione di Mendole, ne dichiarava la pubblica utilità e fissava il termine di cinque anni, decorrenti dalla data della delibera, per la conclusione dei lavori e della procedura. Con successive deliberazioni 2 giugno 2000 n. 137 e 5 dicembre 2002 n. 423 la stessa Giunta, approvando varianti al progetto esecutivo e rinnovando la dichiarazione di pubblica utilità , confermava lo stesso termine finale in precedenza fissato. Seguivano, intanto, altri atti della procedura relativi alla occupazione d'urgenza (18 ottobre 2000), alla immissione in possesso delle aree (26 ottobre 2001), alla consegna dei lavori ( 26 aprile 2001), alla determinazione delle dovute indennità provvisoria (6 marzo 2001) e definitiva ( 6 dicembre 2002), al frazionamento delle aree interessate alla procedura espropriativa ( 13 settembre 2004), al deposito presso la Cassa DD.PP. delle somme ancora dovute. Il 17 gennaio 2005, con decreto n, 3273/05, si disponeva infine il trasferimento della proprietà delle aree private in conformità delle risultanze del frazionamento. L'intera procedura era incisa, insieme agli atti presupposti, da plurimi ricorsi proposti, in tempi diversi, dai soggetti privati titolari delle aree coinvolte che deducevano motivi di violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere nei confronti della Provincia, del Comune e della Regione, dei cui provvedimenti si chiedeva l'annullamento. Il TAR per la Lombardia, Sezione di Brescia, nel contraddittorio ritualmente formatosi, disposta la riunione di tutti i ricorsi e ritenuta la giurisdizione, con sentenza non definitiva 27 dicembre 2005, n. 1342/05 : - dichiarava estinti, per rinuncia, i giudizi, avviati con ricorsi 257/99, 697/00, 1284/00, nei confronti dei Signori Ferrardi , Branzini e Cerruti; - dichiarava improcedibili, per sopravenuta carenza di interesse, i ricorsi n. 1544/97, 1548/97, 257/99 e 697/00 e, per quanto riguarda i profili impugnatori, 1284/00 ad eccezione, per questo ricorso, della pretesa risarcitoria già avanzata e dal Signor Gatti e dai Signori Corso e Marchiori, rispettivamente acquirente ed alienante di una delle aree coinvolte; - accoglieva parzialmente il ricorso n. 476/05 annullando il decreto di espropriazione di 17 gennaio 2005 n. 3273/05 e dichiarando la intervenuta, irreversibile trasformazione dei beni occupati; - disponeva la prosecuzione del giudizio per il completamento della consulenza tecnica già disposta ai fini della pronuncia sulla istanza risarcitoria. Proponeva appello, con atto notificato al Signor Gatti, nonché ai Signori Corso e Marchiori, la Provincia di Mantova deducendo alcune questioni pregiudiziali, contestando la ritenuta tardività del decreto di espropriazione e rilevando, per il caso di acclarata decadenza della dichiarazione di pubblica utilità, difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. Si costituiva il solo Signor Gatti proponendo ricorso incidentale. Questi e la Provincia illustravano con specifiche memorie le proprie posizioni e concludevano, il primo, in via principale di merito, per la conferma della sentenza di primo grado e per la condanna della Provincia al risarcimento del danno, la seconda, per la declaratoria del difetto di giurisdizione. La Sezione quarta, accertato che l'espropriazione era stata decretata, in data 7 giugno 2005, dopo la scadenza dei cinque anni decorrenti dalla data della deliberazione della Giunta Provinciale 30 aprile 1999, ha rimesso l'esame della questione di giurisdizione all'Adunanza Plenaria. Le conclusioni delle parti sono state rassegnate con memorie in data 26 e 30 settembre 2007. Diritto I - La Sezione quarta, dubitando della permanente attualità - dopo la pubblicazione della sentenza Corte cost. 191/2006 e delle correlate pronunce delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione - dei principi ripetutamente affermati dalla Adunanza Plenaria ha correttamente rimesso a quest'ultima il rinnovato esame della individuazione del giudice amministrativo quale giudice cui spetta di pronunciarsi in tema di c.d. accessione invertita, allorché la formale espropriazione intervenga dopo la sopravvenuta inefficacia, per decorso del suo termine finale, della dichiarazione di pubblica utilità. Correttamente, si è detto, alla stregua delle esigenze che, positivamente poste nei confronti del giudizio per cassazione derivano da generali principi di certezza del diritto e di economicità della funzione giurisdizionale che ovviamente coinvolgono il processo innanzi al Consiglio di Stato, nel quale è per altro già prevista la opportunità, qui di nuovo sottolineata, della rimessione in ordine a questioni di diritto che abbiano dato luogo o possano dar luogo a contrasti giurisprudenziali ovvero allorché si renda necessaria la risoluzione di questioni di massima di particolare importanza. II - La rimessione in parola, è necessario premettere ad ulteriore chiarificazione delle proposte questioni pregiudiziali, concerne esclusivamente il ricorso 1284/2000 ed il ricorso 476/2005 e motivi aggiunti con i quali Signori Corso - Marchiori e Cerruti hanno proposto, siccome accertato dal Tribunale regionale amministrativo e ritenuto dalla Sezione quarta, domanda risarcitoria. Gli altri ricorsi inizialmente proposti risultano, infatti, oggetto di dichiarazione di estinzione per rinunzia ovvero di improcedibilità per carenza di interesse, improcedibilità estesa, dal predetto Tribunale, anche ai motivi del ricorso 1284/2000 relativi alla impugnazione per annullamento di alcuni degli atti emessi nel corso del procedimento di espropriazione il cui atto conclusivo (decreto n. 3273/05 della Provincia) è stato espressamente annullato dal Tribunale, con connessa dichiarazione di irreversibile trasformazione dei beni occupati. In tale situazione la Sezione remittente ha ritenuto di superare le deduzioni della Provincia relative alla pretesa non integrità del contraddittorio in primo grado e del Gatti relative alla omessa notifica dell'appello a Regione, Comune, Niero s.r.l. e Signori Rabitti e Vanz. Invero, mentre contro questi ultimi soggetti nessuna domanda risarcitoria è proposta, né si configura alcun loro interesse e mentre Comune e Regione sono stati intimati in primo grado ( il primo si è anche costituito) in relazione agli atti da loro emessi (ric. 1544/97, 1548/97 e 257/99), ed hanno ricevuto notificazione della sentenza appellata, la domanda risarcitoria fu proposta nei soli confronti della Provincia, ente espropriante, e concerne, una volta definiti come s'è ricordato gli altri giudizi, esclusivamente i rapporti tra la stessa Provincia e, ormai, il Signor Gatti ed i suoi danti causa. Ne risulta l'infondatezza delle domande di integrazione del contraddittorio ritualmente instaurato e in primo grado e in appello. L'annullamento, poi, dell'atto finale della procedura di espropriazione e la pronuncia di intervenuta accessione invertita, di per sé non impugnata dal Signor Gatti, e per altro satisfattiva della richiesta tutela , rendono prive di rilievo le di lui deduzioni relative ad atti e comportamenti e della Regione e del Comune, ormai irrilevanti a seguito del predetto annullamento, e della Provincia dalle quali mai potrebbe conseguire la restituzione, e su questa non si insiste nelle conclusioni rassegnate il 7 marzo 2006 ed il 30 settembre 2007, delle aree coinvolte dalla costruzione della strada, pressoché terminata ed aperta al traffico (v. note in atti del Responsabile del procedimento in data 25 febbraio 2004 e 19 aprile 2005) già al 25 febbraio 2004 e, comunque, "parecchi mesi prima dello stesso 19 aprile 2005" e, perciò, nel corso dei termini della dichiarazione di pubblica utilità. Dato atto di ciò, deve infine rilevarsi che il Tribunale non si è in alcun modo pronunciato sulla domanda risarcitoria, proposta e perfino quantificata nel corso del relativo grado di giudizio (v. oltre alle istanze notificate il 23 febbraio ed il 29 ottobre 2001 le ammissioni nelle memorie della Provincia del 19 dicembre 2000 e del 11 aprile 2001 nonché l'istanza di sospensiva del giudizio indennitario dalla stessa proposta alla Corte di Appello e la correlata ordinanza e v., ancora, il ricorso 11 aprile 2005 notificato il successivo 12 aprile), sulla quale ha soltanto disposto il completamento dell'istruttoria in corso: sono, pertanto, intempestive le relative deduzioni della Provincia nonché degli appellati e perciò inammissibili in questa sede le loro richieste. III - Si rileva, venendo perciò al punto di diritto in contestazione, che permangono, nella giurisprudenza più recente, significativi contrasti in tema di discriminazione della giurisdizione, contrasti forse avvertiti con maggior disagio di quelli pur vivi nel secolo scorso ora che sussistono condizioni di ulteriore sviluppo sociale ed economico, di correlato aumento della legislazione e delle discipline così civili come amministrative e, perciò, di più forte richiesta di decisioni di merito pronte, facilmente accessibili, coerenti con le esigenze operative e con le aspettative di tutela delle pubbliche amministrazioni, delle imprese e di ciascun componente la comunità nazionale. I recenti, ripetuti richiami della Corte Costituzionale ( v. da ultimo, sent. 77/2007) ai precetti dell’art.24 Cost. confermano un orientamento perseguito con ancor più determinata convinzione; orientamento che, sottolineando il valore servente delle forme, pur ferme e vincolanti, rispetto alle aspettative sostanziali, merita di essere condiviso e seguito, come pare sia condiviso dallo stesso legislatore ( cfr., di recente, in tema di giurisdizione e di procedure, la l.205/2000 e, puntualmente in tema di nullità, la l.241/1990) le cui rinnovate dichiarazioni di volontà semplificatrice si traducono tuttavia, in qualche caso, in complicazioni di discipline di non sottile spessore e di non agevole applicazione da parte di una Amministrazione costretta a troppo frequenti mutamenti dei suoi complessi moduli organizzativi ed operativi ed a tal fine, specie in sede locale, non sempre munita di necessari mezzi e di adeguate strutture. In generale, ed omettendo analisi storiche altrove e da altri svolte con puntualità e completezza, la discriminazione è positivamente fissata, nel quadro dei rigidi precetti posti dagli artt.24,102, 103, 111, 113 Cost., dalla l.205/2000, - in vigore dal 1 agosto 2000 e seguita dalla l.15/2005 e dal d.lgs.163/2006 - , che, anche riformulando le disposizioni del d.lgs.80/1998, ha sostanzialmente definito il disegno innovatore avviato con l’art.13 della l.142/1992 ed organicamente posto dalla l.59/1996. Su questa disciplina è ripetutamente intervenuta e, per quanto qui rileva, specialmente con le sentenze 292/2000, 204/2004, 281/2004, 191/2006, 77/2007, 140/2007, la Corte Costituzionale. Punti fondamentali dell'assetto normativo che ne è derivato e che, salvo le integrazioni e le precisazioni appresso indicate, vige attualmente sono: 1) resta fermo, e vincola lo stesso legislatore, che criterio generale di discriminazione è quello fondato sulla natura della situazione giuridica di cui si chiede tutela, nel senso che giudice dei diritti soggettivi è il giudice ordinario e giudice degli interessi legittimi è il giudice amministrativo; 2) resta fermo che è nella, per così dire, ragionevole discrezionalità del legislatore attribuire alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in particolari materie (e non in blocchi indiscriminati di materie) specialmente caratterizzate dalla compresenza o dalla difficile qualificazione di diritti soggettivi ed interessi legittimi, anche la tutela di diritti soggettivi; 3) il giudice amministrativo conosce, nell'ambito della sua giurisdizione, sia essa di sola legittimità ovvero, pur con differente dizione, esclusiva, " anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali conseguenziali " ; 4) il giudice ordinario, cui non spetta mai giurisdizione sugli interessi legittimi, non ha il potere di annullare i provvedimenti amministrativi né quello di risarcire il danno conseguente all'annullamento degli stessi da parte del giudice amministrativo, e tuttavia, vertendosi in tema di lesione dei diritti soggettivi non ricompresi nella cennata giurisdizione esclusiva, può disapplicare gli atti dell'amministrazione e provvedere al risarcimento dell'eventuale danno. IV - Con riferimento al nuovo assetto così sommariamente descritto si sono riproposti alla giurisprudenza spinosi problemi interpretativi già vivi nel quadro della precedente disciplina ed ulteriori questioni sostanziali e procedurali ha posto l'ampliamento della giurisdizione esclusiva e dei poteri del giudice amministrativo. Deve ricordarsi, al primo proposito, il permanere dalle difficoltà di discriminazione poste dalla dicotomia diritto soggettivo - interesse legittimo nell'ambito di una legislazione che dalla considerazione della loro natura il più delle volte prescinde preferendo enucleare dalle situazioni soggettive e disciplinare puntualmente, con riferimento alla attività amministrativa, tal volta spezzoni qualificabili come facoltà, più spesso aspetti analitici solo mediatamente riferibili ad individuabili situazioni di diritto o di interesse. Si tratta, nell'uno e nell'altro caso, di situazioni mai direttamente definite dalla legge e di derivazione dottrinale e giurisprudenziale spesso collegate ad esigenze di preconcetti ed immobili schemi sistematici piuttosto che ad ordinamenti e norme i quali supporrebbero, nel loro continuo aggiornarsi, il continuo aggiornamento di un " sistema " che, dismessa la pretesa di imporsi alla legge, da questa ricevesse la sua necessaria legittimazione. Il dibattito, in proposito, è continuo e basti segnalare, di recente, la distinzione proposta dalla Corte di Cassazione (S.U. 17461/2006 ) che rivendica la giurisdizione del giudice ordinario in ogni caso quando si sia in presenza di " posizioni soggettive a nucleo rigido " (es. in tema di salute e di ambiente ) che, a differenza di quelle " a nucleo variabile ", sarebbero assolutamente incomprimibili. Siffatta tesi, espressamente contraddetta dalla Corte Costituzionale (140/2007), reca in se il corollario della inesistenza del provvedimento amministrativo che, pur emesso in applicazione di legge, siffatti incomprimibili diritti in concreto incidesse. Corollario che sembra meritare attenti approfondimenti nel punto in cui pare prescindere e dalle attribuzioni esclusive della Corte Costituzionale in tema di verifica della costituzionalità delle leggi e dalle attribuzioni del giudice amministrativo in tema di provvedimenti che conformemente a legge incidono su situazioni soggettive degradandole, come si è soliti ripetere, ad interesse legittimo. Riconosciuta a quest'ultimo giudice, com'è doveroso per chiunque, " piena dignità di giudice " e tenuto conto della compiuta effettività della sua tutela, organizzata positivamente come efficace e sollecita, non si vede la ragione perché le regole di discriminazione della giurisdizione debbano essere, a fronte dei diritti c.d. " a nucleo rigido ", di categoria, cioè, suscettibile di estensione ben oltre i casi esemplificati, né si comprende la sottesa, asserita pretesa di una minore incisività della giurisdizione amministrativa . Di tale opinione non è, per altro, lo stesso legislatore che, in maniera espressa ed univoca, ipotizza, con l’art.21, co.8, della l.1034/1971, come integrato dalla l.205/2000, provvedimenti cautelari del giudice amministrativo anche in tema di "interessi essenziali della persona quali il diritto alla salute, alla integrità dell'ambiente, ovvero ad altri beni di primario rilievo costituzionale". È ben vero che allo stato si riscontra positivamente in relazione a talune situazioni soggettive del genere di quelle indicate e di altre ancora una ordinaria e prevalente giurisdizione del giudice civile che in nessun modo si contesta; epperò, mentre non può escludersi che in astratto ed in concreto si profilino situazioni di interesse legittimo ovvero di attribuzione di giurisdizione esclusiva, è seriamente controvertibile una tesi che, muovendo dalla categoria dei diritti soggettivi incomprimibili e varcando la soglia della sola descrittività, sancisca aprioristicamente limiti assoluti e non costituzionalmente posti alla giurisdizione amministrativa. Ai fini della concreta verificazione di questa è necessario poi ribadire che configurano situazioni soggettive di interesse legittimo non solo quelle che come tali originariamente nascono in capo al loro titolare sibbene anche quelle che pur qualificandosi genericamente ed in astratto di diritto soggettivo siano, in presenza di una norma che ciò consenta e di un procedimento ovvero di un provvedimento in tal senso indirizzato, successivamente apprezzabili in concreto come di interesse legittimo. Certo è necessario che procedimento e provvedimento siano svolti e decisi da un'autorità a ciò competente, senza che concorrano violazioni di legge, senza che intervengano sviamenti e note carenze. Questi, tuttavia, sono puntualmente i vizi rimessi allo scrutinio della giurisdizione amministrativa, individuabile anche in base al fondamentale criterio, appresso approfondito, della riconducibilità della lesione sofferta all'esercizio del potere autoritativo in astratto conferito all'autorità. Il criterio innovativo come innovativa è stata la citata legislazione, è per altro frutto anche del consapevole contributo di tutte le riflessioni che, in più di un secolo di elevato e fertile impegno, dottrina e giurisprudenza hanno arrecato : dalla distinzione delle norme di azione dalle norme di relazione, dalle dottrine del diritto condizionato ed affievolito fino alla stessa rilevata notazione dei c.d. diritti a "nucleo rigido " non v'è nulla di totalmente superato ovvero di superabile con improvvisazione e in ogni riflessione si riscontra un elemento di validità che è di ausilio per sciogliere nodi che legislazione e pronunce costituzionali tendono oggi a rendere meno aggrovigliati nel contestuale riconoscimento della unitarietà, quoad effectum, della giurisdizione, attribuita sì a giudici diversi, ma di uguale dignità, muniti di analoghi poteri ugualmente compiuti ai fini della completezza delle tutele di merito loro commesse, ugualmente intesi ad attuare i precetti degli artt.24 e 111 Cost. (Corte cost., 77/2007). Questi aspetti unitari, che valgono ad attenuare, almeno nella concretezza delle vicende giudiziarie, il rilievo di talune estreme questioni di giurisdizione, non consentono, tuttavia, di inferirne il corollario, come avanti si vedrà in tema di "pregiudiziale amministrativa", della necessità, formale e sostanziale, della uguaglianza della tutela. V - Si sono posti, al secondo proposito, con riferimento, cioè, al nuovo assetto come sopra descritto, il problema della estensione della giurisdizione esclusiva, sia con riferimento a materie ritenute di solo diritto soggettivo sia con riferimento a precisazioni del legislatore ordinario dell'ambito di cognizione concreta del giudice amministrativo ed il problema, inoltre, della connessione tra la domanda di annullamento e la domanda risarcitoria. Su questi ed altri problemi, approfonditi in dottrina, è ripetutamente intervenuta, con puntuali pronunce, la Corte Costituzionale che, con le sentenze innanzi citate ha precisato: a) i confini della giurisdizione esclusiva relativa alla materia dei pubblici servizi e della giurisdizione esclusiva relativa alla materia urbanistica ed edilizia e delle espropriazioni; b) la natura del potere del giudice amministrativo di provvedere sulle domande risarcitorie e sugli altri diritti patrimoniali consequenziali alla pronuncia di annullamento. Così in materia di pubblici servizi, dalla quale sono state espunte controversie ritenute di diritto soggettivo e, perciò, di pertinenza della giurisdizione ordinaria, come in materia di urbanistica ed edilizia nonché delle espropriazioni, la Corte Costituzionale, confermata la nodale relazione tra l'esercizio di poteri pubblici autoritativi e la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ha segnato il limite di quest'ultima. Ha cioè dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art.33 del d.lgs.80/1998, come sostituito dalla l.205/2000, dell’art.34 del medesimo decreto, dell’art.53 del d.lgs. 325/2001, nella parte in cui, devolvendo alla giurisdizione esclusiva le controversie relative a " i comportamenti delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti ad esse equiparati non esclude i comportamenti non riconducibili, nemmeno mediamente, all'esercizio di un pubblico potere " (così Corte cost. 191/2006 con riferimento alla giurisdizione esclusiva in tema di