Cass. Civ., S.U., 500/1999 Cass. Civ., S.U., 1207/2006 Corte Cost

Cass. Civ., S.U., 500/1999
Cass. Civ., S.U., 1207/2006
Corte Cost., 191/2006
Cass. Civ., S.U., 1359/2006
C. S., V^, 2822/2007
C.S., Ad. Plen., 12/2007
C.S., IV^, 248/2008
C.S., VI^, 5323/2006
Cassazione civile , sez. un., 22 luglio 1999, n. 500
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta
dagli
Ill.mi
Dott.
Ferdinando
ZUCCONI GALLI FONSECA
Dott. Franco
BILE
Dott. Antonio
IANNOTTA
Dott. Francesco
AMIRANTE
Dott. Vincenzo
CARBONE
Dott. Rafaele
CORONA
Dott. Giovanni
OLLA
Dott. Alfio
FINOCCHIARO
Dott. Roberto
PREDEN
ha pronunciato la seguente
Sigg.ri
- Primo
- Presidente
- Presidente
- Presidente
- Rel.
Magistrati:
Presidente
di Sezione
di Sezione
di Sezione
Consigliere
Consigliere
Consigliere
Consigliere
Consigliere
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COMUNE DI FIESOLE, in persona del Sindaco pro-tempore elettivamente
domiciliato in Roma, Lungotevere Michelangelo 9, presso lo studio
dell'avvocato Gian Marco Grez, rappresentato e difeso dall'avvocato
Fausto Falorni, giusta delega in calce al ricorso;
- ricorrente
contro
VITALI GIORGIO, elettivamente domiciliato in Roma, Lungotevere
Mellini 39, presso lo studio dell'avvocato Maurizio Marucchi,
rappresentato e difeso dall'avvocato Giuseppe Feri, giusta delega a
margine del controricorso;
- controricorrente per regolamento preventivo di giurisdizione in relazione al giudizio
pendente n. 2186-96 del Tribunale di Firenze;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
26-03-99 dal Consigliere Dott. Roberto PREDEN;
uditi gli Avvocati Fausto FALORNI, per il ricorrente, Giorgio VITALI,
per se stesso;
udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale Dott. Paolo DETTORI
che ha concluso per la giurisdizione del giudice ordinario.
Fatto
Con atto notificato il 1°.4.1996, Giorgio Vitali conveniva davanti al Tribunale di Firenze il
Comune di Fiesole per sentirlo condannare al risarcimento dei danni conseguenti al
mancato inserimento, nel piano regolatore generale adottato dal Comune con
deliberazione del 16.7.1971, tra le zone edificabili, dell'area di proprietà dell'istante oggetto
di convenzione di lottizzazione stipulata con l'ente locale il 3.6.1964. Deduceva che il detto
P.R.G. era stato annullato dal Consiglio di Stato, con decisione del 22.1.1990, per difetto di
motivazione circa le ragioni che avevano indotto l'amministrazione a disattendere la
convenzione. Sosteneva che, pur essendo venuta meno, per effetto di successiva variante
del P.R.G. adottata nel 1984, la possibilità di realizzare la convenzione, dovevano essere
risarciti i pregiudizi economici subiti nel periodo di vigenza del piano originario, che aveva
illegittimamente impedito la realizzazione della lottizzazione. Il Comune resisteva ed
eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice ordinario. Nel corso del giudizio il Comune
ha proposto regolamento preventivo di giurisdizione. Ha resistito con controricorso il
Vitali.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Diritto
1. Con l'istanza di regolamento preventivo deduce il ricorrente che la domanda di
risarcimento del danno conseguente al mancato inserimento nel P.R.G. del Comune di
Fiesole, adottato nel 1971, tra le zone edificabili, dell'area di proprietà del resistente oggetto
di precedente convenzione di lottizzazione, stipulata nel 1964, è improponibile per difetto
assoluto di giurisdizione. Premette il ricorrente, in punto di fatto, che, giusta variante al
P.R.G. approvata nel 1984, per l'area di proprietà del Vitali era stata prevista destinazione
incompatibile con l'attuazione delle lottizzazione; che il P.R.G. del 1971 era stato riadottato
dal Comune, per la parte annullata dal Consiglio di Stato, con deliberazione del 20.3.1990,
con specifica motivazione relativa al mancato inserimento dell'area di proprietà del Vitali
oggetto della convenzione di lottizzazione del 1964, in quanto destinata a verde agricolo;
che il Consiglio di Stato, adito in sede di giudizio di ottemperanza della decisione del
22.1.1990, con decisione n. 800-95, aveva respinto il ricorso, sul rilievo che l'annullamento
del P.R.G. del 1971 per difetto motivazione non precludeva all'Amministrazione la
riproduzione dell'atto emendato del vizio accertato. Tanto precisato, osserva che, per
consolidato orientamento giurisprudenziale, il privato che aspiri alla realizzazione di
iniziative edificatorie è titolare, nei confronti della P.A., di una posizione di mero interesse
legittimo, e non già di diritto soggettivo perfetto, poiché a fronte della posizione del privato
vi sono le potestà pubblicistiche della P.A. in materia di disciplina dell'assetto del
territorio. Tale posizione non muta neppure a seguito della stipula di convenzione di
lottizzazione, poiché questa non determina la nascita di un diritto soggettivo nei confronti
del Comune, che mantiene il potere di mutare la disciplina dell'assetto del territorio, e
quindi di eliminare, con successive varianti dello strumento urbanistico generale, le
possibilità edificatorie previste dalla convenzione di lottizzazione. Consegue che, anche
dopo la stipula della convenzione di lottizzazione, l'aspettativa del privato ad edificare
concretamente (previo rilascio della concessione edilizia) è sempre da qualificare in
termini di interesse legittimo, sicché l'eventuale illegittimo esercizio del potere di
pianificazione del territorio deve essere denunciato davanti al giudice amministrativo. In
tal senso richiama le sentenze di questa S.C. n. 4587-76; n. 4833-80; n. 2951-81; n. 44288; n. 1589-90. Osserva ancora che non rileva l'avvenuto annullamento, da parte del
Consiglio di Stato, del P.R.G. del 1971, nella parte in cui non recepiva la convenzione di
lottizzazione, destinando la relativa area a verde agricolo, poiché, per giurisprudenza
costante, l'annullamento dell'atto amministrativo, denunciato dal privato come lesivo di un
interesse legittimo, non è di per sè idoneo a mutare la qualificazione della posizione del
privato nei confronti del potere di cui l'atto è espressione, che, essendo all'origine di
interesse legittimo, resta tale. In tale senso richiama le sentenze n. 4833-80; n. 2951-91; n.
442-88; n. 1589-90; n. 3963-94; 10800-94. Sostiene, conclusivamente, che, avendo
incontestabilmente natura di interesse legittimo la posizione giuridica soggettiva dedotta
dell'attore a fondamento della domanda di risarcimento dei danni, in applicazione del
remoto e costante orientamento della S.C., che esclude la risarcibilità degli interessi
legittimi, deve negarsi la sussistenza di una posizione soggettiva tutelata dall'ordinamento
e va dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione per improponibilità della domanda. In tal
senso richiama le sentenze n. 442-88; n. 7213-86; n. 4944-91; n. 3963-94. 2. Il ricorso
ripropone la questione della risarcibilità degli interessi legittimi, o meglio il problema della
configurabilità della responsabilità civile, ai sensi dell'art. 2043 c.c., della P.A. per il
risarcimento dei danni derivanti ai soggetti privati dalla emanazione di atti o di
provvedimenti amministrativi illegittimi, lesivi di situazioni di interesse legittimo.
È noto che questa S.C., con giurisprudenza definita dalla dottrina "monolitica" o
addirittura "pietrificata", è costante da vari decenni nel fornire una risposta
sostanzialmente negativa al quesito. Ritengono tuttavia queste S.U. di dover riconsiderare
il proprio orientamento. Non possono infatti essere ignorati: a) il radicale dissenso sempre
manifestato dalla quasi unanime dottrina, che ha criticato i presupposti dell'affermazione,
individuati nella tradizionale lettura dell'art. 2043 c.c. e denunciato come iniqua la
sostanziale immunità della P.A. per l'esercizio illegittimo della funzione pubblica che essa
determina; b) il progressivo formarsi di una giurisprudenza di legittimità volta ad ampliare
l'area della risarcibilità ex art. 2043 c.c., sia nei rapporti tra privati, incrementando il
novero delle posizioni tutelabili, che nei rapporti tra privati e P.A., valorizzando il nesso tra
interesse legittimo ed interesse materiale sottostante (elevato ad interesse direttamente
tutelato); c) le perplessità più volte espresse dalla Corte costituzionale circa l'adeguatezza
della tradizionale soluzione fornita all'arduo problema (sent. n. 35-1980; ord. n. 165-1998);
d) gli interventi legislativi di segno opposto alla irrisarcibilità, culminati nel d.lgs. n. 80 del
1998, che, nell'operare una cospicua ridistribuzione della competenza giurisdizionale tra
giudice ordinario e giudice amministrativo in base al criterio della giurisdizione esclusiva
per materia, ha attribuito in significativi settori al giudice amministrativo, investito di
giurisdizione esclusiva (comprensiva, quindi, delle questioni concernenti interessi legittimi
e diritti soggettivi), il potere di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma
specifica, il risarcimento del "danno ingiusto". 3. Ripercorrendo la giurisprudenza di
questa S.C., può constatarsi che il principio della irrisarcibilità degli interessi legittimi si è
formato e consolidato con il concorso di due elementi, l'uno di carattere formale (o meglio
processuale), l'altro di carattere sostanziale: a) il peculiare assetto del sistema di riparto
della giurisdizione nei confronti degli atti della P.A. tra giudice ordinario e giudice
amministrativo, incentrato sulla dicotomia diritto soggettivo - interesse legittimo e
caratterizzato dall'attribuzione ai due giudici di diverse tecniche di tutela (il giudice
amministrativo, che conosce degli interessi legittimi, può soltanto annullare l'atto lesivo
dell'interesse legittimo, ma non può pronunciare condanna al risarcimento in relazione alle
eventuali conseguenze patrimoniali dannose dell'esercizio illegittimo della funzione
pubblica, mentre il giudice ordinario, che pur dispone del potere di pronunciare sentenze
di condanna al risarcimento dei danni, non può conoscere degli interessi legittimi); b) la
tradizionale interpretazione dell'art. 2043 c.c., nel senso che costituisce "danno ingiusto"
soltanto la lesione di un diritto soggettivo, sul rilievo che l'ingiustizia del danno, che l'art.
2043 c.c. assume quale componente essenziale della fattispecie della responsabilità civile,
va intesa nella duplice accezione di danno prodotto non iure e contra ius; non iure, nel
senso che il fatto produttivo del danno non debba essere altrimenti giustificato
dall'ordinamento giuridico; contra ius, nel senso che il fatto debba ledere una situazione
soggettiva riconosciuta e garantita dall'ordinamento medesimo nella forma del diritto
soggettivo perfetto (sent. n. 4058-69; n. 2135-72; 5813-85; n. 8496-94; n. 1540-95). 3.1. Il
tema della irrisarcibilità degli interessi legittimi è stato in primo luogo affrontato ed
esaminato, da queste S.U., sotto il profilo del difetto di giurisdizione.
In relazione a fattispecie in cui il privato, ottenuto dal giudice amministrativo
l'annullamento dell'atto lesivo di una posizione avente la originaria consistenza di interesse
legittimo, aveva proposto davanti al giudice ordinario domanda di risarcimento dei danni
conseguenti alla lesione di detta posizione giuridica soggettiva (rimasta immutata nel suo
originario spessore malgrado l'annullamento del provvedimento negativo, poiché questo si
limita a ripristinare la situazione antecedente), le S.U., in sede di regolamento preventivo,
hanno
costantemente
dichiarato
il
difetto
assoluto
di
giurisdizione.
Hanno invero tratto argomento dall'avvenuto esaurimento della tutela erogabile in virtù
dell'ordinamento, poiché il giudice amministrativo aveva ormai fornito la tutela rimessa la
suo potere, mentre davanti al giudice ordinario non poteva essere proposta domanda di
risarcimento del danno da lesione di posizione avente la consistenza dell'interesse
legittimo, non essendo prevista dall'ordinamento, alla stregua del quale doveva essere
vagliata la pretesa secondo il criterio del c.d. petitum sostanziale (costantemente applicato
da questa S.C.), l'invocata tutela, perché riservata, ai sensi dell'art. 2043 c.c., ai soli diritti
soggettivi (in tal senso: sent. n. 1484-81; n. 4204-82; n. 6776-83; n. 5255-84; n. 436-88; n.
2723-91; n. 4944-91; n. 7550-91; n. 1186-97). In senso critico si è osservato, peraltro, che
l'adozione di una pronuncia siffatta, e cioè di una decisione che afferma l'inesistenza del
diritto azionato, resa in sede di regolamento preventivo determina, di fatto, una anticipata
decisione sfavorevole sul merito. Va ancora ricordato che, nella diversa ipotesi in cui la
pretesa risarcitoria fosse stata zionata davanti al giudice ordinario prima di aver ottenuto
dal giudice amministrativo l'annullamento dell'atto lesivo, la giurisprudenza di queste S.U.
ha invece dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo, configurandosi di fronte al
provvedimento autoritativo solo interessi legittimi (in tal senso: sent. n. 1917-90: n. 858691; n. 2857-92; n. 10800-94; n. 5520-96; n. 9478-97). I noti limiti della giurisdizione
amministrativa determinavano tuttavia la necessaria limitazione della successiva
pronuncia del giudice amministrativo alla sola pronuncia di annullamento, con
conseguente riproposizione della situazione dianzi illustrata. 3.2. Secondo un diverso
indirizzo di queste S.U., manifestatosi in tempi più recenti, la questione relativa alla
risarcibilità degli interessi legittimi non attiene propriamente alla giurisdizione, bensì
costituisce questione di merito. Si è infatti affermato che con la proposizione di una
domanda di risarcimento la parte istante fa valere un diritto soggettivo, sicché bene la
domanda è proposta davanti al giudice ordinario, che, in linea di principio, è giudice dei
diritti (a parte i casi di giurisdizione esclusiva), al quale spetta stabilire, giudicando nel
merito, sia se tale diritto esista e sia configurabile, sia se la situazione giuridica soggettiva
dalla cui lesione la parte sostenga esserle derivato danno sia tale da determinare, a carico
dell'autore del comportamento illecito, l'insorgere di una obbligazione risarcitoria (in tal
senso: sent. n. 10453-97; n. 1096-98; ma già in precedenza, per l'affermazione che si tratta
di questione di merito e non di giurisdizione, sent. n. 6667-92; n. 8836-94; n. 5477-95; n.
1030-96).
Va comunque rilevato che, in forza di tale indirizzo (che appare essenzialmente rivolto a
delimitare, restringendoli, i confini del regolamento preventivo, e non già ad incidere sul
tema di fondo della risarcibilità degli interessi legittimi), la decisione rimessa al giudice di
merito risulta comunque vincolata (e di segno negativo), in ragione della persistente
vigenza del principio che vuole limitata la risarcibilità ex art. 2043 c.c. al solo danno da
lesione di diritti soggettivi (non espressamente contrastato dalle dette decisioni). 3.3. Può
constatarsi, quindi, che i due menzionati orientamenti approdano entrambi al medesimo
risultato negativo circa la questione della risarcibilità dei danni conseguenti alla lesione
dell'interesse legittimo: a) nel primo caso, è la stessa S.C., in sede di regolamento
preventivo, a negare (anticipatamente) l'accesso alla tutela; b) nel secondo, la decisione
negativa è soltanto differita, essendo rimessa al giudice del merito l'adozione di una
pronuncia dal contenuto già prefigurato. Ed in entrambi i casi, in definitiva, l'ostacolo
insormontabile è costituito da una ragione di ordine sostanziale, e cioè dalla tradizionale
lettura dell'art. 2043 c.c., che identifica il "danno ingiusto" con la lesione di un diritto
soggettivo.
Ora, non può negarsi che dal descritto stato della giurisprudenza deriva una notevole
limitazione della responsabilità della P.A. nel caso di esercizio illegittimo della funzione
pubblica che abbia determinato diminuzioni o pregiudizi alla sfera patrimoniale del
privato. Ma una siffatta isola di immunità e di privilegio, va ancora rilevato, mal si concilia
con le più elementari esigenze di giustizia. Queste S.U. ritengono quindi di dover affrontare
alla radice il problema, riconsiderando la tradizionale interpretazione dell'art. 2043 c.c.,
che identifica il "danno ingiusto" con la lesione di un diritto soggettivo.
Interpretazione che, è bene precisarlo subito, pur costantemente riaffermata in termini di
principio, è stata poi frequentemente disattesa (o meglio aggirata) da una cospicua
giurisprudenza, che ha realizzato, di fatto, un notevole ampliamento dell'area della
risarcibilità dei danni ex art. 2043 c.c., ponendo così le premesse per il definitivo
abbandono
dell'interpretazione
tradizionale.
Di tale percorso è opportuno ripercorrere i punti salienti. 4. È noto che la giurisprudenza di
questa S.C. ha compiuto una progressiva erosione dell'assolutezza del principio che vuole
risarcibile, ai sensi dell'art. 2043 c.c, soltanto la lesione del diritto soggettivo, procedendo
ad un costante ampliamento dell'area della risarcibilità del danno aquiliano, quantomeno
nei rapporti tra privati. Un primo significativo passo in tale direzione è rappresentato dal
riconoscimento della risarcibilità non soltanto dei diritti assoluti, come si riteneva
tradizionalmente, ma anche dei diritti relativi (va ricordata anzitutto la sent. n. 174-71, alla
quale si deve la prima affermazione del principio, successivamente ribadita da varie
pronunce, che esprimono un orientamento ormai consolidato: sent. n. 2105-80; n. 555-84;
n. 5699-86; n. 9407-87). È quindi seguito il riconoscimento della risarcibilità di varie
posizioni giuridiche, che del diritto soggettivo non avevano la consistenza, ma che la
giurisprudenza di volta in volta elevava alla dignità di diritto soggettivo: è il caso del c.d.
diritto all'integrità del patrimonio o alla libera determinazione negoziale, che ha avuto
frequenti applicazioni (sent. n. 2765-82; n. 4755-86; n. 1147-92; n. 3903-95), ed in
relazione al quale è stata affermata, tra l'altro, la risarcibilità del danno da perdita di
chance, intesa come probabilità effettiva e congrua di conseguire un risultato utile, da
accertare secondo il calcolo delle probabilità o per presunzioni (sent. n. 6506-85; n. 665791; n. 781-92; n. 4725-93). Ma ancor più significativo è stato il riconoscimento della
risarcibilità della lesione di legittime aspettative di natura patrimoniale nei rapporti
familiari (sent. n. 4137-81; n. 6651-82; n. 1959-95), ed anche nell'ambito della famiglia di
fatto (sent. n. 2988-94), purché si tratti, appunto, di aspettative qualificabili come
"legittime" (e non di mere aspettative semplici), in relazione sia a precetti normativi che a
principi etico - sociali di solidarietà familiare e di costume. Siffatta evoluzione
giurisprudenziale è stata condivisa nella sostanza della dottrina, che ha apprezzato le
ragioni di giustizia che la ispiravano, ma ha tuttavia avuto buon gioco nel rilevare che la
S.C., pur riaffermando il principio dell'identificazione del "danno ingiusto" con la lesione
del diritto soggettivo, in pratica lo disattendeva sempre più spesso, "mascherando" da
diritto soggettivo situazioni che non avevano tale consistenza, come il preteso diritto
all'integrità del patrimonio, le aspettative, le situazioni possessorie. La via maestra che la
dottrina suggeriva era invece quella di prendere atto che l'art. 2043 c.c. non costituisce
norma secondaria (di sanzione) rispetto a norme primarie (di divieto), ma racchiude in sè
una clausola generale primaria, espressa dalla formula "danno ingiusto", in virtù della
quale è risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell'ingiustizia, in quanto lesivo
di interessi ai quali l'ordinamento, prendendoli in considerazione sotto vari profili
(esulanti dalle tematiche del risarcimento), attribuisce rilevanza. 5. Maggior resistenza ha
mostrato invece la giurisprudenza di questa S.C. in riferimento alla risarcibilità degli
interessi legittimi. Ma anche sotto tale profilo risulta che la soluzione negativa ha visto
progressivamente ristretto il suo ambito di applicazione, grazie ad operazioni di
trasfigurazione di alcune figure di interesse legittimo in diritti soggettivi, con conseguente
apertura dell'accesso alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., a questi ultimi
tradizionalmente riservata. Ciò è stato possibile focalizzando l'attenzione sull'interesse
materiale sotteso (o correlato) all'interesse legittimo. L'interesse legittimo non rileva infatti
come situazione meramente processuale, quale titolo di legittimazione per la proposizione
del ricorso al giudice amministrativo, del quale non sarebbe quindi neppure ipotizzabile
lesione produttiva di danno patrimoniale, ma ha anche natura sostanziale, nel senso che si
correla ad un interesse materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione (in termini
di sacrificio o di insoddisfazione) può concretizzare danno. Anche nei riguardi della
situazione di interesse legittimo l'interesse effettivo che l'ordinamento intende proteggere è
pur sempre l'interesse ad un bene della vita: ciò che caratterizza l'interesse legittimo e lo
distingue dal diritto soggettivo è soltanto il modo o la misura con cui l'interesse sostanziale
ottiene protezione. L'interesse legittimo va quindi inteso (ed ormai in tal senso viene
comunemente inteso) come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione
ad un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo e consistente
nell'attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere,
in modo da rendere possibile la realizzazione dell'interesse al bene.
In altri termini, l'interesse legittimo emerge nel momento in cui l'interesse del privato ad
ottenere o a conservare un bene della vita viene a confronto con il potere amministrativo, e
cioè con il potere della P.A. di soddisfare l'interesse (con provvedimenti ampliativi della
sfera giuridica dell'istante), o di sacrificarlo (con provvedimenti ablatori). Si delinea così,
in riferimento alle diverse forme della protezione, la distinzione, ormai acquisita e di uso
corrente, tra "interessi oppositivi" ed "interessi pretensivi", secondo che la protezione sia
conferita al fine di evitare un provvedimento sfavorevole ovvero per ottenere un
provvedimento favorevole: i primi soddisfano istanze di conservazione della sfera giuridica
personale e patrimoniale del soggetto; i secondi istanze di sviluppo della sfera giuridica
personale e patrimoniale del soggetto. Altre distinzioni sono certamente configurabili, in
relazione a diversi profili - atteso che la categoria dell'interesse legittimo si palesa unitaria
solo con riferimento all'accesso alla giurisdizione generale di legittimità del giudice
amministrativo, e cioè ai fini dell'annullamento in sede giurisdizione del provvedimento
illegittimo, mentre si diversifica ed assume varie configurazioni se considerata a fini
diversi, ivi compreso quello della eventuale tutela risarcitoria -, ma soltanto a quella
suindicata ritiene il Collegio di limitare la sua attenzione, in ragione della rilevanza che ha
assunto, come subito si vedrà, nel tema in esame. 5.1. Con riferimento agli interessi
legittimi, la giurisprudenza di questa S.C., pur riaffermandone in linea di principio la
irrisarcibilità (non già per ragioni inerenti alla sua assenza, ma) quale necessario corollario
della lettura tradizionale dell'art. 2043 c.c., ha manifestato una tendenza progressivamente
estensiva dell'area della risarcibilità (dei danni derivanti dalla lesione di alcune figure di
interesse legittimo), nel caso di esercizio illegittimo della funzione pubblica mediante
attività giuridiche. Nessun limite è stato invece ravvisato, come è noto, in relazione ai
comportamenti materiali della P.A., indiscussa fonte di responsabilità aquiliana (possono
ricordarsi le seguenti pronunce: sent. n. 737-70; n. 2851-76; n. 9550-92; n. 3939-96).
Ed ulteriore estensione del principio ha riguardato la violazione dei c.d. limiti esterni della
discrezionalità, ravvisata in ipotesi in cui la P.A., omettendo di svolgere attività di vigilanza
o di informazione, o compiendo erroneamente attività di certificazione, aveva determinato
danni a terzi (vanno menzionate in proposito: sent. n. 6667-92; n. 8836-94; n. 9593-94; n.
5477-95; n. 1030-96). La tecnica è stata assai simile a quella, già descritta, utilizzata per
ampliare l'area della risarcibilità ex art. 2043 c.c. nei rapporti tra privati, e cioè l'elevazione
di determinate figure di interessi legittimi (diversificate per contenuto e forme di
protezione) a diritti soggettivi. Ciò si verifica, infatti, quando si ammette la risarcibilità del
c.d. diritto affievolito, e cioè dell'originaria situazione di diritto soggettivo incisa da un
provvedimento illegittimo che sia stato poi annullato dal giudice amministrativo con
effetto ripristinatorio retroattivo (in tal senso, tra le pronunce risalenti: sent. n. 543-69; n.
5428-79; tra quelle più recenti: sent. n. 12317-92; n. 6542-95). La vicenda può invero
essere anche intesa in termini di tutela di un "interesse legittimo oppositivo", considerando
che il provvedimento illegittimo estingue il diritto soggettivo, ed il privato riceve tutela
grazie alla facoltà di reazione propria dell'interesse legittimo, prima davanti al giudice
amministrativo, per l'eliminazione dell'atto, e successivamente davanti al giudice
ordinario, che dispone del potere di condanna al risarcimento, per la riparazione delle
ulteriori conseguenze patrimoniali negative. L'esigenza di ravvisare un diritto soggettivo
che rinasce è palesemente dettata dalla necessità di muoversi nell'area tradizionale dell'art.
2043 c.c.. Ed analoga considerazione può valere in relazione all'ipotesi (che costituisce
sviluppo di quella precedente) della c.d. riespansione della quale beneficia anche il diritto
soggettivo (non originario ma) nascente da un provvedimento amministrativo, qualora sia
stato annullato il successivo provvedimento caducatorio dell'atto fonte della posizione di
vantaggio (tra le più rilevanti decisioni che accolgono tale ricostruzione, apparsa alla
dottrina alquanto "barocca", possono ricordarsi: sent. n. 5145-79; sent. n. 5027-92; sent. n.
2443-83; sent. n. 656-86; sent. n. 2436-97; sent. n. 3384-98). Anche nell'ambito di tale
vicenda può invero rilevarsi che il privato, una volta acquisita in forza del provvedimento
amministrativo (di concessione, autorizzazione, licenza, ammissione, iscrizione e così via)
la posizione di vantaggio, risulta titolare di un "interesse legittimo oppositivo" alla
illegittima rimozione della detta situazione, del quale si avvale utilmente sia per eliminare
l'atto, sia per ottenere la reintegrazione dell'eventuale pregiudizio patrimoniale sofferto
(rivolgendosi in successione ai due diversi giudici, poiché nessuno dei due è titolare di
giurisdizione piena: ed è palese la macchinosità del sistema che, di regola, richiede tempi
lunghissimi). Vale, anche in riferimento a tale ulteriore ipotesi, l'osservazione già svolta
circa le ragioni che imponevano di ravvisare un diritto soggettivo. 5.2. Da quanto detto
emerge un assetto giurisprudenziale caratterizzato dalla limitazione della tutela piena (di
annullamento e, successivamente, risarcitoria, nelle due diverse sedi) ai soli "interessi
legittimi oppositivi" (elevati a diritti soggettivi mediante operazioni di trasfigurazione), con
esclusione, quindi, dei soli "interessi legittimi pretensivi" (che invece una autorevole
dottrina avrebbe voluto "promuovere", considerandoli come "diritti in attesa di
espansione").
È questo il caso, emblematico, della c.d. aspettativa edilizia: la giurisprudenza di questa
S.C. dopo aver ravvisato nello ius aedificandi una posizione di diritto soggettivo (sent. n.
1324-61; n. 800-63), ha infatti successivamente qualificato come interesse legittimo
(pretensivo) la posizione del privato che aspiri al rilascio della licenza edilizia (possono
ricordarsi, ad esempio: sent. n. 1589-90; n. 2382-92; n. 3732-94). Posizione che non muta
la sua originaria consistenza anche nel caso in cui il provvedimento di diniego venga
annullato, poiché l'eliminazione dell'atto negativo riproduce la situazione preesistente,
suscettiva di evolversi in senso favorevole o sfavorevole in relazione all'esercizio del potere
amministrativo di accogliere o disattendere le istanze di sviluppo della sfera giuridica
dell'istante.
Ma anche l'affermazione testè enunciata, circa l'irrisarcibilità degli interessi legittimi
pretensivi va rettificata, per negare l'assolutezza. Nella giurisprudenza di questa S.C. è dato
infatti individuare anche ipotesi nelle quali è stata riconosciuta la risarcibilità di interessi
legittimi pretensivi: si tratta di casi, puntualmente segnalati dalla dottrina, degli interessi
legittimi pretensivi lesi da fatto - reato (sent. n. 5813-85 e n. 1540-95, entrambe relative ad
ipotesi di aspettative di avanzamento di carriera o di assegnazione di funzioni superiori da
parte di pubblici dipendenti, frustrate da procedure concorsuali irregolari nelle quali era
stata ravvisata ipotesi di reato: in tal caso il limite tradizionale dell'art. 2043 c.c. è stato
superato applicando l'art. 185 c.p., che non richiede l'ingiustizia del danno).
E va ancora ricordato che, ritenendosi configurabile una posizione di interesse legittimo
(pretensivo) anche nei rapporti tra privati, questa S.C., ha riconosciuto la risarcibilità della
lesione di tale posizione per effetto dell'illegittimo esercizio di "poteri privati" (nella specie
nell'ambito di un rapporto di lavoro con un ente pubblico economico) (sent. n. 5668-79).
5.3. Può quindi concludersi, in esito alla compiuta rassegna (meramente esemplificativa, e
quindi senza pretese di completezza), che anche il principio della irrisarcibilità degli
interessi legittimi (pretensivi, in quanto per quelli oppositivi il limite è stato superato con
le tecniche sopra descritte), malgrado sia tenacemente ribadito, risulta meno granitico di
quanto comunemente si ritiene. Una nuova lettura della giurisprudenza di questa s.c., più
attenta a coglierne la progressiva evoluzione, consente quindi di ritenere che il principio
risulta ormai vacillante, e che sono maturi i tempi per una sua radicale revisione, cogliendo
l'intimo significato di una linea di tendenza già presente in singole pronunce di questa S.C.
(nella quale non sono mancate espresse sollecitazioni a superare l'orientamento
tradizionale: v., in tal senso, l'obiter della sentenza n. 4083-96, al quale la dottrina ha dato
particolare risalto, leggendolo come sintomo di una disagio interno alla C.S. a fronte della
perdurante riaffermazione del principio negativo). 6. Concorrono altresì a giustificare un
ripensamento della soluzione negativa i vari interventi di segno contrario all'affermato
principio dell'irrisarcibilità degli interessi legittimi che si rinvengono nella recente
legislazione. 6.1. Va anzitutto ricordato il riconoscimento, sotto la spinta dell'ordinamento
comunitario, dell'azione di risarcimento (davanti al giudice ordinario previo annullamento
dell'atto ad opera del giudice amministrativo) ai soggetti che abbiano subito una lesione a
causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di
lavori o di forniture (art. 13 della legge n. 142 del 1990, di recepimento della direttiva
comunitaria n. 665-89, la cui disciplina è stata successivamente estesa agli appalti di
servizi ed ai c.d. settori esclusi; la disposizione è stata peraltro abrogata dall'art. 35, comma
5 del d.lgs. n. 80 del 1998). Sul rilievo che il diritto comunitario non conosce la distinzione
tra diritti soggettivi ed interessi legittimi e che nella suindicata materia il privato (secondo
il nostro ordinamento) è titolare di posizioni di interesse legittimo, si è sostenuto che la
menzionata normativa avrebbe introdotto nel nostro ordinamento una ipotesi di
risarcibilità di interessi legittimi, e si è suggerito di riconoscerle forza espansiva
ultrasettoriale, così conformando l'ordinamento interno a quello comunitario (il cui
primato è ormai incontroverso) ed evitando disparità di trattamento, nell'ordinamento
interno, nell'ambito della generale figura dell'interesse legittimo. Il suggerimento non è
stato tuttavia accolto da questa S.C., che ha ritenuto di attribuire alla suindicata normativa
carattere eccezionale, traendone conferma del principio, costantemente affermato, della
irrisarcibilità, non suscettivo di essere posto in discussione da una norma dettata con
riferimento ad uno specifico settore (sent. n. 2667-93; n. 3732-94; n. 10800-94).
Si tratta tuttavia di un indirizzo formatosi in riferimento al contingente assetto del diritto
positivo, suscettivo quindi di riconsiderazione a fronte di successive modifiche
dell'ordinamento: e modifiche consistenti si sono in effetti verificate, come ora si vedrà.
6.2. In contrapposizione al diniego, opposto da questa S.C. con le suindicate sentenze, di
rivedere il tradizionale orientamento negativo, si rinvengono anzitutto, sul piano
legislativo, ulteriori tentativi di ampliamento della responsabilità civile della P.A. per danni
conseguenti all'esercizio illegittimo della funzione pubblica. Tra questi va menzionato, a
titolo esemplificativo, quello perseguito dall'art. 32 della legge n. 109 del 1994, recante la
previsione del rimedio risarcitorio, nelle forme di cui al citato art. 13 della legge n. 142 del
1990, in materia di appalti pubblici, ma non realizzato, perché la legge fu successivamente
sospesa e la suindicata norma venne poi sostituita dall'art. 9-bis del d.l. n. 101 del 1995
(NDR: L. 02.06.1995 n. 216 art. 9 bis), introdotto dalla legge di conversione n. 216 del
1995, che non confermò il rimedio. Merita un cenno anche l'art. 5, comma 8, del d.l. n. 101
del 1993, che prevedeva la responsabilità del soggetto responsabile del procedimento per i
danni arrecati al singolo per il ritardo nel rilascio della concessione edilizia, ma che non
trovò conferma nella legge di conversione n. 493 del 1993 (un esauriente catalogo degli
interventi legislativi, non approdati ad esito positivo, è racchiuso nell'ord. n. 165 del 1998
della Corte costituzionale, che ne sottolinea comunque la natura "settoriale").
No vale opporre che si tratta di iniziative che, per varie ragioni, non hanno avuto
realizzazione, poiché anche tali interventi, solo tentati, dimostrano l'esistenza di una
situazione in via di evoluzione, contrassegnata dalla consapevolezza del legislatore circa
l'inadeguatezza della soluzione offerta dalla giurisprudenza in materia di responsabilità
civile della P.A. per l'esercizio illegittimo della funzione pubblica. 6.3. In tale quadro
evolutivo si inserisce appunto, con indubbia forza innovativa, la disciplina introdotta dal
d.lgs. n. 80 del 1998, con il quale è stata data attuazione alla delega contenuta nell'art. 11,
comma 4, lettera q), della legge n. 59 del 1997, che aveva previsto la devoluzione al giudice
ordinario di tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti della P.A. (già
attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo), e la contestuale
estensione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo alle controversie aventi
ad oggetto diritti patrimoniali conseguenziali, ivi comprese quelle concernenti il
risarcimento dei danni, in materia di edilizia, urbanistica e servizi pubblici.
L'art. 29 del d.lgs. n. 80 del 1998 (che ha sostituito l'art. 68 del d.lgs. n. 29 del 1993) ha
invero devoluto al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, la quasi totalità delle
controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni
(già riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo), con potere di
disapplicazione, in via incidentale, degli atti amministrativi presupposti, se illegittimi (con
esclusione della c.d. pregiudizialità amministrativa nel caso di contemporanea pendenza
del giudizio di impugnazione dell'atto davanti al giudice amministrativo: art. 68, comma 1,
nel nuovo testo), e di adozione di tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi,
estintivi
e
di
condanna
(art.
68,
comma
2,
nel
nuovo
testo).
A loro volta gli artt. 33 e 34 hanno devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi (art. 33), nonché quelle
aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti ed i comportamenti delle amministrazioni
pubbliche in materia urbanistica ed edilizia (art. 34), mentre l'art. 35, comma 1, ha stabilito
che il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai
sensi degli artt. 33 e 34, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il
risarcimento del "danno ingiusto" (secondo modalità disciplinate dal comma 2).
Risulta in tal modo compiuta dal legislatore una decisa scelta nel senso del superamento
del tradizionale sistema del riparto della giurisdizione in riferimento alla dicotomia diritto
soggettivo - interesse legittimo, a favore della previsione di un riparto affidato al criterio
della materia. In particolare, per quanto concerne il giudice amministrativo, viene
delineata una nuova giurisdizione esclusiva su determinate materie (di rilevante interesse
sociale ed economico): nuova (rispetto a quella preesistente) perché nel contempo
esclusiva, nel significato tradizionale di giurisdizione amministrativa indifferentemente
estesa alla cognizione degli interessi legittimi e dei diritti, e piena, in quanto non più
limitata all'eliminazione dell'atto illegittimo, ma estesa alla reintegrazione delle
conseguenze patrimoniali dannose dell'atto, perché comprensiva del potere di disporre il
risarcimento del "danno ingiusto" (già precluso dall'art. 7, comma 3, della legge n. 1034 del
1971, che riservava al giudice ordinario, anche nelle materie attribuite alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, le questioni relative ai diritti patrimoniali
conseguenziali, comunemente identificati con il risarcimento del danno, e che è stato
abrogato in tale parte dall'art. 35, comma 4, con conseguente estensione dei poteri del
giudice amministrativo anche nelle ulteriori ipotesi di giurisdizione esclusiva previste da
altre norme precedenti). Ora, non può negarsi che la suindicata disciplina incide in modo
significativo sul tema della risarcibilità degli interessi legittimi, sia sotto il profilo
strettamente processuale, concernente il riparto delle competenze giurisdizionali, sia sotto
il profilo sostanziale, in quanto coinvolge il generale tema dell'ambito della responsabilità
civile ex art. 2043 c.c. Per quanto riguarda il primo profilo, va osservato, in primo luogo,
che l'opzione a favore di una estensione delle ipotesi di giurisdizione esclusiva, per la cui
individuazione rileva la materia e non già la qualificazione della posizione giuridica
soggettiva in termini di interesse legittimo o di diritto soggettivo, determina una sensibile
attenuazione della generale rilevanza della distinzione tra le due figure (che pur permane
nei settori non coperti dalla giurisdizione esclusiva, sicché la categoria dell'interesse
legittimo continua a porsi come figura essenziale - ed unitaria - ai fini dell'accesso alla
giurisdizione amministrativa di annullamento); in secondo luogo, che la scelta, compiuta
dal legislatore, di realizzare davanti al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione
esclusiva, con cognizione estesa indifferentemente agli interessi legittimi ed ai diritti
soggettivi, in riferimento a vasti e rilevanti settori della vita sociale ed economica (i
pubblici servizi, l'urbanistica e l'edilizia), la concentrazione di una tutela potenzialmente
esaustiva per la posizione soggettiva lesa dall'esercizio illegittimo della funzione pubblica,
sembra implicare la volontà di equiparare, quanto a tutela giurisdizionale, le due posizioni
(che, è bene ribadirlo, gli artt. 24 e 113 Cost. pongono su un piano di pari dignità), e di
assicurare effettività alla tutela giurisdizionale, evitando la necessità del successivo ricorso
a due giudici diversi (che costituisce grave limitazione dell'effettività della tutela
giurisdizionale, ed il cui abbandono, espressamente ribadito anche in relazione alla nuova
giurisdizione del lavoro dall'art. 29 del d. lgs. 80 del 1998, non può che essere salutato con
favore).
Quanto al secondo profilo, va rilevato che di particolare interesse è il richiamo, contenuto
nell'art. 35, comma 1, nella parte in cui estende la tutela anche al risarcimento dei danni,
alla clausola "danno ingiusto". È infatti inequivocabile il riferimento all'analoga
espressione che si rinviene nell'art. 2043 c.c., ma non può negarsi che l'effettuato richiamo
si presta ad una duplice lettura: a) nel senso che il legislatore abbia avuto presente il
"danno ingiusto" come inteso dalla giurisprudenza "pietrificata" della S.C., e quindi come
lesione dei soli diritti soggettivi; b) nel senso che la formula "danno ingiusto" sia stata
consapevolmente impiegata nell'accezione più ampia, che pur vive nelle opinioni della
generalità della dottrina e che il legislatore aveva già in precedenza mostrato di voler fare
propria, con tentativi di scarsa efficacia. Si conferma, quindi, la già avvertita esigenza di
affrontare alla radice il problema, compiendo una scelta tra le due contrapposte letture
dell'art. 2043 c.c., incentrate sulla diversa qualificazione del "danno ingiusto". 7. Una
indiretta sollecitazione nel suindicato senso si può cogliere, d'altra parte, anche nelle già
ricordate pronunce con le quali la Corte costituzionale non ha mancato di rilevare come la
tesi che vuole non risarcibili i danni patrimoniali cagionati dall'esercizio illegittimo della
funzione pubblica a posizioni di interesse legittimo, in base ad una delle possibili
interpretazioni dell'art. 2043 c.c., determina l'insorgere di un problema di indubbia
gravità, che richiede "prudenti soluzioni normative, non solo nella disciplina sostanziale
ma anche nel regolamento delle competenze giurisdizionali" (sent. n. 35-89), "e nelle scelte
tra misure risarcitorie, indennitarie, reintegrative in forma specifica e ripristinatorie, ed
infine nella delimitazione delle utilità economiche suscettibili di ristoro patrimoniale nei
confronti della P.A." (ord. n. 165-98). Il monito, o l'invito, ancorché riferito al legislatore,
non può infatti non coinvolgere anche questa S.C., poiché anche alla giurisprudenza di
legittimità è consentito di intervenire con efficacia nella dibattuta questione, nell'esercizio
del suo potere di interpretare le norme, procedendo a riconsiderare la tradizionale
interpretazione del concetto di "danno ingiusto". 8. È noto che l'opinione tradizionale,
formatasi dopo l'entrata in vigore del codice civile del 1942, secondo la quale la
responsabilità aquiliana si configura come sanzione di un illecito, si fonda sulle seguenti
affermazioni: l'art. 2043 c.c. prevede l'obbligo del risarcimento del danno quale sanzione
per una condotta che si qualifica come illecita, sia perché contrassegnata dalla colpa del
suo autore, sia perché lesiva di una posizione giuridica della vittima tutelata erga omnes da
altra norma primaria; l'ingiustizia menzionata dall'art. 2043 c.c. è male riferita al danno,
dovendo piuttosto essere considerata attribuito della condotta, ed identificata con
l'illiceità, da intendersi nel duplice senso suindicato; la responsabilità acquiliana (*)
postula quindi che il danno inferto presenti la duplice caratteristica di essere contra ius, e
cioè lesivo di un diritto soggettivo (assoluto), e non iure, e cioè derivante da un
comportamento non giustificato da altra norma. In senso contrario, aderendo ai rilievi
critici che la dottrina assolutamente prevalente ha mosso alle suindicate affermazioni, può
tuttavia osservarsi, per un verso, che non emerge dal tenore letterale dell'art. 2043 c.c. che
oggetto della tutela risarcitoria sia esclusivamente il diritto soggettivo (e tantomeno il
diritto assoluto, come ha convenuto la giurisprudenza di questa S.C. con la sentenza n. 17471, con orientamento divenuto poi costante); per altro verso, che la scissione della formula
"danno ingiusto", per riferire l'aggettivazione alla condotta, costituisce indubbia forzatura
della lettera della norma, secondo la quale l'ingiustizia è requisito del danno.
Non può negarsi che nella disposizione in esame risulta netta la centralità del danno, del
quale viene previsto il risarcimento qualora sia "ingiusto", mentre la colpevolezza della
condotta (in quanto contrassegnata da dolo o colpa) attiene all'imputabilità della
responsabilità.
L'area della risarcibilità non è quindi definita da altre norme recanti divieti e quindi
costitutive di diritti (con conseguente tipicità dell'illecito in quanto fatto lesivo di ben
determinate situazioni ritenute dal legislatore meritevoli di tutela), bensì da una clausola
generale, espressa dalla formula "danno ingiusto", in virtù della quale è risarcibile il danno
che presenta le caratteristiche dell'ingiustizia, e cioè il danno arrecato non iure, da
ravvisarsi nel danno inferto in difetto di una causa di giustificazione (non iure), che si
risolve nella lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento (altra opinione ricollega
l'ingiustizia del danno alla violazione del limite costituzionale di solidarietà, desumibile
dagli artt. 2 e 41, comma 2, Cost., in riferimento a preesistenti situazioni del soggetto
danneggiato giuridicamente rilevanti, e sotto tale ultimo profilo le tesi sostanzialmente
convergono).
Ne consegue che la norma sulla responsabilità aquiliana non è norma (secondaria), volta a
sanzionare una condotta vietata da altre norme (primarie), bensì norma (primaria) volta
ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto
dell'attività
altrui.
In definitiva, ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo
determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto,
poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che
costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse
giuridicamente rilevante. Quali siano gli interessi meritevoli di tutela non è possibile
stabilirlo a priori: caratteristica del fatto illecito delineato dall'art. 2043 c.c., inteso nei
sensi suindicati come norma primaria di protezione, è infatti la sua atipicità. Compito del
giudice, chiamato ad attuare la tutela ex art. 2043 c.c., è quindi quello di procedere ad una
selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, poiché solo la lesione di un interesse
siffatto può dare luogo ad un "danno ingiusto", ed a tanto provvederà istituendo un
giudizio di comparazione degli interessi in conflitto, e cioè dell'interesse effettivo del
soggetto che si afferma danneggiato, e dell'interesse che il comportamento lesivo
dell'autore del fatto è volto a perseguire, al fine di accertare se il sacrificio dell'interesse del
soggetto danneggiato trovi o meno giustificazione nella realizzazione del contrapposto
interesse
dell'autore
della
condotta,
in
ragione
della
sua
prevalenza.
Comparazione e valutazione che, è bene precisarlo, non sono rimesse alla discrezionalità
del giudice, ma che vanno condotte alla stregua del diritto positivo, al fine di accertare se, e
con quale consistenza ed intensità, l'ordinamento assicura tutela all'interesse del
danneggiato, con disposizioni specifiche (così risolvendo in radice il conflitto, come
avviene nel caso di interesse protetto nella forma del diritto soggettivo, soprattutto quando
si tratta di diritti costituzionalmente garantiti o di diritti della personalità), ovvero
comunque lo prende in considerazione sotto altri profili (diversi dalla tutela risarcitoria),
manifestando così una esigenza di protezione (nel qual caso la composizione del conflitto
con il contrapposto interesse è affidata alla decisione del giudice, che dovrà stabilire se si è
verificata una rottura del "giusto" equilibrio intersoggettivo, e provvedere a ristabilirlo
mediante il risarcimento). In particolare, nel caso (che qui interessa) di conflitto tra
interesse individuale perseguito dal privato ed interesse ultraindividuale perseguito dalla
P.A., la soluzione non è senz'altro determinata dalla diversa qualità dei contrapposti
interessi, poiché la prevalenza dell'interesse ultraindividuale, con correlativo sacrificio di
quello individuale, può verificarsi soltanto se l'azione amministrativa è conforme ai
principi di legalità e di buona amministrazione, e non anche quando è contraria a tali
principi (ed è contrassegnata, oltre che da illegittimità, anche dal dolo o dalla colpa, come
più avanti si vedrà). 9. Una volta stabilito che la normativa sulla responsabilità aquiliana
ha funzione di riparazione del "danno ingiusto", e che è ingiusto il danno che
l'ordinamento non può tollerare che rimanga a carico della vittima, ma che va trasferito
sull'autore del fatto, in quanto lesivo di interessi giuridicamente rilevanti, quale che sia la
loro qualificazione formale, ed in particolare senza che assuma rilievo determinante la loro
qualificazione in termini di diritto soggettivo, risulta superata in radice, per il venir meno
del suo presupposto formale, la tesi che nega la risarcibilità degli interessi legittimi quale
corollario della tradizionale lettura dell'art. 2043 c.c. La lesione di un interesse legittimo, al
pari di quella di un diritto soggettivo o di altro interesse (non di mero fatto ma)
giuridicamente rilevante, rientra infatti nella fattispecie della responsabilità aquiliana solo
ai fini della qualificazione del danno come ingiusto. Ciò non equivale certamente ad
affermare la indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale.
Potrà infatti pervenirsi al risarcimento soltanto se l'attività illegittima della P.A. abbia
determinato la lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo,
secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta
meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento. In altri termini, la lesione
dell'interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela
risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell'attività
illegittima (e colpevole) della P.A., l'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo
si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce
dell'ordinamento positivo. Per quanto concerne gli interessi legittimi oppositivi, potrà
ravvisarsi danno ingiusto nel sacrificio dell'interesse alla conservazione del bene o della
situazione di vantaggio conseguente all'illegittimo esercizio del potere. Così confermando,
nel risultato al quale si perviene, il precedente orientamento, qualora il detto interesse sia
tutelato nelle forme del diritto soggettivo, ma ampliandone la portata nell'ipotesi in cui
siffatta forma di tutela piena non sia ravvisabile e tuttavia l'interesse risulti giuridicamente
rilevante nei sensi suindicati. Circa gli interessi pretensivi, la cui lesione si configura nel
caso di illegittimo diniego del richiesto provvedimento o di ingiustificato ritardo nella sua
adozione, dovrà invece vagliarsi la consistenza della protezione che l'ordinamento riserva
alle istanze di ampliamento della sfera giuridica del pretendente. Valutazione che implica
un giudizio prognostico, da condurre in riferimento alla normativa di settore, sulla
fondatezza o meno della istanza, onde stabilire se il pretendente fosse titolare non già di
una mera aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettiva di
determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva, e cioè di una
situazione che, secondo la disciplina applicabile, era destinata, secondo un criterio di
normalità, ad un esito favorevole, e risultava quindi giuridicamente protetta. 10. Occorre
ora chiedersi quali conseguenze comporta la nuova lettura della normativa sulla
responsabilità aquiliana in tema di riparto di giurisdizione. La questione, dovendo la Corte
pronunciarsi nell'ambito di un giudizio pendente alla data del 30.6.1998, va esaminata con
riferimento alla disciplina vigente, in tema di riparto della giurisdizione tra giudice
ordinario e giudice amministrativo, anteriormente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 80 del
1998, che ha introdotto le già richiamate significative innovazioni circa il criterio di riparto.
La nuova normativa trova infatti applicazione, secondo quando prevede la disciplina
transitoria dettata dall'art. 45, comma 18, in relazione alle controversie di cui agli artt. 33 e
34 instaurate a partire dal 1.7.1998, mentre resta ferma la giurisdizione prevista dalla
precedente normativa per i giudizi pendenti alla data del 30.6.1998. Ora, ritengono queste
S.U. che, alla stregua della nuova lettura dell'art. 2043 c.c., va senz'altro confermato, con le
necessarie precisazioni, l'indirizzo secondo il quale non dà luogo a questione di
giurisdizione, ma attiene al merito, la contestazione circa la risarcibilità degli interessi
legittimi.
Deve infatti ribadirsi, ai fini del giudizio sulla giurisdizione, in relazione ai giudizi pendenti
alla data del 30.6.1998: a) che l'azione di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. nei
confronti della P.A. per esercizio illegittimo della funzione pubblica bene è proposta
davanti al giudice ordinario, quale giudice al quale spetta, in linea di principio (secondo il
previgente ordinamento), la competenza giurisdizionale a conoscere di questioni di diritto
soggettivo, poiché tale natura esibisce il diritto al risarcimento del danno, che è diritto
distinto dalla posizione giuridica soggettiva la cui lesione è fonte di danno ingiusto (che
può avere, indifferentemente, natura di diritto soggettivo, di interesse legittimo, nelle sue
varie configurazioni correlate alle diverse forme della protezione, o di interesse comunque
rilevante per l'ordinamento); b) che stabilire se la fattispecie di responsabilità della P.A.
per atti o provvedimenti illegittimi dedotta in giudizio sia riconducibile nel paradigma
dell'art. 2043 c.c., secondo la nuova lettura, costituisce questione di merito, atteso che
l'eventuale incidenza della lesione su una posizione di interesse legittimo non deve essere
valutata ai fini della giurisdizione, bensì ai fini della qualificazione del danno come
ingiusto, in quanto lesivo di un interesse giuridicamente rilevante; c) che una questione di
giurisdizione è configurabile soltanto se sussiste, in relazione alla materia nella quale è
sorta la fattispecie, una giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, estesa alla
cognizione dei diritti patrimoniali conseguenziali, e quindi delle questioni relative al
risarcimento dei danni (ipotesi che non si ravvisa nel caso in esame, poiché, pur vigendo, ai
sensi dell'art. 16 della legge n. 10 del 1977, la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo in tema di diniego di concessione edilizia, tale giurisdizione non è estesa ai
diritti patrimoniali conseguenziali in ragione del limite posto dall'art. 7 della legge n. 1034
del 1971). 11. Per quanto concerne, invece, il merito della pretesa, la nuova lettura dell'art.
2043 c.c. alla quale queste S.U. sono pervenute, impone di fornire alcune precisazioni circa
i
criteri
ai
quali
deve
attenersi
il
giudice
di
merito.
Qualora sia stata dedotta davanti al giudice ordinario una domanda risarcitoria ex art.
2043 c.c. nei confronti della P.A. per illegittimo esercizio della funzione pubblica, il detto
giudice, onde stabilire se la fattispecie concreta sia o meno riconducibile nello schema
normativo delineato dall'art. 2043 c.c., dovrà procedere, in ordine successivo, a svolgere le
seguenti indagini: a) in primo luogo, dovrà accertare la sussistenza di un evento dannoso;
b) procederà quindi a stabilire se l'accertato danno sia qualificabile come danno ingiusto,
in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l'ordinamento, che può essere
indifferentemente un interesse tutelato nelle forme del diritto soggettivo (assoluto o
relativo), ovvero nelle forme dell'interesse legittimo (quando, cioè, questo risulti funzionale
alla protezione di un determinato bene della vita, poiché è la lesione dell'interesse al bene
che rileva ai fini in esame, o altro interesse (non elevato ad oggetto di immediata tutela,
ma) giuridicamente rilevante (in quanto preso in considerazione dall'ordinamento a fini
diversi da quelli risarcitori, e quindi non riconducibile a mero interesse di fatto); c) dovrà
inoltre accertare, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei noti criteri generali, se
l'evento dannoso sia riferibile ad una condotta (positiva o omissiva) della P.A.; d)
provvederà, infine, a stabilire se il detto evento dannoso sia imputabile a dolo o colpa della
P.A.; la colpa (unitamente al dolo) costituisce infatti componente essenziale della
fattispecie della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.; e non sarà invocabile, ai fini
dell'accertamento della colpa, il principio secondo il quale la colpa della struttura pubblica
sarebbe in re ipsa nel caso di esecuzione volontaria di atto amministrativo illegittimo,
poiché tale principio, enunciato dalla giurisprudenza di questa S.C. con riferimento
all'ipotesi di attività illecita, per lesione di un diritto soggettivo, secondo la tradizionale
interpretazione dell'art. 2043 c.c. (sent. n. 884-61; n. 814-67; n. 16-78; n. 5361-84; n.
3293-94; n. 6542-95), non è conciliabile con la più ampia lettura della suindicata
disposizione, svincolata dalla lesione di un diritto soggettivo; l'imputazione non potrà
quindi avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell'azione
amministrativa, ma il giudice ordinario dovrà svolgere una più penetrante indagine, non
limitata al solo accertamento dell'illegittimità del provvedimento in relazione alla
normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del
funzionario agente (da riferire ai parametri nella negligenza o imperizia), ma della P.A.
intesa come apparato (in tal senso, v. sent. n. 5883-91) che sarà configurabile nel caso in
cui l'adozione e l'esecuzione dell'atto illegittimo (lesivo dell'interesse del danneggiato) sia
avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona
amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il
giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla
discrezionalità.
Rispetto al giudizio che, nei termini suindicati, può svolgersi davanti al giudice ordinario,
non sembra ravvisabile la necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento. Questa è
stata infatti in passato costantemente affermata per l'evidente ragione che solo in tal modo
si perveniva all'emersione del diritto soggettivo, e quindi all'accesso alla tutela risarcitoria
ex art. 2043 c.c., riservata ai soli diritti soggettivi, e non può quindi trovare conferma alla
stregua del nuovo orientamento, che svincola la responsabilità aquiliana dal necessario
riferimento alla lesione di un diritto soggettivo. E l'autonomia tra le due giurisdizioni
risulta ancor più netta ove si consideri il diverso ambito dei giudizi, ed in particolare
l'applicazione, da parte del giudice ordinario, ai fini di cui all'art. 2043 c.c., di un criterio di
imputazione della responsabilità non correlato alla mera illegittimità del provvedimento,
bensì ad una più complessa valutazione, estesa all'accertamento della colpa, dell'azione
amministrativa denunciata come fonte di danno ingiusto. Qualora (in relazione ad un
giudizio in corso) l'illegittimità dell'azione amministrativa (a differenza di quanto è
avvenuto nel procedimento in esame) non sia stata previamente accertata e dichiarata dal
giudice amministrativo, il giudice ordinario ben potrà quindi svolgere tale accertamento al
fine di ritenere o meno sussistente l'illecito, poiché l'illegittimità dell'azione amministrativa
costituisce uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 2043 c.c. 12. Esula
dall'oggetto del presente giudizio vagliare la coerenza degli affermati principi in relazione
alle controversie instaurate a partire dal 1°.7.1998, ma non può non rilevarsi, per
completezza di esame, che la realizzata concentrazione davanti al giudice amministrativo
della giurisdizione piena (di annullamento e di risarcimento) nelle materia attribuite alla
giurisdizione esclusiva del detto giudice (sia essa "nuova" o "vecchia", poiché la coerenza
del sistema indurrebbe a ritenere che la tutela risarcitoria sia erogabile dal giudice
amministrativo in entrambi i casi, superando il limite della lettera dell'art. 35, commi 1, 4 e
5) risolve in radice il problema di cui si è finora discusso. Qualora, peraltro, la fattispecie
produttiva di danno sia insorta nell'ambito di materia non attribuita alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, dovrebbe ritenersi applicabile il principio affermato
in riferimento ai giudizi pendenti, anche per quanto concerne l'accertamento diretto, da
parte del giudice ordinario, dell'illegittimità dell'atto amministrativo quale elemento
costitutivo della fattispecie dell'illecito civile nei sensi definiti dalla presente decisione, così
realizzandosi anche su tale versante una sorta di concentrazione di tutela (come del resto
espressamente prevede l'art. 68, comma 1, del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo sostituito
dall'art. 29, comma 1, del d.lgs. n. 80 del 1998, per la materia del lavoro). Si tratta, tuttavia,
con ogni evidenza, di questione che riguarda una disciplina ancora in evoluzione (risulta
alla Corte che è all'esame del Parlamento un disegno di legge, n. 2934 del Senato, recante
disposizioni in materia di giustizia amministrativa, che sembra volto ad ampliare i poteri di
tutela risarcitoria del giudice amministrativo), e comunque meritevole di
approfondimento, sulla quale queste S.U. si riservano di intervenire non appena se ne
presenterà l'occasione. 13. In conclusione, il ricorso per regolamento di giurisdizione va
dichiarato inammissibile: la questione con esso proposta, alla stregua delle suesposte
considerazioni, non configura questione di giurisdizione, bensì questione di merito. 14.
Sussistono giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese del giudizio di
cassazione.
P.Q.M
La
Corte
dichiara
il
ricorso
inammissibile
e
compensa
le
spese.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle sezioni unite civili della Corte di
cassazione, il 26.3.1999.
Cassazione civile , sez. un., 23 gennaio 2006, n. 1207
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARBONE Vincenzo
- Primo Presidente aggiunto Dott. SENESE Salvatore
- Presidente di sezione Dott. PRESTIPINO Giovanni
- Consigliere Dott. SABATINI Francesco
- Consigliere Dott. ALTIERI Enrico
- Consigliere Dott. VITRONE Ugo
- rel. Consigliere Dott. LO PIANO Michele
- Consigliere Dott. PICONE Pasquale
- Consigliere Dott. BERRUTI Giuseppe M.
- Consigliere ha pronunciato la seguente:
ordinanza
sul ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione proposto da:
R.L., elettivamente domiciliato in Roma, Via delle Quattro
Fontane, n. 16, presso l'avv. PICOZZA Eugenio che lo rappresenta e
difende per procura a margine del ricorso;
- ricorrente nei confronti del:
COMUNE DI SPEZZANO NELLA SILA;
- intimato Intimato nel giudizio pendente tra le parti dinanzi al Tribunale
Amministrativo Regionale della Calabria con il N.R.G. 163 del 2003;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del
24 novembre 2005 dal Relatore Cons. Dr. Ugo VITRONE;
lette le richieste del P.M., in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. APICE Umberto, come modificate in udienza dall'Avv.
Gen. Dott. IANNELLI Domenico che ha concluso per la dichiarazione
della giurisdizione del giudice ordinario.
Fatto
Che con decisione del 16 febbraio 2000 il Consiglio di Stato confermava la pronuncia del
Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria che aveva annullato la deliberazione
della Giunta del Comune di Spezzano nella n. 1005 del 1998 avente a oggetto
l'espropriazione, tra altri, di un fabbricato appartenente a R.L., sito in Piazza (OMISSIS),
destinato alla demolizione per la realizzazione del progetto di arredo urbano della frazione
di (OMISSIS); che con ricorso notificato il 29 gennaio 2003 R.L. conveniva in giudizio
dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria il Comune di Spezzano nella
Sila per sentirlo - condannare al risarcimento dei danni per la demolizione del fabbricato
in misura di Euro. 452.355,00; che il ricorrente ha proposto regolamento preventivo di
giurisdizione sostenendo che nella specie la controversia appartiene alla giurisdizione del
giudice ordinario.
Diritto
Che il Giudice amministrativo, tanto nell'esercizio della giurisdizione generale di
legittimità quanto nell'esercizio della giurisdizione esclusiva, conosce di tutte le questioni
relative all'eventuale risarcimento dei danni ai sensi della l.1034/1971, art.7, come
modificato dal d.lgs. 80/1998; che la giurisdizione esclusiva in materia di edilizia ed
urbanistica di cui al predetto d.lgs. 80/1998, art.34, va interpretata - all'esito degli
interventi della Corte Costituzionale - non già come istituzione di una nuova figura di
giurisdizione esclusiva e piena con riferimento all'intero ambito delle controversie relative
ad atti, provvedimenti e comportamenti delle amministrazioni pubbliche, bensì come mera
estensione dell'ambito della la giurisdizione già spettante alle controversie aventi a oggetto
i diritti patrimoniali consequenziali, con l'attribuzione al privato di un ulteriore strumento
di tutela nei suoi rapporti con la Pubblica Amministrazione (sent. 281/2004);
che nella materie suddette la giurisdizione amministrativa si configura come giurisdizione
sugli atti e sui provvedimenti, restando esclusa dal suo ambito la cognizione sui meri
comportamenti della Pubblica Amministrazione (sent. 204/2004); che la connessione
legale tra tutela demolitoria e tutela risarcitoria è peraltro subordinata al l'iniziativa del
ricorrente il quale resta libero di esercitare in un unico contesto entrambe le azioni
passando attraverso il giudizio di ottemperanza per ottenere il risarcimento del danno,
ovvero di riservarsi l'esercizio separato dell'azione risarcitoria dopo aver ottenuto
l'annullamento dell'atto o del provvedimento illegittimo, proponendo la sua domanda al
Giudice ordinario, cui compete in via generale la cognizione sulle posizioni di diritto
soggettivo;
che pertanto, salva restando l'attribuzione al Giudice ordinario della cognizione incidentale
sull'atto amministrativo e del potere di disapplicarlo ne dell'atto illegittimo nei casi in cui
esso venga in rilievo non già come causa della lesione del diritto soggettivo dedotto in
giudizio, ma solo come mero antecedente sicchè la questione della sua legittimità venga a
prospettarsi come pregiudiziale in senso tecnico, resta esclusa dalla sua giurisdizione
l'azione risarcitoria avente a oggetto il pregiudizio derivante da un atto amministrativo
definitivo per difetto di tempestiva impugnazione, essendogli precluso il sindacato in via
principale sull'atto o sul provvedimento amministrativo; che, conseguentemente, qualora
non venga in contestazione il legittimo esercizio dell'attività amministrativa - come avviene
nei caso in cui l'atto amministrativo sia stato annullato o revocato dall'Amministrazione
nell'esercizio del suo potere di autotutela, ovvero sia stato rimosso a seguito di pronuncia
definitiva del giudice amministrativo, ovvero ancora abbia esaurito i suoi effetti per il
decorso del termine di efficacia ad esso assegnato dalla legge - l'azione risarcitoria rientra
nella giurisdizione generale del giudice ordinario, non operando nella specie la
connessione legale fra tute la demolitoria e tutela risarcitoria; che, facendo applicazione di
tali principi alla fattispecie in esame dev'essere dichiarata la giurisdizione del giudice
ordinario; che la natura delle questioni sottoposte all'esame della Corte costituisce giusta
causa di compensazione delle spese giudiziali; tutto ciò considerato.
P.Q.M
LA CORTE Decidendo a sezioni unite, dichiara la giurisdizione dell'autorità giudiziaria
ordinaria e dispone la compensazione totale delle spese giudiziali. Così deciso in Roma, il
24 novembre 2005. Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2006
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Annibale
MARINI
Presidente
- Franco
BILE
Giudice
- Giovanni Maria
FLICK
“
- Francesco
AMIRANTE
“
- Ugo
DE SIERVO
“
- Romano
VACCARELLA
“
- Paolo
MADDALENA
“
- Alfio
FINOCCHIARO
“
- Alfonso
QUARANTA
“
- Franco
GALLO
“
- Luigi
MAZZELLA
“
- Gaetano
SILVESTRI
“
- Sabino
CASSESE
“
- Maria Rita
SAULLE
“
- Giuseppe
TESAURO
“
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, del decreto legislativo 8
giugno 2001, n. 325 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di espropriazione
per pubblica utilità – Testo B), trasfuso nell’art. 53, comma 1, del decreto del Presidente
della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), promossi con
ordinanze del 22 ottobre 2004 e del 5 maggio 2005 dal Tribunale amministrativo per la
Calabria sui ricorsi proposti da Marzano Fabrizio ed altri contro il Ministero dell’interno ed
altri e da Carè Ilario contro il Comune di Nardodipace, iscritte ai numeri 36 e 425 del
registro ordinanze 2005 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 7 e
37, prima serie speciale, dell’anno 2005.
Udito nella camera di consiglio dell’8 marzo 2006 il Giudice relatore Romano
Vaccarella.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 22 ottobre 2004 (n. 36 del 2005), il Tribunale amministrativo
regionale per la Calabria ha sollevato, in riferimento agli artt. 25 e 102, secondo comma,
della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, del d.P.R. 8
giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità – Testo A), nella parte in cui devolve alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo «le controversie aventi per oggetto […] i
comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti ad esse equiparati,
conseguenti alla applicazione delle disposizioni del testo unico», segnatamente allorché
detti comportamenti riguardino progetti la cui dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza sia intervenuta prima dell’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del
2001.
1.1.– Il giudizio, introdotto nell’anno 2000, nel corso del quale il dubbio è stato
prospettato, ha avuto origine da una causa intentata dagli eredi del titolare di un fondo,
oggetto di accessione invertita, contro il Ministero dell’interno, l’Ente nazionale per le
strade (ANAS) e il Concordato preventivo IGIEMME, già impresa Grandinetti Michele
costruzioni s.n.c. (quest’ultima in qualità di concessionaria per l’espropriazione e per
l’esecuzione dei lavori), al fine di ottenere il ristoro dei danni subiti in conseguenza della
perdita della proprietà di un immobile, che, durante il periodo di occupazione disposta in
vista della realizzazione di un’opera pubblica, aveva subìto una radicale trasformazione, in
mancanza di un valido decreto di esproprio.
1.2.– In punto di rilevanza, osserva il rimettente che il comma 1 dell’art. 53 del d.P.R.
n. 327 del 2001 devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «le
controversie aventi per oggetto […] i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei
soggetti ad esse equiparati, conseguenti alla applicazione delle disposizioni del testo
unico», mentre il successivo comma 3 mantiene ferma la giurisdizione del giudice
ordinario per le sole controversie riguardanti «la determinazione e la corresponsione delle
indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa».