espropriazione per pubblica utilità e, in precedenza, Corte cost., 204/2004). Puntualizzato, da una parte, che l'aggettivo " mediatamente " si riferisce, come sopra ricordato, ai casi in cui l'esercizio del potere si realizza nelle consentite forme negoziali, e , d'altra parte, che sussiste, nelle motivazioni delle due sentenze, ancora riprese da quelle successive, un espresso legame sì che esse, integrandosi costituiscono un unico, coerente disegno nei limiti del quale la Corte ammette la legittimità costituzionale delle norme scrutinate, deve subito fissarsi un primo punto. I "comportamenti", cioè, che esulano dalla giurisdizione amministrativa esclusiva non sono tutti i comportamenti, ma solo quelli che, tenuto conto dei riferimenti formali e fattuali di ogni concreta fattispecie, non risultano riconducibili all'esercizio di un pubblico potere. Altrimenti detto, quando può affermarsi che nella specie sia rilevabile un oggettivo, e non meramente intenzionale, svolgersi di un'attività amministrativa costituente esercizio di un potere astrattamente riconosciuto alla pubblica amministrazione o ai soggetti ad essa equiparati, sussiste ogni elemento sufficiente ad affermare la giurisdizione amministrativa. Caratterizzante, perciò, non è la legittimità dell'esercizio del potere, che, se fosse richiesta, finirebbe per privare di causa la tutela appunto prevista per i casi di incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere, né lo è il maggiore o minore spessore della illegittimità ovvero della situazione giuridica tutelata. Caratterizzante è , invece, la mera emersione di un agire causalmente riferibile ad una funzione che per legge appartenga all'amministrazione agente e che per legge questa sia autorizzata a svolgere e che, in concreto, risulti svolta. Se così è, l'in sé dell'esercizio del potere deve rilevarsi, prioritariamente, in materia comportamentale, non tanto dalle intenzioni e dalla generiche dichiarazioni del soggetto pubblico agente quanto dalle oggettive vicende procedimentali che, mentre nella grande maggioranza dei casi precedono ed accompagnano il fenomeno comportamentale, testimoniano esse, oggettivamente, della rilevanza e della finalità e della consistenza del comportamento consentendo di individuarne la genesi e di distinguerlo dai casi di semplice generica presupposta esistenza del pubblico interesse. La illegittimità di questo o quel momento procedimentale , cioè di quella serie formale strumentalmente rivolta a realizzare l'interesse pubblico e sintomatica dell'agire autoritativo consentito dalla legge , può sì far concludere per la illegittimità e, nei congrui casi, per la illiceità del comportamento con effetti anche analoghi o uguali a quelli propri della accertata carenza del potere, ma tale conclusione spetta al giudice cui, con garanzie ed effettività di certo non inferiori a quelle apprestate dal giudizio ordinario, compete alla stregua dell'ordinamento: al "giudice naturale della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica ". E a questo "giudice naturale " compete, in diretta applicazione dei principi di effettività e di concentrazione della tutela nonché delle norme poste dal legislatore ordinario, di conoscere non solo delle domande intese all'annullamento dell'attività autoritativa e, comunque, impugnatorie ma "di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali"; risarcimento che, nell'ambito della giurisdizione esclusiva, è "disposto" con procedure anche innovative (v.artt.7 e 8 l.205/2000). In proposito la Corte Costituzionale, chiarita la irrilevanza della natura giuridica intrinseca alla pretesa risarcitoria, se di per sé di diritto soggettivo o meno, ha escluso la configurabilità della giurisdizione ordinaria "per ciò solo che la domanda abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno" ed ha dichiarato costituzionalmente legittimo il nuovo sistema di riparto che riconosce esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per l'illegittimo esercizio della funzione. Ciò in quanto il potere di risarcire il danno ingiusto non costituisce una nuova materia attribuita alla cognizione del giudice amministrativo ma uno "strumento di tutela ulteriore " rispetto a quello demolitorio, strumento che, in armonia con l’art.24 Cost. ne completa i poteri "non soltanto per effetto della esigenza di concentrare davanti ad un unico giudice l'intera protezione del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica, ma anche perché quel giudice è idoneo ad offrire piena tutela" oltre che agli interessi legittimi "ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti coinvolti nell'esercizio della funzione amministrativa " (Corte cost., 140/2007). L'illegittimità dell'esercizio del potere, nel senso sopra precisato, comporta, dunque, sempre nel caso di lesione di interessi e, nell'ambito della giurisdizione esclusiva, anche nel caso di lesioni di diritti soggettivi, di qualsiasi spessore, la configurabilità della sola giurisdizione amministrativa così nel caso che la domanda risarcitoria venga proposta congiuntamente a quella demolitoria come nel caso che venga proposta autonomamente, derivandosi anche in tal caso la risarcibilità del danno dalla ipotizzata illegittimità dell'attività amministrativa. La Corte di Cassazione, pur convenendo su tali conclusioni generali (v. già Cass. 1207/2006), sottolinea ancora , non senza rimarchevoli oscillazioni, perplessità di non lieve momento. Adducendo ora la perdurante vigenza della L. 20 marzo 1865, all. E, artt. 2 e 4, e non solo dei suoi generali principi così come costituzionalmente recepiti, ora, con non felice espressione, una asserita difficoltà del giudice amministrativo a penetrare le regole civilistiche sul risarcimento del danno ingiusto, ora la individuabilità di diritti in assoluto riservati alla tutela ordinaria, la indicata Corte : 1) limita i casi in cui si è in presenza di "un concreto esercizio del potere" ai casi in cui l'esercizio stesso sia riconoscibile come tale perché a sua volta deliberato nei modi e in presenza dei requisiti richiesti per valere come atto o provvedimento e non come mera via di fatto (S.U., 13659/2006) "in consonanza con le norme che lo regolano " (S.U., 13911/2006, 2691/2007); 2) costruisce una categoria di diritti incomprimibili in maniera assoluta e perciò sempre da comprendere nell'ambito della giurisdizione ordinaria ; 3) asserisce che la giurisdizione amministrativa è rifiutata ove, in presenza di autonoma domanda risarcitoria, il giudice non provvede all'esame di merito per la ragione che nel termine per ciò stabilito non sono stati chiesti l'annullamento dell'atto e la conseguente rimozione dei suoi effetti. In tali circostanze avverte la Corte, il rifiuto si espone a cassazione ex art.362, co. 1, c.p.c.). Si tratta, come ognuno vede, di perplessità gravi nella misura in cui sostanzialmente evocano, per via di una definizione resa fortemente restrittiva dal suo carattere analitico, la dicotomia sussistenza del potere - esercizio del potere nei termini, anch'essi ambigui , precedenti il nuovo assetto di riparto della giurisdizione; nella parte in cui confliggono con le univoche dichiarazioni della Corte cost. 140/2007 in tema di c.d. diritti incomprimibili e 77/2007 in tema di limiti, ex artt.362 e 386 c.p.c., inerenti il controllo dei confini esterni della giurisdizione; nella parte in cui, varcando tali limiti, assoggetta a nuove forme di sindacato le sentenze del giudice amministrativo. Al primo proposito si rileva che, proprio con riferimento alla materia delle espropriazioni, la Corte di Cassazione, nel suo indirizzo più radicale (v. S.U., 2688, 2689, 2691, 3048, 3723, 9323/2007che sembra attenuato da altro pur recentemente confermato indirizzo (S.U., 27190, 27192/2006), configura la giurisdizione ordinaria non solo, com'è pacifico, nei casi in cui l'amministrazione agisce, fuori di ogni schema procedimentale, in via di fatto, ma anche nei casi in cui la dichiarazione di pubblica utilità risulti "radicalmente nulla " per omessa indicazione dei termini per l'espropriazione o per scadenza degli stessi, ovvero per imprecisioni nella indicazione delle aree. In tali casi, ed inoltre nei casi di decreto di espropriazione emesso fuori termine, rilevandosi anche violazione dell’art.42 Cost., si sarebbe, secondo la Corte, in presenza di vizi di spessore maggiore di quelli che, in altri casi, inducendo il giudice amministrativo all'annullamento della dichiarazione di pubblica utilità o del decreto di espropriazione, legittimerebbero, sia pure per sole esigenze di concentrazione, la giurisdizione amministrativa (v. Sez. un. 2 luglio 2007, n. 14594). Ora la perplessità che tale indirizzo suscita non attiene soltanto alla identificazione di una categoria di speciali vizi che non sembra trovare conforto positivo e che anzi contrasta con le disposizioni analiticamente introdotte con l’art.14 della l.15/2005, ma nella sostituzione del criterio della riferibilità dell'esercizio del potere all'agire autoritativo, riferibilità che come sopra si è visto chiama in causa l'intero procedimento, con il criterio del sindacato concreto della legittimità del provvedimento della cui applicazione si tratta, che non si vede come possa tal volta competere al giudice ordinario e tal altra al giudice amministrativo. In materia di espropriazione, poi, si prescinde del tutto - non solo dal nuovo regime della nullità introdotto, ad integrazione della l.241/1990, dall’art.14 della l.15/2005 - ma anche dall'entrata in vigore, il 30 giugno 2003, del T.U. approvato con d.p.r. 327/2001, il cui art.43 sembra, come si preciserà più avanti, avere apportato sul punto definitivi chiarimenti. Dei diritti c.d. incomprimibili s'è detto. VII - Quanto, infine, al problema della c.d. pregiudizialità amministrativa, istituto risalente nel tempo ed utilizzato di recente in tema di appalti (v. art.13 l.142/1992 e, per qualche profilo generale, Corte Cost. 165/1998), esso è estremamente complesso (v.Ad. Plen., 4/2003) e qui non pertinente se non per la sua connessione, già richiamata dalla Corte di Cassazione, con la questione della giurisdizione. Basti, perciò, enunciarne taluni profili problematici, relativi: - il primo, alla struttura stessa della tutela del giudice amministrativo che, come si è visto è, specialmente articolata sia in sede di giurisdizione di legittimità sia in sede di giurisdizione esclusiva, nel senso che il provvedimento amministrativo lesivo di un interesse sostanziale (e non, perciò, il mero comportamento) può essere aggredito e in via impugnatoria, per la sua demolizione, e "conseguenzialmente" in via risarcitoria, per i suoi effetti lesivi, ponendosi, nell'uno e nell'altro caso, la questione della sua legittimità. Il carattere "conseguenziale" ed "ulteriore" della tutela risarcitoria, espressamente ed inequivocamente posto, in armonia con gli art.103 e 113 Cost., dall’art.35 del d.lgs. 80/1998 e confermato dal successivo co. 5 che comunque abroga "ogni disposizione che prevede la devoluzione al giudice ordinario della controversie sul risarcimento del danno" ancora una volta visto come "conseguente all'annullamento di atti amministrativi", sembra invero incontestabile. Ed è confermato dalla ritenuta riferibilità della pronuncia di condanna all'insieme dei poteri strumentali attribuiti al giudice per rimediare compiutamente alla lesione della situazione soggettiva concettualmente, prima ancora che positivamente, unica e ciò sia che l'esercizio dei poteri del giudice sia chiesto contestualmente sia che, giudizialmente accertatasi la illegittimità, sia richiesto, per vero con condivisa interpretazione estensiva non del tutto allineata, tuttavia, con le convenienze della "contestualità", l'esercizio di ulteriori poteri prima non sollecitati. Non c'è traccia, nella pronunce della Corte Costituzionale di alcun sospetto di illegittimità costituzionale di siffatto disegno ed, anzi, sembra agevole inferirne il contrario. L'istituto, per altro, autorevolmente confermato da motivate pronunce della stessa Corte di Cassazione (157/2003, 4538/2003, 1207/2006), ha, oltre a radici storiche e letterali di univoco rilievo, ragioni del pari univoche. Deve considerarsi, in proposito, che diritto ed interesse, benché molto spesso partecipi di una assimilabile pretesa ad un c.d. bene della vita, sono situazioni soggettive fortemente differenziate e tali ritenute già a livello costituzionale. Il primo, per dirla nei noti, riassuntivi termini, è assistito da una tutela tendenzialmente piena e diretta e, nei suoi confronti, è sempre circoscritta la eventualità di condizionamenti esterni, anche se imputabili ad una amministrazione pubblica e, perciò, ad interessi generali. Il secondo origina da un compromesso, chiaramente solidaristico, tra le esigenze collettive di cui è portatrice, ex artt.97 e 98 Cost., la amministrazione stessa e la pretesa, di colui che dalla loro legittima soddisfazione è coinvolto, di veder preservati quei suoi beni giuridici che preesistono all'attività pubblica ovvero che nel corso di questa si profilino. Ne deriva un coinvolgimento costante dell'interesse del singolo nell'interesse della collettività che si esprime nell'attività, non libera, ma doverosa e funzionalizzata dell'amministrazione e questo legame genetico spiega non solo la previsione di una giurisdizione a ciò specificamente deputata ma, insieme, le differenze, che rimangono marcate, che possono individuarsi e in tema di discipline processuali e in tema di connotati della tutela . I commendevoli contributi acquisiti, in sede dottrinale e giurisprudenziale, in tema "giudizio sul rapporto", non sembrano condivisibili ove approdino al disconoscimento della natura principalmente impugnatoria dell'azione innanzi al giudice amministrativo, cui spetta non solo di tutelare l'interesse privato ma di considerare e valutare gli interessi collettivi che con esso si confrontano e, non solo di annullare, bensì di "conformare" l'azione amministrativa affinché si realizzi un soddisfacente e legittimo equilibrio tra l'uno e gli altri interessi. Queste essenziali circostanze, mentre si riflettono sui diversi caratteri del giudizio amministrativo rispetto a quello civile, nel quale si contrappongono pretese ascrivibili ad analoghe fonti e di regola sottratte ad interferenze esterne da parte dell'autorità pubblica, sembrano spiegare e giustificare e la priorità dell'azione impugnatoria, nel cui ambito soltanto è possibile e doveroso esercitare compiutamente l'anzidetto vaglio di legittimità nonché misurare spessore e valenza così della dedotta situazione soggettiva come della denunciata lesione, e la posta "conseguenzialità " rispetto ad essa, dell'azione risarcitoria. Non si trascuri che il risarcimento del danno, oltre che "conseguenziale" è previsto, nell'ambito della processualmente qualificante giurisdizione di legittimità, anche come "eventuale" con un attributo, cioè, che mentre è di regola oggetto di ingiustificata pretermissione, riassume e sottopone alla consapevolezza del giudice i travagli che le relative norme hanno inteso risolvere e che, in dottrina, hanno persino indotto a configurare come "speciale" la figura in discorso. Si ricorderà che la stessa Corte costituzionale aveva avuto modo, nel sottolineare l'urgenza di "prudenti" soluzioni normative, di ipotizzare "scelte tra misure risarcitorie, indennitarie, reintegrative in forma specifica e ripristinatorie" nonché la "delimitazione delle utilità economiche suscettibili di ristoro patrimoniale nei confronti della pubblica amministrazione" (v.ord. 8 maggio 1998, n, 165 e sent. 35/1980) nella considerazione della inesistenza della copertura di rilievo costituzionale della pretesa "regola generale di integralità della riparazione ed equivalenza al danno cagionato" (Corte Cost. 369/1996), con evidenti rilessi anche di natura processuale. È su queste premesse che, rimasta inattuata la articolata delega di cui art.20, co. 5, l.59/1997, il legislatore è, infine, pervenuto a stabilire, con formula che privilegia le ritenute esigenze di concentrazione dei giudizi, il criterio della conseguenzialità evidentemente inteso a confermare la priorità del processo impugnatorio e in vista della prevalenza dell'interesse collettivo al pronto e risolutivo sindacato dell'agire pubblico e in vista della convenienza, per la collettività, dell'esercizio del sindacato stesso secondo criteri e modalità che, essendo positivamente propri del giudizio di annullamento, da esso non consentono di prescindere - ed il criterio della "eventualità " del risarcimento del danno arrecato all'interesse legittimo, criterio rafforzato dalla diversa prescrizione in tema di giurisdizione esclusiva e che, perciò, non solo esclude automatismi ma impone i predetti apprezzamenti specifici, possibili soltanto allorché sia in causa, siccome suo oggetto principale e diretto, il provvedimento, con le sue ragioni ed i suoi effetti. È su queste premesse, perciò, che dev'essere apprezzato il vulnus che si ritiene connesso alla c.d. pregiudiziale amministrativa che, in effetti, da un lato corrisponde ad avvertite esigenze di controllo, convenientemente sollecitate dalle azioni impugnatorie, della legittimità e della trasparenza dell'azione autoritativa e, d'altra parte, consente il compiuto rilievo degli interessi collettivi e generali coinvolti, rilievo certamente monco e claudicante anche con riferimento alla giurisdizione esclusiva, pur sempre relativa anche ad interessi legittimi e a diritti "degradati", nell'ambito di un processo di solo tipo risarcitorio, nel quale, per altro, gli interessi economici coinvolti appaiono non più rilevanti degli interessi spesso anche di libertà che si fanno valere, senza che la relativa decadenza sia motivo di censura, nel processo di annullamento. Lo stesso soggetto leso sembra avere convenienza, a fronte dei non gravissimi disagi correlati alla previsione di decadenza, agevolmente superabili con il doveroso uso della diligenza media e certamente più ridotti rispetto a quelli che la legislazione consente o impone in altre anche se diverse materie, a sperimentare preventivamente l'azione di annullamento, nella cui procedura e nella cui finalità strumentale, gli è consentito rilevare vizi ed approfondirne lo spessore con risultati ben utili ai fini dell'accertamento compiuto dell'an e del quantum della richiesta riparazione. Ragioni sostanziali, dunque, non meno che formali, sembrano assistere le conclusioni già raggiunte dall'Adunanza plenaria; - il secondo, alla c.d. presunzione di legittimità, che, mentre involge radicati poteri della pubblica amministrazione e positivi caratteri dei suoi provvedimenti, come la efficacia e la esecutorietà, emergenti da una legislazione costante nel tempo, si tramuta da relativa in assoluta allorché, nel termine di decadenza, - certamente eluso in ipotesi di vanificazione della pregiudiziale - siasi omessa impugnazione ovvero finché, in presenza di discrezionale apprezzamento, non sia intervenuto annullamento d'ufficio (v. l.15/2005); - il terzo, alla articolazione della tutela sopra ricordata che, in entrambi i suoi casi, concerne la stessa illegittimità del provvedimento strumentalmente invocata, "principaliter", e ai fini del buon esito della domanda impugnatoria e ai fini del buon esito della domanda risarcitoria con la conseguenza che, costituisca il "danno ingiusto" fatto o, come sembra preferibile, fattispecie, esso non può essere configurato a fronte di una illegittimità del provvedimento che, per l'assolutezza della cennata presunzione, è, de jure, irreclamabile ; - il quarto, alla incidenza della lamentata "decadenza" che attiene, a ben vedere, all'azione impugnatoria invece che all'azione risarcitoria, impedita, piuttosto che dalla decadenza, dalla non configurabilità, in presenza di un provvedimento inoppugnabile così come in presenza di un provvedimento inutilmente impugnato, di una sua condizione che la contraddizione legittimità-illeceità rende essenziale, la formale inesistenza, cioè, della ingiustizia del danno che è nucleo essenziale, anche se non sufficiente, della illiceità; - il quinto, alla concreta equivalenza del giudicato che, rilevando immediatamente la inesistenza della appena ricordata condizione, dichiari la improponibilità della domanda col giudicato che, pronunciandosi, come si pretende, nel merito dichiari infondata - e questa volta con pronuncia inequivocabilmente sottratta a verifica ex art.362 c.p.c. - la domanda per difetto della denunziata illegittimità; - il sesto, al reclamato potere regolatore della Corte di Cassazione (S.U., 1139/2007, 13/2007) che, secondo il correlato avvertimento