Rileva quindi come la giurisprudenza, nell’affrontare le problematiche di diritto
transitorio connesse all’entrata in vigore del testo unico sulle espropriazioni, abbia distinto
tra norme di carattere sostanziale e norme di carattere processuale, condivisibilmente
ritenendo queste ultime, e quindi anche l’art. 53, applicabili a tutti i giudizi pendenti, pur
se introdotti prima dell’entrata in vigore del testo unico stesso: del resto – rileva il
rimettente – la predetta norma si salda, ad essi sostituendosi, con l’art. 34, comma 1, del
decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e
di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di
lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4,
della legge 15 marzo 1997, n. 59), e con l’art. 7, lettera b), della legge 21 luglio 2000, n. 205
(Disposizioni in materia di giustizia amministrativa), che già attribuivano tali controversie
al giudice amministrativo. L’applicazione del primo comma dell’art. 53 comporta, pertanto,
che la cognizione della controversia dedotta in giudizio – che «verte in ordine alla
domanda di riparazione del pregiudizio subito dal privato in conseguenza di un
comportamento materiale dell’amministrazione qualificabile come illecito» – spetta al
giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva.
1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, ricorda il giudice a quo che la Corte
costituzionale, con la sentenza 204/2004, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 34, comma 1, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, comma 1,
lettera b), della legge 21 luglio 2000, n. 205, nella parte in cui prevede la devoluzione alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie aventi per oggetto «gli
atti, i provvedimenti e i comportamenti», anziché delle sole controversie aventi per oggetto
«gli atti e i provvedimenti», delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti alle stesse
equiparati, in materia urbanistica ed edilizia, e cioè in una materia che abbraccia tutti gli
aspetti dell’uso del territorio, ivi compresa la disciplina dell’acquisizione dei beni
all’amministrazione a seguito, o per effetto, di procedimenti espropriativi.
Orbene, le stesse argomentazioni che hanno indotto il giudice delle leggi alla
declaratoria di incostituzionalità, nei termini innanzi precisati – e segnatamente l’
affermazione secondo cui nei «comportamenti […] la pubblica amministrazione non
esercita nemmeno mediatamente […] alcun pubblico potere», e che «la mera
partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio» non è sufficiente «perché si
radichi la giurisdizione del giudice amministrativo (il quale davvero assumerebbe le
sembianze di giudice “della” pubblica amministrazione, con violazione degli artt. 25 e 102,
secondo comma, della Costituzione») –, si presterebbero ad operare con riferimento alla
devoluzione al giudice amministrativo dei comportamenti della pubblica amministrazione
in materia espropriativa, a meno che essi non riguardino progetti in relazione ai quali la
dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza sia stata pronunziata dopo
l’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001: e invero in tal caso ben potrebbe
l’amministrazione avvalersi del disposto dell’art. 43, comma 1, per il quale «valutati gli
interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse
pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o
dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio
indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni». La previsione di un siffatto
potere di dichiarazione «postuma» di pubblica utilità dell’opera, connotato da evidenti
profili di discrezionalità, consentirebbe infatti – nella prospettiva adottata dalla Corte
costituzionale con riguardo all’ipotesi, per vero di portata minore, di uso, da parte della
pubblica amministrazione, di strumenti intrinsecamente privatistici, in quanto forma di
esercizio «mediato» del potere pubblico – di ritenere giustificata l’attribuzione della
materia al giudice amministrativo.
Il medesimo potere, peraltro, differenzierebbe nettamente la fattispecie di cui all’art.
53 del d.P.R. n. 327 del 2001, da quella di cui all’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998; il che
spiegherebbe anche perché la Corte nella sentenza 204/2004 non ritenne di estendere
d’ufficio la statuizione di illegittimità anche a tale ultima norma, ex art. 27 della legge 11
marzo 1953 n. 87.
Sottolinea, infine, il rimettente che nel caso dedotto in giudizio la dichiarazione di
pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dell’opera è intervenuta «ben prima del 30 giugno
2003».
1.4.– Per le ragioni esposte il TAR per la Calabria ritiene non manifestamente
infondato il dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, del d.P.R. n. 327 del
2001, nella parte in cui devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «le
controversie aventi per oggetto […] i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei
soggetti ad esse equiparati, conseguenti alla applicazione delle disposizioni del testo
unico», segnatamente allorché detti comportamenti riguardino progetti la cui
dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza è intervenuta prima dell’entrata
in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001, per violazione degli artt. 25 e 102, secondo comma,
della Costituzione.
2.– Con ordinanza del 5 maggio 2005 (n. 425 del 2005), il Tribunale amministrativo
regionale per la Calabria ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 53,
comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325 (Testo unico delle disposizioni
legislative in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo B) – «cui è conforme
l’art. 53, comma 1, del d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327» – per contrasto con l’art. 103 della
Costituzione, nella parte in cui prevede la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo delle controversie concernenti i comportamenti delle
amministrazioni pubbliche, e dei soggetti equiparati, in materia di espropriazione per
pubblica utilità.
2.1.– Il dubbio è stato prospettato nel corso di un giudizio proposto dal proprietario
di un terreno, oggetto di decreto di occupazione d’urgenza emesso dal Sindaco del Comune
di Nardodipace in data 14 gennaio 1992, in vista della realizzazione, entro cinque anni dalla
data dell’immissione in possesso, di infrastrutture di carattere turistico-sportivo. Decorso
tale termine senza che fosse stato emesso provvedimento di esproprio né corrisposta
alcuna indennità, il ricorrente, dopo avere adìto il Tribunale di Vibo Valentia, che aveva
dichiarato il proprio difetto di giurisdizione a conoscere la controversia, aveva chiesto al
Tribunale amministrativo regionale per la Calabria la condanna del convenuto al
pagamento dell’indennità di occupazione nonché al risarcimento del danno per la perdita
del diritto dominicale conseguente all’irreversibile trasformazione del fondo.
2.2.– Osserva il rimettente che quest’ultima domanda si fonda sull’avvenuto
perfezionamento di una fattispecie di occupazione acquisitiva, nella quale l’acquisto della
proprietà del fondo, in mancanza di tempestivo e formale provvedimento di esproprio, si
ricollega alla sua irreversibile trasformazione, avvenuta nell’ambito di un procedimento
ablativo iniziato con una valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità. Peraltro –
osserva il rimettente – rispetto a tale parte del petitum si impone la verifica della
sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, posto che, dopo l’introduzione
del giudizio, è intervenuta la sentenza della Corte 204/2004, dichiarativa della parziale
illegittimità, per contrasto con l’art. 103 della Costituzione, dell’art. 34, comma 1, del
decreto legislativo n. 80 del 1998, modificato dall’art. 7, comma 1, lettera b), della legge n.
205 del 2000 nella parte in cui, comprendendo nella giurisdizione esclusiva, anche i
«comportamenti», estende la cognizione del giudice amministrativo a controversie nelle
quali la pubblica amministrazione non esercita nemmeno mediatamente, «e cioè
avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici, alcun pubblico
potere».
Ricorda segnatamente il giudice a quo che il fenomeno dell’occupazione acquisitiva è
stato unanimemente ricondotto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in
materia urbanistica, prevista dall’art. 34, comma 1, del menzionato decreto legislativo n.
80 del 1998, in considerazione del riferimento, contenuto in tale disposizione, ai
«comportamenti» delle amministrazioni e dell’ampia nozione di «urbanistica» accolta dal
comma 2 della stessa norma, secondo una prospettiva fatta propria anche dal giudice delle
leggi, nella sentenza innanzi menzionata.
Segnala quindi che, ai fini della decisione della controversia dedotta in giudizio,
assume rilevanza l’art. 53 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325, il quale,
parzialmente riproduttivo dell’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998, e non toccato
dalla pronuncia di incostituzionalità, afferma la perdurante vigenza della giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, in ordine alle controversie concernenti fattispecie di
appropriazione acquisitiva.
Precisa, in particolare, il giudicante di non condividere l’assunto secondo cui
l’intervento attuato dalla Consulta nei confronti dell’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del
1998 avrebbe travolto anche l’art. 53, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001, nella parte in
cui estende la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai «comportamenti» della
pubblica amministrazione: a suo avviso, tale approdo ermeneutico sarebbe in contrasto
con le previsioni di legge – e segnatamente con l’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87
(Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), in base al quale
spetta alla Corte costituzionale individuare le disposizioni la cui illegittimità deriva come
conseguenza dalla decisione adottata – oltre che contraddetto e dalla diversa estensione
della previsione racchiusa nella norma censurata, estesa anche agli accordi, e dal suo
carattere speciale rispetto al disposto dell’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998.
Segnala altresì il rimettente che l’art. 53 del d.P.R. n. 327 del 2001 si inserisce nel
contesto normativo delle espropriazioni, in cui vi è una forte accentuazione dei poteri di
carattere autoritativo e in cui sono presenti norme, come l’art. 43, che, sia pure in vista del
superamento del fenomeno dell’occupazione appropriativa, «sembrerebbero strettamente
collegate alla previsione concernente la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
in ordine ai comportamenti dell’amministrazione pubblica», quanto meno con riferimento
alla mera utilizzazione del bene per finalità di pubblico interesse.
2.3.– In punto di non manifesta infondatezza, osserva il Tribunale rimettente che gli
argomenti che indussero la Corte costituzionale a dichiarare la parziale illegittimità
dell’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998, ben potrebbero riferirsi anche all’art. 53,
comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325. E, invero, nella menzionata
pronuncia, il Giudice delle leggi, escluso che l’art. 103 della Costituzione abbia conferito al
legislatore ordinario una assoluta e incondizionata discrezionalità nell’individuazione delle
materie da devolvere alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ritenne non
conforme al dettato costituzionale l’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998, nella
parte in cui estendeva detta giurisdizione, in materia urbanistica ed edilizia, anche ai
comportamenti, così allargando l’ambito della giurisdizione esclusiva a fattispecie in cui la
pubblica amministrazione non esercita, neppure mediatamente, un pubblico potere.
La decisione della Corte costituzionale avvalorerebbe allora il dubbio di contrasto col
medesimo parametro anche dell’art. 53 del testo unico delle espropriazioni, norma che,
benché non meramente riproduttiva dell’art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998, e
speciale rispetto ad essa, riconduce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
fattispecie nelle quali l’acquisto della proprietà del bene si realizza in conseguenza di meri
comportamenti della pubblica amministrazione.
2.4.– In ordine alla rilevanza della questione, osserva il rimettente che il giudizio,
concernente una fattispecie acquisitiva perfezionatasi prima dell’entrata in vigore del
nuovo testo unico in materia di espropriazioni, avvenuta il 30 giugno 2003, è stato
introdotto successivamente a tale data, risultando il ricorso notificato il 26 settembre 2003
e depositato il successivo 13 ottobre. Di modo che, ai sensi dell’art. 5 del codice di
procedura civile, non possono esservi dubbi sull’applicabilità alla fattispecie dedotta in
giudizio della norma sospettata di illegittimità.
2.5. – Per le ragioni esposte, il TAR per la Calabria dubita della compatibilità, con
l’art. 103 della Costituzione, dell’art. 53, comma 1, del decreto legislativo n. 325 del 2001,
nella parte in cui prevede la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo delle controversie concernenti i comportamenti delle amministrazioni
pubbliche, e dei soggetti equiparati, in materia di espropriazione per pubblica utilità.
Considerato in diritto
1.– Il TAR per la Calabria, sede di Catanzaro, solleva, con ordinanza n. 36 del 2005, in
riferimento agli artt. 25 e 102, comma secondo, della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 53, comma 1, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità –
Testo A), e con ordinanza n. 425 del 2005, in riferimento all’art. 103 della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, del decreto legislativo 8
giugno 2001, n. 325 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di espropriazione
per pubblica utilità – Testo B), disposizione trasfusa nell’art. 53, comma 1, del d.P.R. 8
giugno 2001, n. 327, innanzi menzionato, nella parte in cui devolvono alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto i «comportamenti»
delle pubbliche amministrazioni, e dei soggetti ad esse equiparati, in materia di
espropriazione per pubblica utilità.
Entrambe le ordinanze – emesse nel corso di giudizi nei quali era stata proposta
domanda di risarcimento dei danni per avere subìto, il fondo di proprietà dei ricorrenti,
radicali trasformazioni durante il periodo di occupazione disposta per la realizzazione di
un’opera pubblica senza che fosse intervenuto il decreto di esproprio – osservano che l’art.
53, comma 1, prevede la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
delle controversie aventi ad oggetto (anche) «i comportamenti» delle pubbliche
amministrazioni, e cioè la medesima ipotesi che questa Corte – con la sentenza 204/2004
– ha espunto, ritenendola costituzionalmente illegittima, dall’art. 34, comma 1, del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di
rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di
lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4,
della legge 15 marzo 1997, n. 59), come sostituito dall’art. 7, comma 1, lettera b), della legge
21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa).
L’ordinanza n. 36 del 2005 precisa che il dubbio circa la conformità a Costituzione
della norma de qua non avrebbe ragion d’essere ove la dichiarazione di pubblica utilità ed
urgenza fosse stata pronunciata dopo l’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001 (e cioè
dopo il 30 giugno 2003: art. 1 del decreto legislativo n. 302 del 2002), dal momento che in
tal caso opererebbe (ex art. 57 del d.P.R. n. 327, come modificato dal citato art. 1 del
decreto legislativo n. 302 del 2002) anche l’art. 43 del medesimo d.P.R., il quale attribuisce
alla pubblica amministrazione il potere (certamente sindacabile dal giudice
amministrativo) di acquisire l’immobile, «modificato in assenza del valido ed efficace
provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità», al patrimonio
indisponibile con «condanna al risarcimento del danno e con esclusione della restituzione
del bene senza limiti di tempo»; poiché nel caso sottoposto al suo esame la dichiarazione di
pubblica utilità è intervenuta «ben prima del 30 giugno 2003», la previsione (che sarebbe
certamente di diritto sostanziale) dell’art. 43 non potrebbe operare e, pertanto, ci si
troverebbe in una situazione perfettamente analoga a quella che era disciplinata dall’art.
34 (dichiarato incostituzionale dalla sentenza 204/2004), del quale l’art. 53, comma 1,
riproduce (aggiungendovi soltanto «gli accordi») il contenuto.
2.– Va rilevato che mentre una ordinanza (n. 425 del 2005) vede nella dichiarazione
di illegittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, una sorta di completamento di quanto,
ex art. 27 della legge n. 87 del 1953, già con la sentenza 204/2004 questa Corte avrebbe
potuto fare; l’altra (n. 36 del 2005) osserva che il mancato utilizzo da parte della Corte
dello strumento della dichiarazione consequenziale di illegittimità costituzionale si
giustificherebbe per il collegamento, sopra ricordato, della previsione di cui all’art. 53,
comma 1, con quella di cui all’art. 43: sicché, ove tale collegamento ratione temporis non
operi, il riferimento ai “comportamenti” dovrebbe essere cassato come lo fu quello
contenuto nell’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998.
Ne discende che il petitum delle due ordinanze diverge in ciò, che l’una (n. 425)
sollecita una pronuncia che definitivamente espunga dalla norma censurata la locuzione “i
comportamenti”, mentre l’altra (n. 36) chiede che la Corte ciò faccia relativamente ai
giudizi nei quali non potrebbe trovare applicazione la norma (ritenuta) di diritto
sostanziale (art. 43), che, sola, giustifica la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo in quanto contempla un potere della pubblica amministrazione sindacabile
da parte di quel giudice.
3.– Questa Corte, con la sentenza 204/2004, ha giudicato di questioni di legittimità
costituzionale che investivano, da un lato, l’art. 33 (relativo ai pubblici servizi) e, dall’altro,
l’art. 34 (relativo all’edilizia ed urbanistica) del d.lgs. n. 80 del 1998, come modificati
dall’art. 7 (lettere a e b) della legge n. 205 del 2000, in quanto con tali norme il legislatore
aveva «sostituito al criterio di riparto della giurisdizione fissato in Costituzione, e costituito
dalla dicotomia diritti soggettivi-interessi legittimi, il diverso criterio dei “blocchi di
materie”» (punto 2.1. del Considerato in diritto).
La Corte ha osservato che le censure mosse dai giudici rimettenti «colgono nel segno
nella parte in cui denunciano l’adozione, da parte del legislatore ordinario del 1998-2000,
di un’idea di giurisdizione esclusiva ancorata alla pura e semplice presenza, in un certo
settore dell’ordinamento, di un rilevante pubblico interesse», laddove «è evidente che il
vigente art. 103, primo comma, Cost., non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta
ed incondizionata discrezionalità nell’attribuzione al giudice amministrativo di materie
devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare
“particolari materie” nelle quali “la tutela nei confronti della pubblica amministrazione”
investe “anche” diritti soggettivi». «Tale necessario collegamento delle “materie”
assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle
situazioni soggettive – e cioè con il parametro adottato dal Costituente come ordinario
discrimine tra le giurisdizioni ordinaria ed amministrativa – è espresso dall’art. 103
laddove statuisce che quelle materie devono essere “particolari” rispetto a quelle devolute
alla giurisdizione generale di legittimità: e cioè devono partecipare della loro medesima
natura, che è contrassegnata dalla circostanza che la pubblica amministrazione agisce
come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice
amministrativo», sicché, «da un lato, è escluso che la mera partecipazione della pubblica
amministrazione al giudizio sia sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice
amministrativo […] e, dall’altro lato, è escluso che sia
sufficiente il generico
coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere
devoluta al giudice amministrativo» (punto 3.2.).
Sulla base di tali premesse, questa Corte – dopo aver distinto nell’ambito dell’art. 33
le ipotesi in cui la materia dei servizi pubblici era legittimamente devoluta al giudice
amministrativo in quanto «la pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere
autoritativo» da quelle prive di tale connotato (punto 3.4.2.) – ha osservato che «analoghi
rilievi investono la nuova formulazione dell’art. 34», la quale «si pone in contrasto con la
Costituzione nella parte in cui, comprendendo nella giurisdizione esclusiva – oltre “gli atti
e i provvedimenti” attraverso i quali le pubbliche amministrazioni […] svolgono le loro
funzioni pubblicistiche in materia urbanistica ed edilizia – anche “i comportamenti”, la
estende a controversie nelle quali la pubblica amministrazione non esercita – nemmeno
mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente
privatistici – alcun pubblico potere» (punto 4.3.3. del Considerato in diritto).
3.1.– Discende, dalla sommaria esposizione dell’iter argomentativo seguito dalla
sentenza 204/2004, che non è corretta la premessa dalla quale implicitamente muovono
entrambe le ordinanze di rimessione, e cioè che, avendo questa Corte espunto dalla
disposizione di cui all’art. 34 la locuzione “i comportamenti”, tale espunzione non possa
non estendersi all’identica locuzione impiegata nell’art. 53, comma 1, del d.P.R. n. 327 del
2001.
Tale tesi, infatti, si fonda esclusivamente sulla circostanza che, con il suo dispositivo,
la sentenza 204/2004 ha inciso sul testo dell’art. 34, ma trascura del tutto non soltanto la
motivazione che è alla base di quel dispositivo, ma anche, e soprattutto, la valenza che la
locuzione espunta aveva, specie in relazione alla questione di legittimità costituzionale
allora sottoposta alla Corte, nella disposizione dell’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998.
Ed infatti, nell’affrontare la questione del se fosse costituzionalmente legittimo
devolvere alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “blocchi di materie” ed in
particolare l’intera “materia urbanistica ed edilizia” (comprensiva, la prima, di “tutti gli
aspetti dell’uso del territorio”), questa Corte ha ravvisato – come risulta dalla motivazione
della sentenza – nella locuzione “i comportamenti” lo strumento utilizzato dal legislatore
per operare l’indiscriminata devoluzione che si andava a censurare: sicché l’espunzione di
tale locuzione, per la funzione “di chiusura” assegnatale dal legislatore nell’art. 34, valeva a
ribadire che la “materia edilizia ed urbanistica” non poteva essere devoluta “in blocco” alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ma poteva esserlo nei limiti precisati
nella motivazione.
3.2.– La questione di legittimità costituzionale sulla quale questa Corte è ora
chiamata a pronunciarsi investe (non più la pretesa del legislatore ordinario di attribuire
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “in blocco” la materia edilizia ed
urbanistica, ma) specificamente la conformità a Costituzione – e, segnatamente, agli artt.
25, 102, comma secondo, e 103 – della norma che, in tema di espropriazione per pubblica
utilità, devolve «alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie
aventi per oggetto», oltre che «gli atti, i provvedimenti, gli accordi», anche «i
comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti ad esse equiparati»;
questione che, per quanto si è fin qui osservato, non può essere risolta attraverso la
semplice e meccanica estensione a questa disposizione dell’espunzione (solo perché, allora,
operata) della locuzione de qua dall’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998.
Va, altresì, precisato che, non essendo implausibile la tesi per cui l’art. 53, in quanto
norma processuale (e non anche l’art. 43, in quanto norma di diritto sostanziale),
troverebbe applicazione nei giudizi aventi ad oggetto fattispecie non governate, quanto al
diritto sostanziale, dal d.P.R. n. 327 del 2001, la questione di legittimità costituzionale ora
all’esame della Corte concerne l’art. 53, comma 1, esclusivamente nella sua valenza di
norma attributiva della giurisdizione al giudice amministrativo, e pertanto senza che in
alcun modo possa esserne coinvolta la norma nella parte in cui – essendo applicabile l’art.
43 del d.P.R. n. 327 del 2001 – presuppone la possibilità che sia sindacato dal giudice
amministrativo l’esercizio, da parte della pubblica amministrazione, del potere di acquisire
al suo patrimonio indisponibile l’immobile modificato.
Peraltro la questione sollevata è rilevante nei giudizi a quibus perché, non essendo
implausibile la tesi dell’immediata applicabilità dell’art. 53, comma 1, quale norma
processuale (specie a giudizi incardinati nella vigenza dell’art. 34 del d. lgs. n. 80 del 1998,
come modificato dalla legge n. 205 del 2000) e pendendo la causa davanti al giudice
amministrativo, l’eventuale carenza di sua giurisdizione a norma dell’art. 34 del d.lgs. n. 80
del 1998 – a seguito dell’espunzione della locuzione “i comportamenti” operata da questa
Corte – legittimerebbe (ex art. 5 del codice di procedura civile) una pronuncia declinatoria
della giurisdizione solo ove fosse dichiarata costituzionalmente illegittima la disposizione
dell’art. 53, comma 1, che ex novo rende il giudice amministrativo munito di giurisdizione:
se è vero, infatti, che la giurisdizione si determina con riguardo alla legge vigente al
momento della proposizione della domanda, è anche vero che il sopravvenire della
giurisdizione in capo al giudice che originariamente ne era (o ne era divenuto) sfornito
impedisce – per pacifica giurisprudenza – la pronuncia declinatoria.
4.– Le questioni sono fondate nei limiti di seguito precisati.
4.1.– Entrambe le fattispecie oggetto dei giudizi a quibus sono riconducibili alle
ipotesi tradizionalmente denominate (in giurisprudenza e dottrina) di occupazione
appropriativa (ovvero, anche, di accessione invertita o espropriazione sostanziale): il che si
verifica quando il fondo è stato occupato a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, e
pertanto nell’ambito di una procedura di espropriazione, ed ha subìto una irreversibile
trasformazione in esecuzione dell’opera di pubblica utilità senza che, tuttavia, sia
intervenuto il decreto di esproprio o altro atto idoneo a produrre l’effetto traslativo della
proprietà.
Tale fenomeno viene contrapposto a quello cosiddetto di occupazione usurpativa,
caratterizzato dall’apprensione del fondo altrui in carenza di titolo: carenza universalmente
ravvisata nell’ipotesi di assenza ab initio della dichiarazione di pubblica utilità, e da taluni
anche nell’ipotesi di annullamento, con efficacia ex tunc, della dichiarazione inizialmente
esistente ovvero di sua inefficacia per inutile decorso dei termini previsti per l’esecuzione
dell’opera pubblica.
Nel caso dell’occupazione appropriativa, perfezionandosi con l’irreversibile
trasformazione del fondo la traslazione in capo all’amministrazione del diritto di proprietà,
il proprietario del fondo non può che chiedere la tutela per equivalente, laddove, nel caso
dell’occupazione usurpativa (rectius: nelle ipotesi – in relazione a taluna delle quali non v’è
unanimità di consensi – ad essa riconducibili) il proprietario può scegliere tra la
restituzione del bene e, ove a questa rinunci così determinando il prodursi (dei
presupposti) dell’effetto traslativo, la tutela per equivalente.
4.2.– È evidente che la soluzione della questione di legittimità costituzionale in esame
non può che muovere da quanto questa Corte, con la più volte citata la sentenza 204/2004,
ha statuito riguardo all’art. 35 (come modificato dall’art. 7, lettera c, della legge n. 205 del
2000) del d.lgs. n. 80 del 1998; statuizione, va precisato, e non già obiter dictum, in
quanto la Corte – investita della questione di legittimità costituzionale della devoluzione
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dei “blocchi di materie” relative ai
servizi pubblici ed all’edilizia ed urbanistica e del potere, altresì, di giudicare di azioni
risarcitorie riconosciutogli come attributo della giurisdizione esclusiva – non poteva non
considerare, quanto meno con riferimento al disposto dell’art. 35, comma 1, se anche la
tutela risarcitoria fosse configurabile come una “materia” devoluta in blocco alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
In proposito questa Corte ha statuito che «il potere riconosciuto al giudice
amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il
risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova “materia”
attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello
classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei
confronti della pubblica amministrazione».
4.3.– I principi appena ricordati impongono di escludere che, per ciò solo che la
domanda proposta dal cittadino abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno, la
giurisdizione competa al giudice ordinario: ciò dicendo non intende questa Corte prendere
posizione sul tema della natura della situazione soggettiva sottesa alla pretesa risarcitoria,
ovvero sulla natura (di norma secondaria, id est sanzionatoria di condotte aliunde vietate,
oppure primaria) dell’art. 2043 cod. civ., ma esclusivamente ribadire che laddove la legge –
come fa l’art. 35 del d.lgs. n. 80 del 1998 – costruisce il risarcimento del danno, ai fini del
riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, come strumento di
tutela affermandone – come è stato detto – il carattere “rimediale”, essa non viola alcun
precetto costituzionale e, anzi, costituisce attuazione del precetto dell’art. 24 Cost. laddove
questo esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva e sia resa in tempi ragionevoli.
In altri termini, al precedente sistema che, in considerazione della natura intrinseca
di diritto soggettivo della situazione giuridica conseguente all’annullamento del
provvedimento amministrativo, attribuiva al giudice ordinario «le controversie sul
risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti amministrativi» (così l’art. 35,
comma 5, del d. lgs. n. 80 del 1998, come modificato dall’art. 7, lettera c della legge n. 205
del 2000), il legislatore ha sostituito (appunto con l’art. 35 cit.) un sistema che riconosce
esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica
poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche il potere di risarcire, sia per
equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per l’illegittimo esercizio della
funzione.
Da ciò consegue che, ai fini del riparto di giurisdizione, è irrilevante la circostanza che
la pretesa risarcitoria abbia – come si ritiene da alcuni –, o non abbia, intrinseca natura di
diritto soggettivo: avendo la legge, a questi fini, inequivocabilmente privilegiato la
considerazione della situazione soggettiva incisa dall’illegittimo esercizio della funzione
amministrativa, a questa Corte competeva (e compete) solo di valutare se tale scelta del
legislatore – di collegare, cioè, quanto all’attribuzione della giurisdizione, la tutela
risarcitoria a quella della situazione soggettiva incisa dal provvedimento amministrativo
illegittimo – confligga, o non, con norme costituzionali; ciò che, con la più volte ricordata
sentenza 204/2004, questa Corte ha escluso.
5.– Le considerazioni fin qui esposte rendono palese che la questione di legittimità
costituzionale sollevata dalle ordinanze de quibus non può risolversi in base al solo
petitum, id est alla domanda di risarcimento del danno, bensì considerando il fatto,
dedotto a fondamento della domanda, che si assume causativo del danno ingiusto.
Con espressione ellittica l’art. 53, comma 1, individua (anche) nei “comportamenti”
della pubblica amministrazione il fatto causativo del danno ingiusto, in parte qua
riproducendo il contenuto dell’art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998 (come modificato dall’art. 7
della legge n. 205 del 2000).
Tale previsione è costituzionalmente illegittima là dove la locuzione, prescindendo da
ogni qualificazione di tali “comportamenti”, attribuisce alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo controversie nelle quali sia parte − e per ciò solo che essa è parte −
la pubblica amministrazione, e cioè fa del giudice amministrativo il giudice
dell’amministrazione
piuttosto
che
l’organo
di
garanzia
della
giustizia
nell’amministrazione (art. 100 Cost.).
Viceversa, nelle ipotesi in cui i “comportamenti” causativi di danno ingiusto – e cioè,
nella specie, la realizzazione dell’opera – costituiscono esecuzione di atti o provvedimenti
amministrativi (dichiarazione di pubblica utilità e/o di indifferibilità e urgenza) e sono
quindi riconducibili all’esercizio del pubblico potere dell’amministrazione, la norma si
sottrae alla censura di illegittimità costituzionale, costituendo anche tali “comportamenti”
esercizio, ancorché viziato da illegittimità, della funzione pubblica della pubblica
amministrazione.
In sintesi, i principi sopra esposti – peraltro già enunciati da questa Corte con la
sentenza 204/2004 – comportano che deve ritenersi conforme a Costituzione la
devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie
relative a “comportamenti” (di impossessamento del bene altrui) collegati all’esercizio, pur
se illegittimo, di un pubblico potere, laddove deve essere dichiarata costituzionalmente
illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva di “comportamenti” posti in essere in
carenza di potere ovvero in via di mero fatto.
L’attribuzione alla giurisdizione del giudice amministrativo della tutela risarcitoria –
non a caso con la medesima ampiezza, e cioè sia per equivalente sia in forma specifica, che
davanti al giudice ordinario, e con la previsione di mezzi istruttori, in primis la consulenza
tecnica, schiettamente “civilistici” (art. 35, comma 3) – si fonda sull’esigenza, coerente con
i principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost., di concentrare davanti ad un unico
giudice l’intera tutela del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica
(così Corte di cassazione, sez. un., 22 luglio 1999, n. 500 ), ma non si giustifica quando la
pubblica amministrazione non abbia in concreto esercitato, nemmeno mediatamente, il
potere che la legge le attribuisce per la cura dell’interesse pubblico.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, del decreto legislativo 8
giugno 2001, n. 325 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di espropriazione
per pubblica utilità – Testo B), trasfuso nell’art. 53, comma 1, del decreto del Presidente
della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), nella parte in
cui, devolvendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie
relative a «i comportamenti delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti ad esse
equiparati», non esclude i comportamenti non riconducibili, nemmeno mediatamente,
all’esercizio di un pubblico potere.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il
3 maggio 2006.
Annibale MARINI, Presidente
Romano VACCARELLA, Redattore
Depositata in Cancelleria l'11 maggio 2006.
Cassazione civile , Sezioni Unite, ordinanza n. 13659/2006
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARBONE
Vincenzo
- Presidente Aggiunto
Dott. PRESTIPINO Giovanni
- Presidente di sezione
Dott. SENESE
Salvatore
- Presidente di sezione Dott. SABATINI
Francesco
- Consigliere Dott. ALTIERI
Enrico
- Consigliere Dott. VITRONE
Ugo
- Consigliere Dott. LO PIANO
Michele
- Consigliere Dott. PICONE
Pasquale
- rel. Consigliere Dott. BERRUTI
Giuseppe Maria
- Consigliere ha pronunciato la seguente:
ordinanza
sull'istanza di regolamento della giurisdizione proposta da:
C.A., elettivamente domiciliato in Roma, Via Giuseppe Pisanelli, n. 2, presso l'avv. Gnisci
Leonardo, che lo
difende
conprocura speciale apposta a margine del ricorso;
- ricorrente contro
UNIVERSITA'
- intimata –
STATALE DEGLI STUDI DI PISA, in persona del
rettore
incarica;
e contro
F.E., elettivamente domiciliato in Roma, Via Vicenzo Ambrosio, n. 4, presso l'avv.
Alessandro Bellomi, che, unitamenteall'avv. Conticelli Giulio, lo difende con procura a
margine del controricorso;
- resistente –
in relazione a giudizio pendente dinanzi al Tribunale di Firenze (R.g. n. 4464/2003)
promosso da C.A. con citazione del 13-3-2003.
Nella Camera di consiglio del 24.11.2005: lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero
in persona
delSostituto Procuratore Generale Dott. Ciccolo Pasquale, che ha
chiestodichiararsi la giurisdizione amministrativa;
lette le memorie depositate
dal
C. e dal F.; sentiti gli avv. Gnisci e Conticelli; sentita la relazione del Cons. Dott.
Picone.
Fatto
1. C.A. propone istanza per il regolamento della giurisdizione in relazione a giudizio
pendente dinanzi al Tribunale di Firenze (R.g. n. 4464/03), promosso nei confronti
dell'Università degli studi di Pisa e di F.E. con citazione del 3 maggio 2003, per la condanna
dei convenuti, in solido, al risarcimento dei danni cagionatigli dall'illegittima esclusione dal
corso di dottorato di ricerca. L'istante, premesso che le parti convenute avevano eccepito il
difetto di giurisdizione ordinaria, chiede che le Sezioni unite della Corte di Cassazione
dichiarino competente il giudice ordinario.
2. Riferisce il C. che, previa partecipazione al concorso indetto dall'Università di Pisa, era
stato ammesso al corso per il conseguimento del dottorato di ricerca in storia, istituzioni e
relazioni internazionali dei Paesi extraeuropei, relatore e tutore il prof. F.E.. Durante lo
svolgimento del corso, dopo il primo anno, il prof. F. aveva, assunto comportamenti di
contrapposizione e ostacolo della sua attività di ricerca, culminati nella presentazione di
una relazione sull'atti vita del dottorando "volutamente quanto ingiustamente negativa".
Con Decreto del rettore 12 dicembre 1999, n. 01/1607, era stata disposta la sua esclusane
dal proseguimento del corso sulla base della relazione del prof. F., approvata dal collegio dei
docenti.
3. Resiste con controricorso F.E., mentre non ha svolto attività di resistenza l'Università;
con le conclusioni scritte il Pubblico ministero ha chiesto dichiararsi la giurisdizione del
giudice amministrativo trattandosi di pretesa risarcitoria consequenziale all'ambito di
giurisdizione riconosciuta al giudice amministrativo dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art.
63, comma 4.
Hanno depositato memorie il C. ed il F.