della Corte Costituzionale (sent. 77/2007) , "con la sua pronuncia può soltanto, a norma dell’art.111, co. 8, Cost., vincolare il Consiglio di Stato e la Corte di Conti a ritenersi legittimati a decidere la controversia, ma certamente non può vincolarli sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale decisione ". Ad analogo principio, prosegue la Corte Costituzionale "si ispira l’art.386 c.p.c. applicabile anche ai ricorsi proposti a norma dell’art.362, co. 1, c.p.c., disponendo che "la decisione sulla giurisdizione è determinata dall'oggetto della domanda e, quando prosegue il giudizio, non pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda" ; - il settimo, ma non ultimo, relativo alla correlata verifica degli eventuali limiti dell'indirizzo della Corte di Cassazione secondo cui la inoppugnabilità dell'atto amministrativo, siccome relativa agli interessi legittimi, non impedirebbe in nessun caso al giudice ordinario di disapplicarlo (Cass. 10628/2006, 12646/2006). VIII - Quanto si è fin qui considerato consente di confermare l'attualità degli indirizzi già assunti dall'Adunanza plenaria con riferimento alla questione da decidere, in merito alla quale la giurisdizione amministrativa è affermata anche dalle Sezioni unite (v., da ultimo, 14954/2007). Già con 4/2005 L’Adunanza Plenaria ha posto il principio secondo cui deve configurarsi la giurisdizione amministrativa in ordine a "liti che abbiano ad oggetto diritti soggettivi quando la lesione di questi ultimi tragga origine, sul piano eziologico, da fattori causali riconducibili all'esplicazione del pubblico potere, pur se in un momento nel quale quest'ultimo risulta ormai mutilato nella sua forma autoritativa per la sopraggiunta inefficacia disposta dalla legge per la mancata conclusione del procedimento" e ciò anche se il risarcimento è autonomamente richiesto, nei limiti temporali della prescrizione quinquennale (Ad. Plen. 2/2006), di seguito all'intervenuto annullamento del provvedimento degradatorio, anche in via di autotutela. Nello stesso senso si è poi pronunciata Ad. Plen. 9/2005, che, anche richiamando analoghi orientamenti delle Sezioni Unite ( ord. 22 novembre 2004, n. 21944 e sent. 6745/2005), ha ritenuto compresa nella giurisdizione amministrativa quelle "condotte che si connotano quale attuazione di potestà amministrative manifestatesi attraverso provvedimenti autoritativi che hanno spiegato, secundum legem, i loro effetti pur se successivamente rimossi, in via retroattiva, da pronunce di annullamento". Più di recente Ad. Plen. 9/2007 che, in fattispecie per più versi analoga, conclude che "nella materia dei procedimenti di esproprio sono devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione - naturalmente anche ai fini complementari della tutela risarcitoria - di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all'interno del quale sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo atto traslativo ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi dichiarati illegittimi". Infine Ad. Plen. 10/2007, ha statuito che pur nell'ambito della giurisdizione generale di legittimità spetta al giudice amministrativo conoscere, ai fini risarcitori, dei danni conseguiti ad un provvedimento amministrativo annullato per intervenuta scadenza del suo termine di efficacia (nella specie : requisizione) anche se i danni stessi si sono verificati dopo la stessa scadenza. Ne deriva, conclusivamente, che la domanda per cui è causa è stata correttamente compresa, dal giudice di primo grado, nella giurisdizione del giudice amministrativo in quanto intesa a rimediare, insieme in via impugnatoria e risarcitoria, ad una lesione che risulta conseguente ad una serie procedimentale certamente svolta, dalla Provincia di Modena, nella sua veste di Autorità nell'esercizio, sia pure illegittimo, del potere ad essa spettante. Assumono particolare rilievo, ai fini della riconducibilità della lesione all'esercizio del potere pubblico, i provvedimenti di variazione e di integrazione della pianificazione urbanistica, i reiterati provvedimenti di dichiarazione di pubblica utilità, i conseguenziali provvedimenti di occupazione e di determinazione e deposito delle indennità nonché lo stesso provvedimento di trasferimento della proprietà che, benché adottato dopo la scadenza del termine fissato dalla dichiarazione di pubblica utilità e perciò illegittimo e perciò annullato, da una parte non inficia la dispiegata efficacia degli atti posti in essere precedentemente - atti giunti a configurare la irreversibile destinazione del bene all'uso pubblico - e, d'altra parte, non vulnera la ritenuta riconducibilità procedimentale dell'attività amministrativa all'esercizio di un pubblico potere autoritativo. IX - Si deve, infine, sottolineare - e la circostanza sembra avere chiari riflessi nella intera materia delle espropriazioni per pubblica utilità - che, è intanto entrato in vigore, con decorrenza 30 giugno 2003, il T.U. approvato con d.P.R. 327/2001, (v. in merito all’art.57, A. P., 2/2005 e S.U. 1136/2005, 14954/2007) che, nel suo art.43 detta una innovativa disciplina in tema di fattispecie già inquadrate negli schemi, contrastati anche dalla Corte di Strasburgo, della c.d. accessione invertita, derivi essa da occupazione acquisitiva o usurpativa. In presenza di utilizzazione di un bene immobile per scopi di interesse pubblico - prescrive la norma - che sia modificato "in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo di pubblica utilità " l'autorità cui risale l'utilizzazione "anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio" può disporre che l'immobile stesso "vada acquisito al suo patrimonio indisponibile" con provvedimento discrezionale che, verso determinazione e preventivo pagamento della misura del risarcimento del danno, comporta il trasferimento del diritto di proprietà. La norma, che rimette alla valutazione discrezionale dell'amministrazione di negare la restituzione del bene e che attribuisce al giudice amministrativo di sindacare, nell'ambito della giurisdizione attribuitagli ai sensi del successivo art.53, le ragioni del diniego secondo alcuni con competenza non solo esclusiva ma estesa al merito - sembra rilevare, per quanto qui interessa, sotto due aspetti. Da una parte ed in generale essa conferma, infatti, quanto si è venuto esponendo in tema di positiva priorità del criterio di discriminazione fondato sulla "riconducibilità" dell'esercizio del potere all'autorità per altro estendendo la possibilità di accertarlo anche per via del solo accertamento della qualifica di "autorità" del soggetto agente e delle strumentalità del suo agire ai fini della realizzazione degli "scopi di interesse pubblico" la cui cura è ad essa commessa. D'altra e più specifica parte la norma importa, ed i suoi compiuti effetti debbono essere ovviamente verificati nel nuovo quadro definito dall'intero decreto, una profonda revisione degli istituti dell'accessione invertita così come introdotti e sviluppati dalla giurisprudenza. La fattispecie regolata resta per più di un verso analoga nei suoi tratti generali posto : - che non è sufficiente il mero impossessamento del bene immobile altrui ma è necessario che lo stesso immobile sia anche "modificato" ed "utilizzato per scopi di interesse pubblico", che, cioè, si sia in presenza e di un'attività materiale e di una sua obiettiva strumentalità; - che permane l'esigenza della qualificazione del soggetto pubblico agente, che, dovendo configurarsi come "autorità" deve agire, alla stregua di una interpretazione costituzionalmente orientata, nel riconoscibile esercizio dei suoi poteri autoritativi. L'istituto è per altro innovato sia, come già rilevato, quanto ai modi di emersione di questo esercizio rispetto ai quali appare fortemente recessiva la rilevanza dei momenti procedurali della dichiarazione di pubblica utilità e del decreto di espropriazione e sintomatica, perciò, la sola astratta previsione del potere; sia quanto all'estensione dell'ambito della discrezionalità amministrativa; sia quanto al meccanismo del trasferimento della proprietà del bene immobile, del quale l'autorità può rifiutare la restituzione nel solo ambito delle cennate garanzie giuridiche ed economiche, la cui esigenza è stata specialmente sottolineata dalla Corte di Strasburgo; sia con riferimento alla tutela giudiziaria, interamente attribuita, ora, con la sola eccezione delle "vie di fatto" materiali, al giudice amministrativo, ben al di là, perciò, dei limiti precedentemente affermati. Si realizza per tale maniera, nella materia delle espropriazioni (eccezion fatta per le questioni indennitarie) quella estesa concentrazione della giurisdizione che è tra gli obiettivi prioritari della recente legislazione e che, coerente con la acquisita pienezza dei poteri del giudice amministrativo, consente ponderate riflessioni anche nelle altre materie che tuttora esprimono elementi di incertezza sul tema per più versi centrale degli esposti criteri di discriminazione. X - Ne deriva che, ritenuta e dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo, l'appello deve essere respinto con assorbimento del ricorso incidentale. Le spese del grado di giudizio, tenuto conto della complessità delle questioni esaminate e del relativo esito, possono compensarsi. Deve ordinarsi la rimessione degli atti di causa al Tribunale regionale amministrativo per la Lombardia, sezione di Brescia, per la definizione del giudizio P.Q.M L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ritenuta e dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo, respinge l'appello con assorbimento del ricorso incidentale. Compensa le spese del giudizio di appello. Ordina la rimessione della causa al Tribunale regionale amministrativo per la Lombardia , sezione di Brescia, per la definizione del giudizio. Così deciso in Roma dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, riunito in Adunanza plenaria nella camera di consiglio del giorno 15 ottobre 2007 con l'intervento dei signori Magistrati: Mario Egidio Schinaia Presidente del Consiglio di Stato Paolo Salvatore Presidente di Sezione Giovanni Ruoppolo Presidente di Sezione Est. Raffaele Carboni Consigliere Costantino Salvatore Consigliere Luigi Maruotti Consigliere Carmine Volpe Consigliere Chiarenza Millemaggi Cogliani Consigliere Pier Luigi Lodi Consigliere Giuseppe Romeo Consigliere Luciano Barra Caracciolo Consigliere Cesare Lamberti Consigliere Aldo Fera Consigliere Consiglio di stato , sez. IV, 29 gennaio 2008, n. 248 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente DECISIONE sul ricorso n. 8223 del 2005, proposto dalla società RESIDENZA LE PISCINE DI MONTESIGNANO S.p.A. e dalla SOCIETÀ FLORIDA S.p.A. nelle persone dei legali rappresentanti pro-tempore, rappresentate e difese dagli Avv. ti Giovanni Gerbi e Ludovico Villani, elettivamente domiciliate in Roma, Via Asiago, n. 8/2, presso lo studio del secondo. CONTRO Comune di Genova, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli Avv. ti Edda Odone e Gabriele Pafundi e M.P. Pessagno, elettivamente domiciliato in Roma, Viale Giulio Cesare, n. 14/4 scala A, presso lo studio del secondo. PER L'ANNULLAMENTO della sentenza del TAR Liguria, Sezione I, 18 dicembre 2004, n. 1721; Visto l'appello con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune appellato. Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese. Visti gli atti tutti della causa; Alla pubblica udienza del 16 ottobre 2007, relatore il Consigliere Costantino Salvatore; Uditi l'avv. Gerbi per le appellanti, l'avv. Pessagno e l'avv. Odone, per il comune appellato. Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue. Fatto La controversia trae origine dalla domanda presentata in data 28 marzo 1986 dalla società Residenza Le Piscine di Montesignano S.p.A. al comune di Genova per l'approvazione di un progetto di lottizzazione a scopo edificatorio (convertito in Piano Particolareggiato di iniziativa privata in seguito all'entrata in vigore della legge regionale 8 Luglio 1987, n. 24) per la realizzazione di insediamenti residenziali e commerciali in Località Sciorba di Montesignano (GE). L'intervento proposto con il descritto Piano Particolareggiato interessava un compendio immobiliare di mq. 125.235, dei quali: mq. 55.938 di proprietà della Soc. Residenza Le Piscine di Montesignano s.p.a.; mq. 61.252 di proprietà della Soc. Florida s.s.; mq. 8.045 appartenenti a soggetti terzi. Il progetto di lottizzazione, rielaborato come Piano Particolareggiato di iniziativa privata (e corredato di tutti i documenti tecnici richiesti dalla normativa regionale sopravvenuta), è stato valutato favorevolmente dalla Commissione edilizia in data 19 aprile 1989 e su di esso si sono espressi favorevolmente anche il Servizio provinciale del Genio civile e l'Ufficio regionale dei beni ambientali, i quali hanno rilasciato, rispettivamente, il parere di fattibilità sotto il profilo idraulico e il nulla osta ex art. 4 L.R. 24/1987. Successivamente, la Giunta municipale, con deliberazione 13 marzo 1990 n. 1336, dopo aver approvato lo schema di convenzione attuativa ha proposto al Consiglio comunale di adottare il Piano Particolareggiato, in quanto conforme alla vigente disciplina urbanistica. Da quel momento, il procedimento di approvazione del piano si è arrestato e soltanto in data 11 novembre 1993, a seguito di atto di intimazione e diffida, il Comune di Genova ha invitato la Soc. Residenza Le Piscine di Montesignano s.p.a. a trasmettere documentazione integrativa al dichiarato fine di verificare, sotto il profilo geotecnico, la fattibilità delle opere progettate. Le Società istanti, sul presupposto della natura palesemente dilatoria di tale richiesta (formulata a quasi quattro anni dalla ricordata deliberazione della Giunta municipale) ed in considerazione del ritardo del Comune nell'assunzione di un qualsivoglia provvedimento in ordine all'istanza di approvazione del progetto, hanno proposto ricorso dinnanzi al TAR Liguria al fine di far accertare il silenzio rifiuto serbato dall'Amministrazione e di ottenere la declaratoria del dovere di immediata pronuncia sulla istanza di approvazione. Con sentenza 10 febbraio 1996, n. 27 il TAR adito ha accertato che "siffatta richiesta di ulteriore documentazione del Sub - commissario, così generica e indeterminata, per di più disposta circa... quattro anni dopo la citata deliberazione della Giunta Municipale, non può che essere considerata alla stregua di un atto interlocutorio di natura pretestuosa e dilatoria e, perciò, irrilevante ed inidoneo ad ovviare all'inerzia dell'Amministrazione in ordine al suo dovere di concludere il procedimento .... a maggior ragione se si considera che il progetto presentato sette anni prima dalla ricorrente era fin dall'origine corredato, come lo stesso Comune ha riconosciuto nell'atto deliberativo di Giunta da copiosi elaborati e relazioni di indagine geologica e geotecnica redatti da illustri cattedratici". Conseguentemente, il TAR ha annullato il silenzio - rifiuto serbato dal Comune sul progetto dichiarando l'obbligo dell'Amministrazione di pronunciarsi sull'istanza. Il Comune, non di meno, non ha ottemperato a quanto disposto nella citata sentenza (nel frattempo passata in giudicato) e non ha concluso il procedimento, omettendo di pronunciarsi sul progetto di lottizzazione. Sempre in fatto va precisato che nel dicembre 1995 - e più precisamente tra la data in cui il ricorso avverso il silenzio - rifiuto è stato trattenuto a sentenza ed il deposito della sentenza stessa - il Consiglio Comunale di Genova, con deliberazione n. 264 del 14 dicembre 1995, recante la cosiddetta "variante di salvaguardia", ha adottato la variante parziale al PRG 1980, per la limitazione quantitativa delle previsioni in zona di espansione residenziale, mediante la quale, tra l'altro, è mutata la disciplina urbanistica della vasta area oggetto della lottizzazione, da allora in poi destinata a "zona agricola (ZE), al fine di salvaguardarne le caratteristiche ambientali". La scelta di escludere l'edificabilità dell'area è stata poi confermata dalla variante generale al PRG 1980, adottata nel luglio 1997, con la quale l'area in oggetto è stata destinata in via prevalente a sottozona EM (agricola), in parte a sottozona EB (boschiva) ed in parte a zona RC (ricettiva). Detta previsione urbanistica è stata definitivamente confermata in sede di approvazione del PUC da parte della Regione Liguria con decreto presidenziale 10 marzo 2000 n. 44. Va precisato, a questo punto che né la variante di salvaguardia né la variante generale né l'approvazione regionale sono state mai impugnate da parte delle società appellanti. 1.1. Per effetto del nuovo strumento urbanistico generale la Soc. Residenza Le Piscine di Montesignano S.p.A. e la Soc. Florida s.s. si sono trovate di fronte all'impossibilità di approvazione del progetto di lottizzazione a suo tempo presentato per sopravvenuto contrasto con la nuova disciplina urbanistica della zona. Pertanto, le predette società, sul presupposto che gli atti illegittimi assunti dal Comune e l'illegittimo comportamento omissivo mantenuto del medesimo (accertato e dichiarato con la citata sentenza 10 febbraio 1996, n. 27) hanno arrecato grave pregiudizio alle loro ragioni, hanno proposto al TAR Liguria ricorso per il risarcimento dei danni ingiustamente subiti. In particolare, hanno chiesto al Tribunale adito di: 1. accertare e dichiarare l'illegittimità e l'illiceità degli atti e del complessivo comportamento omissivo e commissivo del Comune di Genova sia con riferimento all'istanza di approvazione del piano di lottizzazione/particolareggiato di iniziativa privata presentata in data 28 marzo 1986 - 13 gennaio 1988 vuoi prima della sentenza del Tar Liguria n. 27/1996 vuoi successivamente ad essa ed anche con riguardo alla adozione del nuovo P.R.G. di Genova deliberata il 16 luglio 1997; 2. accertare e dichiarare la responsabilità ed il derivante obbligo del Comune di Genova di risarcire i danni patiti e patiendi dalla Soc. Residenza Le Piscine di Montesignano s.p.a. e dalla Soc. Florida s.s. a causa di tali atti e del comportamento del Comune; 3. conseguentemente accertare e dichiarare l'obbligo del Comune di Genova di risarcire tutti tali danni (danno emergente e lucro cessante) alle Società ricorrenti; 4. accertare, quantificare e liquidare i danni predetti e condannare il Comune di Genova a versare alle ricorrenti il relativo ammontare, maggiorato di rivalutazione monetaria e di interessi sulle somme rivalutate alla data di insorgenza dei ridetti danni sino al dì del completo soddisfo, occorrendo con fissazione del termine per siffatta corresponsione; 5. in subordine (alternativamente a quanto sub 4), determinare i criteri di quantificazione del risarcimento, con integrazione di rivalutazione monetaria ed interessi sulle somme rivalutate dalla data di insorgenza dei danni di cui sopra sino al dì del completo soddisfo, nonché stabilire il termine - ex art. 7 L 205/2000 - entro il quale il Comune di Genova debba, nel rispetto dei prefiggendi criteri, presentare alle ricorrenti una proposta di pagamento. Il Comune di Genova si è costituito in giudizio, eccependo in via pregiudiziale il difetto di giurisdizione del Tribunale adito e la prescrizione del diritto vantato, e deducendo, nel merito, l'infondatezza del ricorso. Il TAR, disattese le eccezioni pregiudiziali, nel merito, pur avendo escluso che il consiglio comunale fosse assolutamente vincolato ad approvare il progetto di lottizzazione, ha osservato che l'affidamento ingeneratosi nelle ricorrenti aveva raggiunto un notevole grado di espansione, in quanto il progetto di lottizzazione, come riconosciuto dalla sentenza n. 27/96, aveva superato nella sostanza tutti i passaggi tecnici ed aveva ottenuto il consenso anche della Giunta municipale. In tale contesto, ad avviso del primo giudice, lo spazio di discrezionalità rimesso al consiglio comunale era davvero residuale e, se contrario all'approvazione, richiedeva, comunque, una manifestazione esplicita, sorretta da una motivazione credibile ed esauriente. Conseguentemente, se la discrezionalità di pertinenza del consiglio comunale in sede di esame del progetto di lottizzazione è sufficiente per escludere l'obbligo del Comune di risarcire il danno asseritamente derivante dal minor valore del terreno divenuto agricolo grazie all'inerzia del Comune rispetto a quello che avrebbe avuto con la realizzazione del progetto, non altrettanto può dirsi per il danno connesso ai costi sopportati per gli studi, le indagini tecniche, assistenze e consulenze, spese generali per l'apprestamento dei mezzi necessari o utili per avviare la realizzazione di un progetto, la cui approvazione, alla stregua di un esame oggettivo della situazione, non poteva che essere prossima. E, tuttavia, anche per quanto concerne il danno da ultimo menzionato - esplicitamente qualificato come danno emergente - il primo giudice ha ritenuto che la domanda non potesse essere accolta per mancanza di prova. A tale esito il TAR è pervenuto sul rilievo che questo capo della domanda giudiziale di risarcimento è del tutto priva di fondamento probatorio, atteso che le ricorrenti non hanno prodotto alcun documento dal quale desumere concretamente alcunché circa i costi inutilmente sopportati. Né a questa conclusione potrebbe obiettarsi che per il processo amministrativo è sufficiente fornire un principio di prova, ovvero che, in base a nozioni di comune esperienza, si può immaginare che le due società abbiano facilmente sopportato detti costi, ovvero ancora sia stata richiesta CTU per quantificarli. Ad avviso del primo giudice, nessuna delle suddette obiezioni è in grado di superare l'ostacolo derivante dalla mancanza di prova del danno lamentato. Ed, invero, quanto al primo aspetto, è stato rilevato, da un lato, che le parti non hanno fornito nemmeno un principio di prova e, dall'altro lato, che la limitazione dell'onere probatorio che governa il processo amministrativo si fonda sulla naturale ineguaglianza delle parti, privato e P.A., e quindi sul generale possesso dei documenti da parte dei pubblici uffici che resistono in giudizio, mentre in questo caso si tratta con tutta evidenza di documentazione in possesso dei ricorrenti. Quanto al secondo punto è stato osservato che la tesi secondo cui, in base a nozioni di comune esperienza, si può immaginare che un investimento sia stato fatto, non può, di per sé, essere sufficiente a giustificare una condanna al risarcimento del danno, visto che questa deve anche delimitarne in qualche modo l'entità. Con riferimento, infine, al terzo punto si è replicato che la consulenza tecnica d'ufficio dovrebbe essere disposta lasciando il consulente privo di quei criteri che il giudice deve dettare, almeno in questo tipo di controversia, per giungere ad un risultato. Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso è stato respinto, con il conseguente assorbimento dell'eccezione di prescrizione sollevata dalla P.A. Contro la sentenza le originarie ricorrenti hanno proposto il presente appello, censurandone le conclusioni e chiedendone l'integrale riforma. Il Comune di Genova si è costituito anche in questo grado di giudizio, replicando alle argomentazioni poste a base dell'impugnazione e proponendo appello incidentale avverso la medesima decisione. Le parti hanno ulteriormente illustrato le proprie tesi difensive con apposite memorie. L'appello è stato trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 16 ottobre 2007. Diritto 1. In via pregiudiziale va esaminato il primo motivo dell'appello incidentale, con il quale il Comune di Genova ripropone la questione di giurisdizione del giudice amministrativo. Il Comune premette al riguardo, che la sentenza n. 27/1996, sulla quale si fonda la pretesa delle società appellanti, "accertata l'inerzia dell'amministrazione", ha annullato "l'impugnato silenzio -rifiuto", e ha dichiarato l"'obbligo dell'amministrazione medesima di provvedere secondo le regole procedimentali dettate dagli artt. 2 e seguenti della legge 241/1990". La declaratoria di illegittimità su cui si fonda l'azione ex adverso proposta ha avuto ad oggetto, in altre parole, l'inerzia della p.a. e certo non anche il mancato rilascio del provvedimento favorevole richiesto nel lontano 1986. Tuttavia, ad avviso del comune, dall'esame del ricorso di primo grado e delle relative conclusioni (pag. 16 e ss.) emerge che lo stesso non introduce una semplice azione risarcitoria conseguente alla declaratoria di illegittimità già ottenuta con la sentenza ripetutamente citata; al contrario, il nuovo ricorso muove da detta declaratoria per ottenere una declaratoria d'illegittimità ulteriore, su cui fondare una diversa e più ampia azione risarcitoria. Nelle conclusioni si chiede, infatti, al Collegio di "accertare e dichiarare l'illegittimità e l'illiceità del comportamento omissivo del Comune ... sia con riferimento all'istanza di approvazione del piano .... vuoi prima della sentenza ... vuoi successivamente ad essa ... ". Su questa domanda e sulle domande ad essa consequenziali il giudice amministrativo sarebbe, sempre secondo il comune, privo di giurisdizione sia in senso assoluto sia in senso relativo. Sotto il primo profilo, il difetto di giurisdizione sarebbe la logica conseguenza del principio generale, ribadito dall'Adunanza Plenaria n. 1 del 2002, che "assegna la cura dell'interesse pubblico all'amministrazione ed al giudice amministrativo il solo controllo sulla legittimità dell'esercizio della potestà": in base a tale principio, l'approvazione di uno strumento urbanistico di attuazione non può certo avvenire o dirsi avvenuta in esito ad un processo amministrativo né può ritenersi frutto di un giudizio prognostico esperibile dal giudice in considerazione delle probabilità dell'evolversi del procedimento in sede amministrativa. Da qui il difetto assoluto di giurisdizione dell'autorità giudiziaria a provvedere in merito all'approvazione del progetto di lottizzazione, trattandosi di potere che spetta ad organo amministrativo. Sotto il secondo aspetto, il difetto di giurisdizione sarebbe predicabile alla luce della recente e nota sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 34, comma 1 del decreto legislativo n. 80/1998, nella parte in cui ha previsto che fossero devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto i comportamenti delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti alle stesse equiparati, in materia urbanistica ed edilizia. A sostegno del proprio assunto, il comune invoca un precedente delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. 18 ottobre 2005, n. 20117), secondo cui "A seguito della [richiamata] sentenza della Corte Costituzionale ... , la giurisdizione esclusiva del G.A. non è estensibile alle controversie nelle quali la P.A. non esercita - nemmeno mediatamente e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici - alcun potere pubblico." Di conseguenza, dovrebbe riconoscersi la giurisdizione del giudice ordinario per tutte le controversie, come quella in esame, in cui si denunzino comportamenti configurati come illeciti ex art. 2043 c.c. per non avere, appunto, la pubblica amministrazione osservato condotte che si assumono doverose a fronte di una posizione del privato prospettata in termini di diritto soggettivo. Nel caso di specie, infatti - a fronte di un mero comportamento della p.a., di un'attività materiale disancorata e non sorretta da alcun provvedimento formale, sia pure posta in essere in ambito urbanistico - si lamenta la sofferenza di un "danno ingiusto" incidente sul " ... diritto di proprietà, di cui lo ius aedificandi costituisce, come è noto, facoltà inscindibile". Ad avviso del comune - al contrario di quanto ex adverso sostenuto - lo ius aedificandi consiste in realtà in una facoltà riconosciuta dalla p.a. al privato proprietario in esito al c.d. effetto conformativo del diritto di proprietà scaturente in sede pianificatoria, sicché l'avversa ricostruzione di detta posizione quale diritto soggettivo deve essere sicuramente contestata. E tuttavia si sostiene dal Comune che - così prospettata - la questione esuli dalla giurisdizione del giudice adito per appartenere a quella del giudice ordinario, proprio in quanto riferita come inerente ad un diritto soggettivo, il quale deve ritenersi tutelabile dinanzi all'autorità giudiziaria ordinaria in mancanza di deroghe ai comuni canoni sul riparto della giurisdizione. In conclusione, secondo la tesi dell'amministrazione locale, da un lato, il comportamento omissivo che si censura con il ricorso non è sindacabile davanti all'autorità giudiziaria sotto il profilo sostanziale del merito e/o del contenuto dell'emanando provvedimento e, d'altro lato, trattandosi appunto di un comportamento, la sindacabilità dello stesso, limitatamente al profilo formale, deve dirsi oggi riservata al Giudice ordinario. 1.1. Il motivo è infondato sotto entrambi i profili prospettati, come correttamente deciso dal primo giudice. Con riferimento al difetto di giurisdizione in senso assoluto, va rilevato che il ricorso di primo grado era volto ad ottenere dal TAR un giudizio non sul merito dell'azione amministrativa ma sulla legittimità (o meno) della condotta del Comune, il quale, secondo i ricorrenti, non era stato capace, nell'arco di tempo di undici anni, di assumere un provvedimento che concludesse il procedimento. In proposito, come emerge dalla stessa sentenza del TAR, "l'inerzia del Comune è stata già ritenuta illegittima con la citata sentenza n. 27/96" e il ricorso in primo grado era finalizzato ad ottenere la declaratoria di responsabilità e, conseguentemente, la condanna dell'Amministrazione intimata a risarcire i danni derivanti dal suo comportamento inerte, contrario ai principi di legalità, imparzialità e correttezza dell'azione amministrativa. L'azione risarcitoria proposta dalle Società ricorrenti, pertanto, non implicava (né implica) alcuna pronuncia dell'Autorità giudiziaria suscettibile di interferire nella sfera di discrezionalità dell'Amministrazione. 1.2. A conclusioni negative deve pervenirsi anche in ordine all'asserito difetto di giurisdizione in senso relativo. Come la Sezione ha avuto modo di precisare (Ord. 7 marzo 2005, n. 875), i principi enucleabili dall'iter argomentativo adottato dalla Corte nella richiamata sentenza n. 204/2004, sembrano essere i seguenti: a) il riparto di giurisdizione non può fondarsi sul criterio della materia, o meglio dei «blocchi di materia», in quanto il criterio imposto dalla Costituzione è quello della distinzione tra posizioni soggettive, salvi i casi «eccezionali» di giurisdizione esclusiva, in cui peraltro è proprio l'intreccio delle posizioni soggettive e determinare la devoluzione della «materia» al giudice amministrativo; b) il risarcimento del danno non costituisce una materia, bensì uno strumento di tutela ulteriore, attribuito al giudice amministrativo per rendere piena ed effettiva la tutela dell'interesse legittimo, cui l'articolo 24 riconosce dignità pari al diritto soggettivo; c) il superamento della regola del cd. doppio giudizio - che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di giudizio, per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l'eventuale risarcimento del danno (superamento, peraltro, introdotto prima della legge n. 205 nel settore degli appalti, di diretta derivazione comunitaria) costituisce, nel pensiero della Corte, <null'altro che attuazione del precetto di cui all'art. 24 Cost.>; d) la giurisdizione del giudice amministrativo, e quindi quella annessa per il risarcimento del danno, sussiste solo nelle fattispecie in cui la pubblica amministrazione agisca quale autorità, nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino dinanzi al giudice amministrativo; in altri termini, vi è giurisdizione amministrativa solo se l'amministrazione, ancorché con forme e strumenti del diritto privato, eserciti un potere amministrativo. La sentenza della Corte, dunque, come è stato rimarcato in dottrina, individua nel giudice amministrativo il giudice del potere pubblico, sicché è l'inerenza dell'attività contestata all'esercizio di un potere pubblico a radicare la giurisdizione del giudice amministrativo. Peraltro, una volta che si radichi la giurisdizione, discende, come univoco corollario, nel pensiero della Corte, che al giudice amministrativo sia devoluto lo strumento ulteriore del risarcimento del danno subito dalla posizione sostanziale - interesse legittimo o, nelle «particolari» ipotesi di giurisdizione esclusiva, anche il diritto soggettivo - strumento riguardato in un'ottica tipicamente «rimediale» e «processuale», che comporta una significativa rivisitazione del modello risarcitorio condiviso da una parte della dottrina civilistica e dalla prevalente giurisprudenza. Tale devoluzione realizza quella concentrazione di tutela che, nell'ottica della Corte, costituisce attuazione dell'articolo 24 della Costituzione e che, come sottolineato in dottrina, si arricchisce della logica sottesa al nuovo testo dell'articolo 111 della Costituzione che, nell'assumere a valore costituzionale il principio della ragionevole durata del processo, impone di ricercare soluzioni ordinamentali che semplifichino le forme di tutela, rendendo certa e chiara l'individuazione del giudice e tendenzialmente unitaria la tutela giurisdizionale afferente a una medesima vicenda sostanziale. Nel delineato contesto di principio, la Sezione ha ritenuto che la controversia nella quale il danno lamentato deriva, in tesi, dal mancato esercizio di un potere autoritativo nei tempi prefigurati da norme di legge in esame rientri nella giurisdizione del giudice amministrativo. In tale ipotesi, non rileva - se non, caso mai, sul piano del merito della pretesa - la circostanza che, oltre il detto termine, sia intervenuto un provvedimento espresso (di accoglimento dell'istanza o di diniego) ovvero che l'amministrazione continui a serbare un comportamento inerte (mero ritardo): ai fini della giurisdizione rileva piuttosto l'inerenza a un potere di natura autoritativo della mancata emanazione del provvedimento nei tempi prefissati, cioè un ritardo che assume giuridica rilevanza perché derivante dal mancato tempestivo esercizio del predetto potere. Il potere delineato dalla norma ha natura autoritativa e l'omesso esercizio del potere - sia che venga sindacato al fine di ottenere il provvedimento sia che se ne lamenti l'illegittimità a fini risarcitori - costituisce la fattispecie speculare del suo esercizio (che a sua volta può dar luogo a un provvedimento positivo o negativo), la quale non sembra poter essere trattata alla stregua di un mero comportamento, cioè, nell'ottica della Corte, di un provvedimento svincolato dall'esercizio di un potere autoritativo (sia in concreto sia in astratto), cui consegue la devoluzione della controversia al giudice ordinario. In altri termini, non sembra esatto né ragionevole devolvere a giudici diversi controversie aventi ad oggetto l'impugnazione di un provvedimento espresso, positivo o negativo, e la contestazione dell'omissione o del ritardo nel provvedere. Più in particolare, non sembra corretto né ragionevole devolvere a giudici diversi il giudizio sul danno conseguente all'illegittimità del provvedimento negativo - del che non sembra possibile dubitare - e il giudizio sul danno da omesso o ritardato provvedimento. Invero, nella seconda ipotesi, l'interesse legittimo pretensivo attiene alla medesima posizione sostanziale lesa dal provvedimento negativo, riguardata in un diverso momento dell'esercizio del potere; sicché l'azione per il risarcimento del danno subìto non può che essere portata dinanzi al medesimo giudice della situazione sostanziale lesa, per la cui riparazione il rimedio risarcitorio ha carattere strumentale. D'altra parte, non può escludersi che la parte agisca sia per il rilascio del titolo che per il risarcimento del danno, e, anche in tal caso, appare irragionevolmente violare il principio di concentrazione della tutela ipotizzare che il cittadino debba chiedere il rilascio del titolo al giudice amministrativo e il risarcimento del danno al giudice ordinario: in realtà, si è in presenza di un concorso di azioni attinenti alla medesima posizione sostanziale, che inerisce a un potere amministrativo di natura autoritativa; potrà discutersi su presupposti di esperibilità delle azioni (in termini di pregiudizialità, di alternatività o di cumulabilità), ma dinanzi allo stesso giudice competente a sindacare quel potere autoritativo. A non diverse conclusioni sembra doversi pervenire anche qualora il danno sia configurato come mero danno da ritardo, correlato a quella specie di interessi aventi natura strumentale o meglio procedimentale. Anche in tale prospettiva, infatti, sembra sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo sia che si valorizzi la natura della posizione giuridica fatta valere, per l'appunto l'interesse legittimo al corretto svolgimento e al rispetto dei tempi del procedimento, sia che si rimarchi l'inerenza della condotta di cui si assume l'illiceità violazione dei termini del procedimento e, più in generale, del dovere di correttezza all'esercizio di un potere di tipo autoritativo da parte dell'amministrazione. Soprattutto, ancora una volta, la logica della concentrazione della tutela innanzi al medesimo giudice che costituisce attuazione del disposto costituzionale di cui agli articoli 24 e 111 - non consente di ritagliare, nell'ambito della medesima vicenda sostanziale, spicchi di tutela in relazione ad azioni proponibili dinanzi a giudici diversi, costringendo il cittadino non solo a promuovere distinti giudizi ma a frazionare le proprie istanze di tutela, che possono presentare margini di alternatività, dinanzi a diversi giudici. Con la conseguenza che lo stesso concetto di consequenzialità - come rilevato in dottrina - deve essere riguardato non tanto in relazione alla pronuncia giurisdizionale di annullamento, ma piuttosto come concetto interno alla giurisdizione, nel senso che la lesione di cui si chiede il ristoro può essere conseguenza, oltre che di un provvedimento, di una condotta strettamente inerente all'esercizio di un potere di natura autoritativa. Il richiamato orientamento è stato condiviso dall'Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (decisione 15 settembre 2005 n. 7) ed ha avuto l'avallo della Corte di Cassazione, che, con le note ordinanze n. 13659 e n. 13660 del giugno 2006, nell'affermare la giurisdizione del giudice amministrativo sui danni da provvedimento, ha sottolineato, in conformità con l'Adunanza plenaria, che appaiono riconducibili alla giurisdizione del giudice amministrativo i casi in cui la lesione di una situazione soggettiva dell'interessato è postulata come conseguenza d'un comportamento inerte, si tratti di ritardo nell'emissione di un provvedimento risultato favorevole o di silenzio. Si deve, pertanto, concludere che la presente controversia rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo 2. Superata la questione di giurisdizione e passando all'esame del merito, conviene premettere che contro la sentenza sono stati proposti due appelli: il primo, da qualificarsi come principale, dalle originarie ricorrenti e il secondo, incidentale, dal Comune di Genova. Come si avuto modo di evidenziare in punto di fatto, il TAR, pur avendo riconosciuto che l'affidamento ingeneratosi nelle ricorrenti aveva raggiunto un notevole grado di espansione, in quanto il progetto di lottizzazione aveva superato nella sostanza tutti i passaggi tecnici ed aveva ottenuto anche l'approvazione da parte della Giunta municipale, ha tuttavia escluso che il Consiglio comunale fosse vincolato all'approvazione del progetto, residuando in capo all'organo consiliare un margine di apprezzamento discrezionale in sede di esame del progetto di lottizzazione. Questo margine di apprezzamento discrezionale del Consiglio non consentiva di affermare l'obbligo del Comune di risarcire il danno asseritamente derivante dal minor valore del terreno divenuto agricolo grazie all'inerzia del Comune rispetto a quello che avrebbe avuto con la realizzazione del progetto. Viceversa, l'indicato affidamento è stato ritenuto idoneo a fondare la richiesta di risarcimento del danno connesso ai costi sopportati per gli studi, le indagini tecniche, assistenze e consulenze, spese generali per l'apprestamento dei mezzi necessari o utili per avviare la realizzazione di un progetto, atteso che, ad avviso del TAR, l'approvazione del progetto di lottizzazione, alla stregua di un esame oggettivo della situazione, non poteva che essere prossima. E, tuttavia, anche per quanto concerne il danno da ultimo menzionato - esplicitamente qualificato come danno emergente - il primo giudice ha ritenuto che la domanda non potesse essere accolta per mancanza di prova. 