Diritto
1. La Corte, a sezioni unite, in parziale difformità dalle conclusioni del Pubblico Ministero,
regola la giurisdizione nel senso che appartiene alla cognizione del giudice amministrativo
la controversia promossa nei confronti dell'Università degli studi di Pisa; alla cognizione del
giudice ordinario la controversia promossa nei confronti del prof. F.E..
2. Va premesso che, nel caso di specie, non viene in rilievo l'ambito attribuito alla
giurisdizione amministrativa dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63, comma 4,
relativamente alle controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei
dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Il dottorato di ricerca, come disciplinato dal
D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382 (Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di
formazione nonchè sperimentazione organizzativa e didattica) - e successive modificazioni
e integrazioni - è titolo accademico che si consegue all'esito di un corso preordinato a
sviluppare autonome capacità di ricerca scientifica, attraverso le quali evidenziare
originalità creativa e rigore metodologico (e, difatti, le relative prove di esame sono intese
ad accertare l'attitudine del candidato alla ricerca scientifica: stesso D.P.R. n. 382 del 1980,
art. 71, comma 4). L'ammissione al corso, quindi, non instaura un rapporto di lavoro, nè ha
natura retributiva l'eventuale borsa di studio attribuita al dottorando.
3. Gli effetti dannosi sono collegati dal C. sia alle modalità di gestione del corso, sia, in
particolare, al decreto rettoriale di esclusione.
Secondo le disposizioni del D.P.R. n. 382 del 1980, art. 68, in vigore all'epoca dei fatti
(l'articolo è stato abrogato dalla L. 3 luglio 1998, n. 210, art. 6, a far data dall'anno
successivo all'entrata in vigore del decreto ministeriale di cui all'art. 4, comma 2, della detta
legge - D.M. 30 aprile 1999, n. 224 -), il titolo di dottore di ricerca è conseguito a seguito di
svolgimento di attività di ricerca, successive al conseguimento del diploma di laurea, che
abbiano dato luogo, con contributi originali, alla conoscenza in settori uni o
interdisciplinari; la stessa norma precisa i contenuti degli studi; contempla, alla fine di
ciascun anno, la presentazione di particolareggiata relazione sull'attività e le ricerche svolte
al collegio dei docenti; prevede, infine, che la valutazione dell'assiduita e dell'operosità
possa portare a proporre al rettore l'esclusione dal proseguimento del corso di dottorato di
ricerca.
Non si può, perciò, dubitare della sussistenza di una fattispecie di esercizio di attività
autoritativa dell'amministrazione universitaria, quanto all'ammissione al corso, alle
verifiche e controlli sul suo svolgimento, all'esclusione dallo stesso. La pretesa risarcitoria,
quindi, è stata proposta con riguardo all'uso dannoso della funzione amministrativa, sia,
come si diceva, in relazione alle modalità di organizzazione, indirizzo e controllo dei corsi
(si vedano le numerose illegittimità imputate al tutor, prof. F.), sia, e soprattutto, con
riguardo al provvedimento di esclusione dal proseguimento del corso.
4. L'appartenenza alla giurisdizione amministrativa di legittimità (che si configura anche in
ambito di materie di giurisdizione esclusiva) del controllo sulle determinazioni
dell'amministrazione universitaria in ordine ai corsi di dottorato, discende dalla sicura
attribuzione di "poteri" all'amministrazione, discrezionali, o anche vincolati - in quanto
radicati sopra giudizi tecnico-scientifici, espressioni di discrezionalità cd. tecnica - siccome
le norme escludono sicuramente la configurabilità di pretese del dottorando protette con la
consistenza del diritto soggettivo quanto allo svolgimento dei corsi e al conseguimento del
titolo.
5. Le sezioni unite sono chiamate a pronunciarsi sulla questione di giurisdizione in tema di
responsabilità civile della p.a. connessa ad attività provvedimentale. L'argomento, a partire
dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, ha dato origine, com'è noto, ad un vasto dibattito in
dottrina ed in giurisprudenza, in particolare dopo le decisioni di parziale illegittimità
costituzionale pronunciate da giudice delle leggi con le sentenze 6 luglio 2004, n. 204 e 28
luglio 2004, n. 281, sulla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in relazione alla
L. 21 luglio 2000, n. 205 ("Disposizioni in materia di giustizia amministrativa"): decisioni
alle quali si è di recente aggiunta la sentenza 3 maggio 2006, n. 191, con cui è stato
dichiarato in parte illegittimo il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 327, art. 53, comma 1 ("Testo
unico delle disposizioni legislative in materia di espropriazioni per pubblica utilità").
Orbene, due sono gli aspetti di questo tema, cui le sezioni unite sono chiamate a dare
risposta: come, dopo la L. 205 del 2000, è ripartita tra giudice ordinario e giudice
amministrativo la tutela giurisdizionale intesa a far valere la responsabilità della p.a. da
attività provvedimentale illegittima; se la parte si può limitare a chiedere il risarcimento del
danno, senza dover anche chiedere l'annullamento e quale sia il regime di tale diversa
forma di tutela giurisdizionale, una volta che la si ammetta.
E, per una corretta impostazione del problema - sia sulle modifiche del riparto di
giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, intervenute negli anni dal 1992
al 2000, sia sugli effetti della dichiarazione di incostituzionalità del D.Lgs. 31 marzo 1998,
n. 80, dell'art. 33, commi 1 e 2, e art. 34, comma 1, come novellati dalla L. 21 luglio 2000, n.
205, art. 7 - è opportuno prendere l'avvio dalle considerazioni svolte dalla Corte
costituzionale, nella sentenza 204, sui lavori preparatori della Costituzione.
6. In quella sede, come ha osservato la Corte, si ribadi "l'indispensabile riassorbimento
nella Costituzione dei principi fondamentali della L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E", ispirati
al principio dell'unità della giurisdizione, ma vi emerse il contrasto tra la tesi - perdente - a
favore del giudice unico ("l'esercizio del potere giudiziario in materia civile, penale e
amministrativa appartiene esclusivamente ai giudici ordinari") e quella vincente, per il
mantenimento di giudici diversi da quelli ordinaria quali Consiglio di Stato e Corte dei conti
("una divisione dei vari ordini di giudici ... ognuno dei quali fa parte a sè"). La regola
tradizionale del riparto della giurisdizione - se si tratta di diritti soggettivi la giurisdizione è
del giudice ordinario, se è fatto valere un interesse legittimo la giurisdizione appartiene al
giudice amministrativo - trova il proprio antecedente storico e logico nella L. 20 marzo
1865, n. 2248, all. E, artt. 2 e 4, tuttora vigenti. Se la legge è uguale per tutti, anche per la
p.a., il cittadino che ha subito un pregiudizio ad un suo diritto può rivolgersi al giudice
ordinario e il giudice si limiterà a conoscere gli effetti dannosi dell'atto amministrativo,
senza sindacare le scelte discrezionali, del tutto autonome, della p.a.. La legge del 1865
realizza così il principio dell'unità della giurisdizione, ma questa regola si rivelerà non
idonea ad assicurare una tutela adeguata al cittadino, sia per la grande quantità di
controversie che la legge abolitiva del contenzioso riservava all'autorità amministrativa, così
sottraendola al sindacato giurisdizionale, sia per una certa timidezza del giudice ordinario
nel dare applicazione ai principi sanciti dalla L. del 1865, allegato E. E' in questa situazione
che, nel 1889, si registra la scelta per l'introduzione del sindacato sugli atti amministrativi
da parte di un organo consultivo, il Consiglio di Stato, la cui natura giurisdizionale viene poi
esplicitamente affermata con la L. n. 642 del 1907 istitutiva della 5^ Sezione del Consiglio
di Stato. L'area delle situazioni tutelabili davanti a un giudice è in tal modo ampliata.
L'assetto così realizzato trova conferma nel R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, (Consiglio di
Stato). Questo assetto non viene d'altro canto inciso dalla introduzione della "giurisdizione
esclusiva".
La giurisdizione sui diritti è devoluta al Consiglio di Stato in casi tassativamente enumerati,
a conferma della regola generale posta alla base del riparto.
Si tratta di una giurisdizione esclusiva, obiettivamente diversa, allora, da quella voluta dal
legislatore in questi ultimi anni.
Limitata a pochi "casi di confine", la sua introduzione è spiegata con la difficoltà di
distinguere nel l'aggrovigliato intreccio tra diritti soggettivi e interessi legittimi, anche se la
sua introduzione stava ad indicare un chiaro recupero della logica propria del contenzioso
amministrativo abolito nel 1865.
Tale è l'assetto cristallizzato nella Costituzione del 1948, che all'art. 24 da riconoscimento
sostanziale alla tutela sia del diritto soggettivo che dell'interesse legittimo e mentre all'art.
103 c.p.c., comma 1, limita la giurisdizione del giudice amministrativo in tema di diritti
soggettivi alle "particolari materie" indicate dalla legge, nell'art. 113 c.p.c., rimette alla legge
di indicare il giudice che può annullare l'atto amministrativo e le conseguenze
dell'annullamento.
Questo assetto continua a riflettersi nella legislazione successiva, sino al D.Lgs. 31 marzo
1998, n. 80.
Invero, come nei nove "particolari" casi enucleati nel R.D. 30 settembre 1923, n. 2840, art.
8 (ribaditi nel R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, della L. n. 1034 del 1971, artt. 29 e 7) così in
quelli successivamente introdotti (tra gli altri: L. n. 1185 del 1967, art. 11; L. n. 10 del 1977,
art. 16; L. n. 47 del 1985, art. 35; L. n. 210 del 1985, art. 11; L. n. 241 del 1990, artt. 11 e 15;
L. n. 287 del 1990, art. 33, comma 1.; D.Lgs. n. 74 del 1992, art. 7, comma 11; L. n. 109 del
1994, art. 4, comma 7; L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 25; L. n. 249 del 1997, art. 1,
comma 26), sono sempre rimaste riservate al giudice ordinario le questioni attinenti ai
diritti patrimoniali consequenziali, compreso il risarcimento del danno.
Ma, vale la pena di notarlo, è in questo assetto normativo che la giurisprudenza ha nel
tempo elaborato, e con costanza applicato, i principi dell'irrisarcibilità dell'interesse
legittimo, della degradazione del diritto ad interesse e della pregiudizialità amministrativa.
Sicchè non sarà senza ragione, se questo assetto normativo ed il bagaglio dei concetti che
sono valsi a dargli spiegazione, apparirà richiedere modifiche, una volta che si affermerà,
con il D.Lgs. n. 80 del 1998, la contraria regola della risarcibilità dell'interesse legittimo.
7. Facendo un passo indietro e tornando al riparto delle giurisdizioni, va detto che il
dibattito restava aperto, non tanto sull'ubi consistam del riparto, non più contestato,
quanto sull'esatta individuazione dei rispettivi territori, dei diritti e degli interessi, che non
vivevano in mondi separati, poichè gli uni e gli altri costellavano il rapporto tra privato e
p.a., vagando da un rapporto di coesistenza ad uno di successione, in situazioni dal confine
incerto, a volte dubbio, di "facile trapasso" (Cass., sez. un., 5 dicembre 1987 n. 9095 e
9096).
Il sistema - al di là di qualche decisione provocatoria della Cassazione, rimasta isolata
(Cass., sez. 1^, 3 maggio 1996 n. 4083), o di eccezioni di incostituzionalità, poi disattese
(Corte Cost., 8 maggio 1998 n. 165) - è durato dal 1865 fino al 1992 (un periodo lungo ben
127 anni).
A metterlo in crisi sono stati i principi comunitari in tema di appalti pubblici di lavori o
forniture.
L'introduzione di una fattispecie di risarcibilità degli interessi legittimi lesi, in violazione del
diritto comunitario, viene alla luce con la L. 19 febbraio 1992, n. 142, art. 13 (Legge
Comunitaria del 1991).
In attuazione della direttiva del consiglio Ce n. 665/89 del 21 dicembre 1989, si
riconosceva, in materia di aggiudicazione di appalti pubblici, la possibilità di ottenere, dopo
l'annullamento dell'atto lesivo da parte del giudice amministrativo, il risarcimento del
danno dal giudice ordinario.
Tuttavia, l'itinerario da percorrere apparve subito particolarmente gravoso, in quanto si
obbligava il privato ad adire prima il giudice amministrativo per l'annullamento e, poi, il
giudice ordinario per il risarcimento del danno, così mettendo in discussione il principio di
effettività della tutela giurisdizionale sancito dall'art. 24 Cost..
Il legislatore italiano, in un primo tempo, estese la norma anche agli appalti dei settori
esclusi (L. 19 dicembre 1992, n. 489, art. 11) e poi agli appalti di servizi (L. 22 febbraio 1994,
n. 146, art. 11, lett. i): legge comunitaria per il 1993), ma, per negare la valenza dirompente
sul precedente riparto, si preferì considerarla "una norma di settore e non di portata
generale" (Cass., sez. un., 20 aprile 1994 n. 3732). Di qui un deciso cambiamento di rotta
con la soppressione del richiamo della L. n. 142 del 1992, art. 13 contenuto nella L. 11
febbraio 1994, n. 109, art. 32, comma 3, per effetto della novella introdotta dal D.L. 3 aprile
1995, n. 101, convertito con modifiche nella L. 2 giugno 1995, n. 216. La "rivoluzionaria
disposizione" è stata infine espressamente abrogata dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 35, u.c.
(divenuto L. n. 205 del 2000, art. 7, u.c.), insieme con "ogni altra disposizione che prevede
la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento del danno
Conseguente all'annullamento di atti amministrativi".
Si può dunque dire, per un verso, che la disposizione introdotta con la L. n. 142 del 1992 ha
contribuito a smantellare il precedente sistema orientato ad evitare il risarcimento del
danno da lesione dell'interesse legittimo; e per altro verso che per il suo mezzo sono state
poste le premesse perchè la Corte costituzionale sia stata indotta a riconoscere nella
concentrazione delle tutele dinanzi allo stesso giudice una piena attuazione dell'art. 24
Cost..
8. E' nel quadro sino ad ora descritto che il legislatore di fine secolo introduce una nuova
specie di giurisdizione esclusiva, separata anche dalla giurisdizione di legittimità e ancorata
a "settori" dell'ordinamento pubblico, con rilevante presenza di un pubblico interesse.
Il Governo con il D.Lgs. n. 80 del 1998 - anche superando i limiti della delega conferita
dalla L. 15 marzo 1997, n. 59, art. 11, comma 4, lett. g), - e, dopo la dichiarazione di
incostituzionalità (Corte Cost. 17 luglio 2000, n. 292), il Parlamento con la L. n. 205 del
2000, attribuiscono i "settori particolari" degli appalti e servizi pubblici nonchè dell'edilizia
e urbanistica ad una "nuova" giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, estesa
anche ai diritti patrimoniali consequenziali e al risarcimento del danno.
Il legislatore, inoltre, estende la nuova giurisdizione non solo alle vecchie ipotesi di "servizi
pubblici, edilizia ed urbanistica", ma a qualsiasi fattispecie di giurisdizione esclusiva
vecchia o nuova.
Si porta a compimento l'indirizzo che vede nella giurisdizione esclusiva "il ramo più fertile e
cioè più proiettato nel futuro della giurisdizione amministrativa". Nel contempo, la
risarcibilità dell'interesse legittimo, già prevista dal D.Lgs. n. 80 del 1998 (ma ricondotta
dalle sentenze della Corte Costituzionale n. 292 del 2000 e n. 281 del 2004 nei limiti della
delega conferita con la L. n. 59 del 1997) è estesa all'intero ambito delle situazioni
giuridiche giustiziabili davanti al giudice amministrativo.
9. In conclusione, l'ordinamento ha ora accolto il principio della risarcibilità della lesione
dell'interesse legittimo in conseguenza dell'illegittimità dell'atto amministrativo,
prevedendo - in attuazione della regola della concentrazione - che il giudice amministrativo
può conoscere di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno e disporlo.
10. Il tessuto normativo che è alla base della soluzione da adottare si può così sintetizzare.
Il D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 35, come sostituito dalla L. n. 205 del 2000, art. 7, lettera c),
nel comma 1 stabilisce che "Il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua
giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il
risarcimento del danno ingiusto". Il citato articolo, nel comma 4 (sostituendo il primo
periodo della L. n. 1034 del 1971, art. 7, comma 3), prevede che "Il tribunale amministrativo
regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative
all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica,
e agli altri diritti patrimoniali consequenziali". A sua volta, il comma 2 disciplina le
modalità di determinazione della somma dovuta, disponendo che ".. il giudice
amministrativo può stabilire i criteri in base ai quali l'amministrazione pubblica o il gestore
del pubblico servizio devono proporre a favore dell'avente titolo il pagamento di una
somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, con il ricorso
previsto dal testo unico approvato con R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, art. 27, comma 1,
numero 4), può essere chiesta la determinazione della somma dovuta".
11. La dichiarazione di incostituzionalità non ha colpito la normativa appena ricordata; ha
invece riguardato la L. n. 205 del 2000, art. 7 per la mancata esclusione dall'ambito della
giurisdizione esclusiva delle controversie "nelle quali può essere del tutto assente ogni
profilo riconducibile alla pubblica amministrazione - autorità", con il ritorno alla dicotomia
"diritti soggettivi - interessi legittimi", ripudiando il diverso criterio dei "blocchi di materie"
che mirava a trasformare il giudice amministrativo nel "giudice dell'amministrazione".
Si afferma in proposito che la giurisdizione esclusiva introdotta dalla L. n. 205 del 2000
appare configgere con i parametri costituzionali ed è qualitativamente diversa dalla
precedente, che riguardava specifiche controversie "connotate non già da una generica
rilevanza pubblicistica, bensì dall'intreccio di situazioni soggettive qualificabili come
interessi legittimi e come diritti soggettivi". Si precisa che l'adozione, da parte del
legislatore del 1998-2000, di un'idea di giurisdizione esclusiva, ancorata alla pura e
semplice presenza, in un certo settore dell'ordinamento, di un rilevante pubblico interesse,
avrebbe presupposto la modifica dell'art. 103 Cost., mai approvata, nel senso che "la
giurisdizione amministrativa ha ad oggetto le controversie con la pubblica amministrazione
nelle materie indicate dalla legge" (Atto Camera 7465, 13^ Legislatura). Viceversa, il vigente
art. 103 Cost., comma 1 "non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed
incondizionata discrezionalità nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie
devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare particolari
materie, nelle quali, la tutela nei confronti della pubblica amministrazione investe anche
diritti soggettivi". Il collegamento delle "materie" assoggettabili alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive è espresso dall'art. 103
Cost. laddove statuisce che quelle materie devono essere "particolari" rispetto a quelle già
devolute alla giurisdizione generale di legittimità, in cui la p.a. agisce come autorità nei
confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo.
In conclusione, il legislatore ordinario ben può ampliare l'area della giurisdizione esclusiva,
ma con riguardo a "materie particolari" in cui la giurisdizione naturale sugli interessi attrae
la cognizione dei diritti concorrenti e strettamente connessi. Ciò comporta che la mera
partecipazione della p.a. al giudizio non è sufficiente per radicare la giurisdizione del
giudice amministrativo - "il quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice "della"
pubblica amministrazione: con violazione dell'art. 25 Cost. e art. 102 Cost., comma 2" - e,
inoltre, non è sufficiente "il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella
controversia perchè questa possa essere devoluta al giudice amministrativo". Sono,
pertanto, sottratte alla funzione unificante della Corte di cassazione le sole pronunce che
investano i diritti soggettivi nei confronti dei quali, nel rispetto della "particolarità" della
materia nel senso sopra chiarito, il legislatore ordinario abbia legittimamente previsto la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo su diritti e interessi, nonchè quelle che
riguardano le forme di tutela che il giudice amministrativo ritenga di accordare all'interesse
legittimo.
12. Si tornerà sulle conseguenze che, dalle precedenti affermazioni di principio, la Corte ha
tratto a proposito del modo in cui il legislatore ha configurato le materie di giurisdizione
esclusiva delineate nel D.Lgs. n. 80 del 1998, artt. 33 e 34 modificati dalla L. n. 205 del
2000: punto sul quale la Corte si è ancora soffermata nella sentenza n. 191 del 2006 a
proposito del ruolo che, nel campo dell'espropriazione, assumono comportamenti volti alla
anticipata realizzazione di opere, pur sempre dichiarate di pubblica utilità, 13. Qui interessa
soffermarsi sul punto che la dichiarazione di incostituzionalità non ha investito le
disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 80, art. 35 come riformulate dalla L. n. 205 del 2000,
art. 7, lett. c).
La Corte ha osservato che "il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre,
anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non
costituisce sotto alcun profilo una nuova materia attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno
strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da
utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione".
Su questa parte della motivazione della sentenza 204, la Corte è tornata nella sentenza n.
191 di questo anno.
Ha in particolare considerato come sia da escludere che "per ciò solo che la domanda
proposta dal cittadino abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno, la giurisdizione
competa al giudice ordinario": ed ha osservato che dove "la legge - come fa il D.Lgs. n. 80
del 1998, art. 35 - costruisce il risarcimento del danno, ai fini del riparto di giurisdizione tra
giudice ordinario e giudice amministrativo, come strumento di tutela affermandone - come
è stato detto - il carattere "rimediale", essa non viola alcun precetto costituzionale e, anzi,
costituisce attuazione del precetto dell'art. 24 Cost. laddove questo esige che la tutela
giurisdizionale sia effettiva e sia resa in tempi ragionevoli". "In altri termini" - ha osservato
la Corte - "al precedente sistema che, in considerazione della natura intrinseca di diritto
soggettivo della situazione giuridica conseguente all'annullamento del provvedimento
amministrativo, attribuiva al giudice ordinario le controversie sul risarcimento del danno
conseguente all'annullamento di atti amministrativi (così il D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 35,
comma 5, come modificato dalla L. n. 205 del 2000, art. 7, lett. c)) il legislatore ha sostituito
(appunto con l'art. 35 cit.) un sistema che riconosce esclusivamente al giudice naturale della
legittimità dell'esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e
quindi anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno
sofferto per l'illegittimo esercizio della funzione".
14. Il lungo cammino sin qui percorso nel ricostruire la vicenda normativa è valso a rendere
intelligibile quale si debba oggi considerare il punto d'arrivo nella ricerca della soluzione del
primo degli aspetti segnalati all'inizio, ovverosia in base a quali criteri si trovi oggi ad essere
stabilito il riparto tra le giurisdizioni.
Rilevano a questo fine due momenti ed in particolare la situazione soggettiva del cittadino
considerata nel suo aspetto statico e gli effetti che l'ordinamento ricollega all'azione
amministrativa una volta che questa sia esercitata. La tutela giurisdizionale contro l'agire
illegittimo della pubblica amministrazione spetta al giudice ordinario, quante volte il diritto
del privato non sopporti compressione per effetto di un potere esercitato in modo
illegittimo o, se lo sopporti, quante volte l'azione della pubblica amministrazione non trovi
rispondenza in un precedente esercizio del potere, che sia riconoscibile come tale, perchè a
sua volta deliberato nei modi ed in presenza dei requisiti richiesti per valere come atto o
provvedimento e non come mera via di fatto. A questo fine, si ritiene che vada richiamato il
principio di diritto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 204 del 2000,
secondo cui la giurisdizione del giudice amministrativo resta in ogni caso delimitata dal
collegamento con l'esercizio in concreto del potere amministrativo secondo le forme tipiche
previste dall'ordinamento: ciò sia nella giurisdizione esclusiva che nella giurisdizione di
annullamento.
Il che non si verifica quando l'amministrazione agisca in posizione di parità con i soggetti
privati, ovvero quando l'operare del soggetto pubblico sia ascrivibile a mera attività
materiale, con la consapevolezza che si verte in questo ambito ogni volta che l'esercizio del
potere non sia riconoscibile neppure come indiretto ascendente della vicenda.
Esemplificando, l'amministrazione deve essere convenuta davanti al giudice ordinario in
tutte le ipotesi in etti l'azione risarcitoria costituisca reazione alla lesione di diritti
incomprimibili, come la salute (Cass. 7 febbraio 1997 n. 1187; 8 agosto 1995 n. 8681; 29
luglio 1995 n. 8300; 20 novembre 1992 n. 12386; 6 ottobre 1979 n. 5172) o l'integrità
personale.
Deve ancora essere convenuta davanti al giudice ordinario, quante volte la lesione del
patrimonio del privato sia l'effetto indiretto di un esercizio illegittimo o mancato di poteri,
ordinati a tutela del privato (Cass. 29 luglio 2005 n. 15916; 2 maggio 2003 n. 6719):
qui si è nell'ambito delle controversie meramente risarcitorie già contemplate nel D.Lgs. n.
80 del 1998, art. 33, comma 2, nel testo anteriore alla riformulazione attuatane con la
sentenza 204 del 2004, la cui previsione non è più necessaria, nella misura in cui in esse è
ravvisarle, più in generale, la reazione a meri comportamenti lesivi dell'amministrazione.
Nel settore delle occupazioni illegittime, sono poi chiaramente ascrivibili alla giurisdizione
ordinaria le forme di occupazione "usurpativa", caratterizzate dal tratto, che la
trasformazione irreversibile del fondo si produce in una situazione in cui una dichiarazione
di pubblica utilità manca affatto.
E alla stessa conclusione si deve pervenire nel caso in cui il decreto di espropriazione è pur
stato emesso, e però in relazione a bene, la cui destinazione ad opera di pubblica utilità la si
debba dire mai avvenuta giuridicamente od ormai venuta meno, per mancanza iniziale o
sopravvenuta scadenza del suo termine d'efficacia.
Dove per contro la situazione soggettiva, nei termini che si sono indicati, si presenta come
interesse legittimo, la tutela risarcitoria ne va chiesta al giudice amministrativo.
Conviene a tale riguardo soffermarsi su alcune fattispecie la cui classificazione ha sin qui
dato luogo a discussione ed il cui tratto peculiare si rinviene nella circostanza che oggetto
della domanda non è l'annullamento di un atto, ma appunto solo il risarcimento del danno.
Riconducigli alla giurisdizione del giudice amministrativo appaiono i casi in cui la lesione di
una situazione soggettiva dell'interessato è postulata come conseguenza d'un
comportamento inerte, si tratti di ritardo nell'emissione di un provvedimento risultato
favorevole o di silenzio.
Ciò che viene qui in rilievo è bensì un comportamento, ma il comportamento si risolve nella
violazione di una norma che regola il procedimento ordinato all'esercizio del potere e perciò
nella lesione di una situazione di interesse legittimo pretensivo (Ad. pl. 15 settembre 2005,
n. 7). non di un diritto soggettivo. Presenta analogie con questa situazione, quella valutata
dalla Corte costituzionale nella sua più recente decisione, dove parimenti l'accesso al
giudice amministrativo non è segnato da una domanda di annullamento, ma si considera
che ad attrarre la fattispecie nell'orbita della sua giurisdizione possa valere la presenza di un
concreto riconoscibile atto di esercizio del potere: quel potere, in particolare, che si è
manifestato nella dichiarazione di pubblica utilità.
15. - Resta da affrontare quello che all'inizio si è indicato come secondo aspetto
problematico della tutela del cittadino di fronte all'attività provvedimentale illegittima della
pubblica amministrazione, ovverosia la possibilità di domandare la sola tutela risarcitoria.
Da quando nell'ordinamento si è preso a considerare risarcibile la lesione di un interesse
legittimo, è emerso il tema se il privato si possa limitare a rivendicare per il diritto o
l'interesse leso la sola tutela risarcitoria e quale possa essere il trattamento processuale di
tale domanda.
16. Sino alla più recente sentenza della Corte costituzionale, si erano manifestate sul punto
due posizioni ermeneutiche in assoluto contrasto tra loro.
Secondo una prima, più diffusa opinione, "tutta amministrativa", il D.Lgs. n. 80 del 1998 e
la L. n. 205 del 2000 avrebbero attribuito, in via generale, al giudice amministrativo la
cognizione delle pretese di risarcimento del danno da atti illegittimi della p.a., in sede di
giurisdizione esclusiva (in virtù dell'art. 35, comma 1) o di legittimità (in virtù del comma
4), che entrambe hanno ora assunto il connotato di giurisdizione "piena".
In tal senso è apparso orientarsi il Consiglio di Stato, secondo cui la ratio della riforma
iniziata con il D.Lgs. n. 80 del 1998 e completata con la L. n. 205 del 2000 è stata quella di
concentrare davanti ad un unico giudice, quello amministrativo, in coerenza con l'art. 24
Cost., ogni forma di tutela, anche risarcitoria, nei confronti della p.a., quando viene in gioco
la lesione di interessi legittimi (Cons. Stato, sez. 6^, 18 giugno 2002 n. 3338; Ad. plen. 26
marzo 2003 n. 4; Ad plen. 30 agosto 2005 n. 8).
In particolare, alcune pronunce (Ad plen. 4 del 2003) hanno fatto propria la tesi per cui le
norme richiamate avrebbero previsto, come necessaria condizione per l'accesso alla tutela
risarcitoria, che nel termine di decadenza per l'impugnazione fosse anche esperita con esito
favorevole l'azione di annullamento, ancorchè la tutela risarcitoria possa essere richiesta
non insieme, ma successivamente.
Ciò in ragione del principio della cd. pregiudiziale amministrativa.
L'annullamento avrebbe dovuto essere richiesto in via principale nel termine di decadenza,
perchè al giudice amministrativo non è consentita la cognizione incidentale della
illegittimità degli atti amministrativi nè esso è munito del potere di disapplicazione.
Consegue che, se la tutela di annullamento non è richiesta nel termine per l'impugnazione
del provvedimento, questo diviene inoppugnabile, precludendo l'accesso non solo alla tutela
risarcitoria erogabile dal giudice amministrativo, ma anche a quella che potesse essere
chiesta al giudice ordinario, facendo valere l'atto illegittimo come elemento costitutivo
dell'illecito civile (secondo la sent. 500 del 1999 delle S.U.).
Il Consiglio di Stato aveva peraltro ammesso che l'azione risarcitoria potesse essere
proposta in taluni casi davanti al giudice amministrativo come domanda autonoma (Cons.
Stato, sez. 6^, 18 giugno 2002 n. 3338).
E ciò, oltre che nei casi di danno da ritardo, in quelli in cui l'annullamento del
provvedimento vi sia già stato, ad opera dello stesso giudice amministrativo (ad esempio in
epoca in cui la giurisdizione amministrativa non era ancora una giurisdizione "piena") od a
seguito di annullamento su ricorso amministrativo o straordinario o di annullamento di
ufficio.
Nello scenario così delineato, la giurisdizione del giudice amministrativo sulle pretese
risarcitorie del cittadino che si assume leso in una posizione giuridica sostanziale (di diritto
o di interesse legittimo) dall'esercizio illegittimo della funzione amministrativa non
dovrebbe concorrere con una, sia pur residuale, giurisdizione del giudice ordinario. Ovvio
che il giudice amministrativo, nato come giudice dell'atto e non del rapporto, avrà non
poche difficoltà a distinguere il danno specie sotto il profilo della determinazione del
quantum del danno risarcibile: dovrà mutuare le regole civilistiche sul concetto stesso di
danno come fatto, sul nesso di causalità, anche ipotetico (si pensi all'art. 1221 c.c.), sui
criteri di valutazione ex art. 1223, 1225, 1226 c.c., art. 1227 c.c., comma 1 (concorso di
cause) e comma 2 (danni evitabili con l'ordinaria diligenza).
Una diversa ricostruzione, "tutta civilistica", è stata prospettata da parte della dottrina,
muovendo dai principi affermati dalla sent. 500 del 1999 delle S.U..
Punto di partenza ne è la qualificazione della pretesa risarcitoria come diritto soggettivo, sia
nei confronti del privato che della p.a., in una concezione che nega rilevanza ai successivi
interventi normativi, i quali non potrebbero scalfire, con il mero collegamento processuale,
la tutela sostanziale riconosciuta al diritto soggettivo, nei confronti di chiunque azionato.
Si è mossi dalla considerazione che, secondo la Corte costituzionale, "il potere riconosciuto
al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica,
il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova "materia"
attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello
classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei
confronti della p.a.".
Il profilo di connessione processuale non avrebbe escluso tuttavia che la tutela sia
apprestata ad una posizione sostanziale avente natura di diritto soggettivo: il diritto al
risarcimento del danno ingiusto.
Il danno ingiusto, determinato dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante (sia
esso diritto soggettivo o interesse legittimo: sent. 500 del 1999), sarebbe fonte di una
obbligazione di risarcimento (ex art. 2043 c.c. o ex art. 1218 c.c. secondo il possibile diverso
atteggiarsi della responsabilità della p.a.), mentre la parte che chiede il risarcimento aziona
sempre un diritto soggettivo. La sentenza n. 204 del 2004 della Corte Costituzionale
avrebbe, quindi, solo negato che il novellato art. 35 abbia istituito una nuova giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo avente ad oggetto il diritto al risarcimento del danno.
Il punto rilevante, nella decisione della Corte, sarebbe stato là dove si è rilevato che
l'attribuzione dell'ulteriore strumento della tutela risarcitoria, venuto ad aggiungersi a
quello classico della tutela di annullamento, è valsa a configurare la giurisdizione del
giudice amministrativo, in attuazione del precetto dell'art. 24 Cost., come giurisdizione atta
a garantire piena ed effettiva tutela alle situazioni soggettive ad essa devolute, per evitare al
cittadino di doversi rivolgere a due diversi ordini di giudici, cioè a quello amministrativo
per conseguire prima l'annullamento e poi a quello ordinario per ottenere il risarcimento
del danno, come diritto patrimoniale consequenziale.
E' stato messo in dubbio che la Corte abbia inteso riferirsi soltanto alla giurisdizione
esclusiva (art. 35, comma 1), ovvero anche a quella generale di legittimità (art. 35, comma
4), ma si è considerato corretto attribuire ampia valenza alla ravvisata estensione dei poteri
del g.a. in entrambe le giurisdizioni, che risultano quindi connotate da pienezza.
La Corte non si sarebbe peraltro in alcun modo espressa sulla natura del risarcimento del
danno.
Se, quindi, si tiene ferma la qualificazione del diritto al risarcimento del danno ingiusto
come diritto soggettivo, resterebbe valido il principio di ordine generale secondo cui il
giudice dei diritti soggettivi è il giudice ordinario (art. 2 della l.a.c.a).
Di qui la conseguenza che il giudice della tutela risarcitoria sarebbe stato, di regola, il
giudice ordinario.