2.1. Con l'appello principale la sentenza è stata criticata per non aver riconosciuto il diritto delle Società ad ottenere, oltre al pagamento delle spese progettuali, anche il ristoro dei pregiudizi patrimoniali consistenti nel decremento del valore dei terreni e nel mancato utile che le medesime avrebbero potuto ritrarre dall'approvazione del Piano di lottizzazione. Le appellanti premettono che, con riguardo ai costi di progettazione e connessi, il cui diritto al risarcimento è stato riconosciuto nella sentenza impugnata (ancorché la relativa azione risarcitoria sia stata respinta in quanto ritenuta dai Giudici "priva di fondamento probatorio"), si sono determinate a chiedere in via stragiudiziale all'Amministrazione civica il rimborso delle spese (per studi, indagini tecniche, consulenze, etc.) a suo tempo sostenute per l'elaborazione della proposta di S.U.A., riservandosi comunque il diritto di ricorrere nuovamente all'Autorità giudiziaria per l'ipotesi di perdurante inadempimento del Comune di Genova all'obbligazione risarcitoria. In relazione, invece, alle altre componenti di danno dedotte nel giudizio di primo grado (riduzione del valore economico delle aree di interesse e mancato utile), le medesime società censurano l'impugnata sentenza per erroneità e contraddittorietà e ne chiedono la riforma, con conseguente riconoscimento del loro diritto al risarcimento del danno. A questo proposito, evidenziano come, nel corso del giudizio di primo grado, avessero dimostrato in modo esauriente la sussistenza nel caso di specie di tutti i presupposti (enucleati dalla Corte di Cassazione nella nota sentenza n. 500 del 1999) che legittimano la proposizione della domanda di risarcimento danni ex art. 2043 C.C. nei confronti della P. A. per le ipotesi di illegittimo esercizio della funzione pubblica: evento dannoso, ingiustizia del danno, riferibilità dell'evento dannoso alla condotta della P.A.. L'esistenza del danno sarebbe in re ipsa, stante l'enorme differenza di valore tra il suolo destinato ad espansione residenziale (quale era al momento di presentazione del piano di lottizzazione e quale è rimasto per molto tempo in cui il comune è rimasto inerte e quale si era consolidato a seguito della notifica della sentenza n. 27 del 10 febbraio 1996 sul silenzio rifiuto, intervenuta prima dell'adozione del nuovo P.R.G.) ed il medesimo suolo dopo che la sua edificabilità è stata azzerata in seguito alla sua illegittima assegnazione a zona agricola dalla disciplina urbanistica sopravvenuta. L'ingiustizia del danno emergerebbe agevolmente ove si consideri che esso viene ad incidere su una situazione soggettiva di interesse legittimo pretensivo, tutelata dall'ordinamento in quanto funzionale alla protezione del bene della vita, consistente nel diritto di proprietà di cui lo jus aedificandi costituisce facoltà inscindibile. Il nesso di causalità tra la condotta del comune e il danno deriverebbe dal fatto che il danno sofferto dalle originarie ricorrenti sarebbe conseguenza diretta ed immediata della colpevole inerzia dell'amministrazione locale, riconosciuta illegittima con la sentenza n. 27/1996, e protrattasi fino all'adozione della variante al P.R.G. ed oltre, posto che il provvedimento conclusivo del procedimento non è stato mai adottato. Le considerazioni che precedono dimostravano (e dimostrano), ad avviso delle appellanti, la sussistenza di tutti i presupposti per la qualificazione e la riconducibilità del danno da loro sofferto allo schema normativo di cui all'art. 2043 c.c., con conseguente obbligo per il comune di risarcirlo. E, poiché nel caso in esame la reintegrazione in forma specifica - che costituisce il primo rimedio risarcitorio - è ormai inibita dalla nuova disciplina urbanistica che ha impresso ai terreni di proprietà delle ricorrenti una destinazione incompatibile con l'utilizzazione edificatoria, nonché con il rifiuto del comune di modificare il piano regolatore in modo coerente con il progetto di lottizzazione a suo tempo presentato, il risarcimento non può che avvenire per equivalente pecuniario in applicazione dei principi contenuti nell'art. 1223 c.c., che individuano quali componenti del danno sia la perdita subita che il mancato guadagno. A questo riguardo, si precisa dalle parti che, mentre il danno della società Florida s.s. è costituito solo dalla differenza di valore dei terreni di sua proprietà, derivante dal mutamento della loro destinazione urbanistica da edificatori residenziali in agricoli, il danno della Società Le Piscine di Montesignano S.p.A. comprende, oltre quello derivante dal minor valore dei terreni di sua proprietà, anche quello connesso alla sua attività imprenditoriale, connessa essenzialmente alla realizzazione di insediamenti residenziali e commerciali, e, quindi, il mancato utile che sarebbe derivato dall'operazione, pari alla differenza tra i ricavi presumibili sulla base dei prezzi correnti medi di mercato dell'epoca e relativi alla zona di intervento ed i costi dell'operazione (costi di acquisizione delle aree di proprietà della Florida e di terzi, costi di costruzione e di progettazione, oneri di urbanizzazione, oneri finanziari e di commercializzazione). Aggiungono le Società che in tale chiaro contesto, il TAR, pur riconoscendo che lo stato di definizione del procedimento di approvazione del progetto di lottizzazione aveva raggiunto uno stadio tale da determinare "il maturarsi in capo alle ricorrenti di un'aspettativa giuridica concreta che in ogni caso non poteva rimanere senza risposta - ossia senza provvedimento finale - per un termine di anni dapprima e poi lasciata cadere nella completa omissione in spregio ai principi generali di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241", del tutto contraddittoriamente ha poi escluso la risarcibilità del pregiudizio patrimoniale derivante dalla diminuzione del valore delle aree divenute agricole in virtù della sopravvenuta disciplina urbanistica, in base alla sola considerazione che il Consiglio comunale non era assolutamente vincolato all'approvazione del progetto di lottizzazione, residuando ancora un margine di discrezionalità in sede di esame del piano medesimo. Ove si consideri, inoltre, che il medesimo TAR ha riconosciuto comunque "l'esistenza in capo alle ricorrenti almeno di un danno emergente", individuato nei "costi sopportati per l'apprestamento dei mezzi necessari o utili per avviare la realizzazione di un progetto la cui approvazione non poteva che essere prossima ad un esame oggettivo", appare evidente, ad avviso delle appellanti, che il primo giudice ha erroneamente ritenuto che la svalutazione dei terreni costituisca una componente di danno rientrante nel genus del lucro cessante, per di più non risarcibile in quanto non conseguenza diretta di un comportamento illecito dell'amministrazione locale, il quanto l'organo consiliare non era obbligato ad approvare la proposta di S.U.A.. In realtà, il deprezzamento delle aree sarebbe riconducibile alla categoria del "danno emergente", in quanto esso ha determinato e determina (non un mancato guadagno, ma) la diminuzione del valore economico di beni già esistenti nel patrimonio dei soggetti interessati. Se il TAR avesse correttamente individuato la natura del danno in esame, non avrebbe potuto negare il risarcimento, posto che, per sua stessa ammissione, lo stadio di approvazione del progetto - che aveva superato favorevolmente tutti i passaggi tecnici ed aveva ottenuto anche il parere favorevole della Giunta comunale - era a tal punto avanzato che il cd. margine residuo del Consiglio comunale poteva ritenersi inesistente. Sotto questo profilo, la sentenza viene censurata anche per difetto di motivazione, poiché il giudice di primo grado, invece di limitarsi ad enunciazioni di principio, avrebbe dovuto accertare se effettivamente residuassero concreti spazi di discrezionalità nell'approvazione del piano di lottizzazione (norme o interessi pubblici). A contrastare tale conclusione non varrebbe, in senso contrario, affermare che l'istruttoria del procedimento non si era conclusa perché le Società non avevano presentato la documentazione integrativa chiesta dal Comune né sostenere che la facoltà di agire per il risarcimento dei danni fosse ormai preclusa per mancata impugnazione della disciplina urbanistica sopravvenuta che ha azzerato le potenzialità edificatorie dei terreni di proprietà. Quanto al primo rilievo, si ricorda dalle appellanti che il TAR, con la sentenza n. 27/1996, ha statuito che "siffatta richiesta di ulteriore documentazione, così generica ed indeterminata, per di più disposta circa quattro anni dopo la citata deliberazione della Giunta Municipale, non può che essere considerata alla stregua di un atto interlocutorio di natura pretestuosa e dilatoria e, perciò, irrilevante ed inidoneo ad ovviare all'inerzia dell'Amministrazione in ordine al suo dovere di concludere il procedimento". A confutazione del secondo rilievo, le società sottolineano da un lato, che nel caso di comportamento inerte della P.A. la giurisprudenza (TAR Puglia - Sezione di Lecce, Sezione III, 11 ottobre 2004, n. 7166) ha ammesso l'esperibilità dell'azione risarcitoria cosiddetta "pura" (ovvero non collegata alla principale azione impugnatoria) atteso che l'elemento causativo del danno è da rinvenirsi non in un provvedimento annullato dal Giudice ma in una condotta omissiva dell'Amministrazione, e, dall'altro lato, che la disciplina urbanistica sopravvenuta sia comunque stata dichiarata illegittima e conseguentemente annullata, ovviamente con effetto retroattivo, in sede giurisdizionale. Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dal comune nel suo appello incidentale, le Società non sarebbero titolari di una mera aspettativa all'assunzione di un provvedimento favorevole. Al contrario, lo stato avanzato del procedimento e, più ancora, la sua univoca direzione nel senso della conformità del progetto ad ogni norma applicabile e ad ogni interesse pubblico rilevante, oltre alla esistenza di una declaratoria giudiziale dell'obbligo a provvedere avrebbero attribuito alle proponenti l'intervento una posizione giuridica di oggettivo affidamento circa l'approvazione del piano di lottizzazione e circa il buon esito dell'operazione edilizia (il che implica l'obbligo per l'Amministrazione di risarcire i danni derivanti dalla lesione di tale affidamento). Con riferimento alla componente di danno (qualificabile come lucro cessante) consistente nella mancata percezione degli utili che sarebbero derivati dalla realizzazione dell'insediamento residenziale e commerciale oggetto del piano, le società rilevano che su questo punto i primi giudici non hanno adottato alcuna statuizione, dovendo escludersi che la reiezione della domanda risarcitoria riguardante la componente del lucro cessante sia implicita nella mancata condanna dell'amministrazione a rifondere le altre componenti del danno. Il TAR, invero, ha giudicato infondata solo la richiesta risarcitoria relativa al deprezzamento dei terreni, per cui sarebbe da escludere che in tale statuizione possa essere ricompressa anche la componente di danno da mancato guadagno, essendo evidente che il giudice deve verificare in concreto ogni singola componente di danno, in quanto ciascuna di esse può fondarsi su presupposti autonomi. Fatta questa precisazione, le società insistono per il riconoscimento anche di questo tipo di danno, non essendovi alcun dubbio che nella specie sussistano tutti i presupposti per la sua risarcibilità. 2.2. Il Comune di Genova si è costituito in questo grado e, con apposita memoria, ha replicato diffusamente alle singole argomentazioni poste a base dell'impugnazione. Il medesimo Comune, con appello incidentale, ha censurato la sentenza nella parte in cui ha riconosciuto che in capo alle società si fosse maturato un'aspettativa giuridica concreta. Il comune osserva che, già in sede di esame della questione di giurisdizione, il TAR ha erroneamente rilevato, in modo del tutto apodittico, il maturarsi in capo alle ricorrenti di un'aspettativa giuridica concreta, stante l'avanzato stato raggiunto dal procedimento di approvazione del progetto di lottizzazione, il quale aveva superato tutti i passaggi tecnici e quello determinante se non definitivo della giunta comunale. Pur ammettendo che lo schema di piano si presentava completo sotto il profilo dell'elaborazione tecnica e che sul medesimo si erano favorevolmente espressi i diversi uffici interessati, l'amministrazione locale assume che, comunque, il procedimento di approvazione risultava ancora allo stato in piena istruttoria, dovendosi ancora dare corso a tutta la fase propriamente discrezionale affidata al Consiglio Comunale, nonché alle fasi di partecipazione (con facoltà di presentazione di osservazioni ed opposizioni da parte dei proprietari di immobili compresi nel progetto), di pubblicità e di controllo. In altre parole, nel procedimento di approvazione di uno strumento urbanistico attuativo sia pure di iniziativa privata - la civica amministrazione conserva un rilevante spazio di discrezionalità che appare del tutto evidente ove si consideri il contenuto tipico di detto piano, secondo quanto prevede l'art. 13 della legge urbanistica statale n. 1150 del 1942, e, per quel che riguarda la Regione Liguria, il combinato disposto degli artt. 8, 16 e 18 della legge regionale 8 luglio 1987, n. 24, applicabile ratione temporis al caso di specie. Se, poi, si considera che, come evidenziato nelle premesse della proposta della Giunta comunale 13 marzo 1990, n. 1366, l'approvazione del piano di lottizzazione postulava l'approvazione di una variante connessa al piano regolatore e che in ogni caso il progetto era nella sostanza carente sotto il profilo delle indagini e delle verifiche effettuate sotto il profilo idrogeologico e geotecnica, appare evidente, sempre secondo l'appellante incidentale come, diversamente da quanto affermato dal primo giudice, le società non avevano maturato nessun oggettivo affidamento, potendo vantare solo la mera aspettativa di un provvedimento favorevole, peraltro non coltivata allorché la sopravvenuta disciplina urbanistica dell'area ne aveva ripetutamente eroso l'originaria attitudine edificatoria. Ad avviso del comune, dunque, il capo della sentenza, nella parte in cui riconosce "l'esistenza in capo alle ricorrenti almeno di un danno emergente", individuato nei "costi sopportati per l'apprestamento dei mezzi necessari o utili per avviare la realizzazione di un progetto la cui approvazione non poteva che essere prossima ad un esame oggettivo" (anche se poi la relativa domanda è stata respinta per mancanza di prova), oltre ad essere errata, si pone in netto contrasto con l'univoca elaborazione giurisprudenziale, la quale non solo ritiene che "per gli interessi pretensivi il risarcimento presuppone un giudizio prognostico sulla fondatezza o meno dell'istanza, in funzione dell'esigenza di accertare se il pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, ma di una situazione soggettiva di oggettivo affidamento circa la sua favorevole conclusione" (Cass. Civ., Sez. III, 11 febbraio 2005, n. 2705), ma afferma, altresì, che "Il diritto al risarcimento del danno in materia di interessi pretensivi non può riconoscersi nell'ipotesi in cui .. residui un margine di apprezzamento discrezionale tale da configurare come mera evenienza l'emanazione del provvedimento ampliativo" (TAR Puglia Bari, sez. II, 17 gennaio 2000, n. 169). Nel caso di specie, il c.d. "giudizio prognostico" non era esperibile, a fronte della discrezionalità riservata sul punto alla civica amministrazione, come peraltro riconosciuto in principio dagli stessi giudici di primo grado. 3. In via prioritaria, occorre precisare che il comune di Genova, ancorché formalmente non soccombente, è legittimato a proporre appello avverso la sentenza in esame. Com'è noto, anche se l'interesse ad impugnare in appello una sentenza di Tribunale amministrativo regionale si collega necessariamente alla soccombenza, anche parziale, nel precedente giudizio, mancando la quale l'impugnazione è inammissibile, la giurisprudenza ammette l'interesse della parte integralmente vittoriosa ad impugnare la sentenza al solo fine di ottenere una modificazione della motivazione, allorché da quest' ultima possa dedursi un' implicita statuizione contraria all'interesse della parte medesima, nel senso che a questa possa derivare pregiudizio da motivi che, quale premessa necessaria della decisione, siano suscettibili di formare giudicato (CdS, Sez. IV 16 ottobre 1998, n. 1305; Sez. V, 17 luglio 2004, n. 5127). Nella specie, la sentenza, nella parte in cui riconosce "l'esistenza in capo alle ricorrenti almeno di un danno emergente", individuato nei "costi sopportati per l'apprestamento dei mezzi necessari o utili per avviare la realizzazione di un progetto la cui approvazione non poteva che essere prossima ad un esame oggettivo", contiene una statuizione suscettibile di produrre effetti pregiudizievoli nei confronti del comune, come testimonia la circostanza che le società, proprio in ragione di tale statuizione, hanno chiesto all'amministrazione comunale in via stragiudiziale il rimborso delle spese a suo tempo sostenute per l'elaborazione della proposta di piano, riservandosi di ricorrere nuovamente all'autorità giudiziaria nel caso di perdurante inadempimento del Comune all'obbligazione risarcitoria. Fatta questa necessaria puntualizzazione, nel merito, la Sezione ritiene che la tesi del comune sia da condividere. 3.1. Sotto un profilo generale, la questione sottoposta all'esame della Sezione si inquadra nell'ambito del complesso tema della natura giuridica della responsabilità dell'amministrazione e attiene, in particolare, all'individuazione dei presupposti, sostanziali e processuali, dell'azione risarcitoria instaurata dalle due società appellanti. La fattispecie qui considerata è quella in cui sia fatta valere la mancata emanazione del provvedimento richiesto nei tempi previsti dall'ordinamento, indipendentemente dal suo contenuto. E ciò che occorre stabilire è se e in che limiti, oltre che a quali condizioni, l'interesse procedimentale al rispetto dei tempi del procedimento possa ricevere, oltre che una tutela sul piano dei rimedi strettamente processuali (per esempio, in sede cautelare e di azione avverso il silenzio) una tutela risarcitoria per equivalente. Più precisamente, la controversia in esame concerne il caso in cui l'amministrazione non provveda o provveda (in senso negativo) in ritardo e il problema da risolvere, in questa fattispecie, è se sia risarcibile il mero danno da ritardo; cioè, se sia risarcibile oggettivamente il danno subito dal privato in conseguenza dell'inerzia protratta dall'amministrazione oltre un certo termine, normativamente prefissato. 3.2. In tema di danno da ritardo in giurisprudenza si registra una diversità di opinione su un punto centrale: se il danno sia risarcibile o meno indipendentemente dalla spettanza del bene della vita, cioè indipendentemente dal fatto che il privato abbia titolo al rilascio del provvedimento richiesto. In altri termini, la domanda che si pone è se a fondare un titolo risarcitorio sia sufficiente la mera violazione di obblighi di correttezza e buona fede nello svolgimento del procedimento, nella specie, il mancato rispetto dei tempi del procedimento. Un primo orientamento giurisprudenziale, nel delineare una responsabilità dell'amministrazione da contatto qualificato (Cass. 10 gennaio 2003 n. 157; Cons. Stato VI, 20 gennaio 2003 n. 204 e 15 aprile 2003 n. 1945), ha posto in rilievo come, nel nuovo modello di azione amministrativa introdotto dalla legge n. 241, possano assumere rilevanza autonoma, rispetto all'interesse legittimo al bene della vita, posizioni soggettive di natura strumentale che mirano a disciplinare il procedimento amministrativo secondo criteri di correttezza, idonei a ingenerare, con l'affidamento del privato, «un'aspettativa qualificata» al rispetto di queste regole (che non sono riguardate - come vorrebbe una dottrina - alla stregua di «norme neutre», inidonee a radicare posizioni soggettive), con la conseguenza che «la selezione degli interessi giuridicamente rilevanti non può essere effettuata con riguardo al solo bene finale idealmente conseguibile» (Cass. n. 157 del 2003, citata); sicché il privato ha titolo a una risposta certa e tempestiva a prescindere dal contenuto della stessa. In tale prospettiva, sarebbe enucleabile dal novero degli interessi pretensivi, e piuttosto accanto a essi, un ambito di interessi procedimentali, la cui violazione integrerebbe un titolo di responsabilità idoneo a fondare un danno risarcibile diverso e autonomo rispetto alla lesione del bene della vita. A tale categoria di interessi procedimentali sarebbe ascrivibile il danno da ritardo, sicché il privato avrebbe titolo ad agire per il risarcimento del danno subìto in conseguenza della mancata emanazione del provvedimento richiesto nei tempi previsti; e indipendentemente dalla successiva emanazione e dal contenuto di tale provvedimento. Secondo un altro orientamento - che è allo stato prevalente nella giurisprudenza amministrativa - il danno da ritardo è risarcibile solo se il privato abbia titolo al rilascio del provvedimento finale, se cioè gli spetti il «bene della vita» (Ad. Pl. 15 settembre 2005, n. 7). Nell'ambito di tale indirizzo giurisprudenziale vi è poi chi ritiene che il titolo andrebbe accertato azionando il procedimento del silenzio e sindacando il successivo diniego espresso, e chi, invece, è dell'avviso che il giudice, adito in sede risarcitoria, dovrebbe effettuare un giudizio prognostico sulla spettanza del titolo, ai soli fini del risarcimento. Va, peraltro, aggiunto che sulla questione influisce anche un principio cardine del diritto processuale, quello della domanda. Come di recente è stato precisato (Sez. VI, 15 aprile 2003, n. 1945), non di rado, la pretesa risarcitoria, in specie quando azionata da soggetti che entrano in contatto con l'Amministrazione in quanto portatori di interessi economici di rilievo, non ha ad oggetto il mero pregiudizio derivante dalla violazione dell'obbligo di comportamento imposto all'amministrazione, a prescindere quindi dalla soddisfazione dell'interesse finale, ma, al contrario, proprio il pregiudizio connesso alla preclusione frapposta dall'Amministrazione alla realizzazione del bene finale. In queste ipotesi il giudice non può né eludere la domanda, né tanto meno accoglierla a prescindere dalla formulazione di un giudizio, laddove possibile, sulla certa o statisticamente probabile spettanza del bene dell'utilità finale. Questo giudizio prognostico si presenta particolarmente delicato, specie quando vi sia necessità di distinguere a seconda della tipologia dell'attività amministrativa dal cui concreto esercizio dipende il conseguimento del bene della vita: il giudizio prognostico, difatti, pone problemi diversi e si atteggia in modo differenziato a seconda che il soddisfacimento della pretesa sia correlato ad attività vincolata, tecnico-discrezionale o discrezionale pura. Secondo quanto rilevato (Sez. VI, 15 aprile 2003, n. 1945), il rischio che il giudice si sostituisca all'amministrazione, sia pure in modo virtuale e nella sola prospettiva risarcitoria, diventa tanto più consistente quanto più sono intensi i margini di valutazione rimessi alla seconda nel riconoscere al privato, asseritamente leso, il bene della vita. Evenienza questa che viene individuata in quelle ipotesi in cui l'attività dell'amministrazione sia connotata da margini di discrezionalità amministrativa pura, anziché solo tecnica: in questa ipotesi si prospetta il rischio di un'ingerenza del giudice chiamato a formulare il giudizio prognostico sulla spettanza del bene non ottenuto con la determinazione illegittima ed annullata - nella sfera davvero esclusiva dell'amministrazione, quella afferente il merito amministrativo e le valutazioni di pura opportunità e convenienza alla stessa spettanti nella prospettiva dell'ottimale perseguimento dell'interesse pubblico. In questi casi, connotati dalla persistenza in capo all'amministrazione di significativi spazi di discrezionalità amministrativa pura, si esclude che il giudice possa indagare sulla spettanza del bene della vita, ammettendo il risarcimento solo dopo e a condizione che l'Amministrazione, riesercitato il proprio potere, abbia riconosciuto all'istante il bene stesso: nel qual caso, il danno ristorabile non potrà che ridursi al solo pregiudizio determinato dal ritardo nel conseguimento di quel bene. 3.3. È in applicazione di questi principi, ribaditi anche di recente (Sez. VI, 31 gennaio 2006, n. 321) e dai quali la Sezione non ravvisa motivi per discostarsi, che va risolto il caso di specie nel quale le società appellanti chiedono il ristoro del danno inteso nella sua pienezza. Come agevolmente desumibile anche dalla entità del danno asseritamente patito, le appellanti si ritengono lese per il deprezzamento di valore subito dalle aree di loro proprietà nonché per il mancato utile che le medesime avrebbero conseguito per effetto dell'operazione immobiliare connessa alla realizzazione del piano di lottizzazione. Non è stato chiesto, quindi, il mero danno che può subirsi per effetto di una illegittimità procedimentale sintomatica di una modalità comportamentale non improntata alla regola della correttezza, ma l'intero pregiudizio derivante dal mancato conseguimento del bene della vita, costituito dalla richiesta di approvazione del piano di lottizzazione. Il Collegio, quindi, non può nel caso di specie attribuire autonomo rilievo risarcitorio alla mera violazione dell'obbligo di comportamento imposto all'amministrazione, indipendentemente dalla soddisfazione dell'interesse finale: ciò, per rispetto sia del principio della domanda, sia di quello dispositivo cui il processo risarcitorio deve conformarsi. Da un lato, infatti, come rilevato, le due società non chiedono il danno da violazione dell'obbligo di comportamento imposto all'amministrazione, a prescindere quindi dalla soddisfazione dell'interesse finale, ma invocano il ristoro, per l'appunto, del pregiudizio causato dal mancato conseguimento del bene della vita cui aspirano. Dall'altro lato, l'accoglimento della domanda presuppone, come rilevato, la valutazione circa la spettanza dell'utilità finale cui aspirano nel caso di specie le appellanti principali, mediante un giudizio prognostico che, come ampiamente chiarito, non può esse consentito allorché l'attività dell'amministrazione sia caratterizzata da consistenti margini di discrezionalità amministrativa. Diversamente da quanto mostrano di ritenere le appellanti, l'approvazione del piano di lottizzazione, pur se conforme al piano regolatore generale o al programma di fabbricazione, non è atto dovuto, ma costituisce sempre espressione di potere discrezionale dell'Autorità (a livello comunale o regionale), chiamata a valutare l'opportunità di dare attuazione - in un certo momento ed in certe condizioni - alle previsioni dello strumento urbanistico generale, essendovi fra quest' ultimo e gli strumenti attuativi un rapporto di necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza; pertanto, per evidenti motivi di opportunità, l'attuazione dello strumento generale può essere articolata per tempi, o per modalità, in relazione alle esigenze dinamiche che si manifestano nel periodo di vigenza dello strumento generale (Sez. IV, 2 marzo 2004, n. 957). Va, quindi, escluso che le società avessero maturato una concreta aspettativa alla sua approvazione, come erroneamente affermato dal primo giudice. D'altra parte, l'impossibilità di procedere in questa sede ad un giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita, al quale aspirano le appellanti, trova la sua ulteriore conferma nella circostanza che le potenzialità edificatorie dei terreni oggetto di lottizzazione sono state azzerate prima con la variante di salvaguardia del 1995 e successivamente con la variante generale del 1997, che non risultano essere state impugnate dalle originarie ricorrenti. Né vale sostenere (pag. 11 della memoria 3 ottobre 2007) che, per agire in giudizio al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, le appellanti non erano obbligate ad impugnare la sopravvenuta disciplina urbanistica, anche perché la giurisprudenza nel caso di comportamento inerte della P.A. (TAR Puglia - Sezione di Lecce, Sezione III, 11 ottobre 2004, n. 7166) ha ammesso l'esperibilità dell'azione risarcitoria cosiddetta "pura" (ovvero non collegata alla principale azione impugnatoria), atteso che l'elemento causativo del danno è da rinvenirsi non in un provvedimento annullato dal Giudice ma in una condotta omissiva dell'Amministrazione. È facile replicare, a confutazione di tale assunto, che il richiamo giurisprudenziale non appare pertinente, posto che in quel caso la domanda di risarcimento era formulata per il danno derivante da ritardo nell'adozione di provvedimento favorevole e, quindi, il suo eventuale accoglimento avrebbe comportato un risarcimento limitato al cd. interesse negativo. Il caso, quindi, è del tutto diverso da quello che forma oggetto della presente controversia, nella quale le società chiedono il pieno ristoro dei danni subiti per la mancata realizzazione dell'intervento insediativo connesso all'approvazione del piano di lottizzazione: chiedono, cioè, proprio il bene della vita al quale aspirano anche se, in relazione alla sopravvenuta impossibilità di ottenere il risarcimento in forma specifica, hanno avanzato la domanda per l'integrale risarcimento sotto forma di equivalente economico. A queste considerazioni di ordine generale, si deve aggiungere che, secondo il consolidato orientamento di questo Consiglio di Stato (Ad. Plen. 15 settembre 2005, n. 7; Sez. VI, 31 gennaio 2006, n. 321), non è possibile accordare il risarcimento del danno da ritardo della p.a. nel caso in cui i provvedimenti adottati in ritardo risultino di carattere negativo per colui che ha presentato la relativa istanza di rilascio e le statuizioni in essi contenute siano divenute intangibili per la omessa proposizione di una qualunque impugnativa. Neppure vale il richiamo alla circostanza che lo strumento urbanistico sarebbe stato annullato, con efficacia erga omnes, con decisione di questo Consiglio di Stato (Sez. IV, 31 gennaio 2005, n. 524), essendo evidente che una tale evenienza esula dall'ambito della presente controversia, dovendo, in ipotesi, l'amministrazione sempre pronunciarsi sul progetto di lottizzazione. 4. In base alle considerazioni che precedono, l'appello delle società va respinto mentre va accolto l'appello incidentale del comune di Genova. Per l'effetto, la sentenza appellata va confermata con diversa motivazione. Le vicende anche anteriori al presente giudizio costituiscono ragione idonea per la compensazione tra le parti delle spese di giudizio. P.Q.M Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. IV), pronunciando sull'appello in epigrafe specificato, respinge l'appello delle società, accoglie l'appello incidentale del comune di Genova. Per l'effetto, conferma con diversa motivazione la sentenza appellata. Spese compensate. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, addì 16 ottobre 2007, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. IV), riunito in Camera di Consiglio, con l'intervento dei signori Giovanni Vacirca Presidente Costantino Salvatore Consigliere est. Vito Poli Consigliere Anna Leoni Consigliere Bruno Mollica Consigliere DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 29 GEN. 2008. Consiglio di Stato, Sezione VI^, 14 settembre 2006, n.5323 Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente DECISIONE sul ricorso in appello proposto da ATI EAC SRL e VIAGGI DI MAIO SNC in persona del suo legale rappresentante pro tempore, legale rappresentante della EAC SRL, quale società capogruppo, quest’ultimo anche come rappresentante della EAC SRL che ricorre anche in proprio, nonché la VIAGGI DI MAIO SNC in persona del suo legale rappresentante, rappresentati e difesi dall’avv. Lodovico Visone ed elettivamente domiciliate presso il suo studio in Roma alla via degli Avignonesi n. 5; contro ATCV Venezia spa in persona del legale rappresentante pro tempore rappresentata e difesa dagli avvocati Alfredo Bianchini di Venezia ed Enrico Romanelli di Roma e domiciliato per legge in Roma presso lo studio dell’avv. Enrico Romanelli Viale Giulio Cesare n. 14 scala A, int. A; PROVINCIA DI VENEZIA, COMUNE DI VENEZIA, entrambi non costituiti in giudizio; e nei confronti di ATI LA LINEA SPA CSSA, non costituita in giudizio; per l'annullamento della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, Sezione I - n. 2399 del 2003; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della parte intimata; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Alla camera di consiglio del 31 marzo 2006 relatore il Consigliere Giancarlo Montedoro. Uditi gli avv.ti Visone, Fiore, Bianchini e Pafundi per delega di Romanelli; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue: FATTO L’appellante ha partecipato ad una procedura negoziata, indetta dall’ATCV, con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ex art. 24 lett. b) del d.lgs. n. 158/1995, per il sub affidamento dei servizi automobilistici di trasporto persone, dal 16 giugno 2002 al 31 dicembre 2003, lotto n. 1 – servizio urbano di Mestre. Per il lotto in questione hanno presentato offerte la ricorrente e l’ATI LA LINEA che è risultata aggiudicataria con punti 86,53 mentre l’ATI EAC ha conseguito punti 83,50. La ricorrente ha impugnato gli atti ed i provvedimenti in epigrafe indicati, formulando sette censure, concernenti violazione di legge ed eccesso di potere sotto svariati profili, e chiedendo la reintegrazione in forma specifica ed il risarcimento del danno per equivalente. L’ACTV, costituendosi in giudizio, in primo grado, ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per diverse ragioni e comunque la sua infondatezza nel merito. Il Tar ha respinto il ricorso. L’appello critica la sentenza, articolando ben tredici motivi e ripropone integralmente le censure già avanzate in primo grado. Costituendosi l’appellata rileva l’inammissibilità di nuovi motivi proposti per la prima volta in sede di appello e conclude per il rigetto del ricorso. La causa è stata rimessa alla Corte di giustizia delle Comunità europee per la risoluzione di alcune questioni pregiudiziali ed è stata poi riassunta innanzi al Consiglio di Stato per la definizione del giudizio. DIRITTO L’appello è fondato. Giova ripercorre i tratti salienti del giudizio. 1. Il motivo di ricorso, riproposto in appello, che pone una questione interpretativa di diritto comunitario. Il Collegio ha ritenuto che per la sua serietà la questione proposta con il terzo motivo del ricorso originario imponesse la rimessione alla Corte di Giustizia CE. Con esso si lamenta violazione di legge ( art. 36 dir. 92/50 CE; art. 24 1 comma lett. b) del d.lgs. n. 158/1995) ed eccesso di potere,sotto il profilo della violazione del giusto procedimento, dello sviamento, della disparità di trattamento, dello straripamento di potere, violazione dei principi di segretezza e par condicio, ed ancora si denuncia violazione di legge in relazione agli artt. 1 e 21 della legge n. 109/1994 e reg. n. 554/1999. Con il terzo motivo citato, si censura l’aggiudicazione avvenuta in quanto la lettera d’invito prevedeva l’attribuzione di 25 punti, genericamente, per modalità organizzative e strutture di supporto, mandando all’arbitrio della Commissione la specificazione e, dunque , l’aggiudicazione della gara. Svolgendo tale illecita delega – nota l’appellante – con il verbale n. 1, note le imprese partecipanti, ha suddiviso il punteggio in sottogruppi, attribuendo per le attrezzature ( e depositi e sedi ) 10 punti. Ciò non sarebbe consentito – secondo l’assunto del ricorrente – in quanto la Commissione europea, con il parere 10 agosto 1998, reso nell’esame del c.d. decreto Karrer ( che, all’art, 3 legittimava tale prassi, ritenendola illegittima per contrasto con l’art. 36 dir. 92/50 ) ha già chiarito l’illegittimità dell’affidamento alla Commissione aggiudicatrice – successivamente alla presentazione delle offerte, di disporre l’ulteriore suddivisione dei criteri di valutazione delle offerte in sottogruppi, ancorché questo avvenga prima dell’apertura dei plichi. Tanto perché l’art. 36 dir. cit. così come l’art. 24 lett. b) del d.lgs. n. 158/1995, obbligano le stazioni appaltanti ad enunciare nel capitolato d’oneri o nel bando di gara i criteri che intendono applicare per assicurare che i partecipanti alla gara d’appalto conoscano, attraverso la lettura del bando di gara in base a quali criteri verrà effettuata la valutazione ( vengono in proposito richiamati il punto 9 parere della Commissione citato; Corte di Giustizia CE , in causa n. 31/1987, decisione 20 settembre 1988 , Cons. Stato, Sez. V, n. 3187/2001 ). Nella specie, si sostiene, già nella fase della prequalificazione ( che per l’insegnamento del Consiglio di Stato va distinta dalla fase di valutazione delle offerte ) erano note le attrezzature di cui disponevano le imprese richiedenti l’invito alla gara. O, comunque, una volta note le imprese tali caratteristiche delle stesse sarebbero state agevolmente conoscibili. Tali principi avrebbero trovato espressa previsione legislativa per gli appalti di lavori. Infatti – si rileva – ad ulteriore specificazione del principio di trasparenza, con l’art. 91 del d.p.r. n. 554 del 1999 si è chiarito che la Commissione di gara non ha alcuna autonomia nella ricerca dei criteri per la valutazione delle offerte tecniche, essendo a questa riconosciuta solo la potestà di scegliere tra i criteri e le formule di cui all’allegato B quelle indicate nel bando. Precisandosi altresì che lo stesso bando di gara per tutti gli elementi di valutazione qualitativa prevede i sub –elementi ed i sub-pesi o i sub-punteggi in base ai quali è determinata la valutazione. Principi che, per espressa previsione dell’art. 1 comma 2 della legge n. 109/1994, costituiscono norme fondamentali di riforma economico –sociale e principi della legislazione dello Stato anche per il rispetto degli obblighi internazionali dello Stato. In nessun caso, pertanto – assume l’appellante – alla Commissione di una gara di evidenza pubblica tesa all’aggiudicazione di un contratto di appalto, sarebbe consentito di indicare i sub-elementi ed i sub-punteggi. Sicché la stazione appaltante giammai avrebbe potuto tener conto di tali subelementi o sub-punteggi in sede di valutazione. Da ciò deriva l’illegittimità dell’eventuale aggiudicazione definitiva, nonché l’illegittimità della lettera d’invito che tanto consentiva. Si assume che solo la fissazione dei sub-punteggi postumi ( fissati quando erano note le imprese e quindi le loro caratteristiche organizzative ) avrebbe consentito all’impresa controinteressata ATI LA LINEA di divenire aggiudicataria. 2. La difesa della stazione appaltante La stazione appaltante – nelle difese di primo grado – ha richiamato la giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo la quale nel procedimento di aggiudicazione di un pubblico appalto ( nella specie si trattava di un appalto-concorso ) la commissione di gara può introdurre elementi di specificazione ed integrazione dei criteri generali di valutazione delle offerte già indicati nel bando di gara o nella lettera di invito, ovvero dei sotto-criteri di adattamento dei criteri generali o regole specifiche sulle modalità di valutazione, solo quando vi provveda prima dell’apertura delle buste recanti le offerte dei partecipanti, dopo tale momento non è possibile introdurre nuovi elementi di valutazione delle offerte ( CdS V, 26 gennaio 2001 n. 264) ( memoria del 28/10/2002). Ulteriori decisioni erano poi richiamate nella memoria del 21 marzo 2003: CdS, V, 25 novembre 2002 n. 6478 e CdS , V, 17 ottobre 2002 n. 5675, secondo le quali : “nelle procedure di gara, in via generale ed anche quando si tratti di appalti di servizi, la Commissione può operare, ove ritenuto necessario, ulteriori specificazioni dei criteri di valutazione delle offerte, ma alla inderogabile condizione che tale attività si svolga prima della conoscenza del contenuto delle offerte stesse ( fatto incontestato nella specie ove si mette in rilievo la circostanza che tale fissazione dei criteri è avvenuta dopo la presentazione delle offerte, quindi quando erano note le imprese partecipanti e le loro caratteristiche non il contenuto delle loro offerte ). 