A questa regola l'art. 35, commi 1 e 4, avrebbe apportato deroga (secondo il criterio della
connessione), col consentire che il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla
sua giurisdizione esclusiva, possa disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma
specifica, il risarcimento del danno ingiusto e che nell'esercizio della sua giurisdizione (di
legittimità) possa conoscere di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del
danno e agli altri diritti patrimoniali consequenziali.
Non sarebbe stato tuttavia corretto sostenere che si tratti di una concentrazione necessaria,
con attrazione inscindibile della tutela risarcitoria al seguito di quella di annullamento, in
presenza di un atto amministrativo da impugnare. La concentrazione sarebbe infatti
funzionale, in termini di pienezza ed effettività della tutela, alle esigenze del cittadino che
chiede giustizia nei confronti della p.a., e pertanto non la si potrebbe ritenere doverosa e
tale da dover essere praticata come unica via esclusiva.
Nè, d'altra parte, sarebbe desumibile dal testo normativo - così come interpretato
costituzionalmente - che al riconoscimento, in positivo, al giudice amministrativo del potere
di disporre il risarcimento del danno ingiusto (comma 1) e di conoscere delle questioni
relative all'eventuale risarcimento del danno (comma 4), si unisca, in negativo, la totale
sottrazione di eguale potere al giudice ordinario.
Il giudice amministrativo avrebbe potuto conoscere di questioni relative al risarcimento del
danno e, cioè, di questioni attinenti ad un diritto soggettivo la cui cognizione è di regola
attribuita al giudice ordinario, nel caso in cui il cittadino si fosse avvalso della facoltà di
richiedere a tale giudice la tutela risarcitoria congiuntamente a quella di annullamento. In
questa ipotesi, come è stato osservato, le norme in esame realizzerebbero una deroga alla
giurisdizione per ragioni di connessione.
Si è ancora notato che la prevista concentrazione troverebbe giustificazione nel tipo di
tutela che, oltre a quella di annullamento, il giudice amministrativo può somministrare:
una "tutela ulteriore" che è di completamento rispetto a quella primaria della quale postula
l'esito positivo, nel senso che serve a rimuovere i pregiudizi che l'annullamento non ha
potuto eliminare.
E' per effetto della dipendenza della tutela ulteriore da quella di annullamento che il giudice
amministrativo può prendere in esame questioni relative al risarcimento (ed agli altri diritti
patrimoniali consequenziali) solo se gli è richiesto e ritiene di concedere l'annullamento
dell'atto lesivo.
Quanto alle conseguenze della omessa richiesta della tutela di annullamento nel termine di
decadenza, con conseguente inoppugnabilità dell'atto, si è rilevato che la decadenza
preclude la via della tutela di annullamento e, di conseguenza, della tutela risarcitoria di
completamento (da erogare nelle peculiari forme di cui all'art. 35, comma 2).
Non sarebbe invece precluso il ricorso alla sola tutela risarcitoria.
Si è rilevato, infatti, che in un sistema in cui al cittadino sono riconosciuti sia la tutela di
annullamento, sia quella risarcitoria (e questa nella duplice connotazione di tutela di
completamento che al g.a. è dato somministrare ex art. 35, comma 2, e di tutela risarcitoria
secondo le regole del diritto civile), non necessariamente le due forme di tutela debbono
essere spese entrambe.
Se il danneggiato dall'esercizio illegittimo del potere amministrativo non si vuole avvalere,
non avendone interesse, della tutela costitutiva di annullamento del provvedimento lesivo
della sua posizione giuridica sostanziale, ma ritiene, invece, conforme al suo concreto
interesse avvalersi della sola tutela risarcitoria, potrà farlo, in via autonoma, davanti al
giudice ordinario.
Quest'ultimo non dovrà giudicare in via incidentale della legittimità dell'atto, in funzione
della sua disapplicazione (art. 4, comma 1, l.a.c.a.), ma dovrà valutare il provvedimento solo
come fatto, come elemento costitutivo dell'illecito. Non si porrebbe un problema di
pregiudizialità in senso tecnico, poichè tale problema si poneva solo quando, prima della
sentenza n. 500 del 1999, era necessario attendere l'annullamento per poter risarcire il
danno arrecato dal sacrificio di situazioni di diritto degradato ad interesse. Una volta
riconosciuto che la lesione dell'interesse protetto obbliga anche la p.a. al risarcimento del
danno, è venuto meno il nesso di dipendenza della risarcibilità dal previo annullamento
dell'atto.
Nelle ipotesi in cui l'annullamento non fosse stato chiesto, potrebbe eventualmente porsi un
problema attinente al merito della decisione, sotto il profilo se nel danno risarcibile rientri
la situazione determinata dal provvedimento di cui non si sia voluto domandare
l'annullamento.
Nelle ipotesi in cui l'annullamento sia stato già disposto dallo stesso giudice amministrativo
(in epoca in cui la giurisdizione amministrativa non era ancora una giurisdizione "piena"), a
seguito di ricorso straordinario, o d'ufficio, ovvero nel caso in cui manchi l'atto, come
avviene per il danno da ritardo, si sarebbe potuto egualmente adire per la tutela risarcitoria
il giudice ordinario, poichè l'estensione della cognizione del giudice amministrativo alle
questioni relative al risarcimento postula che la relativa tutela sia stata richiesta
congiuntamente a quella di annullamento.
17. La sopravvenuta decisione della Corte costituzionale spiana la strada e indirizza la scelta
verso la concentrazione della tutela risarcitoria presso il giudice amministrativo, ma lascia
impregiudicato il punto del trattamento processuale della tutela risarcitoria.
18. - Le Sezioni unite - nell'esercizio della funzione di riparto della giurisdizione (artt. 31, 41
c.p.c., art. 360 c.p.c., n. 1, art. 362 c.p.c.; L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 37, comma 2) ad esse
attribuito dal nuovo codice di rito (dopo la soppressione del Tribunale dei conflitti, istituito
con L. 31 marzo 1877, n. 3761, cd. L. Mancini-Peruzzi) - ritengono che sia necessario
accedere ad una soluzione, che, mentre tiene conto dei principi costituzionali che legano la
tutela giurisdizionale offerta dai due ordini di giudici alle situazioni soggettive, alla luce del
criterio enunciato dall'art. 103 Cost., fa propri i valori di effettività e concentrazione delle
tutele sottesi all'art. 111 Cost. - e in particolare al principio della ragionevole durata dei
processi - che la Corte costituzionale ha assunto come criterio-guida di interpretazione delle
altre norme in materia di giustizia.
19. In quest'ottica, va adeguatamente ricordato che alla tutela risarcitoria dell'interesse
legittimo nei confronti della pubblica amministrazione questa Corte è pervenuta non già
estendendo la detta tutela dai diritti soggettivi agli interessi legittimi, - bensì affermando
che, sul piano della tutela risarcitoria, non si può fare differenza tra interessi che trovano
protezione diretta nell'ordinamento e interessi che trovano protezione attraverso
l'intermediazione del potere amministrativo.
Questa svolta - che cancella sul piano sostanziale, con riferimento alla tutela risarcitoria, il
divario tra diritti ed interessi altrimenti rilevanti - matura in un momento storico in cui il
legislatore ha imboccato la strada che lo porterà a configurare la giurisdizione del giudice
amministrativo come una giurisdizione piena ed esige, di conseguenza, che sia data una più
coerente lettura al sistema del riparto di giurisdizioni, in particolare una lettura che leghi la
potestas iudicandi alla natura della situazione soggettiva.
La tesi "tutta civilistica" non può essere condivisa allorchè disattende la svolta voluta dal
legislatore di assicurare all'interesse legittimo una tutela piena, concentrata dinanzi a un
unico giudice per il principio di effettività che reca in sè la ragionevolezza dei tempi di
tutela.
La soluzione, fatta propria dal legislatore del 2000 e in linea con la portata di "norma di
sistema" riconosciuta dalla Corte costituzionale all'art. 24 Cost. con la sentenza 204 del
2004, da ultimo ribadita, è coerente con la riaffermazione del criterio tradizionale del
riparto fondato non sulla distinzione tra le tecniche di tutela, bensì sulla natura sostanziale
delle situazioni soggettive. D'altra parte, questa ricostruzione è coerente anche con il
processo di evoluzione che caratterizza l'interesse legittimo, che va perdendo la sua
tradizionale funzione meramente famulativa o ancillare rispetto all'interesse pubblico, per
assumere un più marcato connotato sostanziale, coerentemente del resto con l'evoluzione
della stessa nozione di interesse pubblico, al cui perseguimento si accompagna un aumento
della discrezionalità, ma anche della connessa responsabilità dell'amministrazione.
Deriva da ciò che - in linea di principio e salvo quanto si è già considerato - la giurisdizione
sulla tutela dell'interesse legittimo non può che spettare al giudice amministrativo, sia nella
tecnica della tutela di annullamento, sia nelle tecniche della tutela risarcitoria, in forma
specifica o per equivalente: tecniche che non possono essere oggetto di separata e distinta
considerazione ai fini della giurisdizione.
20. Del pari non può essere condivisa la soluzione cd.
"amministrativa", dove, da una parte, pone un nesso inscindibile, non richiesto dalle norme
di legge nè dal quadro costituzionale, tra tutela di annullamento e tutela risarcitoria (Ad.
Plen. n. 4 del 2003), dall'altra, sembra ricomprendere nella giurisdizione amministrativa
ogni contesto caratterizzato dalla presenza della funzione pubblica senza esigere che di tale
funzione si sia avuto un concreto esercizio, nei modi e forme tipici del potere
amministrativo, che soli consentono di riconoscere l'atto come espressione di un potere
esistente.
Dal primo punto di vista non è privo di rilievo il considerare che la teoria della
pregiudizialità amministrativa, intesa come dipendenza del diritto al risarcimento dal
previo annullamento, era maturata in un contesto nel quale da un lato si escludeva la
risarcibilità del pregiudizio sofferto per il sacrificio di situazioni di interesse legittimo,
dall'altro si era omologato al trattamento di questa situazione quella del diritto soggettivo
degradato ad interesse.
Nè è senza importanza considerare che la soggezione a termine di decadenza è prevista
dalla legge per l'azione di annullamento e, in questo sistema, l'accertamento incidentale
dell'illegittimità viene negato non solo per escludere che vizi prima non rilevati possano
esserlo dopo dando luogo all'annullamento di provvedimenti che presuppongono quello
non impugnato, ma anche perchè gli effetti dell'azione di annullamento non si esauriscono
nel rapporto tra amministrazione e soggetto leso e, ben spesso, si rifrangono su altri
soggetti in conflitto con chi sollecita l'annullamento.
Ma, non di questo si tratta quando non l'annullamento dell'atto è preteso, bensì
l'accertamento della illiceità della situazione determinata dalla sua adozione ed esecuzione,
accertamento che esaurisce la sua rilevanza nel rapporto tra soggetto leso e pubblica
amministrazione.
Queste considerazioni, unitamente ai ricordati processi di cambiamento che caratterizzano
l'interesse legittimo e la sua relazione con l'interesse pubblico, giustificano ampiamente
l'abbandono di un approccio di tipo tradizionale. Ammettere la necessaria dipendenza del
risarcimento dal previo annullamento dell'atto illegittimo e dannoso, anzichè dal solo
accertamento della sua illegittimità significherebbe restringere la tutela che spetta al
privato di fronte alla pubblica amministrazione ed assoggettare il suo diritto al risarcimento
del danno, anzichè alla regola generale della prescrizione, ad una Verwirkung
amministrativa, tutta italiana.
La conclusione da accogliere è dunque che, dopo l'irruzione nel mondo del diritto della
risarcibilità - effettiva e non solo dichiarata - anche dell'interesse legittimo, e dopo i
ricordati tentativi dei primi anni novanta della doppia tutela (espressamente abrogata sia
dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 35 sia " dalla L. n. 205 del 2000, art. 7, lett. c)), il legislatore
di fine secolo non ha inteso ridurre la tutela risarcitoria al solo profilo di completamento di
quella demolitaria, ma, mentre l'ha riconosciuta con i caratteri propri del diritto al
risarcimento del danno, ha ritenuto di affidare la corrispondente tutela giudiziaria al
giudice amministrativo, nell'intento di rendere il conseguimento di tale tutela più agevole
per il cittadino.
21. In definitiva, si può affermare che entrambe le tesi su esposte ("tutta civilistica" e "tutta
amministrativistica") conducono ad una possibile diminuzione dell'effettività della tutela
del cittadino, in violazione dei principi derivanti dall'art. 24 Cost..
Quella civilistica, perchè finisce per frammentare o moltiplicare le sedi e i tempi della tutela
giurisdizionale, per giunta secondo una direttrice che si allontana dalla regola del riparto.
Quella amministrativistica, perchè rischia di assicurare all'interesse legittimo una
protezione che comprime l'ambito della tutela risarcitoria riducendone, per modalità o
contenuti, la portata.
Essa altresì, secondo alcuni svolgimenti già segnalati, finisce con l'estendere l'area della
giurisdizione amministrativa al di là della connessione con l'esercizio in concreto del potere
pubblico.
In una situazione del genere, l'osservazione secondo la quale il legislatore del 2000 ha
opportunamente concentrato le forme di tutela dell'interesse legittimo in una sola sede
giudiziaria deve essere accompagnata dalla consapevolezza della perdurante vigenza della
L. 20 marzo 1865, artt. 2 e 4, all. E, che configurano comunque a tutela del cittadino la
giurisdizione ordinaria come presidio per tutte le materie in cui- si faccia questione "di un
diritto civile o politico".
Il nostro sistema si basa appunto sull'art. 2907 c.c., cui fa riscontro l'art. 99 c.p.c., ed è un
sistema di civil law, in cui il riconoscimento della posizione soggettiva da tutelare,
cristallizzata dal riconoscimento costituzionale (artt. 24 e 113 Cost.), precede la tutela
giurisdizionale.
In un sistema del genere, la l. del 1865, art. 2 - secondo una lettura coerente con le
disposizioni di cui al Titolo 4^ della Costituzione - costituisce, in definitiva, una norma di
chiusura del sistema, che attribuisce al giudice ordinario il potere-dovere di assicurare la
pienezza della tutela, quando altri valori di pari rilievo costituzionale non rendono legittimo
il ricorso a diversi modelli di tutela.
22. Quante volte si sia in presenza di atti riferibili oltre che ad una pubblica
amministrazione a soggetti ad essa equiparati ai fini della tutela giudiziaria del destinatario
del provvedimento e l'atto sia capace di esplicare i propri effetti perchè il potere non
incontra ostacolo in diritti incomprimibili della persona, la tutela giudiziaria deve dunque
essere chiesta al giudice amministrativo.
Gli potrà essere chiesta la tutela demolitoria e, insieme o successivamente, la tutela
risarcitoria completiva.
Ma la parte potrà chiedere al giudice amministrativo anche solo la tutela risarcitoria, senza
dover osservare allora il termine di decadenza pertinente all'azione di annullamento.
23. A proposito di questo secondo enunciato, merita da un lato soffermarsi qui sulle
considerazioni, già svolte, che hanno condotto a questa interpretazione delle norme
attributive della giurisdizione e dall'altro renderne esplicite le conseguente.
Si è notato che, in rapporto alla tutela risarcitoria, è venuta meno sul piano del diritto
sostanziale la differenza tra le situazioni che nell'ordinamento trovano protezione.
L'evoluzione dell'ordinamento ha cioè condotto ad omologare gli interessi legittimi ai diritti
quanto al bagaglio delle tutele:
com'era stato per le situazioni di diritto soggettivo, di norma dotate, oltre che di tutela
risarcitoria, anche di una tutela ripristinatoria, completata dal diritto al risarcimento del
danno, così per gli interessi legittimi una tutela risarcitoria autonoma è stata affiancata alla
tutela reale di annullamento, la sola di cui le situazioni di interesse legittimo erano prima
dotate, e la tutela di annullamento è stata inoltre conformata in modo da comprendervi il
risarcimento del danno, che con l'annullamento non si può elidere.
Se dal piano delle forme di tutela ci si sposta a quello del riparto della funzione di tutela
giurisdizionale dei diritti e degli interessi nei confronti della pubblica amministrazione,
un'interpretazione costituzionalmente orientata delle norme che hanno attribuito al giudice
amministrativo la giurisdizione sul risarcimento del danno, consente di riconoscere loro la
portata d'avere dato al giudice amministrativo giurisdizione anche solo in rapporto alla
tutela risarcitoria autonoma.
Ma ciò perchè, nel bilanciamento tra valori rilevanti sul piano costituzionale, è da
riconoscere legittimità ad una norma che mentre concentra la tutela giurisdizionale presso
il giudice amministrativo, non reca pregiudizio alla tutela sostanziale delle situazioni
soggettive sacrificate dall'agire illegittimo della pubblica amministrazione.
D'altra parte, questa interpretazione è la sola che riesce a rendere operanti insieme, per le
situazioni soggettive di cui ora ci si occupa, il valore della giurisdizione piena e quello di una
tutela sostanziale degli interessi legittimi non difforme da ogni altra situazione protetta in
rapporto alla tutela risarcitoria. Sicchè dalla premessa discende in modo necessario la
conseguenza che il giudice amministrativo non possa, allo stato della legislazione, se non
esercitare la giurisdizione, che le norme gli attribuiscono quanto alla tutela risarcitoria
autonoma, prescindendo dalle regole proprie della giurisdizione di annullamento.
Si può obiettare, che è nella disponibilità del legislatore disciplinare la tutela delle situazioni
soggettive assoggettando a termini di decadenza l'esercizio dell'azione.
Tuttavia, una norma che oggi manca e che in modo esplicito assoggettasse ad un termine di
decadenza la domanda di solo risarcimento del danno davanti al giudice amministrativo
non porrebbe essere formulata nel senso di rendere il termine sostanzialmente eguale a
quello cui è soggetta la domanda di annullamento, perchè ciò varrebbe a porre il diverso
problema della legittimità di una disciplina che tornasse a negare la tutela risarcitoria
autonoma per le situazioni soggettive sacrificate dall'esercizio illegittimo del potere della
pubblica amministrazione.
Resta da esplicitare un altro aspetto che inerisce in modo necessario all'avere affermato che
la L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 7 ha dato al giudice amministrativo la giurisdizione sulla
domanda autonoma di risarcimento del danno.
Tutela risarcitoria autonoma delle situazioni di interesse legittimo significa tutela che spetta
alla parte per il fatto che la situazione soggettiva è stata sacrificata da un potere esercitato
in modo illegittimo e la domanda con cui questa tutela è chiesta richiede al giudice di
accertare l'illegittimità di tale agire.
Questo accertamento non può perciò risultare precluso dalla inoppugnabilità del
provvedimento nè il diritto al risarcimento può essere per sè disconosciuto da ciò che invece
concorre a determinare il danno, ovverosia la regolazione che il rapporto ha avuto sulla
base del provvedimento e che la pubblica amministrazione ha mantenuto nonostante la sua
illegittimità.
Dunque, il rifiuto della tutela risarcitoria autonoma, motivato sotto gli aspetti indicati, si
rivelerà sindacabile attraverso il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla
giurisdizione.
Il giudice amministrativo avrà infatti rifiutato di esercitare una giurisdizione che gli
appartiene.
24. Al termine di questo lungo excursus, i principi di diritto enunciati da queste Sezioni
Unite sono i seguenti:
1) la giurisdizione del giudice amministrativo sussiste in presenza di un concreto esercizio
del potere, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in
consonanza con le norme che lo regolano;
2) spetta al giudice amministrativo disporre le diverse forme di tutela che l'ordinamento
appresta per le situazioni soggettive sacrificate dall'esercizio illegittimo del potere e tra
queste forme di tutela rientra il risarcimento del danno;
3) Il giudice amministrativo rifiuta di esercitare la giurisdizione e la sua decisione, a norma
dell'art. 362 c.p.c., comma 1, si presta a cassazione da parte delle sezioni (unite quale
giudice del riparto della giurisdizione, se l'esame del merito della domanda autonoma di
risarcimento del danno è rifiutato per la ragione che nel termine per ciò stabilito non sono
stati chiesti l'annullamento dell'atto e la conseguente rimozione dei suoi effetti.
25. Va affermata, invece, la giurisdizione ordinaria sulla controversia promossa nei
confronti del prof. F.E..
Ai fini della risoluzione del problema processuale non rileva stabilire se il F. abbia agito
quale organo dell'Università, ovvero, a causa del perseguimento di finalità private, si sia
verificata la cd. "frattura" del rapporto organico. Nell'uno, come nell'altro caso, l'azione
risarcitoria è proposta nei confronti del funzionario in proprio, e, quindi, nel confronti di un
soggetto privato, distinto dall'amministrazione, con la quale, al più, può risultare
solidalmente obbligato (art. 28 Cost.).
La questione di giurisdizione, infatti, dalla quale esulano le altre sopra accennate, va risolta
esclusivamente sulla base dell'art. 103 Cost., che non consente di ritenere che il giudice
amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una pubblica
amministrazione, o soggetti ad essa equiparati.
26. Al riguardo, la giurisprudenza delle sezioni unite si è espressa in modo univoco nel
ritenere essenziale, perchè possa prospettarsi l'appartenenza della controversia alla
giurisdizione amministrativa, che sia proposte nei confronti di soggetti titolari di poteri
amministrativi (Cass. S.U. 22494/2004, 2560/2005, 7800/2005). Il principio ha trovato
specifica applicazione per il caso di pretesa risarcitoria avanzata nei confronti del
funzionario cui era imputata l'adozione di provvedimento illegittimo (Cass. S.U. 3357/1992)
ed ulteriormente precisato nel senso che la controversia va devoluta alla giurisdizione del
giudice ordinario in quanto fondata sulla deduzione di un fatto illecito extracontrattuale e
intercorrente tra privati, non ostando a ciò la proposizione della domanda anche nei
confronti dell'ente pubblico sotto il profilo della responsabilità solidale dello stesso,
attenendo al merito l'effettiva riferibilità all'ente dei comportamenti dei funzionari (Cass.
S.u. 4591/2006).
Va aggiunto che, in linea generale, la giurisdizione è inderogabile per ragioni di connessione
(salva diversa, specifica, previsione normativa) e che il coordinamento tra le giurisdizioni su
rapporti diversi ma interdipendenti può trovare soluzione secondo le regole della
sospensione del procedimento pregiudicato (Cass. S.U. 3508/2003).
27. Conclusivamente, va dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione
alla domanda di risarcimento del danno proposta nei confronti dell'Università degli studi di
Pisa; la giurisdizione ordinaria per la domanda proposta contro il prof. F.E..
Sussistono, evidenti, giusti motivi per compensare le spese del giudizio tra il ricorrente e il
F., mentre nulla va disposto per le spese nei confronti dell'Università, che non ha svolto
attività difensive in questo giudizio.
P.Q.M.
La Corte, a sezioni unite, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo sulla
domanda proposta nei confronti dell'Università degli studi di Pisa; dichiara la giurisdizione
del giudice ordinario sulla domanda proposta nei confronti di F.E.; compensa le spese del
giudizio tra il C. e il F..
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civile, il 24 novembre
2005.
Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2006
Consiglio di stato , sez. V, 31 maggio 2007, n. 2822
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso in appello n. 8186/2005, proposto da GLOBL BY FLIGHT
S.P.A. corrente in MASSAFRA (TA), in persona del legale
rappresentante p.t., in qualità di mandataria dell'ATI con Detrasud
srl rappresentata e difesa dagli avv.ti prof. Ernesto Sticchi Damiani
e Luigi Nilo con domicilio eletto in Roma presso il primo in via
Bocca di Leone n. 78 (Studio BDL)
contro
AUSL TA/1 in persona del legale rappresentante p.t. rappresentata e
difesa dall'avv. Filippo Panizzolo con domicilio in Roma via Cosseria
n. 2 presso Alfredo Placidi
SDA Logistica non costituita
Demax q.le capogruppo ATI non costituita
ATI - Arco non costituita
ATI Rameco non costituita
per la riforma
della sentenza del TAR Puglia II sez. di Lecce n. 2775/2005, resa tra
le parti, concernente AGGIUDICAZIONE SERVIZI DI CUSTODIA E GESTIONE
MAGAZZINO C/O PRESIDIO OSPEDALIERO;
Visto l'atto di appello con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'AUSL TA/1
Viste le memorie difensive;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza dell'11 luglio 2006, relatore il Consigliere
Nicola Russo ed uditi, altresì, gli avvocati Sticchi Damiani e
Ambrosino per delega di Panizzolo;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
Fatto
Con la sentenza oggetto del presente appello il TAR ha respinto il ricorso presentato
avverso la determinazione assunta dall'AUSL appellata di non procedere all'aggiudicazione
in favore dell'appellante della gara per cui è causa, in applicazione della clausola di gara
che attribuiva tale facoltà in ipotesi di una sola offerta valida. E ciò in quanto le altre due
offerte in gara erano risultate una inammissibile e l'altra non aveva superato la soglia di
punteggio prevista per l'accesso alla fase finale di valutazione delle offerte economiche.
Con l'atto di appello l'originaria ricorrente contesta la sentenza in particolare evidenziando
come sia sulla base delle disposizioni di legge sia sulla base delle previsioni di gara, non
sarebbe consentito ritenere integrata la fattispecie di una sola offerta valida, allorché vi
siano state offerte ammesse e valutate e che solo in sede di apprezzamento tecnico non
abbiano raggiunto il punteggio necessario per accedere alla fase finale della comparazione.
In sede cautelare, con ordinanza n. 1230/06 la Sezione ha accolto l'istanza di sospensione
«con il conseguente prosieguo delle operazioni di gara, salvi gli ulteriori provvedimenti
dell'amministrazione»
In vista dell'udienza di merito l'AUSL ha eccepito la sopravvenuta improcedibilità del
ricorso allegando che la medesima amministrazione appellata con deliberazione
direttoriale n. 962/06 l'AUSL riparrezzando le circostanza di pubblico interesse sottese alla
determinazione di esternalizzare i servizi in oggetto e di indire la gara per cui è causa, ha
motivatamente ritenuto di annullare (rectius revocare) l'indizione medesima e quindi
l'intero
procedimento
di
gara.
In discussione e con le depositate note di udienza parte appellante che aveva depositato
memoria illustrativa del merito della controversia, ha resistito alla eccepita eccezione di
improcedibilità.
Alla pubblica udienza dell'11 luglio 2006 il ricorso è stato spedito
Diritto
Assume valenza assorbente la eccezione proposta dall'AUSL appellata con memoria
29.6.06, relativa alla improcedibilità dell'originario ricorso introduttivo del giudizio.
Ed invero l'AUSL ha allegato che, con deliberazione 962/06 la medesima amministrazione
appellata, ha annullato la determinazione di porre in gara il servizio per cui in causa, sulla
base di nuovo apprezzamento in termini di pubblico interesse. Trattasi, quindi, di revoca,
come giustamente la medesima difesa dell'appellata qualifica l'atto in commento.
Parte appellante con le depositate note di udienza e nel corso della stessa udienza di merito
ha
resistito
all'eccezione
di
improcedibilità
affermando
che:
- il nuovo atto, costituendo revoca e non autoannullamento, lascerebbe integro l'interesse
alla decisione del ricorso "al fine di ottenere l'indennizzo di cui art.21-quinquies della
l.241/1990.;
- sussisterebbe comunque un interesse ad una "esemplare condanna alle spese";
- permarrebbe comunque l'interesse all'annullamento dell'atto impugnato in primo grado
in vista della eventuale tutela risarcitoria; Tutti tali ordini argomentativi devono essere
disattesi.
Quanto al primo, l'ottenibilità dell'indennizzo ex art.21, è questione che afferisce
direttamente alla determinazione di revoca e ai suoi effetti e quindi esula dall'ambito del
presente giudizio. Quanto al secondo profilo, può evidenziarsi che alla luce della indubbia
complessità della questione posta dal ricorso, anche a voler confermare, nel carattere
sommario della delibazione volta alla cd. soccombenza virtuale, l'apprezzamento per le
censure già manifestato dalla Sezione in sede cautelare, le spese meriterebbero comunque
piena compensazione. alla stregua della peculiarità della fattispecie relativa alla complessa
distinzione tra offerte invalide e offerte che non superano una determinata soglia di
punteggio.
Quanto infine al terzo profilo e cioè quanto all'interesse connesso alla eventuale
prospettiva risarcitoria, deve, ad avviso del Collegio, farsi applicazione del recentissimo
arresto delle Sezione Unite della Corte di Cassazione (nn. 13659 e 13660/06), secondo cui
l'azione
risarcitoria
da
lesione
di
interesse
legittimo
è
proponibile:
- innanzi al GA (e non innanzi al Giudice Ordinario, come pure si era in passato ritenuto da
parte
delle
medesime
SSUU);
- e anche a prescindere dall'utile previo esperimento della domanda di annullamento.
E,
come
tale,
deve
essere
delibata
dal
G.A.
all'uopo
investito.
A tal fine appare, però, opportuno completare le argomentazioni poste a base delle
pronunce delle SSUU, evidenziando in primo luogo come le stesse, a ben vedere, non si
pongono in aperta contraddizione con il noto arresto rappresentato da Ad. Plen. 4/2003,
atteso che tracciano un possibile sbocco della successiva evoluzione ordinamentale recata
dall'interpretazione che la Corte Costituzionale (con le note sentenze 204/2004 e
191/2006) ha fornito alla tutela risarcitoria da lesione di interessi legittimi.
Il riferimento è in particolare al carattere "rimediale" della tutela risarcitoria così definito
dal Giudice delle Leggi, che su tale base ha evidenziato come "la dichiarazione di
incostituzionalità - pronunciata a carico di altre previsioni contenute nello stesso contesto
normativo - non investe in alcun modo..... l’art.7 della l.205/2000 nella parte in cui (lettera
c) sostituisce l’art.35 del d.lgs.80/1998"; atteso che "il potere riconosciuto al giudice
amministrativo di disporre il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun
profilo una nuova materia attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela
ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per
rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubb+lica amministrazione".
Sulla natura rimediale della tutela risarcitoria insiste la Corte Costituzionale con la
sent.191/2006 evidenziando come la stessa "costituisca attuazione del precetto dell’art.24
Cost. là dove questo esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva".
Pertanto, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell'attribuzione al GA
della cognizione della domanda risarcitoria (per quel che qui rileva) da lesione di interesse
legittimo, la Corte Costituzionale ha evidenziato - in sede di interpretazione che vincola
l'operatore - come l'esigenza avvertita dal legislatore sia stata quella di allineare, quanto
alle modalità e agli strumenti di tutela, le posizioni giuridiche soggettive qualificabili come
interessi legittimi, alle posizioni giuridiche di diritto soggettivo (diverse, ma non per questo
meritevoli
di
maggiore
attenzione
quanto
agli
strumenti
di
tutela).
Così evidenziate le ragioni fondamentali poste a base del recente arresto delle SSUU, il
Collegio rileva come il GA non abbia ragione di discostarsi dalle stesse, che
condivisibilmente esaltano la rilevanza della figura soggettiva (interesse legittimo)
tradizionalmente devoluta alla sua cognizione; e, inoltre, dopo precedenti diversi
orientamenti, riconoscono nel medesimo GA il giudice cui si intesta la cognizione di ogni
strumento
di
tutela
relativo
a
tali
posizioni
giuridiche.
Né, ad un attento esame, può affermarsi che riconoscere il rimedio risarcitorio da lesione
di interesse legittimo si porrebbe in contraddizione con la condivisibilmente preclusa
possibilità di disapplicazione dell'atto/provvedimento amministrativo. E ciò in quanto, a
ben vedere, disporre il rimedio risarcitorio per gli effetti prodotti dal provvedimento vuol
dire proprio postulare la sua efficacia e non già quindi la sua disapplicazione. Né
contraddice il dovere della PA e degli attori dell'ordinamento, di agire nel rispetto di atti
amministrativi efficaci, una volta che la responsabilità risarcitoria trova ragione proprio
nell'atto amministrativo in ipotesi illegittimo e quindi si intesta alla PA che lo ha emesso e
che non lo ha ritirato, ponendo quindi in essere l'esclusivo presupposto della sua efficacia.
Allo stesso tempo il Collegio evidenzia come il sistema così delineato, presenti indubbi
spazi di ulteriore completamento che dovranno necessariamente essere colmati per quanto
possibile in via pretoria, auspicandosi anche un definitorio intervento normativo.
Del resto la materia del processo amministrativo e delle questioni sostanziali conoscibili
dal GA, rappresenta, soprattutto negli ultimi anni, uno dei non molti esempi di rapporto
virtuoso tra evoluzione giurisprudenziale e consolidamento legislativo dei principi in tal
modo
acquisiti.
Con riguardo alla specifica questione in esame, non par dubbio da un lato come non
sembri rispondere a complessiva coerenza del sistema giurisdizionale rigettare l'approdo
sistematico cui sono pervenute le SSUU alla luce della oggettiva novità recata dalla
qualificazione che la Corte Costituzionale ha operato in ordine al "rimedio" risarcitorio. E
ciò soprattutto una volta che tale approdo si presta ad essere completato in una prospettiva
di coerenza evolutiva della definizione degli ambiti della cognizione del GA e del suo ruolo
regolatore.
In tale prospettiva, spetta al GA (la cui competenza giurisdizionale è stata ora
condivisibilmente riconosciuta dalle SSUU) da un lato esercitare la competenza
giurisdizionale sull'azione autonoma di risarcimento, dall'altro cercare di individuare gli
ulteriori elementi necessari a completare l'integrato sistema di tutela che viene a
determinarsi, anche nella prospettiva di un meditato e definitorio intervento legislativo.
Trattasi di profili che ai fini dell'odierna pronuncia non è necessario affrontare e risolvere,
apparendo
peraltro
opportuno
evidenziarne
gli
ambiti
di
rilevanza.
Trattasi peraltro di questioni niente affatto secondarie, ma che non per questo devono
indurre a rigettare la prospettiva innovativamente e condivisibilmente abbracciata dalle
SSUU.
Tali
questione
possono
essere
come
appresso
enucleate.
Si tratta in particolare di stabilire in primo luogo se il "rimedio" risarcitorio da lesione di
interesse legittimi debba ritenersi sottoposto a decadenza (come è per il "rimedio"
demolitorio/di annullamento) o a prescrizione (come è per l'azione risarcitoria da lesione
di
diritto
soggettivo).