3. La sentenza impugnata La sentenza impugnata ha rilevato che i criteri di aggiudicazione ed i relativi punteggi da applicare vanno indicati nella lex specialis di gara, e che, nel caso in esame, il disciplinare di gara ( pagine 4 e 5 ) ha indicato gli elementi di valutazione da considerare ai fini dell’aggiudicazione del servizio . Ha poi continuato la sintetica motivazione rilevando che la Commissione di gara, prima dell’apertura delle buste con le offerte, ha legittimamente specificato ed integrato l’elemento di valutazione indicato nel disciplinare e riguardante le modalità organizzative e le strutture di supporto, attribuendo sub-punteggi ad alcune voci indicate, appunto, nel verbale del 29 maggio 2002, a pag. 2 ( v . allegato 4 fasc. ATVC ), tra le quali vi sono la proprietà o la disponibilità di depositi e sedi. Ha, in ultimo, concluso, rilevando che la giurisprudenza del Consiglio di Stato ( e viene citata CdS, V, 25 novembre 2002 n. 6478 ) in materia di appalti di servizi, qualora la scelta della migliore offerta discenda dalla valutazione di una pluralità di elementi di natura tecnica ed economica, riconosce alla commissione di gara la facoltà di specificare ed integrare i criteri generali di valutazione delle offerte già indicati nella lex specialis, individuando sotto-voci e stabilendo sub-punteggi, in maniera tale da rendere la scelta dell’Amministrazione maggiormente aderente alle effettive esigenze della stazione appaltante, purché tale specificazione ed integrazione avvenga prima dell’apertura delle buste recanti le offerte ( sul punto si richiama inoltre CdS, V, n. 264/2001; CdS , n. 1614/2000; CdS VI, n. 2117/1999; CdS VI, n. 370/1999 ). La sentenza ha poi , quanto all’art. 91 del d.p.r. n. 554/1999 ritenuto che esso non è applicabile agli appalti nei settori ex esclusi, disciplinati dalla normativa interna della direttiva CE sugli ex settori esclusi ossia dal d.lgs. n. 158/1995 ed ha rimarcato che nella specie la specificazione dei criteri è avvenuta prima dell’apertura delle buste e che ciò basta, indipendentemente da ulteriori considerazioni circa l’estrema opinabilità dell’affermazione della ricorrente secondo cui era di immediata conoscenza, o comunque era agevolmente conoscibile, da parte della stazione appaltante, la (mera) disponibilità di depositi o aree per il parcheggio degli autobus. La sentenza ha concluso quindi per la conformità della condotta della stazione appaltante al disposto di cui all’art. 24 lett. b) del d.lgs. n. 158/1995. 4. L’appello. L’atto di appello, con ampia motivazione, ripercorre la motivazione della sentenza, censurandola , e ripropone la censura già avanzata in primo grado e sintetizzata sub 1 della parte motiva di questa ordinanza. Ciò determina la rilevanza della questione nel presente giudizio. 5. Le operazioni di gara. Va rilevato, sul piano dello svolgimento dei fatti, che la stazione appaltante ha fissato i criteri di aggiudicazione nel disciplinare di gara. Il punto 5 del disciplinare di gara, allegato alla lettera di invito, stabilisce che l’aggiudicazione dell’appalto avverrà sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa previsto dall’art. 24 lett. b) del d.lgs. n. 158/1995 relativamente ai seguenti elementi di valutazione: 1. prezzo al chilometro per i servizi indicati negli allegati A,B, e C del capitolato: max 60 punti attribuiti mediante la relazione: prezzo minimo tra le offerte : prezzo dell’offerta considerata x 60 2. prezzo al chilometro per servizi aggiuntivi a quelli degli allegati A, B, e C del capitolato : max 10 punti attribuiti mediante la relazione : prezzo minimo fra le offerte: prezzo dell’offerta considerata x 10 Nel calcolo dei punteggi si terrà conto fino alla seconda cifra decimale mediante troncatura delle eventuali cifre successive. 3. modalità organizzative e strutture di supporto utilizzate per l’esecuzione del servizio desumibili dal documento di cui al punto 3.10 n. 6 del presente disciplinare: max 25 punti attribuiti da ACTV a suo insindacabile giudizio. 4. possesso di certificazione di qualità conforme alle norme EN9000: 5 punti. Il punto 3.10 n. 6 prevede che il plico d’offerta debba contenere una “relazione descrittiva dell’organizzazione e delle strutture logistiche e di supporto che saranno utilizzate nella gestione dei servizi oggetto del contratto in caso di aggiudicazione, che dovrà contenere obbligatoriamente almeno le seguenti indicazioni : - depositi e/o aree per il parcheggio degli autobus, di proprietà o in disponibilità dell’impresa, nel territorio della provincia di Venezia ( n°, ubicazione, superficie indicativa, breve descrizione ) - modalità di controllo del servizio erogato e n° di addetti al controllo del servizio stesso - n° conducenti di linea e tipo di patente posseduta - n° sedi di proprietà o in disponibilità dell’impresa ( diverse dai depositi ) nel territorio della provincia di Venezia ( n°, ubicazione, superficie indicativa, breve descrizione ) - n° addetti all’organizzazione dei turni del personale di guida. La Commissione, prima di procedere all’apertura dei plichi, preso atto dell’elenco delle ditte invitate e di quelle che avevano presentato offerte nei termini, ha preso atto dei punteggi massimi da attribuire agli elementi di valutazione delle offerte così come fissati dal disciplinare di gara, ed ha poi fissato, circa il punto 3, modalità organizzative e strutture di supporto, per il quale erano , a tenore del disciplinare di gara , attribuibili max 25 punti , di ripartirli tra varie voci nel seguente modo: - depositi e/o aree per il parcheggio degli autobus, di proprietà o in disponibilità dell’impresa, nel territorio della provincia di Venezia ( n°, ubicazione, superficie indicativa, breve descrizione ): punti 8 - modalità di controllo del servizio erogato e n° di addetti al controllo del servizio stesso : punti 7 - n° conducenti di linea e tipo di patente posseduta: punti 6 - n° sedi di proprietà o in disponibilità dell’impresa ( diverse dai depositi ) nel territorio della provincia di Venezia ( n°, ubicazione, superficie indicativa, breve descrizione ): punti 2 - n° addetti all’organizzazione dei turni del personale di guida: punti 2. La Commissione ha anche stabilito di attribuire i punteggi per modalità organizzative e strutture di supporto sulla base della documentazione prodotta al riguardo dalle concorrenti. In sostanza la Commissione ha predeterminato il valore da attribuire agli elementi già indicati in sede di disciplinare di gara, attribuendo ad essi un peso relativo, nell’ambito del punteggio massimo attribuibile , ma non ha introdotto delle sotto-voci non previste dalla lex specialis. 6. Le norme di diritto comunitario rilevanti. In materia di appalto di servizi si incontra la norma di cui all’art. 36 paragrafo 2, della direttiva CE n. 50/1992, che stabilisce: “qualora l’appalto sia aggiudicato all’offerta più vantaggiosa sotto il profilo economico, le amministrazioni enunciano, nel capitolato d’oneri o nel bando di gara, i criteri di aggiudicazione di cui esse prevedono l’applicazione, possibilmente nell’ordine decrescente dell’importanza che è loro attribuita.” In materia di appalti negli ex settori esclusi, l’art. 34 paragrafo 2 della direttiva CE n. 38/1993 recita , in modo analogo: nel caso di cui al paragrafo 1 , lettera a) ( aggiudicazione secondo il metodo dell’offerta economicamente più vantaggiosa ), gli enti aggiudicatori menzionano nel capitolato d’oneri o nel bando di gara tutti i criteri di aggiudicazione di cui prevedono l’applicazione, possibilmente nell’ordine decrescente dell’importanza che è loro attribuita. La Commissione CE ha ritenuto, valutando della legittimità comunitaria del c.d. decreto Karrer , che esso violasse l’art. 36 paragrafo 2 della direttiva 92/50 in quanto l’art. 3 comma 2 del decreto 116/1997, consentiva alla commissione giudicatrice di suddividere gli elementi di valutazione in sub elementi, e, pertanto, in contrasto con il principio di trasparenza. La Corte di Giustizia della Ce con sentenza del 20 settembre 1988, nella causa 31/1987 ha affermato che quando le amministrazioni aggiudicatrici non adottano come unico criterio di aggiudicazione dell’appalto quello del prezzo più basso, ma si basano su vari criteri al fine di procedere all’aggiudicazione dell’appalto a chi abbia effettuato l’offerta economicamente più vantaggiosa sono tenute a menzionare questi criteri nel bando di gara ( punto 38 della decisione predetta ). 7. L’orientamento del Consiglio di Stato e la sua contestazione nella tesi dell’appellante. L’orientamento tradizionale ed assolutamente pacifico nella giurisprudenza del Consiglio di Stato è nel senso di legittimare un’antica prassi, ispirata a ragionevolezza sostanziale ( quando tale modus procedendi non comporta alcun reale vulnus alla legittimità del procedimento) tesa a riconoscere un certo spazio di intervento integrativo delle Commissioni di gara: si considera in questa chiave legittimo che la commissione giudicatrice possa introdurre elementi di specificazione, nell’ambito dei criteri generali prefissati dal bando e prevedere sottovoci delle categorie principali già definite per una più esatta valutazione delle offerte stesse ( ex multis CdS IV 21 luglio 1997 n. 737;CdS VI 16 aprile 1999 n. 370 ; CdS V, 13 aprile 1999 n. 412 ; CdS V, 26 giugno 2000 n. 3622 ; CdS, V, 23 marzo 2000, n. 1614; CdS VI 31 ottobre 2001 n. 5691;CdS VI 22-10-2002 n. 5808; CdS V 28 dicembre n. 6459; CdS IV 21 giugno 2001 n. 3348 – quest’ultima ha ritenuto ragionevole la disciplina del decreto Karrer ). Tale orientamento è ritenuto – dall’appellante – in contrasto con le indicazioni ricavabili dal diritto comunitario, in relazione al parere della Commissione CE sul c.d. decreto Karrer espresso in data 10 agosto 1988. L’appello richiama anche il tenore dell’art. 36 della dir. n. 92/50 CE, che è analogo al disposto dell’art. 34 della direttiva n. 93/38 CE, applicabile al caso in esame, anche se non espressamente e testualmente richiamato dall’appellante, che ha comunque dedotto in relazione al principio regolatore espresso da tale norma, ricavando da essa l’obbligo per le amministrazioni di enunciare al più tardi nel capitolato d’oneri i criteri di aggiudicazione, in modo da evitare che essi vengano formulati quando sono note esperienze o caratteristiche delle imprese. In sostanza secondo la prospettazione dell’appellante la possibilità di specificare i criteri da parte della Commissione potrebbe determinare un vulnus ai valori di trasparenza espressi dalla disciplina comunitaria, a fronte dei quali non sarebbero sufficienti le condizioni particolari di cautela poste dalla giurisprudenza nazionale, quali condizioni di legittimità dell’operato delle Commissione, ossia la necessità di precisare i criteri prima dell’apertura delle offerte e di determinarli nell’ambito dei criteri prefissati, poiché rileverebbe invece la prequalificazione, quale momento nel quale già divengono note le imprese ed diverrebbe astrattamente possibile quindi “orientare” la predeterminazione dei criteri secondo valutazioni mirate a favorirne una in luogo di altra. Ciò in relazione alla norma dell’art. 34 della direttiva n. 93/38 CE (ed all’analoga norma di cui all’art. 36 della dir. n. 92/50) pone il seguente serio problema interpretativo: “se sia legittimo interpretare tali disposizioni ( l’art. 36 della direttiva 92/50 e l’art. 34 della direttiva 93/38), come contenenti norme elastiche che permettono alla stazione appaltante, in caso di aggiudicazione con il metodo dell’offerta economica più vantaggiosa, di fissare i criteri in via generale nel bando o nel capitolato d’oneri, consentendo poi alla Commissione di gara, l’eventuale specificazione e/o integrazione di tali criteri, ove necessaria, e sempre che tale specificazione e/o integrazione avvenga prima della apertura dei plichi contenenti le offerte e non risulti innovativa dei criteri predeterminati dal bando o se, invece, detta norma debba essere interpretata come norma rigida, che impone alla stazione appaltante di determinare analiticamente i criteri di aggiudicazione nel bando o nel capitolato d’oneri, prima della prequalificazione o dell’invito ed esclude che la Commissione di gara possa in qualsiasi modo intervenire successivamente specificando e/o integrando i predetti criteri, o costruendo sotto-voci o sub-punteggi, in quanto ogni indicazione dei criteri di aggiudicazione , per ragioni di trasparenza, deve essere contenuta nel bando o nel capitolato d’oneri e, quindi, se sia legittimo, in definitiva, alla luce del diritto comunitario l’orientamento interpretativo tradizionale maturato nella giurisprudenza del Consiglio di Stato volto ad ammettere l’intervento della Commissione di gara.” Riteneva il Collegio che l’interpretazione data tradizionalmente dal Consiglio di Stato potesse trovare conferma alla luce dell’avverbio “possibilmente” contenuto nella disposizione che, riferito alla indicazione dei criteri in ordine decrescente, può anche significare che il bando può rimandare ogni specificazione dell’ordine di importanza dei criteri alla Commissione di gara purché si tratti di criteri desumibili e/o ricavabili dallo stesso bando, implicitamente od esplicitamente, ma rileva altresì che, trattandosi di questione nuova , per la quale non si rinvengono precedenti, essa, per la sua serietà, debba obbligatoriamente essere rimessa alla Corte di Giustizia CE. Ancora: “ se sia legittimo, alla luce di tale norma interpretata elasticamente alla luce dell’avverbio “possibilmente”, per la stazione appaltante emanare un disciplinare di gara che in relazione ad un criterio di aggiudicazione ( nella specie modalità organizzative e di supporto ) preveda l’assegnazione di punti ad insindacabile giudizio della stazione appaltante, con riferimento una serie di complessa di criteri di cui il bando non prevede la graduazione risultando in tal senso, in parte, indeterminato o se comunque la norma imponga una tassatività di massima nella formulazione dei criteri non compatibile con la mancata graduazione degli stessi, e se, in caso di legittimità della previsione, per effetto della ritenuta elasticità della norma e della non obbligatorietà della graduazione di tutti gli elementi, a fronte di essa, in mancanza di un espresso conferimento di poteri alla Commissione da parte del bando possa ammettersi l’intervento integrativo –specificativo della Commissione ( risoltosi semplicemente nel attribuire rilevanza autonoma e peso relativo ad ogni singolo elemento che il bando voleva valutare attribuendo complessivamente massimo 25 punti ) o, se, invece, a fronte di tale previsione, debba invece farsi applicazione letterale del disciplinare di gara, attribuendo il punteggio con valutazione unitaria dei vari e complessi elementi considerati dalla lex specialis ”. Ed ancora: “ se comunque sia legittimo alla luce di tale disposizione, riconoscere in via generale alla Commissione di gara che deve valutare le offerte, indipendentemente dalle modalità di formulazione del bando, nel procedimento di aggiudicazione mediante offerta economicamente più vantaggiosa, ma solo a fronte della complessità degli elementi da valutare, un potere di autolimitare, in via generale, la propria azione , specificando i parametri di applicazione dei criteri prefissati dal bando, e se tale potere della Commissione possa essere esercitato costruendo sotto voci, sub-punteggi, o semplicemente dettando criteri più specifici di applicazione dei criteri indicati in via generale dal bando o dal capitolato d’oneri naturalmente sempre prima di procedere all’apertura delle buste.” Ogni altra questione è stata riservata, compresa la pronuncia sulle spese. La pronuncia della Corte di giustizia delle Comunità europee La Corte di Giustizia delle Comunità europee si è pronunciata con sentenza del 24 novembre 2005. Il giudice europeo ha notato che la commissione aggiudicatrice ha semplicemente determinato il modo in cui i 25 punti previsti per il terzo criterio di aggiudicazione dovessero essere ripartiti tra i cinque sottocriteri già definiti nel disciplinare di gara. In sostanza, alla luce dei fatti di causa, ha ritenuto di essere investita della questione se gli artt. 36 della direttiva 92/50 e 34 della direttiva 93/38 debbano essere interpretati nel senso che il diritto comunitario osta a che una commissione aggiudicatrice attribuisca un peso relativo ai sub-elementi di un criterio di aggiudicazione stabilito precedentemente, effettuando una ripartizione tra questi ultimi dei punti previsti dall’amministrazione aggiudicatrice al momento della redazione del capitolato di gara. La Corte ha ricordato che i criteri di aggiudicazione definiti da un’amministrazione aggiudicatrice devono essere collegati all’oggetto dell’appalto, non devono conferire alla detta amministrazione una libertà incondizionata di scelta, devono essere espressamente menzionati nel capitolato d’oneri o nel bando di gara e devono rispettare i principi fondamentali di parità di trattamento e trasparenza ( in tal senso sentenza 17 settembre 2002, causa C 13/99, Concordia Bus Finland Racc. pag. I- 7213, punto 64). In particolare, la Corte ha ricordato, nel contesto della causa in esame, che il dovere di rispettare il principio di parità di trattamento corrisponde all’essenza stessa delle direttive in materia di appalti pubblici (v. sentenza Concordia Bus Finland punto 81 ) e che i concorrenti devono trovarsi su un piano di parità sia nel momento in cui essi preparano le loro offerte sia nel momento in cui queste sono valutate ( v. sentenza 18 ottobre 2001 causa 19/00 SIAC Construction Racc. pag. I-7725, punto 34 ). Conformemente agli artt. 36 della direttiva 92/50 e 34 della direttiva 93/38, tutti i criteri presi in considerazione devono essere espressamente menzionati nel capitolato d’oneri o nel bando di gara, se possibile nell’ordine decrescente di importanza che è loro attribuita, affinché gli imprenditori siano posti in grado di conoscere la loro esistenza e la loro portata ( sentenza Concordia Bus Finland , citata, punto 62 ). Parimenti, per garantire il rispetto dei principi di parità di trattamento e di trasparenza, occorre che tutti gli elementi presi in considerazione dall’amministrazione aggiudicatrice per identificare l’offerta economicamente più vantaggiosa, e, se possibile, la loro importanza relativa siano noti ai potenziali concorrenti al momento della preparazione delle loro offerte ( v. in tal senso, sentenze 25 aprile 1996, causa C 87/94, Commissione / Belgio ; racc. I – 2043, punto 88, e 12 dicembre 2002 , causa C- 470/99 Universale Bau ed a., Racc. pag. I -11617, punto 98 ). Spetta al giudice nazionale secondo la Corte valutare se, alla luce di tali norme e principi, nella causa principale, sia stato violato il diritto comunitario, prevedendo una ponderazione dei vari sub-elementi del terzo criterio indicato nell’appalto. La Corte ha poi indicato un iter logico che deve essere seguito dal giudice nazionale. In primo luogo, secondo la Corte, occorre verificare se, tenuto conto di tutti gli elementi pertinenti della causa principale, la decisione che prevede tale ponderazione modifichi i criteri di aggiudicazione definiti nel capitolato d’oneri o nel bando di gara. Se così fosse la detta decisione sarebbe incompatibile con il diritto comunitario. In secondo luogo occorre valutare se tale decisione contenga elementi che, se fossero stati noti al momento della redazione delle offerte avrebbero potuto influenzare detta preparazione. Se così fosse la detta decisione sarebbe incompatibile con il diritto comunitario. In terzo luogo occorre verificare se la commissione aggiudicatrice abbia adottato la decisione che prevede una ponderazione tenendo conto di elementi che possono avere un effetto discriminatorio nei confronti di uno dei concorrenti. Se così fosse la detta decisione sarebbe incompatibile con il diritto comunitario. Il caso di specie. Nel caso di specie la stazione appaltante solo con il disciplinare di gara ha specificato i criteri selettivi dell’aggiudicatario mentre con la lettera d’invito a rimesso alla commissione di gara la graduazione fra alcuni degli stessi criteri. La commissione di gara ha graduato le sottovoci previste dal disciplinare di gara, attribuendo, a suo insindacabile giudizio i 25 punti previsti dal bando fra dette sottovoci, che, pur specificate dal disciplinare, per essere relative all’organizzazione ed alle strutture logistiche e di supporto da utilizzarsi nella gestione dei servizi oggetto del contratto, ovviamente sono direttamente attinenti le caratteristiche aziendali dei partecipanti alla gara. Ne deriva, a giudizio del Collegio, che la importanza relativa delle predette sottovoci avrebbe dovuto essere nota ai potenziali concorrenti già al momento della produzione delle loro offerte al fine di evitare il pericolo che la commissione potesse orientare a proprio piacimento ed a posteriori l’attribuzione di tale determinante punteggio e, quindi l’esito stesso della gara, dopo averne conosciuto gli effettivi concorrenti. Per la Corte di Giustizia, inoltre, nel caso di specie, occorre valutare se tale decisione contenga elementi che, se fossero stati noti al momento della redazione delle offerte avrebbero potuto influenzare detta preparazione: ebbene, a giudizio del Collegio, tale decisione contiene elementi che avrebbero potuto influenzare la preparazione delle offerte, essendo chiaro che le imprese partecipanti alla gara quantomeno andavano sin dall’inizio messe su un piano di parità nella conoscenza del peso relativo da assegnarsi alla disponibilità di immobili nella Provincia di Venezia da destinarsi a depositi o sedi aziendali. Va inoltre considerato