E se, dunque, sia soggetto a termine di decadenza di 60 giorni come è per il rimedio
demolitorio (ma sul punto le SSUU hanno avvertito in ordine al carattere eccessivo di tale
contingentamento del termine che per l'azione di annullamento trova invece piena
giustificazione nell'esigenza di stabilizzare la "regola" rinveniente dall'atto amministrativo,
sulla base pertanto di esigenza non riproducibile in termini simmetrici, avendo riguardo al
"rimedio" solo risarcitorio); ovvero a termine di prescrizione quinquennale (come è per la
prescrizione quinquennale dell'azione risarcitoria da illecito aquiliano), con il rischio di un
eccessivo dilatamento dei tempi di definizione di fattispecie che mantengono la peculiare
importanza
connessa
all'esercizio
del
pubblico
potere.
Peraltro dovrebbe restare quale punto fermo che, in assenza del tempestivo esperimento
del rimedio demolitorio/annullatorio, non sia possibile contemplare il risarcimento in
forma specifica, atteso che ciò integrerebbe una fattispecie, essa sì, elusiva del termine
normativamente
previsto
per
l'esperimento
dell'azione
di
annullamento.
Dovrà infine valutarsi la possibilità di tener conto in sede di quantificazione del danno
eventualmente risarcibile della scelta - da ponderarsi caso per caso - operata
dall'interessato in ordine alla non attivazione del rimedio demolitorio/annullatorio (cfr.
art.1227 c.c.). Trattasi come è ben chiaro di questioni che danno corpo all'avvertita
necessità che il GA, se da un lato non deve sottrarsi all'ambito di giurisdizione che le SSUU
hanno ritenuto di riconoscere anche nella prospettiva della cognizione della domanda
autonoma di "rimedio risarcitorio", dall'altro è chiamato proprio da tale attribuzione a
definire termini e limiti dell'esperibilità del rimedio, in tal modo fornendo anche elementi
per
l'auspicato
autonomo
intervento
definitorio
del
legislatore.
Tanto premesso, l'eccezione di improcedibilità sollevata dall'AUSL appellata non può,
dunque, efficacemente essere contrastata con la prospettazione dell'interesse di parte
appellante ad eventualmente proporre domanda risarcitoria, atteso che l'astratta
proponibilità della stessa, come detto, non risulta condizionata al previo annullamento
dell'atto
amministrativo
impugnato.
Sussistono valide ragioni per disporre la compensazione delle spese del giudizio.
P.Q.M
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione quinta, definitivamente pronunciando
sull'appello in epigrafe, dichiara improcedibile il ricorso proposto in primo grado e, per
l'effetto, annulla senza rinvio la sentenza impugnata. Spese del doppio grado compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio dell'11 luglio 2006 con l'intervento dei
Sigg.ri:
Emidio Frascione Presidente
Raffaele Carboni Consigliere
Chiarenza Millemaggi Cogliani Consigliere
Nicola Russo Consigliere estensore
Michele Corradino Consigliere
Consiglio Stato a. plen., 22 ottobre 2007, n. 12
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Adunanza Plenaria, ha
pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 8/2007 dell'Adunanza Plenaria (n. 1614/2006
della Sez. IV del Consiglio di Stato) proposto dalla Provincia di
Mantova, in persona del Presidente in carica, rappresentata e difesa
dal Prof. Avv. Paolo Colombo e dall'avv. Alessandro Sperati,
elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo in Roma,
Piazza Mazzini, n. 27.
CONTRO
Gatti Marino, rappresentato e difeso dall'avv. Elia Di Matteo,
elettivamente domiciliato presso lo studio dell'avv. Francesco Da
Riva Grechi in Roma, viale Bruno Buozzi, n. 109.
NONCHE’ CONTRO
Corso Eugenio, Merchiori Anna, Rabitti Marcello, Vanz Gloria e Nico
Costruzioni s.r.l. non costituiti in giudizio.
PER L'ANNULLAMENTO
della sentenza non definitiva del TAR per la Lombardia, Sezione
staccata di Brescia 19 dicembre 2005, n. 1342.
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del signor Gatti Marino;
Vista l'ordinanza della Sezione IV. n. 3288/2007 del 19 giugno 2007
con cui è rimesso all'Adunanza Plenaria il ricorso n. 1614/2006;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore, alla pubblica udienza del 15 ottobre 2007, il Presidente
Giovanni Ruoppolo e uditi l'avv. Paolo Colombo e l'avv. Elia Di
Matteo;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
Fatto
La Sezione quarta, rimettendo, con sentenza 19 giugno 2007 n. 3288/07, all'Adunanza
plenaria di decidere sulla questione di giurisdizione proposta dalla Provincia di Mantova
con l'atto di appello in epigrafe, ha accertati e chiariti i fatti in maniera puntuale e
completa.
In questa sede, perciò, ci si può limitare a riferire sugli aspetti ancora rilevanti della
vicenda rinviando, per una completa disamina, alla sentenza di remissione.
Con provvedimento 30 aprile 1999 n. 119 la Giunta provinciale di Mantova, acquisite le
correlate deliberazioni del Comune di Mendole e della Regione Lombardia, approvava il
progetto per la esecuzione della circonvallazione di Mendole, ne dichiarava la pubblica
utilità e fissava il termine di cinque anni, decorrenti dalla data della delibera, per la
conclusione
dei
lavori
e
della
procedura.
Con successive deliberazioni 2 giugno 2000 n. 137 e 5 dicembre 2002 n. 423 la stessa
Giunta, approvando varianti al progetto esecutivo e rinnovando la dichiarazione di
pubblica utilità , confermava lo stesso termine finale in precedenza fissato.
Seguivano, intanto, altri atti della procedura relativi alla occupazione d'urgenza (18 ottobre
2000), alla immissione in possesso delle aree (26 ottobre 2001), alla consegna dei lavori (
26 aprile 2001), alla determinazione delle dovute indennità provvisoria (6 marzo 2001) e
definitiva ( 6 dicembre 2002), al frazionamento delle aree interessate alla procedura
espropriativa ( 13 settembre 2004), al deposito presso la Cassa DD.PP. delle somme ancora
dovute.
Il 17 gennaio 2005, con decreto n, 3273/05, si disponeva infine il trasferimento della
proprietà delle aree private in conformità delle risultanze del frazionamento.
L'intera procedura era incisa, insieme agli atti presupposti, da plurimi ricorsi proposti, in
tempi diversi, dai soggetti privati titolari delle aree coinvolte che deducevano motivi di
violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere nei confronti della Provincia, del
Comune e della Regione, dei cui provvedimenti si chiedeva l'annullamento.
Il TAR per la Lombardia, Sezione di Brescia, nel contraddittorio ritualmente formatosi,
disposta la riunione di tutti i ricorsi e ritenuta la giurisdizione, con sentenza non definitiva
27
dicembre
2005,
n.
1342/05
:
- dichiarava estinti, per rinuncia, i giudizi, avviati con ricorsi 257/99, 697/00, 1284/00, nei
confronti
dei
Signori
Ferrardi
,
Branzini
e
Cerruti;
- dichiarava improcedibili, per sopravenuta carenza di interesse, i ricorsi n. 1544/97,
1548/97, 257/99 e 697/00 e, per quanto riguarda i profili impugnatori, 1284/00 ad
eccezione, per questo ricorso, della pretesa risarcitoria già avanzata e dal Signor Gatti e dai
Signori Corso e Marchiori, rispettivamente acquirente ed alienante di una delle aree
coinvolte;
- accoglieva parzialmente il ricorso n. 476/05 annullando il decreto di espropriazione di 17
gennaio 2005 n. 3273/05 e dichiarando la intervenuta, irreversibile trasformazione dei
beni
occupati;
- disponeva la prosecuzione del giudizio per il completamento della consulenza tecnica già
disposta
ai
fini
della
pronuncia
sulla
istanza
risarcitoria.
Proponeva appello, con atto notificato al Signor Gatti, nonché ai Signori Corso e Marchiori,
la Provincia di Mantova deducendo alcune questioni pregiudiziali, contestando la ritenuta
tardività del decreto di espropriazione e rilevando, per il caso di acclarata decadenza della
dichiarazione di pubblica utilità, difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Si
costituiva
il
solo
Signor
Gatti
proponendo
ricorso
incidentale.
Questi e la Provincia illustravano con specifiche memorie le proprie posizioni e
concludevano, il primo, in via principale di merito, per la conferma della sentenza di primo
grado e per la condanna della Provincia al risarcimento del danno, la seconda, per la
declaratoria
del
difetto
di
giurisdizione.
La Sezione quarta, accertato che l'espropriazione era stata decretata, in data 7 giugno
2005, dopo la scadenza dei cinque anni decorrenti dalla data della deliberazione della
Giunta Provinciale 30 aprile 1999, ha rimesso l'esame della questione di giurisdizione
all'Adunanza
Plenaria.
Le conclusioni delle parti sono state rassegnate con memorie in data 26 e 30 settembre
2007.
Diritto
I - La Sezione quarta, dubitando della permanente attualità - dopo la pubblicazione della
sentenza Corte cost. 191/2006 e delle correlate pronunce delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione - dei principi ripetutamente affermati dalla Adunanza Plenaria ha
correttamente rimesso a quest'ultima il rinnovato esame della individuazione del giudice
amministrativo quale giudice cui spetta di pronunciarsi in tema di c.d. accessione invertita,
allorché la formale espropriazione intervenga dopo la sopravvenuta inefficacia, per decorso
del
suo
termine
finale,
della
dichiarazione
di
pubblica
utilità.
Correttamente, si è detto, alla stregua delle esigenze che, positivamente poste nei confronti
del giudizio per cassazione derivano da generali principi di certezza del diritto e di
economicità della funzione giurisdizionale che ovviamente coinvolgono il processo innanzi
al Consiglio di Stato, nel quale è per altro già prevista la opportunità, qui di nuovo
sottolineata, della rimessione in ordine a questioni di diritto che abbiano dato luogo o
possano dar luogo a contrasti giurisprudenziali ovvero allorché si renda necessaria la
risoluzione di questioni di massima di particolare importanza.
II - La rimessione in parola, è necessario premettere ad ulteriore chiarificazione delle
proposte questioni pregiudiziali, concerne esclusivamente il ricorso 1284/2000 ed il
ricorso 476/2005 e motivi aggiunti con i quali Signori Corso - Marchiori e Cerruti hanno
proposto, siccome accertato dal Tribunale regionale amministrativo e ritenuto dalla
Sezione
quarta,
domanda
risarcitoria.
Gli altri ricorsi inizialmente proposti risultano, infatti, oggetto di dichiarazione di
estinzione per rinunzia ovvero di improcedibilità per carenza di interesse, improcedibilità
estesa, dal predetto Tribunale, anche ai motivi del ricorso 1284/2000 relativi alla
impugnazione per annullamento di alcuni degli atti emessi nel corso del procedimento di
espropriazione il cui atto conclusivo (decreto n. 3273/05 della Provincia) è stato
espressamente annullato dal Tribunale, con connessa dichiarazione di irreversibile
trasformazione
dei
beni
occupati.
In tale situazione la Sezione remittente ha ritenuto di superare le deduzioni della Provincia
relative alla pretesa non integrità del contraddittorio in primo grado e del Gatti relative alla
omessa notifica dell'appello a Regione, Comune, Niero s.r.l. e Signori Rabitti e Vanz.
Invero, mentre contro questi ultimi soggetti nessuna domanda risarcitoria è proposta, né si
configura alcun loro interesse e mentre Comune e Regione sono stati intimati in primo
grado ( il primo si è anche costituito) in relazione agli atti da loro emessi (ric. 1544/97,
1548/97 e 257/99), ed hanno ricevuto notificazione della sentenza appellata, la domanda
risarcitoria fu proposta nei soli confronti della Provincia, ente espropriante, e concerne,
una volta definiti come s'è ricordato gli altri giudizi, esclusivamente i rapporti tra la stessa
Provincia
e,
ormai,
il
Signor
Gatti
ed
i
suoi
danti
causa.
Ne risulta l'infondatezza delle domande di integrazione del contraddittorio ritualmente
instaurato
e
in
primo
grado
e
in
appello.
L'annullamento, poi, dell'atto finale della procedura di espropriazione e la pronuncia di
intervenuta accessione invertita, di per sé non impugnata dal Signor Gatti, e per altro
satisfattiva della richiesta tutela , rendono prive di rilievo le di lui deduzioni relative ad atti
e comportamenti e della Regione e del Comune, ormai irrilevanti a seguito del predetto
annullamento, e della Provincia dalle quali mai potrebbe conseguire la restituzione, e su
questa non si insiste nelle conclusioni rassegnate il 7 marzo 2006 ed il 30 settembre 2007,
delle aree coinvolte dalla costruzione della strada, pressoché terminata ed aperta al traffico
(v. note in atti del Responsabile del procedimento in data 25 febbraio 2004 e 19 aprile
2005) già al 25 febbraio 2004 e, comunque, "parecchi mesi prima dello stesso 19 aprile
2005" e, perciò, nel corso dei termini della dichiarazione di pubblica utilità.
Dato atto di ciò, deve infine rilevarsi che il Tribunale non si è in alcun modo pronunciato
sulla domanda risarcitoria, proposta e perfino quantificata nel corso del relativo grado di
giudizio (v. oltre alle istanze notificate il 23 febbraio ed il 29 ottobre 2001 le ammissioni
nelle memorie della Provincia del 19 dicembre 2000 e del 11 aprile 2001 nonché l'istanza di
sospensiva del giudizio indennitario dalla stessa proposta alla Corte di Appello e la
correlata ordinanza e v., ancora, il ricorso 11 aprile 2005 notificato il successivo 12 aprile),
sulla quale ha soltanto disposto il completamento dell'istruttoria in corso: sono, pertanto,
intempestive le relative deduzioni della Provincia nonché degli appellati e perciò
inammissibili in questa sede le loro richieste.
III - Si rileva, venendo perciò al punto di diritto in contestazione, che permangono, nella
giurisprudenza più recente, significativi contrasti in tema di discriminazione della
giurisdizione, contrasti forse avvertiti con maggior disagio di quelli pur vivi nel secolo
scorso ora che sussistono condizioni di ulteriore sviluppo sociale ed economico, di
correlato aumento della legislazione e delle discipline così civili come amministrative e,
perciò, di più forte richiesta di decisioni di merito pronte, facilmente accessibili, coerenti
con le esigenze operative e con le aspettative di tutela delle pubbliche amministrazioni,
delle
imprese
e
di
ciascun
componente
la
comunità
nazionale.
I recenti, ripetuti richiami della Corte Costituzionale ( v. da ultimo, sent. 77/2007) ai
precetti dell’art.24 Cost. confermano un orientamento perseguito con ancor più
determinata convinzione; orientamento che, sottolineando il valore servente delle forme,
pur ferme e vincolanti, rispetto alle aspettative sostanziali, merita di essere condiviso e
seguito, come pare sia condiviso dallo stesso legislatore ( cfr., di recente, in tema di
giurisdizione e di procedure, la l.205/2000 e, puntualmente in tema di nullità, la
l.241/1990) le cui rinnovate dichiarazioni di volontà semplificatrice si traducono tuttavia,
in qualche caso, in complicazioni di discipline di non sottile spessore e di non agevole
applicazione da parte di una Amministrazione costretta a troppo frequenti mutamenti dei
suoi complessi moduli organizzativi ed operativi ed a tal fine, specie in sede locale, non
sempre
munita
di
necessari
mezzi
e
di
adeguate
strutture.
In generale, ed omettendo analisi storiche altrove e da altri svolte con puntualità e
completezza, la discriminazione è positivamente fissata, nel quadro dei rigidi precetti posti
dagli artt.24,102, 103, 111, 113 Cost., dalla l.205/2000, - in vigore dal 1 agosto 2000 e
seguita dalla l.15/2005 e dal d.lgs.163/2006 - , che, anche riformulando le disposizioni del
d.lgs.80/1998, ha sostanzialmente definito il disegno innovatore avviato con l’art.13 della
l.142/1992
ed
organicamente
posto
dalla
l.59/1996.
Su questa disciplina è ripetutamente intervenuta e, per quanto qui rileva, specialmente con
le sentenze 292/2000, 204/2004, 281/2004, 191/2006, 77/2007, 140/2007, la Corte
Costituzionale.
Punti fondamentali dell'assetto normativo che ne è derivato e che, salvo le integrazioni e le
precisazioni appresso indicate, vige attualmente sono: 1) resta fermo, e vincola lo stesso
legislatore, che criterio generale di discriminazione è quello fondato sulla natura della
situazione giuridica di cui si chiede tutela, nel senso che giudice dei diritti soggettivi è il
giudice ordinario e giudice degli interessi legittimi è il giudice amministrativo;
2) resta fermo che è nella, per così dire, ragionevole discrezionalità del legislatore
attribuire alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in particolari materie (e
non in blocchi indiscriminati di materie) specialmente caratterizzate dalla compresenza o
dalla difficile qualificazione di diritti soggettivi ed interessi legittimi, anche la tutela di
diritti
soggettivi;
3) il giudice amministrativo conosce, nell'ambito della sua giurisdizione, sia essa di sola
legittimità ovvero, pur con differente dizione, esclusiva, " anche di tutte le questioni
relative all'eventuale risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in
forma
specifica,
e
agli
altri
diritti
patrimoniali
conseguenziali
"
;
4) il giudice ordinario, cui non spetta mai giurisdizione sugli interessi legittimi, non ha il
potere di annullare i provvedimenti amministrativi né quello di risarcire il danno
conseguente all'annullamento degli stessi da parte del giudice amministrativo, e tuttavia,
vertendosi in tema di lesione dei diritti soggettivi non ricompresi nella cennata
giurisdizione esclusiva, può disapplicare gli atti dell'amministrazione e provvedere al
risarcimento
dell'eventuale
danno.
IV - Con riferimento al nuovo assetto così sommariamente descritto si sono riproposti alla
giurisprudenza spinosi problemi interpretativi già vivi nel quadro della precedente
disciplina ed ulteriori questioni sostanziali e procedurali ha posto l'ampliamento della
giurisdizione
esclusiva
e
dei
poteri
del
giudice
amministrativo.
Deve ricordarsi, al primo proposito, il permanere dalle difficoltà di discriminazione poste
dalla dicotomia diritto soggettivo - interesse legittimo nell'ambito di una legislazione che
dalla considerazione della loro natura il più delle volte prescinde preferendo enucleare
dalle situazioni soggettive e disciplinare puntualmente, con riferimento alla attività
amministrativa, tal volta spezzoni qualificabili come facoltà, più spesso aspetti analitici
solo mediatamente riferibili ad individuabili situazioni di diritto o di interesse.
Si tratta, nell'uno e nell'altro caso, di situazioni mai direttamente definite dalla legge e di
derivazione dottrinale e giurisprudenziale spesso collegate ad esigenze di preconcetti ed
immobili schemi sistematici piuttosto che ad ordinamenti e norme i quali supporrebbero,
nel loro continuo aggiornarsi, il continuo aggiornamento di un " sistema " che, dismessa la
pretesa di imporsi alla legge, da questa ricevesse la sua necessaria legittimazione.
Il dibattito, in proposito, è continuo e basti segnalare, di recente, la distinzione proposta
dalla Corte di Cassazione (S.U. 17461/2006 ) che rivendica la giurisdizione del giudice
ordinario in ogni caso quando si sia in presenza di " posizioni soggettive a nucleo rigido "
(es. in tema di salute e di ambiente ) che, a differenza di quelle " a nucleo variabile ",
sarebbero assolutamente incomprimibili. Siffatta tesi, espressamente contraddetta dalla
Corte Costituzionale (140/2007), reca in se il corollario della inesistenza del
provvedimento amministrativo che, pur emesso in applicazione di legge, siffatti
incomprimibili
diritti
in
concreto
incidesse.
Corollario che sembra meritare attenti approfondimenti nel punto in cui pare prescindere
e dalle attribuzioni esclusive della Corte Costituzionale in tema di verifica della
costituzionalità delle leggi e dalle attribuzioni del giudice amministrativo in tema di
provvedimenti che conformemente a legge incidono su situazioni soggettive degradandole,
come
si
è
soliti
ripetere,
ad
interesse
legittimo.
Riconosciuta a quest'ultimo giudice, com'è doveroso per chiunque, " piena dignità di
giudice " e tenuto conto della compiuta effettività della sua tutela, organizzata
positivamente come efficace e sollecita, non si vede la ragione perché le regole di
discriminazione della giurisdizione debbano essere, a fronte dei diritti c.d. " a nucleo rigido
", di categoria, cioè, suscettibile di estensione ben oltre i casi esemplificati, né si
comprende la sottesa, asserita pretesa di una minore incisività della giurisdizione
amministrativa
.
Di tale opinione non è, per altro, lo stesso legislatore che, in maniera espressa ed univoca,
ipotizza, con l’art.21, co.8, della l.1034/1971, come integrato dalla l.205/2000,
provvedimenti cautelari del giudice amministrativo anche in tema di "interessi essenziali
della persona quali il diritto alla salute, alla integrità dell'ambiente, ovvero ad altri beni di
primario
rilievo
costituzionale".
È ben vero che allo stato si riscontra positivamente in relazione a talune situazioni
soggettive del genere di quelle indicate e di altre ancora una ordinaria e prevalente
giurisdizione del giudice civile che in nessun modo si contesta; epperò, mentre non può
escludersi che in astratto ed in concreto si profilino situazioni di interesse legittimo ovvero
di attribuzione di giurisdizione esclusiva, è seriamente controvertibile una tesi che,
muovendo dalla categoria dei diritti soggettivi incomprimibili e varcando la soglia della
sola descrittività, sancisca aprioristicamente limiti assoluti e non costituzionalmente posti
alla
giurisdizione
amministrativa.
Ai fini della concreta verificazione di questa è necessario poi ribadire che configurano
situazioni soggettive di interesse legittimo non solo quelle che come tali originariamente
nascono in capo al loro titolare sibbene anche quelle che pur qualificandosi genericamente
ed in astratto di diritto soggettivo siano, in presenza di una norma che ciò consenta e di un
procedimento ovvero di un provvedimento in tal senso indirizzato, successivamente
apprezzabili in concreto come di interesse legittimo. Certo è necessario che procedimento e
provvedimento siano svolti e decisi da un'autorità a ciò competente, senza che concorrano
violazioni di legge, senza che intervengano sviamenti e note carenze. Questi, tuttavia, sono
puntualmente i vizi rimessi allo scrutinio della giurisdizione amministrativa, individuabile
anche in base al fondamentale criterio, appresso approfondito, della riconducibilità della
lesione sofferta all'esercizio del potere autoritativo in astratto conferito all'autorità. Il
criterio innovativo come innovativa è stata la citata legislazione, è per altro frutto anche del
consapevole contributo di tutte le riflessioni che, in più di un secolo di elevato e fertile
impegno, dottrina e giurisprudenza hanno arrecato : dalla distinzione delle norme di
azione dalle norme di relazione, dalle dottrine del diritto condizionato ed affievolito fino
alla stessa rilevata notazione dei c.d. diritti a "nucleo rigido " non v'è nulla di totalmente
superato ovvero di superabile con improvvisazione e in ogni riflessione si riscontra un
elemento di validità che è di ausilio per sciogliere nodi che legislazione e pronunce
costituzionali tendono oggi a rendere meno aggrovigliati nel contestuale riconoscimento
della unitarietà, quoad effectum, della giurisdizione, attribuita sì a giudici diversi, ma di
uguale dignità, muniti di analoghi poteri ugualmente compiuti ai fini della completezza
delle tutele di merito loro commesse, ugualmente intesi ad attuare i precetti degli artt.24 e
111
Cost.
(Corte
cost.,
77/2007).
Questi aspetti unitari, che valgono ad attenuare, almeno nella concretezza delle vicende
giudiziarie, il rilievo di talune estreme questioni di giurisdizione, non consentono, tuttavia,
di inferirne il corollario, come avanti si vedrà in tema di "pregiudiziale amministrativa",
della
necessità,
formale
e
sostanziale,
della
uguaglianza
della
tutela.
V - Si sono posti, al secondo proposito, con riferimento, cioè, al nuovo assetto come sopra
descritto, il problema della estensione della giurisdizione esclusiva, sia con riferimento a
materie ritenute di solo diritto soggettivo sia con riferimento a precisazioni del legislatore
ordinario dell'ambito di cognizione concreta del giudice amministrativo ed il problema,
inoltre, della connessione tra la domanda di annullamento e la domanda risarcitoria.
Su questi ed altri problemi, approfonditi in dottrina, è ripetutamente intervenuta, con
puntuali pronunce, la Corte Costituzionale che, con le sentenze innanzi citate ha precisato:
a) i confini della giurisdizione esclusiva relativa alla materia dei pubblici servizi e della
giurisdizione esclusiva relativa alla materia urbanistica ed edilizia e delle espropriazioni;
b) la natura del potere del giudice amministrativo di provvedere sulle domande risarcitorie
e sugli altri diritti patrimoniali consequenziali alla pronuncia di annullamento.
Così in materia di pubblici servizi, dalla quale sono state espunte controversie ritenute di
diritto soggettivo e, perciò, di pertinenza della giurisdizione ordinaria, come in materia di
urbanistica ed edilizia nonché delle espropriazioni, la Corte Costituzionale, confermata la
nodale relazione tra l'esercizio di poteri pubblici autoritativi e la giurisdizione esclusiva del
giudice
amministrativo,
ha
segnato
il
limite
di
quest'ultima.
Ha cioè dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art.33 del d.lgs.80/1998, come
sostituito dalla l.205/2000, dell’art.34 del medesimo decreto, dell’art.53 del d.lgs.
325/2001, nella parte in cui, devolvendo alla giurisdizione esclusiva le controversie relative
a " i comportamenti delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti ad esse equiparati non
esclude i comportamenti non riconducibili, nemmeno mediamente, all'esercizio di un
pubblico potere " (così Corte cost. 191/2006 con riferimento alla giurisdizione esclusiva in
tema di espropriazione per pubblica utilità e, in precedenza, Corte cost., 204/2004).
Puntualizzato, da una parte, che l'aggettivo " mediatamente " si riferisce, come sopra
ricordato, ai casi in cui l'esercizio del potere si realizza nelle consentite forme negoziali, e ,
d'altra parte, che sussiste, nelle motivazioni delle due sentenze, ancora riprese da quelle
successive, un espresso legame sì che esse, integrandosi costituiscono un unico, coerente
disegno nei limiti del quale la Corte ammette la legittimità costituzionale delle norme
scrutinate,
deve
subito
fissarsi
un
primo
punto.
I "comportamenti", cioè, che esulano dalla giurisdizione amministrativa esclusiva non sono
tutti i comportamenti, ma solo quelli che, tenuto conto dei riferimenti formali e fattuali di
ogni concreta fattispecie, non risultano riconducibili all'esercizio di un pubblico potere.
Altrimenti detto, quando può affermarsi che nella specie sia rilevabile un oggettivo, e non
meramente intenzionale, svolgersi di un'attività amministrativa costituente esercizio di un
potere astrattamente riconosciuto alla pubblica amministrazione o ai soggetti ad essa
equiparati, sussiste ogni elemento sufficiente ad affermare la giurisdizione amministrativa.
Caratterizzante, perciò, non è la legittimità dell'esercizio del potere, che, se fosse richiesta,
finirebbe per privare di causa la tutela appunto prevista per i casi di incompetenza,
violazione di legge ed eccesso di potere, né lo è il maggiore o minore spessore della
illegittimità
ovvero
della
situazione
giuridica
tutelata.
Caratterizzante è , invece, la mera emersione di un agire causalmente riferibile ad una
funzione che per legge appartenga all'amministrazione agente e che per legge questa sia
autorizzata
a
svolgere
e
che,
in
concreto,
risulti
svolta.
Se così è, l'in sé dell'esercizio del potere deve rilevarsi, prioritariamente, in materia
comportamentale, non tanto dalle intenzioni e dalla generiche dichiarazioni del soggetto
pubblico agente quanto dalle oggettive vicende procedimentali che, mentre nella grande
maggioranza dei casi precedono ed accompagnano il fenomeno comportamentale,
testimoniano esse, oggettivamente, della rilevanza e della finalità e della consistenza del
comportamento consentendo di individuarne la genesi e di distinguerlo dai casi di
semplice
generica
presupposta
esistenza
del
pubblico
interesse.
La illegittimità di questo o quel momento procedimentale , cioè di quella serie formale
strumentalmente rivolta a realizzare l'interesse pubblico e sintomatica dell'agire
autoritativo consentito dalla legge , può sì far concludere per la illegittimità e, nei congrui
casi, per la illiceità del comportamento con effetti anche analoghi o uguali a quelli propri
della accertata carenza del potere, ma tale conclusione spetta al giudice cui, con garanzie
ed effettività di certo non inferiori a quelle apprestate dal giudizio ordinario, compete alla
stregua dell'ordinamento: al "giudice naturale della legittimità dell'esercizio della funzione
pubblica
".
E a questo "giudice naturale " compete, in diretta applicazione dei principi di effettività e di
concentrazione della tutela nonché delle norme poste dal legislatore ordinario, di
conoscere non solo delle domande intese all'annullamento dell'attività autoritativa e,
comunque, impugnatorie ma "di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del
danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti
patrimoniali consequenziali"; risarcimento che, nell'ambito della giurisdizione esclusiva, è
"disposto" con procedure anche innovative (v.artt.7 e 8 l.205/2000).
In proposito la Corte Costituzionale, chiarita la irrilevanza della natura giuridica intrinseca
alla pretesa risarcitoria, se di per sé di diritto soggettivo o meno, ha escluso la
configurabilità della giurisdizione ordinaria "per ciò solo che la domanda abbia ad oggetto
esclusivo il risarcimento del danno" ed ha dichiarato costituzionalmente legittimo il nuovo
sistema di riparto che riconosce esclusivamente al giudice naturale della legittimità
dell'esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi
anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per
l'illegittimo
esercizio
della
funzione.
Ciò in quanto il potere di risarcire il danno ingiusto non costituisce una nuova materia
attribuita alla cognizione del giudice amministrativo ma uno "strumento di tutela ulteriore
" rispetto a quello demolitorio, strumento che, in armonia con l’art.24 Cost. ne completa i
poteri "non soltanto per effetto della esigenza di concentrare davanti ad un unico giudice
l'intera protezione del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica,
ma anche perché quel giudice è idoneo ad offrire piena tutela" oltre che agli interessi
legittimi "ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti coinvolti nell'esercizio
della
funzione
amministrativa
"
(Corte
cost.,
140/2007).
L'illegittimità dell'esercizio del potere, nel senso sopra precisato, comporta, dunque,
sempre nel caso di lesione di interessi e, nell'ambito della giurisdizione esclusiva, anche nel
caso di lesioni di diritti soggettivi, di qualsiasi spessore, la configurabilità della sola
giurisdizione amministrativa così nel caso che la domanda risarcitoria venga proposta
congiuntamente a quella demolitoria come nel caso che venga proposta autonomamente,
derivandosi anche in tal caso la risarcibilità del danno dalla ipotizzata illegittimità
dell'attività
amministrativa.
La Corte di Cassazione, pur convenendo su tali conclusioni generali (v. già Cass.
1207/2006), sottolinea ancora , non senza rimarchevoli oscillazioni, perplessità di non
lieve
momento.
Adducendo ora la perdurante vigenza della L. 20 marzo 1865, all. E, artt. 2 e 4, e non solo
dei suoi generali principi così come costituzionalmente recepiti, ora, con non felice
espressione, una asserita difficoltà del giudice amministrativo a penetrare le regole
civilistiche sul risarcimento del danno ingiusto, ora la individuabilità di diritti in assoluto
riservati
alla
tutela
ordinaria,
la
indicata
Corte
:
1) limita i casi in cui si è in presenza di "un concreto esercizio del potere" ai casi in cui
l'esercizio stesso sia riconoscibile come tale perché a sua volta deliberato nei modi e in
presenza dei requisiti richiesti per valere come atto o provvedimento e non come mera via
di fatto (S.U., 13659/2006) "in consonanza con le norme che lo regolano " (S.U.,
13911/2006,
2691/2007);
2) costruisce una categoria di diritti incomprimibili in maniera assoluta e perciò sempre da
comprendere
nell'ambito
della
giurisdizione
ordinaria
;
3) asserisce che la giurisdizione amministrativa è rifiutata ove, in presenza di autonoma
domanda risarcitoria, il giudice non provvede all'esame di merito per la ragione che nel
termine per ciò stabilito non sono stati chiesti l'annullamento dell'atto e la conseguente
rimozione dei suoi effetti. In tali circostanze avverte la Corte, il rifiuto si espone a
cassazione
ex
art.362,
co.
1,
c.p.c.).
Si tratta, come ognuno vede, di perplessità gravi nella misura in cui sostanzialmente
evocano, per via di una definizione resa fortemente restrittiva dal suo carattere analitico, la
dicotomia sussistenza del potere - esercizio del potere nei termini, anch'essi ambigui ,
precedenti il nuovo assetto di riparto della giurisdizione; nella parte in cui confliggono con
le univoche dichiarazioni della Corte cost. 140/2007 in tema di c.d. diritti incomprimibili e
77/2007 in tema di limiti, ex artt.362 e 386 c.p.c., inerenti il controllo dei confini esterni
della giurisdizione; nella parte in cui, varcando tali limiti, assoggetta a nuove forme di
sindacato
le
sentenze
del
giudice
amministrativo.
Al primo proposito si rileva che, proprio con riferimento alla materia delle espropriazioni,
la Corte di Cassazione, nel suo indirizzo più radicale (v. S.U., 2688, 2689, 2691, 3048,
3723, 9323/2007che sembra attenuato da altro pur recentemente confermato indirizzo
(S.U., 27190, 27192/2006), configura la giurisdizione ordinaria non solo, com'è pacifico,
nei casi in cui l'amministrazione agisce, fuori di ogni schema procedimentale, in via di
fatto, ma anche nei casi in cui la dichiarazione di pubblica utilità risulti "radicalmente nulla
" per omessa indicazione dei termini per l'espropriazione o per scadenza degli stessi,
ovvero
per
imprecisioni
nella
indicazione
delle
aree.
In tali casi, ed inoltre nei casi di decreto di espropriazione emesso fuori termine,
rilevandosi anche violazione dell’art.42 Cost., si sarebbe, secondo la Corte, in presenza di
vizi di spessore maggiore di quelli che, in altri casi, inducendo il giudice amministrativo
all'annullamento della dichiarazione di pubblica utilità o del decreto di espropriazione,
legittimerebbero, sia pure per sole esigenze di concentrazione, la giurisdizione
amministrativa
(v.