che le sottovoci ponderate dalla Commissione davano rilievo ad elementi quali il possesso dei depositi disponibili nella Provincia ed il numero delle sedi ( diverse dai depositi ) aziendali disponibili nella Provincia di Venezia che, per essere riferite al collegamento con un determinato territorio, dovevano considerarsi aventi potenziale valore discriminatorio fra gli operatori in ragione della localizzazione territoriale delle loro attività e , quindi, dovevano essere rese note, nel loro peso relativo, prima della preparazione delle offerte, se non prima della loro candidatura alla gara. In ultimo va considerato che gli elementi che , secondo la lettera di invito, erano da ponderarsi da parte della Commissione di gara, non avevano un vero e proprio carattere tecnico, sicché non sussisteva alcuna effettiva necessità, per la stazione appaltante, in ragione della complessità tecnica delle scelte da effettuarsi in ordine alla valutazione dell’offerta tecnica, per demandare alla commissione di gara la graduazione del punteggio o per definire, come è stato nella specie, solo nella lettera d’invito e non nel bando di gara i criteri selettivi ed i relativi pesi degli stessi, peraltro riservandosi di meglio tararli nel corso della procedura, mediante l’intervento della Commissione di gara. In sostanza dal modus operandi prescelto dall’amministrazione potrebbe derivare una discriminazione a favore delle imprese già localizzate in un determinato ambito territoriale, senza che la stessa sia collegabile ad alcuna apprezzabile necessità di definire in sede tecnica la complessa ponderazione di elementi di valutazione dell’offerta ( gli elementi ponderati dalla commissione sono strettamente correlati ad esigenze amministrative della stazione appaltante definibili compiutamente nella lex specialis sin dal momento della formazione del bando ). Di qui l’illegittimità degli atti di gara. Ne deriva quindi l’accoglimento dell’appello ( ed in particolare del primo e terzo motivo del ricorso originario da leggersi in stretta connessione logico-giuridica ) e l’annullamento della gara. Dall’accoglimento dell’appello deriva, per giurisprudenza consolidata del Consiglio di Stato, la caducazione del contratto già stipulato, ma , alla luce della discrezionalità del metodo di aggiudicazione prescelto dall’amministrazione, non può disporsi alcuna reintegrazione in forma specifica dell’impresa ricorrente mediante aggiudicazione dello stesso appalto alla ditta ricorrente o mediante nuova assegnazione di un analogo contratto. L’amministrazione dovrà, quindi, rinnovare la procedura di gara e, nelle more di tale rinnovo, valuterà le modalità più idonee per garantire l’espletamento del servizio. Va poi accolta anche la domanda di risarcimento dei danni avanzata dalla ditta ricorrente, che, stante la discrezionalità del metodo di aggiudicazione, devono valutarsi come danni da perdita di chance e possono liquidarsi in via equitativa. Il danno sofferto dall’impresa appellante è stato stimato in complessivi euro 1.148.978, 20 dalla consulenza tecnica di parte prodotta in giudizio dalla ATI EAC. La consulenza tecnica stima i danni patiti dalla ATI EAC basandosi quali parametri di liquidazione del danno sull’utile conseguibile prima delle imposte e su una valutazione indennitaria della perdita di chance intesa solo come perdita di quote di mercato relativa al mancato incremento economico-finanziario e tecnico operativo capace di abilitare l’impresa alla partecipazione a gare di maggiore valore economico, ma si muove da presupposto ( erroneo ) della spettanza del contratto all’ATI ricorrente. Non essendovi prova possibile dell’aggiudicabilità della gara all’ATI ricorrente, in ragione del metodo discrezionale di aggiudicazione, l’interesse pretensivo violato – secondo il Collegio - deve essere invece stimato come una perdita di chance di aggiudicazione, parametrabile non solo alla perdita di quote di mercato, ma anche alla probabilità di aggiudicazione concretamente raggiunta nella specie. Va tuttavia precisato il rapporto tra perdita di chance e violazione dell’interesse pretensivo nelle ipotesi nelle quali l’amministrazione sia titolare di un potere discrezionale , in tali ipotesi – secondo gli insegnamenti ritraibili da Corte di Cassazione n. 500/1999 solo dal nuovo esercizio del potere possono - a rigore - derivare certezze in ordine alla spettanza del bene cui il privato aspira. In tali ipotesi il risarcimento dei danni dovrebbe essere negato fino alla rinnovazione degli atti di gara, che , tuttavia, avvenendo in un altro momento e contesto storico, non è detto che possa coinvolgere nuovamente le parti in causa nello stesso modo e sulla base dei medesimi presupposti che erano a base dell’azione amministrativa giudicata illegittima. Il giudizio sulla spettanza ossifica eccessivamente, in tali casi, l’azione amministrativa e posticipa irragionevolmente le possibilità di ottenere il risarcimento, costringendo il giudice a pronunciare una sentenza di inammissibilità dell’azione risarcitoria per difetto di presupposti e rimettendo in moto l’azione amministrativa, che, nel riesercizio del potere, si presenta paradossalmente scissa fra necessità di ottemperare al giudicato e timore di ingenerare i presupposti per l’esperimento dell’azione di danni. E’ evidente che in tali casi, ove, a giudizio del giudice amministrativo, non vi sia agevole rinnovabilità delle attività amministrative o delle operazioni di gara, come nei casi di appalti ad aggiudicazione non automatica, il danno vantabile nei confronti dell’amministrazione deve essere visto unicamente nella prospettiva della perdita di chance. La chance, secondo questa prospettiva ricostruttiva, si pone quale bene patrimoniale a se stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione, e deve essere distinta, sul piano ontologico, dagli obiettivi rispetto ai quali risulti teleologicamente orientata e di cui possa costituire la condizione o il presupposto in potentia. Ne consegue che la lesione della “entità patrimoniale chance” formerà oggetto di valutazione ai fini del riconoscimento di un risarcimento del danno, in termini di probabilità, definitivamente perduta, a causa di una condotta illecita altrui, senza dovere fare alcun riferimento al risultato auspicato e non più realizzabile ed alla consistenza del suo assetto potenziale. Non ignora il Collegio che in altra prospettiva qualificatoria, coltivata in dottrina, la perdita della chance o, rectius, dell’utilità potenziale è configurata come lucro cessante, ossia “la lesione diverrebbe risarcibile soltanto in una prospettiva condizionata: quando, secondo un giudizio di prognosi postuma, la chance persa aveva notevoli possibilità di giungere a buon fine” . La chance, allora, non ha una propria consistenza intrinseca ed autonoma, ma presenta piuttosto una natura ontologicamente strumentale e teleologicamente orientata, concretizzandosi in un mero supporto verso un obiettivo finale di cui costituisce un semplice presupposto causale, privo di rilevanza giuridica quale autonomo bene patrimoniale. La dicotomia in parola, apparentemente, ingenera rilevanti ripercussioni sotto il profilo del sistema probatorio applicabile. In particolare con riguardo alla prima configurazione ontologica della fattispecie in esame, quanto alla consistenza dell’onere probatorio da raggiungere per conseguire il riconoscimento della pretesa risarcitoria per perdita di chance, sembra sufficiente dimostrare la semplice probabilità della chance, accompagnata dalla constatazione che il bene anelato è oramai irrimediabilmente perso e dall’accertamento del nesso eziologico fra la condotta e l’evento lesivo, consistente nell’elisione di quell’entità patrimoniale, avente autonoma rilevanza giuridica ed economica, rappresentata dall’utilità potenziale che si assume lesa. Nell’ambito della seconda ricostruzione interpretativa, invece, pare necessario provare che la chance, irrimediabilmente persa, avrebbe assunto la consistenza o, rectius, avrebbe condotto al sorgere, ex novo, di un bene giuridico o di una situazione giuridica soggettiva di vantaggio, avente quest’ultima, e non la mera utilità potenziale da cui scaturisce, una propria rilevanza patrimoniale e giuridica, e ciò con un grado di verosimiglianza vicino alla certezza. In altri termini, nell’orientamento in parola, coltivato dalla dottrina civilistica, non basta dimostrare il nesso di causalità tra l’attività lesiva e la perdita della chance, già presupposta come esistente e giuridicamente rilevante, ove avente la consistenza di un’utilità potenziale, ma occorre anche provare che “un evento positivo per il danneggiato vi sarebbe comunque stato con rilevante probabilità, ove lo stesso non avesse subito il pregiudizio cagionato dalla condotta contra legem” . In realtà la contrapposizione fra le due posizione dottrinali e giurisprudenziali suesposte, sia sotto il profilo ontologico sia sotto il profilo dei conseguenti oneri probatori, deriva esclusivamente da una visione parziale della fattispecie risarcitoria in esame, che contrappone erroneamente, come blocchi distinti e reciprocamente incompatibili, i vari elementi costitutivi il danno da perdita di chance. E’ necessario, invece, procedere ad un’attività esegetica, che, dopo avere individuato gli elementi costitutivi della fattispecie in parola, li riconduca ad unità, in guisa da determinare una ricostruzione ontologica complessiva, uniforme e coerente. In primo luogo si deve esattamente individuare l’ambito semantico-giuridico del termine chance, che costituisce la chiave di volta dell’ipotesi risarcitoria in esame. La parola chance deriva, etimologicamente, dall’espressione latina cadentia, che sta ad indicare il cadere dei dadi, e significa “buona probabilità di riuscita” . Si tratta, dunque, di una situazione, teleologicamente orientata verso il conseguimento di un’utilità o di un vantaggio e caratterizzata da una possibilità di successo presumibilmente non priva di consistenza. In particolare, trasponendo tale definizione in ambito giuridico, si può rilevare che, affinché un’occasione possa acquisire rilevanza giuridica, ossia ricevere tutela da parte dell’ordinamento, è necessario che sussista “una consistente possibilità di successo, onde evitare che diventino ristorabili anche mere possibilità statisticamente non significative” (Consiglio di Stato sez. VI, 7 febbraio 2002, n. 686) . In altri termini la chance, ove si configuri quale mera possibilità di ottenere un risultato favorevole non è idonea ad assumere rilevanza per il mondo del diritto e dà vita ad un interesse di fatto, insuscettibile di ricevere tutela per la propria esigua consistenza. Tale esito definitorio consente proficuamente ed agevolmente di riunificare i due orientamenti interpretativi esposti in precedenza, in quanto da un lato riconosce alla chance la qualità di bene giuridico autonomo, indipendente dalla situazione di vantaggio verso cui tende, dotato di per sé di rilevanza giuridica ed economica, in quanto elemento facente attivamente parte del patrimonio del soggetto che ne ha la titolarità; dall’altro lato, invece, attribuisce un rilievo decisivo all’elemento prognostico o, rectius, probabilistico, il quale è posto quale fattore strutturale e costitutivo, da accertare indefettibilmente al fine di riconoscere ad una mera possibilità la consistenza necessaria per rientrare nella nozione di chance e, dunque, per ricevere protezione da parte dell’ordinamento. E’ decisivo, allora, distinguere fra probabilità di riuscita (chance risarcibile) e mera possibilità di conseguire l’utilità sperata (chance irrisarcibile). A tal fine bisogna ricorrere alla teoria probabilistica, che, nell’analizzare il grado di successione tra azione ed evento, per stabilire se esso avrebbe costituito o meno conseguenza dell’azione, scandaglia, fra il livello della certezza e quello della mera possibilità, l’ambito della c.d. probabilità relativa, consistente in un rilevante grado di possibilità. Nello specifico occorre affidarsi al metodo scientifico, che si sostanzia in un procedimento di sussunzione del caso concreto che si voglia di volta in volta analizzare sotto un sapere scientifico; ossia, quanto ai sistemi giuridici, sotto un sapere probabilistico, non sorretto da leggi statisticamente universali, ma pur sempre scientifico perché razionalmente fondato sulle conoscenze di una specifica scienza (quella giuridica) e, quindi, anch’esso attendibile. Secondo tale metodo scientifico la verificazione dell’azione o della situazione fattuale esaminata quale condicio, certa o probabile, di un evento favorevole, va effettuata “secondo la migliore scienza ed esperienza”, ragion per cui si rende opportuno precisare l’orientamento interpretativo del Consiglio di Stato, per cui “la concretezza della probabilità deve essere statisticamente valutabile con un giudizio sintetico che ammetta, con giudizio ex ante, secondo l’id quod plerumque accidit, sulla base di elementi di fatto forniti dal danneggiato, che il pericolo di non verificazione dell’evento favorevole, indipendentemente dalla condotta illecita, sarebbe stato inferiore al 50%” (Consiglio di Stato sez. VI, 7 febbraio 2002, n. 686). Infatti, oltre a ricorrere al criterio dell’id quod plerumque accidit utilizzabile nelle fattispecie nelle quali la realtà sia comprensibile sulla base di nozioni di comune esperienza, è possibile fare riferimento alla migliore scienza, ossia al più esauriente assetto gnoseologico in grado di fornire un giudizio il più possibile corretto e compiuto in ordine alla prognosi probabilistica circa il verificarsi o meno dell’evento vantaggioso preso in considerazione. Occorre, poi, osservare che il parametro del 50%, non ha valore assoluto anche perché secondo la scienza statistica il grado di possibilità qualificabile come probabilità presenta una soglia costitutiva variabile da determinare caso per caso sulla base del concreto assetto della situazione esaminata. Quanto finora enunciato deve, però, necessariamente, essere esaminato alla luce della peculiarità delle situazioni giuridiche soggettive di vantaggio, proprie del diritto amministrativo, la cui probabilità di transitare dalla fase in potentia a quella in actu, requisito indispensabile per la configurabilità di una chance risarcibile, va verificata alla stregua della consistenza dei poteri attribuiti dall’ordinamento alla pubblica amministrazione. In altri termini, bisogna chiedersi se ed in che misura la discrezionalità amministrativa incida in ordine all’esito del giudizio prognostico in parola, ovvero con riguardo alla determinazione della consistenza e della rilevanza dell’utilità potenziale e, dunque, della sua concreta tutelabilità. Gli esiti di tale prognosi, infatti, si diversificano a seconda che il conseguimento della posizione di vantaggio, verso cui è teleologicamente orientata la chance, sia correlato ad un’attività vincolata, tecnico-discrezionale o discrezionale pura. Nelle prime due ipotesi il giudice può, essendo la valutazione dell’amministrazione ancorata a parametri precisi e vincolanti, “sostituirsi” alla stessa, sia pure in modo virtuale e nella sola prospettiva risarcitoria e giungere così ad individuare il grado di possibilità di ottenimento, da parte del privato asseriamento leso, del bene della vita, irrimediabilmente perso che poteva scaturire dalla chance, senza che la natura dei poteri attribuiti alla pubblica amministrazione possano in alcun modo alterare l’esito prognostico. Contrariamente, ove sia riconosciuta, in capo all’amministrazione, una potestà di natura discrezionale, tanto maggiori saranno i margini di valutazione rimessi alla pubblica amministrazione, tanto maggiore sarà l’alterazione del giudizio probabilistico, il quale in presenza di parametri valutativi elastici ed insindacabili, se non nei termini ristretti ed estrinseci della logicità e ragionevolezza, dovrà inevitabilmente rinunciare a riconoscere la sussistenza di un’apprezzabile probabilità di esito positivo e, dunque, di una chance risarcibile, onde evitare un’inammissibile e problematica surrogazione dell’autorità giudiziaria nei poteri dell’amministrazione. In altri termini la discrezionalità amministrativa elide, nella maggior parte dei casi, la possibilità di compiere il giudizio prognostico in parola in termini di preciso calcolo percentuale ma non esclude di poter riconoscere una perdita di chance, nella base del grado di approssimazione al bene della vita raggiunto dal ricorrente. A completamento dell’analisi degli elementi costitutivi dell’istituto in parola, occorre rilevare che è necessaria una lesione, concreta ed attuale, di una chance, individuata nella sua consistenza e rilevanza giuridica conformemente ai parametri in precedenza enunciati. Tale lesione deve consistere nella perdita, definitiva, di un’occasione favorevole di cui il soggetto danneggiato si sarebbe avvalso con ragionevole certezza, ossia nella elisione di un bene, giuridicamente ed economicamente rilevante, già esistente nel patrimonio del soggetto al momento del verificarsi dell’evento dannoso, il cui valore, però, è dato dalle sue utilità future, ovvero dalla sua idoneità strumentale a far sorgere in capo al dominus dello stesso una data e specifica situazione di vantaggio. In particolare la condotta illecita deve concretarsi “nell’interruzione di una successione di eventi potenzialmente idonei a consentire il conseguimento di un vantaggio, generando una situazione che ha carattere di assoluta immodificabilità, consolidata in tutti gli elementi che concorrono a determinarla, in modo tale che risulta impossibile verificare compiutamente se la probabilità di realizzazione del risultato si sarebbe, poi, tradotta o meno nel conseguimento dello stesso” ( Consiglio di Stato sez. VI, 15 aprile 2003, n. 1945). L’evento dannoso deve essere, inoltre, imputabile alla pubblica amministrazione quantomeno a titolo di colpa, conformemente a quanto previsto in via generale in tema di responsabilità civile e risarcimento del danno. A tale riguardo occorre sottolineare che, secondo oramai consolidata giurisprudenza, l’illegittimità dell’atto attraverso cui si manifesta la condotta illecita non è sufficiente per fondare la responsabilità dell’amministrazione, ma è altresì necessario che l’agire della pubblica amministrazione sia connotato dall’elemento soggettivo della colpa, che non può essere considerato in re ipsa nella violazione della legge o nell’eccesso di potere estrinsecatesi nell’adozione ed esecuzione dell’atto illegittimo. Ciò premesso, va rilevato che , nella specie, l’ATI EAC aveva conseguito punti 83,50 a fronte dell’ATI LA LINEA, aggiudicataria con punti 86,53. Può pertanto ritenersi che l’ATI appellante, per la esiguità della distanza nei punteggi assegnati, abbia raggiunto una elevata probabilità di aggiudicarsi l’appalto , non concretizzatasi per effetto dell’illegittimità evidenziata. Quanto all’elemento della colpa dell’amministrazione, trattandosi di applicazione di principi comunitari di trasparenza e parità di trattamento, nonché di cautele poste dalla necessità di evitare pericoli di discriminazione fra le imprese in ragione della loro collocazione territoriale la Sezione ritiene sussistente l’elemento soggettivo e non invocabile alcuna ragione scriminante. Il danno sofferto va quindi unitariamente ed equitativamente valutato in euro 150.000 oltre spese di partecipazione alla gara che possono liquidarsi in euro 5000. Ne deriva la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni nei limiti predetti. Le spese seguono la soccombenza liquidate come in dispositivo. P. Q. M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta accoglie l’appello e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata accoglie il ricorso di primo grado ed annulla gli atti impugnati. Condanna l’Amministrazione ACTV SPA al risarcimento dei danni in favore dell’appellante pari ad EURO 155.000/00 per le causali specificate in parte motiva. Condanna l’Amministrazione ACTV SPA al pagamento, in favore dell’appellante, di EURO 20.000 per spese diritti ed onorari del giudizio oltre iva e cassa come per legge. Compensa le spese del giudizio nei confronti delle altre parti costituite, Provincia di Venezia, Comune di Venezia, La Linea SPA. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma, il 31 marzo 2006 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sez.VI -, riunito in Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori: Claudio Varrone Sabino Luce Lanfranco Balucani Domenico Cafini Giancarlo Montedoro Presidente Consigliere Consigliere Consigliere Consigliere Est.