Sez.
un.
2
luglio
2007,
n.
14594).
Ora la perplessità che tale indirizzo suscita non attiene soltanto alla identificazione di una
categoria di speciali vizi che non sembra trovare conforto positivo e che anzi contrasta con
le disposizioni analiticamente introdotte con l’art.14 della l.15/2005, ma nella sostituzione
del criterio della riferibilità dell'esercizio del potere all'agire autoritativo, riferibilità che
come sopra si è visto chiama in causa l'intero procedimento, con il criterio del sindacato
concreto della legittimità del provvedimento della cui applicazione si tratta, che non si vede
come possa tal volta competere al giudice ordinario e tal altra al giudice amministrativo.
In materia di espropriazione, poi, si prescinde del tutto - non solo dal nuovo regime della
nullità introdotto, ad integrazione della l.241/1990, dall’art.14 della l.15/2005 - ma anche
dall'entrata in vigore, il 30 giugno 2003, del T.U. approvato con d.p.r. 327/2001, il cui
art.43 sembra, come si preciserà più avanti, avere apportato sul punto definitivi
chiarimenti.
Dei
diritti
c.d.
incomprimibili
s'è
detto.
VII - Quanto, infine, al problema della c.d. pregiudizialità amministrativa, istituto risalente
nel tempo ed utilizzato di recente in tema di appalti (v. art.13 l.142/1992 e, per qualche
profilo generale, Corte Cost. 165/1998), esso è estremamente complesso (v.Ad. Plen.,
4/2003) e qui non pertinente se non per la sua connessione, già richiamata dalla Corte di
Cassazione,
con
la
questione
della
giurisdizione.
Basti,
perciò,
enunciarne
taluni
profili
problematici,
relativi:
- il primo, alla struttura stessa della tutela del giudice amministrativo che, come si è visto è,
specialmente articolata sia in sede di giurisdizione di legittimità sia in sede di giurisdizione
esclusiva, nel senso che il provvedimento amministrativo lesivo di un interesse sostanziale
(e non, perciò, il mero comportamento) può essere aggredito e in via impugnatoria, per la
sua demolizione, e "conseguenzialmente" in via risarcitoria, per i suoi effetti lesivi,
ponendosi, nell'uno e nell'altro caso, la questione della sua legittimità.
Il carattere "conseguenziale" ed "ulteriore" della tutela risarcitoria, espressamente ed
inequivocamente posto, in armonia con gli art.103 e 113 Cost., dall’art.35 del d.lgs.
80/1998 e confermato dal successivo co. 5 che comunque abroga "ogni disposizione che
prevede la devoluzione al giudice ordinario della controversie sul risarcimento del danno"
ancora una volta visto come "conseguente all'annullamento di atti amministrativi", sembra
invero
incontestabile.
Ed è confermato dalla ritenuta riferibilità della pronuncia di condanna all'insieme dei
poteri strumentali attribuiti al giudice per rimediare compiutamente alla lesione della
situazione soggettiva concettualmente, prima ancora che positivamente, unica e ciò sia che
l'esercizio dei poteri del giudice sia chiesto contestualmente sia che, giudizialmente
accertatasi la illegittimità, sia richiesto, per vero con condivisa interpretazione estensiva
non del tutto allineata, tuttavia, con le convenienze della "contestualità", l'esercizio di
ulteriori
poteri
prima
non
sollecitati.
Non c'è traccia, nella pronunce della Corte Costituzionale di alcun sospetto di illegittimità
costituzionale di siffatto disegno ed, anzi, sembra agevole inferirne il contrario.
L'istituto, per altro, autorevolmente confermato da motivate pronunce della stessa Corte di
Cassazione (157/2003, 4538/2003, 1207/2006), ha, oltre a radici storiche e letterali di
univoco
rilievo,
ragioni
del
pari
univoche.
Deve considerarsi, in proposito, che diritto ed interesse, benché molto spesso partecipi di
una assimilabile pretesa ad un c.d. bene della vita, sono situazioni soggettive fortemente
differenziate
e
tali
ritenute
già
a
livello
costituzionale.
Il primo, per dirla nei noti, riassuntivi termini, è assistito da una tutela tendenzialmente
piena e diretta e, nei suoi confronti, è sempre circoscritta la eventualità di condizionamenti
esterni, anche se imputabili ad una amministrazione pubblica e, perciò, ad interessi
generali.
Il secondo origina da un compromesso, chiaramente solidaristico, tra le esigenze collettive
di cui è portatrice, ex artt.97 e 98 Cost., la amministrazione stessa e la pretesa, di colui che
dalla loro legittima soddisfazione è coinvolto, di veder preservati quei suoi beni giuridici
che preesistono all'attività pubblica ovvero che nel corso di questa si profilino.
Ne deriva un coinvolgimento costante dell'interesse del singolo nell'interesse della
collettività che si esprime nell'attività, non libera, ma doverosa e funzionalizzata
dell'amministrazione e questo legame genetico spiega non solo la previsione di una
giurisdizione a ciò specificamente deputata ma, insieme, le differenze, che rimangono
marcate, che possono individuarsi e in tema di discipline processuali e in tema di connotati
della
tutela
.
I commendevoli contributi acquisiti, in sede dottrinale e giurisprudenziale, in tema
"giudizio sul rapporto", non sembrano condivisibili ove approdino al disconoscimento
della natura principalmente impugnatoria dell'azione innanzi al giudice amministrativo,
cui spetta non solo di tutelare l'interesse privato ma di considerare e valutare gli interessi
collettivi che con esso si confrontano e, non solo di annullare, bensì di "conformare"
l'azione amministrativa affinché si realizzi un soddisfacente e legittimo equilibrio tra l'uno
e
gli
altri
interessi.
Queste essenziali circostanze, mentre si riflettono sui diversi caratteri del giudizio
amministrativo rispetto a quello civile, nel quale si contrappongono pretese ascrivibili ad
analoghe fonti e di regola sottratte ad interferenze esterne da parte dell'autorità pubblica,
sembrano spiegare e giustificare e la priorità dell'azione impugnatoria, nel cui ambito
soltanto è possibile e doveroso esercitare compiutamente l'anzidetto vaglio di legittimità
nonché misurare spessore e valenza così della dedotta situazione soggettiva come della
denunciata lesione, e la posta "conseguenzialità " rispetto ad essa, dell'azione risarcitoria.
Non si trascuri che il risarcimento del danno, oltre che "conseguenziale" è previsto,
nell'ambito della processualmente qualificante giurisdizione di legittimità, anche come
"eventuale" con un attributo, cioè, che mentre è di regola oggetto di ingiustificata
pretermissione, riassume e sottopone alla consapevolezza del giudice i travagli che le
relative norme hanno inteso risolvere e che, in dottrina, hanno persino indotto a
configurare
come
"speciale"
la
figura
in
discorso.
Si ricorderà che la stessa Corte costituzionale aveva avuto modo, nel sottolineare l'urgenza
di "prudenti" soluzioni normative, di ipotizzare "scelte tra misure risarcitorie, indennitarie,
reintegrative in forma specifica e ripristinatorie" nonché la "delimitazione delle utilità
economiche suscettibili di ristoro patrimoniale nei confronti della pubblica
amministrazione" (v.ord. 8 maggio 1998, n, 165 e sent. 35/1980) nella considerazione della
inesistenza della copertura di rilievo costituzionale della pretesa "regola generale di
integralità della riparazione ed equivalenza al danno cagionato" (Corte Cost. 369/1996),
con
evidenti
rilessi
anche
di
natura
processuale.
È su queste premesse che, rimasta inattuata la articolata delega di cui art.20, co. 5,
l.59/1997, il legislatore è, infine, pervenuto a stabilire, con formula che privilegia le
ritenute esigenze di concentrazione dei giudizi, il criterio della conseguenzialità evidentemente inteso a confermare la priorità del processo impugnatorio e in vista della
prevalenza dell'interesse collettivo al pronto e risolutivo sindacato dell'agire pubblico e in
vista della convenienza, per la collettività, dell'esercizio del sindacato stesso secondo criteri
e modalità che, essendo positivamente propri del giudizio di annullamento, da esso non
consentono di prescindere - ed il criterio della "eventualità " del risarcimento del danno
arrecato all'interesse legittimo, criterio rafforzato dalla diversa prescrizione in tema di
giurisdizione esclusiva e che, perciò, non solo esclude automatismi ma impone i predetti
apprezzamenti specifici, possibili soltanto allorché sia in causa, siccome suo oggetto
principale e diretto, il provvedimento, con le sue ragioni ed i suoi effetti.
È su queste premesse, perciò, che dev'essere apprezzato il vulnus che si ritiene connesso
alla c.d. pregiudiziale amministrativa che, in effetti, da un lato corrisponde ad avvertite
esigenze di controllo, convenientemente sollecitate dalle azioni impugnatorie, della
legittimità e della trasparenza dell'azione autoritativa e, d'altra parte, consente il compiuto
rilievo degli interessi collettivi e generali coinvolti, rilievo certamente monco e claudicante
anche con riferimento alla giurisdizione esclusiva, pur sempre relativa anche ad interessi
legittimi e a diritti "degradati", nell'ambito di un processo di solo tipo risarcitorio, nel
quale, per altro, gli interessi economici coinvolti appaiono non più rilevanti degli interessi
spesso anche di libertà che si fanno valere, senza che la relativa decadenza sia motivo di
censura,
nel
processo
di
annullamento.
Lo stesso soggetto leso sembra avere convenienza, a fronte dei non gravissimi disagi
correlati alla previsione di decadenza, agevolmente superabili con il doveroso uso della
diligenza media e certamente più ridotti rispetto a quelli che la legislazione consente o
impone in altre anche se diverse materie, a sperimentare preventivamente l'azione di
annullamento, nella cui procedura e nella cui finalità strumentale, gli è consentito rilevare
vizi ed approfondirne lo spessore con risultati ben utili ai fini dell'accertamento compiuto
dell'an
e
del
quantum
della
richiesta
riparazione.
Ragioni sostanziali, dunque, non meno che formali, sembrano assistere le conclusioni già
raggiunte
dall'Adunanza
plenaria;
- il secondo, alla c.d. presunzione di legittimità, che, mentre involge radicati poteri della
pubblica amministrazione e positivi caratteri dei suoi provvedimenti, come la efficacia e la
esecutorietà, emergenti da una legislazione costante nel tempo, si tramuta da relativa in
assoluta allorché, nel termine di decadenza, - certamente eluso in ipotesi di vanificazione
della pregiudiziale - siasi omessa impugnazione ovvero finché, in presenza di discrezionale
apprezzamento, non sia intervenuto annullamento d'ufficio (v. l.15/2005);
- il terzo, alla articolazione della tutela sopra ricordata che, in entrambi i suoi casi,
concerne la stessa illegittimità del provvedimento strumentalmente invocata,
"principaliter", e ai fini del buon esito della domanda impugnatoria e ai fini del buon esito
della domanda risarcitoria con la conseguenza che, costituisca il "danno ingiusto" fatto o,
come sembra preferibile, fattispecie, esso non può essere configurato a fronte di una
illegittimità del provvedimento che, per l'assolutezza della cennata presunzione, è, de jure,
irreclamabile
;
- il quarto, alla incidenza della lamentata "decadenza" che attiene, a ben vedere, all'azione
impugnatoria invece che all'azione risarcitoria, impedita, piuttosto che dalla decadenza,
dalla non configurabilità, in presenza di un provvedimento inoppugnabile così come in
presenza di un provvedimento inutilmente impugnato, di una sua condizione che la
contraddizione legittimità-illeceità rende essenziale, la formale inesistenza, cioè, della
ingiustizia del danno che è nucleo essenziale, anche se non sufficiente, della illiceità;
- il quinto, alla concreta equivalenza del giudicato che, rilevando immediatamente la
inesistenza della appena ricordata condizione, dichiari la improponibilità della domanda
col giudicato che, pronunciandosi, come si pretende, nel merito dichiari infondata - e
questa volta con pronuncia inequivocabilmente sottratta a verifica ex art.362 c.p.c. - la
domanda
per
difetto
della
denunziata
illegittimità;
- il sesto, al reclamato potere regolatore della Corte di Cassazione (S.U., 1139/2007,
13/2007) che, secondo il correlato avvertimento della Corte Costituzionale (sent. 77/2007)
, "con la sua pronuncia può soltanto, a norma dell’art.111, co. 8, Cost., vincolare il Consiglio
di Stato e la Corte di Conti a ritenersi legittimati a decidere la controversia, ma certamente
non può vincolarli sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale
decisione ". Ad analogo principio, prosegue la Corte Costituzionale "si ispira l’art.386 c.p.c.
applicabile anche ai ricorsi proposti a norma dell’art.362, co. 1, c.p.c., disponendo che "la
decisione sulla giurisdizione è determinata dall'oggetto della domanda e, quando prosegue
il giudizio, non pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità
della
domanda"
;
- il settimo, ma non ultimo, relativo alla correlata verifica degli eventuali limiti
dell'indirizzo della Corte di Cassazione secondo cui la inoppugnabilità dell'atto
amministrativo, siccome relativa agli interessi legittimi, non impedirebbe in nessun caso al
giudice
ordinario
di
disapplicarlo
(Cass.
10628/2006,
12646/2006).
VIII - Quanto si è fin qui considerato consente di confermare l'attualità degli indirizzi già
assunti dall'Adunanza plenaria con riferimento alla questione da decidere, in merito alla
quale la giurisdizione amministrativa è affermata anche dalle Sezioni unite (v., da ultimo,
14954/2007).
Già con 4/2005 L’Adunanza Plenaria ha posto il principio secondo cui deve configurarsi la
giurisdizione amministrativa in ordine a "liti che abbiano ad oggetto diritti soggettivi
quando la lesione di questi ultimi tragga origine, sul piano eziologico, da fattori causali
riconducibili all'esplicazione del pubblico potere, pur se in un momento nel quale
quest'ultimo risulta ormai mutilato nella sua forma autoritativa per la sopraggiunta
inefficacia disposta dalla legge per la mancata conclusione del procedimento" e ciò anche
se il risarcimento è autonomamente richiesto, nei limiti temporali della prescrizione
quinquennale (Ad. Plen. 2/2006), di seguito all'intervenuto annullamento del
provvedimento
degradatorio,
anche
in
via
di
autotutela.
Nello stesso senso si è poi pronunciata Ad. Plen. 9/2005, che, anche richiamando analoghi
orientamenti delle Sezioni Unite ( ord. 22 novembre 2004, n. 21944 e sent. 6745/2005), ha
ritenuto compresa nella giurisdizione amministrativa quelle "condotte che si connotano
quale attuazione di potestà amministrative manifestatesi attraverso provvedimenti
autoritativi che hanno spiegato, secundum legem, i loro effetti pur se successivamente
rimossi,
in
via
retroattiva,
da
pronunce
di
annullamento".
Più di recente Ad. Plen. 9/2007 che, in fattispecie per più versi analoga, conclude che
"nella materia dei procedimenti di esproprio sono devolute alla giurisdizione
amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione - naturalmente
anche ai fini complementari della tutela risarcitoria - di attività di occupazione e
trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa
congruenti, anche se il procedimento all'interno del quale sono state espletate non sia
sfociato in un tempestivo atto traslativo ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi
dichiarati
illegittimi".
Infine Ad. Plen. 10/2007, ha statuito che pur nell'ambito della giurisdizione generale di
legittimità spetta al giudice amministrativo conoscere, ai fini risarcitori, dei danni
conseguiti ad un provvedimento amministrativo annullato per intervenuta scadenza del
suo termine di efficacia (nella specie : requisizione) anche se i danni stessi si sono verificati
dopo
la
stessa
scadenza.
Ne deriva, conclusivamente, che la domanda per cui è causa è stata correttamente
compresa, dal giudice di primo grado, nella giurisdizione del giudice amministrativo in
quanto intesa a rimediare, insieme in via impugnatoria e risarcitoria, ad una lesione che
risulta conseguente ad una serie procedimentale certamente svolta, dalla Provincia di
Modena, nella sua veste di Autorità nell'esercizio, sia pure illegittimo, del potere ad essa
spettante.
Assumono particolare rilievo, ai fini della riconducibilità della lesione all'esercizio del
potere pubblico, i provvedimenti di variazione e di integrazione della pianificazione
urbanistica, i reiterati provvedimenti di dichiarazione di pubblica utilità, i conseguenziali
provvedimenti di occupazione e di determinazione e deposito delle indennità nonché lo
stesso provvedimento di trasferimento della proprietà che, benché adottato dopo la
scadenza del termine fissato dalla dichiarazione di pubblica utilità e perciò illegittimo e
perciò annullato, da una parte non inficia la dispiegata efficacia degli atti posti in essere
precedentemente - atti giunti a configurare la irreversibile destinazione del bene all'uso
pubblico - e, d'altra parte, non vulnera la ritenuta riconducibilità procedimentale
dell'attività amministrativa all'esercizio di un pubblico potere autoritativo.
IX - Si deve, infine, sottolineare - e la circostanza sembra avere chiari riflessi nella intera
materia delle espropriazioni per pubblica utilità - che, è intanto entrato in vigore, con
decorrenza 30 giugno 2003, il T.U. approvato con d.P.R. 327/2001, (v. in merito all’art.57,
A. P., 2/2005 e S.U. 1136/2005, 14954/2007) che, nel suo art.43 detta una innovativa
disciplina in tema di fattispecie già inquadrate negli schemi, contrastati anche dalla Corte
di Strasburgo, della c.d. accessione invertita, derivi essa da occupazione acquisitiva o
usurpativa.
In presenza di utilizzazione di un bene immobile per scopi di interesse pubblico - prescrive
la norma - che sia modificato "in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio
o dichiarativo di pubblica utilità " l'autorità cui risale l'utilizzazione "anche quando sia
stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia
dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio" può disporre che
l'immobile stesso "vada acquisito al suo patrimonio indisponibile" con provvedimento
discrezionale che, verso determinazione e preventivo pagamento della misura del
risarcimento del danno, comporta il trasferimento del diritto di proprietà.
La norma, che rimette alla valutazione discrezionale dell'amministrazione di negare la
restituzione del bene e che attribuisce al giudice amministrativo di sindacare, nell'ambito
della giurisdizione attribuitagli ai sensi del successivo art.53, le ragioni del diniego secondo alcuni con competenza non solo esclusiva ma estesa al merito - sembra rilevare,
per
quanto
qui
interessa,
sotto
due
aspetti.
Da una parte ed in generale essa conferma, infatti, quanto si è venuto esponendo in tema
di positiva priorità del criterio di discriminazione fondato sulla "riconducibilità"
dell'esercizio del potere all'autorità per altro estendendo la possibilità di accertarlo anche
per via del solo accertamento della qualifica di "autorità" del soggetto agente e delle
strumentalità del suo agire ai fini della realizzazione degli "scopi di interesse pubblico" la
cui
cura
è
ad
essa
commessa.
D'altra e più specifica parte la norma importa, ed i suoi compiuti effetti debbono essere
ovviamente verificati nel nuovo quadro definito dall'intero decreto, una profonda revisione
degli istituti dell'accessione invertita così come introdotti e sviluppati dalla giurisprudenza.
La fattispecie regolata resta per più di un verso analoga nei suoi tratti generali posto :
- che non è sufficiente il mero impossessamento del bene immobile altrui ma è necessario
che lo stesso immobile sia anche "modificato" ed "utilizzato per scopi di interesse
pubblico", che, cioè, si sia in presenza e di un'attività materiale e di una sua obiettiva
strumentalità;
- che permane l'esigenza della qualificazione del soggetto pubblico agente, che, dovendo
configurarsi come "autorità" deve agire, alla stregua di una interpretazione
costituzionalmente orientata, nel riconoscibile esercizio dei suoi poteri autoritativi.
L'istituto è per altro innovato sia, come già rilevato, quanto ai modi di emersione di questo
esercizio rispetto ai quali appare fortemente recessiva la rilevanza dei momenti procedurali
della dichiarazione di pubblica utilità e del decreto di espropriazione e sintomatica, perciò,
la sola astratta previsione del potere; sia quanto all'estensione dell'ambito della
discrezionalità amministrativa; sia quanto al meccanismo del trasferimento della proprietà
del bene immobile, del quale l'autorità può rifiutare la restituzione nel solo ambito delle
cennate garanzie giuridiche ed economiche, la cui esigenza è stata specialmente
sottolineata dalla Corte di Strasburgo; sia con riferimento alla tutela giudiziaria,
interamente attribuita, ora, con la sola eccezione delle "vie di fatto" materiali, al giudice
amministrativo, ben al di là, perciò, dei limiti precedentemente affermati.
Si realizza per tale maniera, nella materia delle espropriazioni (eccezion fatta per le
questioni indennitarie) quella estesa concentrazione della giurisdizione che è tra gli
obiettivi prioritari della recente legislazione e che, coerente con la acquisita pienezza dei
poteri del giudice amministrativo, consente ponderate riflessioni anche nelle altre materie
che tuttora esprimono elementi di incertezza sul tema per più versi centrale degli esposti
criteri
di
discriminazione.
X - Ne deriva che, ritenuta e dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo,
l'appello deve essere respinto con assorbimento del ricorso incidentale.
Le spese del grado di giudizio, tenuto conto della complessità delle questioni esaminate e
del
relativo
esito,
possono
compensarsi.
Deve ordinarsi la rimessione degli atti di causa al Tribunale regionale amministrativo per
la Lombardia, sezione di Brescia, per la definizione del giudizio
P.Q.M
L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ritenuta e dichiarata la giurisdizione del
giudice amministrativo, respinge l'appello con assorbimento del ricorso incidentale.
Compensa
le
spese
del
giudizio
di
appello.
Ordina la rimessione della causa al Tribunale regionale amministrativo per la Lombardia ,
sezione
di
Brescia,
per
la
definizione
del
giudizio.
Così deciso in Roma dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, riunito in Adunanza
plenaria nella camera di consiglio del giorno 15 ottobre 2007 con l'intervento dei signori
Magistrati:
Mario
Egidio
Schinaia
Presidente
del
Consiglio
di
Stato
Paolo
Salvatore
Presidente
di
Sezione
Giovanni
Ruoppolo
Presidente
di
Sezione
Est.
Raffaele
Carboni
Consigliere
Costantino
Salvatore
Consigliere
Luigi
Maruotti
Consigliere
Carmine
Volpe
Consigliere
Chiarenza
Millemaggi
Cogliani
Consigliere
Pier
Luigi
Lodi
Consigliere
Giuseppe
Romeo
Consigliere
Luciano
Barra
Caracciolo
Consigliere
Cesare
Lamberti
Consigliere
Aldo
Fera
Consigliere
Consiglio di stato , sez. IV, 29 gennaio 2008, n. 248
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha
pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso n. 8223 del 2005, proposto dalla società RESIDENZA LE
PISCINE DI MONTESIGNANO S.p.A. e dalla SOCIETÀ FLORIDA S.p.A. nelle
persone dei legali rappresentanti pro-tempore, rappresentate e difese
dagli Avv. ti Giovanni Gerbi e Ludovico Villani, elettivamente
domiciliate in Roma, Via Asiago, n. 8/2, presso lo studio del
secondo.
CONTRO
Comune di Genova, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e
difeso dagli Avv. ti Edda Odone e Gabriele Pafundi e M.P. Pessagno,
elettivamente domiciliato in Roma, Viale Giulio Cesare, n. 14/4 scala
A, presso lo studio del secondo.
PER L'ANNULLAMENTO
della sentenza del TAR Liguria, Sezione I, 18 dicembre 2004, n. 1721;
Visto l'appello con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune appellato.
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive
difese.
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 16 ottobre 2007, relatore il Consigliere
Costantino Salvatore;
Uditi l'avv. Gerbi per le appellanti, l'avv. Pessagno e l'avv. Odone,
per il comune appellato.
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.
Fatto
La controversia trae origine dalla domanda presentata in data 28 marzo 1986 dalla società
Residenza Le Piscine di Montesignano S.p.A. al comune di Genova per l'approvazione di
un progetto di lottizzazione a scopo edificatorio (convertito in Piano Particolareggiato di
iniziativa privata in seguito all'entrata in vigore della legge regionale 8 Luglio 1987, n. 24)
per la realizzazione di insediamenti residenziali e commerciali in Località Sciorba di
Montesignano
(GE).
L'intervento proposto con il descritto Piano Particolareggiato interessava un compendio
immobiliare di mq. 125.235, dei quali: mq. 55.938 di proprietà della Soc. Residenza Le
Piscine di Montesignano s.p.a.; mq. 61.252 di proprietà della Soc. Florida s.s.; mq. 8.045
appartenenti
a
soggetti
terzi.
Il progetto di lottizzazione, rielaborato come Piano Particolareggiato di iniziativa privata (e
corredato di tutti i documenti tecnici richiesti dalla normativa regionale sopravvenuta), è
stato valutato favorevolmente dalla Commissione edilizia in data 19 aprile 1989 e su di esso
si sono espressi favorevolmente anche il Servizio provinciale del Genio civile e l'Ufficio
regionale dei beni ambientali, i quali hanno rilasciato, rispettivamente, il parere di
fattibilità sotto il profilo idraulico e il nulla osta ex art. 4 L.R. 24/1987.
Successivamente, la Giunta municipale, con deliberazione 13 marzo 1990 n. 1336, dopo
aver approvato lo schema di convenzione attuativa ha proposto al Consiglio comunale di
adottare il Piano Particolareggiato, in quanto conforme alla vigente disciplina urbanistica.
Da quel momento, il procedimento di approvazione del piano si è arrestato e soltanto in
data 11 novembre 1993, a seguito di atto di intimazione e diffida, il Comune di Genova ha
invitato la Soc. Residenza Le Piscine di Montesignano s.p.a. a trasmettere documentazione
integrativa al dichiarato fine di verificare, sotto il profilo geotecnico, la fattibilità delle
opere
progettate.
Le Società istanti, sul presupposto della natura palesemente dilatoria di tale richiesta
(formulata a quasi quattro anni dalla ricordata deliberazione della Giunta municipale) ed
in considerazione del ritardo del Comune nell'assunzione di un qualsivoglia
provvedimento in ordine all'istanza di approvazione del progetto, hanno proposto ricorso
dinnanzi al TAR Liguria al fine di far accertare il silenzio rifiuto serbato
dall'Amministrazione e di ottenere la declaratoria del dovere di immediata pronuncia sulla
istanza
di
approvazione.
Con sentenza 10 febbraio 1996, n. 27 il TAR adito ha accertato che "siffatta richiesta di
ulteriore documentazione del Sub - commissario, così generica e indeterminata, per di più
disposta circa... quattro anni dopo la citata deliberazione della Giunta Municipale, non può
che essere considerata alla stregua di un atto interlocutorio di natura pretestuosa e
dilatoria e, perciò, irrilevante ed inidoneo ad ovviare all'inerzia dell'Amministrazione in
ordine al suo dovere di concludere il procedimento .... a maggior ragione se si considera
che il progetto presentato sette anni prima dalla ricorrente era fin dall'origine corredato,
come lo stesso Comune ha riconosciuto nell'atto deliberativo di Giunta da copiosi elaborati
e relazioni di indagine geologica e geotecnica redatti da illustri cattedratici".
Conseguentemente, il TAR ha annullato il silenzio - rifiuto serbato dal Comune sul
progetto dichiarando l'obbligo dell'Amministrazione di pronunciarsi sull'istanza.
Il Comune, non di meno, non ha ottemperato a quanto disposto nella citata sentenza (nel
frattempo passata in giudicato) e non ha concluso il procedimento, omettendo di
pronunciarsi
sul
progetto
di
lottizzazione.
Sempre in fatto va precisato che nel dicembre 1995 - e più precisamente tra la data in cui il
ricorso avverso il silenzio - rifiuto è stato trattenuto a sentenza ed il deposito della sentenza
stessa - il Consiglio Comunale di Genova, con deliberazione n. 264 del 14 dicembre 1995,
recante la cosiddetta "variante di salvaguardia", ha adottato la variante parziale al PRG
1980, per la limitazione quantitativa delle previsioni in zona di espansione residenziale,
mediante la quale, tra l'altro, è mutata la disciplina urbanistica della vasta area oggetto
della lottizzazione, da allora in poi destinata a "zona agricola (ZE), al fine di
salvaguardarne
le
caratteristiche
ambientali".
La scelta di escludere l'edificabilità dell'area è stata poi confermata dalla variante generale
al PRG 1980, adottata nel luglio 1997, con la quale l'area in oggetto è stata destinata in via
prevalente a sottozona EM (agricola), in parte a sottozona EB (boschiva) ed in parte a zona
RC (ricettiva). Detta previsione urbanistica è stata definitivamente confermata in sede di
approvazione del PUC da parte della Regione Liguria con decreto presidenziale 10 marzo
2000
n.
44.
Va precisato, a questo punto che né la variante di salvaguardia né la variante generale né
l'approvazione regionale sono state mai impugnate da parte delle società appellanti.
1.1. Per effetto del nuovo strumento urbanistico generale la Soc. Residenza Le Piscine di
Montesignano S.p.A. e la Soc. Florida s.s. si sono trovate di fronte all'impossibilità di
approvazione del progetto di lottizzazione a suo tempo presentato per sopravvenuto
contrasto
con
la
nuova
disciplina
urbanistica
della
zona.
Pertanto, le predette società, sul presupposto che gli atti illegittimi assunti dal Comune e
l'illegittimo comportamento omissivo mantenuto del medesimo (accertato e dichiarato con
la citata sentenza 10 febbraio 1996, n. 27) hanno arrecato grave pregiudizio alle loro
ragioni, hanno proposto al TAR Liguria ricorso per il risarcimento dei danni ingiustamente
subiti.
In
particolare,
hanno
chiesto
al
Tribunale
adito
di:
1. accertare e dichiarare l'illegittimità e l'illiceità degli atti e del complessivo
comportamento omissivo e commissivo del Comune di Genova sia con riferimento
all'istanza di approvazione del piano di lottizzazione/particolareggiato di iniziativa privata
presentata in data 28 marzo 1986 - 13 gennaio 1988 vuoi prima della sentenza del Tar
Liguria n. 27/1996 vuoi successivamente ad essa ed anche con riguardo alla adozione del
nuovo
P.R.G.
di
Genova
deliberata
il
16
luglio
1997;
2. accertare e dichiarare la responsabilità ed il derivante obbligo del Comune di Genova di
risarcire i danni patiti e patiendi dalla Soc. Residenza Le Piscine di Montesignano s.p.a. e
dalla Soc. Florida s.s. a causa di tali atti e del comportamento del Comune;
3. conseguentemente accertare e dichiarare l'obbligo del Comune di Genova di risarcire
tutti tali danni (danno emergente e lucro cessante) alle Società ricorrenti;
4. accertare, quantificare e liquidare i danni predetti e condannare il Comune di Genova a
versare alle ricorrenti il relativo ammontare, maggiorato di rivalutazione monetaria e di
interessi sulle somme rivalutate alla data di insorgenza dei ridetti danni sino al dì del
completo soddisfo, occorrendo con fissazione del termine per siffatta corresponsione;
5. in subordine (alternativamente a quanto sub 4), determinare i criteri di quantificazione
del risarcimento, con integrazione di rivalutazione monetaria ed interessi sulle somme
rivalutate dalla data di insorgenza dei danni di cui sopra sino al dì del completo soddisfo,
nonché stabilire il termine - ex art. 7 L 205/2000 - entro il quale il Comune di Genova
debba, nel rispetto dei prefiggendi criteri, presentare alle ricorrenti una proposta di
pagamento.
Il Comune di Genova si è costituito in giudizio, eccependo in via pregiudiziale il difetto di
giurisdizione del Tribunale adito e la prescrizione del diritto vantato, e deducendo, nel
merito,
l'infondatezza
del
ricorso.
Il TAR, disattese le eccezioni pregiudiziali, nel merito, pur avendo escluso che il consiglio
comunale fosse assolutamente vincolato ad approvare il progetto di lottizzazione, ha
osservato che l'affidamento ingeneratosi nelle ricorrenti aveva raggiunto un notevole grado
di espansione, in quanto il progetto di lottizzazione, come riconosciuto dalla sentenza n.
27/96, aveva superato nella sostanza tutti i passaggi tecnici ed aveva ottenuto il consenso
anche
della
Giunta
municipale.
In tale contesto, ad avviso del primo giudice, lo spazio di discrezionalità rimesso al
consiglio comunale era davvero residuale e, se contrario all'approvazione, richiedeva,
comunque, una manifestazione esplicita, sorretta da una motivazione credibile ed
esauriente.
Conseguentemente, se la discrezionalità di pertinenza del consiglio comunale in sede di
esame del progetto di lottizzazione è sufficiente per escludere l'obbligo del Comune di
risarcire il danno asseritamente derivante dal minor valore del terreno divenuto agricolo
grazie all'inerzia del Comune rispetto a quello che avrebbe avuto con la realizzazione del
progetto, non altrettanto può dirsi per il danno connesso ai costi sopportati per gli studi, le
indagini tecniche, assistenze e consulenze, spese generali per l'apprestamento dei mezzi
necessari o utili per avviare la realizzazione di un progetto, la cui approvazione, alla
stregua di un esame oggettivo della situazione, non poteva che essere prossima.
E, tuttavia, anche per quanto concerne il danno da ultimo menzionato - esplicitamente
qualificato come danno emergente - il primo giudice ha ritenuto che la domanda non
potesse
essere
accolta
per
mancanza
di
prova.
A tale esito il TAR è pervenuto sul rilievo che questo capo della domanda giudiziale di
risarcimento è del tutto priva di fondamento probatorio, atteso che le ricorrenti non hanno
prodotto alcun documento dal quale desumere concretamente alcunché circa i costi
inutilmente sopportati. Né a questa conclusione potrebbe obiettarsi che per il processo
amministrativo è sufficiente fornire un principio di prova, ovvero che, in base a nozioni di
comune esperienza, si può immaginare che le due società abbiano facilmente sopportato
detti costi, ovvero
ancora sia stata richiesta CTU per quantificarli.
Ad avviso del primo giudice, nessuna delle suddette obiezioni è in grado di superare
l'ostacolo
derivante
dalla
mancanza
di
prova
del
danno
lamentato.
Ed, invero, quanto al primo aspetto, è stato rilevato, da un lato, che le parti non hanno
fornito nemmeno un principio di prova e, dall'altro lato, che la limitazione dell'onere
probatorio che governa il processo amministrativo si fonda sulla naturale ineguaglianza
delle parti, privato e P.A., e quindi sul generale possesso dei documenti da parte dei
pubblici uffici che resistono in giudizio, mentre in questo caso si tratta con tutta evidenza
di
documentazione
in
possesso
dei
ricorrenti.
Quanto al secondo punto è stato osservato che la tesi secondo cui, in base a nozioni di
comune esperienza, si può immaginare che un investimento sia stato fatto, non può, di per
sé, essere sufficiente a giustificare una condanna al risarcimento del danno, visto che
questa
deve
anche
delimitarne
in
qualche
modo
l'entità.
Con riferimento, infine, al terzo punto si è replicato che la consulenza tecnica d'ufficio
dovrebbe essere disposta lasciando il consulente privo di quei criteri che il giudice deve
dettare, almeno in questo tipo di controversia, per giungere ad un risultato.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso è stato respinto, con il
conseguente assorbimento dell'eccezione di prescrizione sollevata dalla P.A.
Contro la sentenza le originarie ricorrenti hanno proposto il presente appello,
censurandone
le
conclusioni
e
chiedendone
l'integrale
riforma.
Il Comune di Genova si è costituito anche in questo grado di giudizio, replicando alle
argomentazioni poste a base dell'impugnazione e proponendo appello incidentale avverso
la
medesima
decisione.
Le parti hanno ulteriormente illustrato le proprie tesi difensive con apposite memorie.
L'appello è stato trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 16 ottobre 2007.
Diritto
1. In via pregiudiziale va esaminato il primo motivo dell'appello incidentale, con il quale il
Comune di Genova ripropone la questione di giurisdizione del giudice amministrativo.
Il Comune premette al riguardo, che la sentenza n. 27/1996, sulla quale si fonda la pretesa
delle società appellanti, "accertata l'inerzia dell'amministrazione", ha annullato
"l'impugnato silenzio -rifiuto", e ha dichiarato l"'obbligo dell'amministrazione medesima di
provvedere secondo le regole procedimentali dettate dagli artt. 2 e seguenti della legge
241/1990".
La declaratoria di illegittimità su cui si fonda l'azione ex adverso proposta ha avuto ad
oggetto, in altre parole, l'inerzia della p.a. e certo non anche il mancato rilascio del
provvedimento
favorevole
richiesto
nel
lontano
1986.
Tuttavia, ad avviso del comune, dall'esame del ricorso di primo grado e delle relative
conclusioni (pag. 16 e ss.) emerge che lo stesso non introduce una semplice azione
risarcitoria conseguente alla declaratoria di illegittimità già ottenuta con la sentenza
ripetutamente citata; al contrario, il nuovo ricorso muove da detta declaratoria per
ottenere una declaratoria d'illegittimità ulteriore, su cui fondare una diversa e più ampia
azione
risarcitoria.
Nelle conclusioni si chiede, infatti, al Collegio di "accertare e dichiarare l'illegittimità e
l'illiceità del comportamento omissivo del Comune ... sia con riferimento all'istanza di
approvazione del piano .... vuoi prima della sentenza ... vuoi successivamente ad essa ... ".
Su questa domanda e sulle domande ad essa consequenziali il giudice amministrativo
sarebbe, sempre secondo il comune, privo di giurisdizione sia in senso assoluto sia in senso
relativo.
Sotto il primo profilo, il difetto di giurisdizione sarebbe la logica conseguenza del principio
generale, ribadito dall'Adunanza Plenaria n. 1 del 2002, che "assegna la cura dell'interesse
pubblico all'amministrazione ed al giudice amministrativo il solo controllo sulla legittimità
dell'esercizio della potestà": in base a tale principio, l'approvazione di uno strumento
urbanistico di attuazione non può certo avvenire o dirsi avvenuta in esito ad un processo
amministrativo né può ritenersi frutto di un giudizio prognostico esperibile dal giudice in
considerazione delle probabilità dell'evolversi del procedimento in sede amministrativa.
Da qui il difetto assoluto di giurisdizione dell'autorità giudiziaria a provvedere in merito
all'approvazione del progetto di lottizzazione, trattandosi di potere che spetta ad organo
amministrativo.
Sotto il secondo aspetto, il difetto di giurisdizione sarebbe predicabile alla luce della
recente e nota sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004, che ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale dell'art. 34, comma 1 del decreto legislativo n. 80/1998, nella
parte in cui ha previsto che fossero devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo le controversie aventi per oggetto i comportamenti delle pubbliche
amministrazioni e dei soggetti alle stesse equiparati, in materia urbanistica ed edilizia.
A sostegno del proprio assunto, il comune invoca un precedente delle Sezioni Unite della
Corte di Cassazione (sent. 18 ottobre 2005, n. 20117), secondo cui "A seguito della
[richiamata] sentenza della Corte Costituzionale ... , la giurisdizione esclusiva del G.A. non
è estensibile alle controversie nelle quali la P.A. non esercita - nemmeno mediatamente e
cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici - alcun
potere
pubblico."
Di conseguenza, dovrebbe riconoscersi la giurisdizione del giudice ordinario per tutte le
controversie, come quella in esame, in cui si denunzino comportamenti configurati come
illeciti ex art. 2043 c.c. per non avere, appunto, la pubblica amministrazione osservato
condotte che si assumono doverose a fronte di una posizione del privato prospettata in
termini
di
diritto
soggettivo.
Nel caso di specie, infatti - a fronte di un mero comportamento della p.a., di un'attività
materiale disancorata e non sorretta da alcun provvedimento formale, sia pure posta in
essere in ambito urbanistico - si lamenta la sofferenza di un "danno ingiusto" incidente sul
" ... diritto di proprietà, di cui lo ius aedificandi costituisce, come è noto, facoltà
inscindibile".
Ad avviso del comune - al contrario di quanto ex adverso sostenuto - lo ius aedificandi
consiste in realtà in una facoltà riconosciuta dalla p.a. al privato proprietario in esito al c.d.
effetto conformativo del diritto di proprietà scaturente in sede pianificatoria, sicché
l'avversa ricostruzione di detta posizione quale diritto soggettivo deve essere sicuramente
contestata.
E tuttavia si sostiene dal Comune che - così prospettata - la questione esuli dalla
giurisdizione del giudice adito per appartenere a quella del giudice ordinario, proprio in
quanto riferita come inerente ad un diritto soggettivo, il quale deve ritenersi tutelabile
dinanzi all'autorità giudiziaria ordinaria in mancanza di deroghe ai comuni canoni sul
riparto
della
giurisdizione.
In conclusione, secondo la tesi dell'amministrazione locale, da un lato, il comportamento
omissivo che si censura con il ricorso non è sindacabile davanti all'autorità giudiziaria
sotto il profilo sostanziale del merito e/o del contenuto dell'emanando provvedimento e,
d'altro lato, trattandosi appunto di un comportamento, la sindacabilità dello stesso,
limitatamente al profilo formale, deve dirsi oggi riservata al Giudice ordinario.
1.1. Il motivo è infondato sotto entrambi i profili prospettati, come correttamente deciso
dal
primo
giudice.
Con riferimento al difetto di giurisdizione in senso assoluto, va rilevato che il ricorso di
primo grado era volto ad ottenere dal TAR un giudizio non sul merito dell'azione
amministrativa ma sulla legittimità (o meno) della condotta del Comune, il quale, secondo
i ricorrenti, non era stato capace, nell'arco di tempo di undici anni, di assumere un
provvedimento
che
concludesse
il
procedimento.
In proposito, come emerge dalla stessa sentenza del TAR, "l'inerzia del Comune è stata già
ritenuta illegittima con la citata sentenza n. 27/96" e il ricorso in primo grado era
finalizzato ad ottenere la declaratoria di responsabilità e, conseguentemente, la condanna
dell'Amministrazione intimata a risarcire i danni derivanti dal suo comportamento inerte,
contrario ai principi di legalità, imparzialità e correttezza dell'azione amministrativa.
L'azione risarcitoria proposta dalle Società ricorrenti, pertanto, non implicava (né implica)
alcuna pronuncia dell'Autorità giudiziaria suscettibile di interferire nella sfera di
discrezionalità
dell'Amministrazione.
1.2. A conclusioni negative deve pervenirsi anche in ordine all'asserito difetto di
giurisdizione
in
senso
relativo.
Come la Sezione ha avuto modo di precisare (Ord. 7 marzo 2005, n. 875), i principi
enucleabili dall'iter argomentativo adottato dalla Corte nella richiamata sentenza n.
204/2004,
sembrano
essere
i
seguenti:
a) il riparto di giurisdizione non può fondarsi sul criterio della materia, o meglio dei
«blocchi di materia», in quanto il criterio imposto dalla Costituzione è quello della
distinzione tra posizioni soggettive, salvi i casi «eccezionali» di giurisdizione esclusiva, in
cui peraltro è proprio l'intreccio delle posizioni soggettive e determinare la devoluzione
della
«materia»
al
giudice
amministrativo;
b) il risarcimento del danno non costituisce una materia, bensì uno strumento di tutela
ulteriore, attribuito al giudice amministrativo per rendere piena ed effettiva la tutela
dell'interesse legittimo, cui l'articolo 24 riconosce dignità pari al diritto soggettivo;
c) il superamento della regola del cd. doppio giudizio - che imponeva, ottenuta tutela
davanti al giudice amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di
giudizio, per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l'eventuale
risarcimento del danno (superamento, peraltro, introdotto prima della legge n. 205 nel
settore degli appalti, di diretta derivazione comunitaria) costituisce, nel pensiero della
Corte, <null'altro che attuazione del precetto di cui all'art. 24 Cost.>;
d) la giurisdizione del giudice amministrativo, e quindi quella annessa per il risarcimento
del danno, sussiste solo nelle fattispecie in cui la pubblica amministrazione agisca quale
autorità, nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino dinanzi al giudice
amministrativo; in altri termini, vi è giurisdizione amministrativa solo se
l'amministrazione, ancorché con forme e strumenti del diritto privato, eserciti un potere
amministrativo.
La sentenza della Corte, dunque, come è stato rimarcato in dottrina, individua nel giudice
amministrativo il giudice del potere pubblico, sicché è l'inerenza dell'attività contestata
all'esercizio di un potere pubblico a radicare la giurisdizione del giudice amministrativo.
Peraltro, una volta che si radichi la giurisdizione, discende, come univoco corollario, nel
pensiero della Corte, che al giudice amministrativo sia devoluto lo strumento ulteriore del
risarcimento del danno subito dalla posizione sostanziale - interesse legittimo o, nelle
«particolari» ipotesi di giurisdizione esclusiva, anche il diritto soggettivo - strumento
riguardato in un'ottica tipicamente «rimediale» e «processuale», che comporta una
significativa rivisitazione del modello risarcitorio condiviso da una parte della dottrina
civilistica
e
dalla
prevalente
giurisprudenza.
Tale devoluzione realizza quella concentrazione di tutela che, nell'ottica della Corte,
costituisce attuazione dell'articolo 24 della Costituzione e che, come sottolineato in
dottrina, si arricchisce della logica sottesa al nuovo testo dell'articolo 111 della Costituzione
che, nell'assumere a valore costituzionale il principio della ragionevole durata del processo,
impone di ricercare soluzioni ordinamentali che semplifichino le forme di tutela, rendendo
certa e chiara l'individuazione del giudice e tendenzialmente unitaria la tutela
giurisdizionale
afferente
a
una
medesima
vicenda
sostanziale.
Nel delineato contesto di principio, la Sezione ha ritenuto che la controversia nella quale il
danno lamentato deriva, in tesi, dal mancato esercizio di un potere autoritativo nei tempi
prefigurati da norme di legge in esame rientri nella giurisdizione del giudice
amministrativo.
In tale ipotesi, non rileva - se non, caso mai, sul piano del merito della pretesa - la
circostanza che, oltre il detto termine, sia intervenuto un provvedimento espresso (di
accoglimento dell'istanza o di diniego) ovvero che l'amministrazione continui a serbare un
comportamento inerte (mero ritardo): ai fini della giurisdizione rileva piuttosto l'inerenza
a un potere di natura autoritativo della mancata emanazione del provvedimento nei tempi
prefissati, cioè un ritardo che assume giuridica rilevanza perché derivante dal mancato
tempestivo
esercizio
del
predetto
potere.
Il potere delineato dalla norma ha natura autoritativa e l'omesso esercizio del potere - sia
che venga sindacato al fine di ottenere il provvedimento sia che se ne lamenti l'illegittimità
a fini risarcitori - costituisce la fattispecie speculare del suo esercizio (che a sua volta può
dar luogo a un provvedimento positivo o negativo), la quale non sembra poter essere
trattata alla stregua di un mero comportamento, cioè, nell'ottica della Corte, di un
provvedimento svincolato dall'esercizio di un potere autoritativo (sia in concreto sia in
astratto), cui consegue la devoluzione della controversia al giudice ordinario.
In altri termini, non sembra esatto né ragionevole devolvere a giudici diversi controversie
aventi ad oggetto l'impugnazione di un provvedimento espresso, positivo o negativo, e la
contestazione dell'omissione o del ritardo nel provvedere. Più in particolare, non sembra
corretto né ragionevole devolvere a giudici diversi il giudizio sul danno conseguente
all'illegittimità del provvedimento negativo - del che non sembra possibile dubitare - e il
giudizio
sul
danno
da
omesso
o
ritardato
provvedimento.
Invero, nella seconda ipotesi, l'interesse legittimo pretensivo attiene alla medesima
posizione sostanziale lesa dal provvedimento negativo, riguardata in un diverso momento
dell'esercizio del potere; sicché l'azione per il risarcimento del danno subìto non può che
essere portata dinanzi al medesimo giudice della situazione sostanziale lesa, per la cui
riparazione
il
rimedio
risarcitorio
ha
carattere
strumentale.
D'altra parte, non può escludersi che la parte agisca sia per il rilascio del titolo che per il
risarcimento del danno, e, anche in tal caso, appare irragionevolmente violare il principio
di concentrazione della tutela ipotizzare che il cittadino debba chiedere il rilascio del titolo
al giudice amministrativo e il risarcimento del danno al giudice ordinario: in realtà, si è in
presenza di un concorso di azioni attinenti alla medesima posizione sostanziale, che
inerisce a un potere amministrativo di natura autoritativa; potrà discutersi su presupposti
di esperibilità delle azioni (in termini di pregiudizialità, di alternatività o di cumulabilità),
ma dinanzi allo stesso giudice competente a sindacare quel potere autoritativo.
A non diverse conclusioni sembra doversi pervenire anche qualora il danno sia configurato
come mero danno da ritardo, correlato a quella specie di interessi aventi natura
strumentale
o
meglio
procedimentale.
Anche in tale prospettiva, infatti, sembra sussistere la giurisdizione del giudice
amministrativo sia che si valorizzi la natura della posizione giuridica fatta valere, per
l'appunto l'interesse legittimo al corretto svolgimento e al rispetto dei tempi del
procedimento, sia che si rimarchi l'inerenza della condotta di cui si assume l'illiceità violazione dei termini del procedimento e, più in generale, del dovere di correttezza all'esercizio di un potere di tipo autoritativo da parte dell'amministrazione. Soprattutto,
ancora una volta, la logica della concentrazione della tutela innanzi al medesimo giudice che costituisce attuazione del disposto costituzionale di cui agli articoli 24 e 111 - non
consente di ritagliare, nell'ambito della medesima vicenda sostanziale, spicchi di tutela in
relazione ad azioni proponibili dinanzi a giudici diversi, costringendo il cittadino non solo
a promuovere distinti giudizi ma a frazionare le proprie istanze di tutela, che possono
presentare margini di alternatività, dinanzi a diversi giudici. Con la conseguenza che lo
stesso concetto di consequenzialità - come rilevato in dottrina - deve essere riguardato non
tanto in relazione alla pronuncia giurisdizionale di annullamento, ma piuttosto come
concetto interno alla giurisdizione, nel senso che la lesione di cui si chiede il ristoro può
essere conseguenza, oltre che di un provvedimento, di una condotta strettamente inerente
all'esercizio
di
un
potere
di
natura
autoritativa.
Il richiamato orientamento è stato condiviso dall'Adunanza plenaria di questo Consiglio di
Stato (decisione 15 settembre 2005 n. 7) ed ha avuto l'avallo della Corte di Cassazione, che,
con le note ordinanze n. 13659 e n. 13660 del giugno 2006, nell'affermare la giurisdizione
del giudice amministrativo sui danni da provvedimento, ha sottolineato, in conformità con
l'Adunanza plenaria, che appaiono riconducibili alla giurisdizione del giudice
amministrativo i casi in cui la lesione di una situazione soggettiva dell'interessato è
postulata come conseguenza d'un comportamento inerte, si tratti di ritardo nell'emissione
di
un
provvedimento
risultato
favorevole
o
di
silenzio.
Si deve, pertanto, concludere che la presente controversia rientra nella giurisdizione del
giudice
amministrativo
2. Superata la questione di giurisdizione e passando all'esame del merito, conviene
premettere che contro la sentenza sono stati proposti due appelli: il primo, da qualificarsi
come principale, dalle originarie ricorrenti e il secondo, incidentale, dal Comune di
Genova.
Come si avuto modo di evidenziare in punto di fatto, il TAR, pur avendo riconosciuto che
l'affidamento ingeneratosi nelle ricorrenti aveva raggiunto un notevole grado di
espansione, in quanto il progetto di lottizzazione aveva superato nella sostanza tutti i
passaggi tecnici ed aveva ottenuto anche l'approvazione da parte della Giunta municipale,
ha tuttavia escluso che il Consiglio comunale fosse vincolato all'approvazione del progetto,
residuando in capo all'organo consiliare un margine di apprezzamento discrezionale in
sede di esame del progetto di lottizzazione. Questo margine di apprezzamento
discrezionale del Consiglio non consentiva di affermare l'obbligo del Comune di risarcire il
danno asseritamente derivante dal minor valore del terreno divenuto agricolo grazie
all'inerzia del Comune rispetto a quello che avrebbe avuto con la realizzazione del progetto.
Viceversa, l'indicato affidamento è stato ritenuto idoneo a fondare la richiesta di
risarcimento del danno connesso ai costi sopportati per gli studi, le indagini tecniche,
assistenze e consulenze, spese generali per l'apprestamento dei mezzi necessari o utili per
avviare la realizzazione di un progetto, atteso che, ad avviso del TAR, l'approvazione del
progetto di lottizzazione, alla stregua di un esame oggettivo della situazione, non poteva
che
essere
prossima.
E, tuttavia, anche per quanto concerne il danno da ultimo menzionato - esplicitamente
qualificato come danno emergente - il primo giudice ha ritenuto che la domanda non
potesse
essere
accolta
per
mancanza
di
prova.
2.1. Con l'appello principale la sentenza è stata criticata per non aver riconosciuto il diritto
delle Società ad ottenere, oltre al pagamento delle spese progettuali, anche il ristoro dei
pregiudizi patrimoniali consistenti nel decremento del valore dei terreni e nel mancato
utile che le medesime avrebbero potuto ritrarre dall'approvazione del Piano di
lottizzazione.
Le appellanti premettono che, con riguardo ai costi di progettazione e connessi, il cui
diritto al risarcimento è stato riconosciuto nella sentenza impugnata (ancorché la relativa
azione risarcitoria sia stata respinta in quanto ritenuta dai Giudici "priva di fondamento
probatorio"), si sono determinate a chiedere in via stragiudiziale all'Amministrazione
civica il rimborso delle spese (per studi, indagini tecniche, consulenze, etc.) a suo tempo
sostenute per l'elaborazione della proposta di S.U.A., riservandosi comunque il diritto di
ricorrere nuovamente all'Autorità giudiziaria per l'ipotesi di perdurante inadempimento
del
Comune
di
Genova
all'obbligazione
risarcitoria.
In relazione, invece, alle altre componenti di danno dedotte nel giudizio di primo grado
(riduzione del valore economico delle aree di interesse e mancato utile), le medesime
società censurano l'impugnata sentenza per erroneità e contraddittorietà e ne chiedono la
riforma, con conseguente riconoscimento del loro diritto al risarcimento del danno.
A questo proposito, evidenziano come, nel corso del giudizio di primo grado, avessero
dimostrato in modo esauriente la sussistenza nel caso di specie di tutti i presupposti
(enucleati dalla Corte di Cassazione nella nota sentenza n. 500 del 1999) che legittimano la
proposizione della domanda di risarcimento danni ex art. 2043 C.C. nei confronti della P.
A. per le ipotesi di illegittimo esercizio della funzione pubblica: evento dannoso, ingiustizia
del
danno,
riferibilità
dell'evento
dannoso
alla
condotta
della
P.A..
L'esistenza del danno sarebbe in re ipsa, stante l'enorme differenza di valore tra il suolo
destinato ad espansione residenziale (quale era al momento di presentazione del piano di
lottizzazione e quale è rimasto per molto tempo in cui il comune è rimasto inerte e quale si
era consolidato a seguito della notifica della sentenza n. 27 del 10 febbraio 1996 sul silenzio
rifiuto, intervenuta prima dell'adozione del nuovo P.R.G.) ed il medesimo suolo dopo che
la sua edificabilità è stata azzerata in seguito alla sua illegittima assegnazione a zona
agricola dalla disciplina urbanistica sopravvenuta. L'ingiustizia del danno emergerebbe
agevolmente ove si consideri che esso viene ad incidere su una situazione soggettiva di
interesse legittimo pretensivo, tutelata dall'ordinamento in quanto funzionale alla
protezione del bene della vita, consistente nel diritto di proprietà di cui lo jus aedificandi
costituisce facoltà inscindibile. Il nesso di causalità tra la condotta del comune e il danno
deriverebbe dal fatto che il danno sofferto dalle originarie ricorrenti sarebbe conseguenza
diretta ed immediata della colpevole inerzia dell'amministrazione locale, riconosciuta
illegittima con la sentenza n. 27/1996, e protrattasi fino all'adozione della variante al
P.R.G. ed oltre, posto che il provvedimento conclusivo del procedimento non è stato mai
adottato.
Le considerazioni che precedono dimostravano (e dimostrano), ad avviso delle appellanti,
la sussistenza di tutti i presupposti per la qualificazione e la riconducibilità del danno da
loro sofferto allo schema normativo di cui all'art. 2043 c.c., con conseguente obbligo per il
comune di risarcirlo. E, poiché nel caso in esame la reintegrazione in forma specifica - che
costituisce il primo rimedio risarcitorio - è ormai inibita dalla nuova disciplina urbanistica
che ha impresso ai terreni di proprietà delle ricorrenti una destinazione incompatibile con
l'utilizzazione edificatoria, nonché con il rifiuto del comune di modificare il piano
regolatore in modo coerente con il progetto di lottizzazione a suo tempo presentato, il
risarcimento non può che avvenire per equivalente pecuniario in applicazione dei principi
contenuti nell'art. 1223 c.c., che individuano quali componenti del danno sia la perdita
subita
che
il
mancato
guadagno.
A questo riguardo, si precisa dalle parti che, mentre il danno della società Florida s.s. è
costituito solo dalla differenza di valore dei terreni di sua proprietà, derivante dal
mutamento della loro destinazione urbanistica da edificatori residenziali in agricoli, il
danno della Società Le Piscine di Montesignano S.p.A. comprende, oltre quello derivante
dal minor valore dei terreni di sua proprietà, anche quello connesso alla sua attività
imprenditoriale, connessa essenzialmente alla realizzazione di insediamenti residenziali e
commerciali, e, quindi, il mancato utile che sarebbe derivato dall'operazione, pari alla
differenza tra i ricavi presumibili sulla base dei prezzi correnti medi di mercato dell'epoca e
relativi alla zona di intervento ed i costi dell'operazione (costi di acquisizione delle aree di
proprietà della Florida e di terzi, costi di costruzione e di progettazione, oneri di
urbanizzazione,
oneri
finanziari
e
di
commercializzazione).
Aggiungono le Società che in tale chiaro contesto, il TAR, pur riconoscendo che lo stato di
definizione del procedimento di approvazione del progetto di lottizzazione aveva raggiunto
uno stadio tale da determinare "il maturarsi in capo alle ricorrenti di un'aspettativa
giuridica concreta che in ogni caso non poteva rimanere senza risposta - ossia senza
provvedimento finale - per un termine di anni dapprima e poi lasciata cadere nella
completa omissione in spregio ai principi generali di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241",
del tutto contraddittoriamente ha poi escluso la risarcibilità del pregiudizio patrimoniale
derivante dalla diminuzione del valore delle aree divenute agricole in virtù della
sopravvenuta disciplina urbanistica, in base alla sola considerazione che il Consiglio
comunale non era assolutamente vincolato all'approvazione del progetto di lottizzazione,
residuando ancora un margine di discrezionalità in sede di esame del piano medesimo.
Ove si consideri, inoltre, che il medesimo TAR ha riconosciuto comunque "l'esistenza in
capo alle ricorrenti almeno di un danno emergente", individuato nei "costi sopportati per
l'apprestamento dei mezzi necessari o utili per avviare la realizzazione di un progetto la cui
approvazione non poteva che essere prossima ad un esame oggettivo", appare evidente, ad
avviso delle appellanti, che il primo giudice ha erroneamente ritenuto che la svalutazione
dei terreni costituisca una componente di danno rientrante nel genus del lucro cessante,
per di più non risarcibile in quanto non conseguenza diretta di un comportamento illecito
dell'amministrazione locale, il quanto l'organo consiliare non era obbligato ad approvare la
proposta
di
S.U.A..
In realtà, il deprezzamento delle aree sarebbe riconducibile alla categoria del "danno
emergente", in quanto esso ha determinato e determina (non un mancato guadagno, ma) la
diminuzione del valore economico di beni già esistenti nel patrimonio dei soggetti
interessati.
Se il TAR avesse correttamente individuato la natura del danno in esame, non avrebbe
potuto negare il risarcimento, posto che, per sua stessa ammissione, lo stadio di
approvazione del progetto - che aveva superato favorevolmente tutti i passaggi tecnici ed
aveva ottenuto anche il parere favorevole della Giunta comunale - era a tal punto avanzato
che il cd. margine residuo del Consiglio comunale poteva ritenersi inesistente. Sotto questo
profilo, la sentenza viene censurata anche per difetto di motivazione, poiché il giudice di
primo grado, invece di limitarsi ad enunciazioni di principio, avrebbe dovuto accertare se
effettivamente residuassero concreti spazi di discrezionalità nell'approvazione del piano di
lottizzazione
(norme
o
interessi
pubblici).
A contrastare tale conclusione non varrebbe, in senso contrario, affermare che l'istruttoria
del procedimento non si era conclusa perché le Società non avevano presentato la
documentazione integrativa chiesta dal Comune né sostenere che la facoltà di agire per il
risarcimento dei danni fosse ormai preclusa per mancata impugnazione della disciplina
urbanistica sopravvenuta che ha azzerato le potenzialità edificatorie dei terreni di
proprietà.
Quanto al primo rilievo, si ricorda dalle appellanti che il TAR, con la sentenza n. 27/1996,
ha statuito che "siffatta richiesta di ulteriore documentazione, così generica ed
indeterminata, per di più disposta circa quattro anni dopo la citata deliberazione della
Giunta Municipale, non può che essere considerata alla stregua di un atto interlocutorio di
natura pretestuosa e dilatoria e, perciò, irrilevante ed inidoneo ad ovviare all'inerzia
dell'Amministrazione in ordine al suo dovere di concludere il procedimento".
A confutazione del secondo rilievo, le società sottolineano da un lato, che nel caso di
comportamento inerte della P.A. la giurisprudenza (TAR Puglia - Sezione di Lecce, Sezione
III, 11 ottobre 2004, n. 7166) ha ammesso l'esperibilità dell'azione risarcitoria cosiddetta
"pura" (ovvero non collegata alla principale azione impugnatoria) atteso che l'elemento
causativo del danno è da rinvenirsi non in un provvedimento annullato dal Giudice ma in
una condotta omissiva dell'Amministrazione, e, dall'altro lato, che la disciplina urbanistica
sopravvenuta sia comunque stata dichiarata illegittima e conseguentemente annullata,
ovviamente
con
effetto
retroattivo,
in
sede
giurisdizionale.
Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dal comune nel suo appello incidentale, le
Società non sarebbero titolari di una mera aspettativa all'assunzione di un provvedimento
favorevole.
Al contrario, lo stato avanzato del procedimento e, più ancora, la sua univoca direzione nel
senso della conformità del progetto ad ogni norma applicabile e ad ogni interesse pubblico
rilevante, oltre alla esistenza di una declaratoria giudiziale dell'obbligo a provvedere
avrebbero attribuito alle proponenti l'intervento una posizione giuridica di oggettivo
affidamento circa l'approvazione del piano di lottizzazione e circa il buon esito
dell'operazione edilizia (il che implica l'obbligo per l'Amministrazione di risarcire i danni
derivanti
dalla
lesione
di
tale
affidamento).
Con riferimento alla componente di danno (qualificabile come lucro cessante) consistente
nella mancata percezione degli utili che sarebbero derivati dalla realizzazione
dell'insediamento residenziale e commerciale oggetto del piano, le società rilevano che su
questo punto i primi giudici non hanno adottato alcuna statuizione, dovendo escludersi
che la reiezione della domanda risarcitoria riguardante la componente del lucro cessante
sia implicita nella mancata condanna dell'amministrazione a rifondere le altre componenti
del
danno.
Il TAR, invero, ha giudicato infondata solo la richiesta risarcitoria relativa al
deprezzamento dei terreni, per cui sarebbe da escludere che in tale statuizione possa essere
ricompressa anche la componente di danno da mancato guadagno, essendo evidente che il
giudice deve verificare in concreto ogni singola componente di danno, in quanto ciascuna
di
esse
può
fondarsi
su
presupposti
autonomi.
Fatta questa precisazione, le società insistono per il riconoscimento anche di questo tipo di
danno, non essendovi alcun dubbio che nella specie sussistano tutti i presupposti per la sua
risarcibilità.
2.2. Il Comune di Genova si è costituito in questo grado e, con apposita memoria, ha
replicato diffusamente alle singole argomentazioni poste a base dell'impugnazione. Il
medesimo Comune, con appello incidentale, ha censurato la sentenza nella parte in cui ha
riconosciuto che in capo alle società si fosse maturato un'aspettativa giuridica concreta.
Il comune osserva che, già in sede di esame della questione di giurisdizione, il TAR ha
erroneamente rilevato, in modo del tutto apodittico, il maturarsi in capo alle ricorrenti di
un'aspettativa giuridica concreta, stante l'avanzato stato raggiunto dal procedimento di
approvazione del progetto di lottizzazione, il quale aveva superato tutti i passaggi tecnici e
quello
determinante
se
non
definitivo
della
giunta
comunale.
Pur ammettendo che lo schema di piano si presentava completo sotto il profilo
dell'elaborazione tecnica e che sul medesimo si erano favorevolmente espressi i diversi
uffici interessati, l'amministrazione locale assume che, comunque, il procedimento di
approvazione risultava ancora allo stato in piena istruttoria, dovendosi ancora dare corso a
tutta la fase propriamente discrezionale affidata al Consiglio Comunale, nonché alle fasi di
partecipazione (con facoltà di presentazione di osservazioni ed opposizioni da parte dei
proprietari di immobili compresi nel progetto), di pubblicità e di controllo.
In altre parole, nel procedimento di approvazione di uno strumento urbanistico attuativo sia pure di iniziativa privata - la civica amministrazione conserva un rilevante spazio di
discrezionalità che appare del tutto evidente ove si consideri il contenuto tipico di detto
piano, secondo quanto prevede l'art. 13 della legge urbanistica statale n. 1150 del 1942, e,
per quel che riguarda la Regione Liguria, il combinato disposto degli artt. 8, 16 e 18 della
legge regionale 8 luglio 1987, n. 24, applicabile ratione temporis al caso di specie.
Se, poi, si considera che, come evidenziato nelle premesse della proposta della Giunta
comunale 13 marzo 1990, n. 1366, l'approvazione del piano di lottizzazione postulava
l'approvazione di una variante connessa al piano regolatore e che in ogni caso il progetto
era nella sostanza carente sotto il profilo delle indagini e delle verifiche effettuate sotto il
profilo idrogeologico e geotecnica, appare evidente, sempre secondo l'appellante
incidentale come, diversamente da quanto affermato dal primo giudice, le società non
avevano maturato nessun oggettivo affidamento, potendo vantare solo la mera aspettativa
di un provvedimento favorevole, peraltro non coltivata allorché la sopravvenuta disciplina
urbanistica dell'area ne aveva ripetutamente eroso l'originaria attitudine edificatoria.
Ad avviso del comune, dunque, il capo della sentenza, nella parte in cui riconosce
"l'esistenza in capo alle ricorrenti almeno di un danno emergente", individuato nei "costi
sopportati per l'apprestamento dei mezzi necessari o utili per avviare la realizzazione di un
progetto la cui approvazione non poteva che essere prossima ad un esame oggettivo"
(anche se poi la relativa domanda è stata respinta per mancanza di prova), oltre ad essere
errata, si pone in netto contrasto con l'univoca elaborazione giurisprudenziale, la quale
non solo ritiene che "per gli interessi pretensivi il risarcimento presuppone un giudizio
prognostico sulla fondatezza o meno dell'istanza, in funzione dell'esigenza di accertare se il
pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, ma di
una situazione soggettiva di oggettivo affidamento circa la sua favorevole conclusione"
(Cass. Civ., Sez. III, 11 febbraio 2005, n. 2705), ma afferma, altresì, che "Il diritto al
risarcimento del danno in materia di interessi pretensivi non può riconoscersi nell'ipotesi
in cui .. residui un margine di apprezzamento discrezionale tale da configurare come mera
evenienza l'emanazione del provvedimento ampliativo" (TAR Puglia Bari, sez. II, 17
gennaio
2000,
n.
169).
Nel caso di specie, il c.d. "giudizio prognostico" non era esperibile, a fronte della
discrezionalità riservata sul punto alla civica amministrazione, come peraltro riconosciuto
in
principio
dagli
stessi
giudici
di
primo
grado.
3. In via prioritaria, occorre precisare che il comune di Genova, ancorché formalmente non
soccombente, è legittimato a proporre appello avverso la sentenza in esame.
Com'è noto, anche se l'interesse ad impugnare in appello una sentenza di Tribunale
amministrativo regionale si collega necessariamente alla soccombenza, anche parziale, nel
precedente giudizio, mancando la quale l'impugnazione è inammissibile, la giurisprudenza
ammette l'interesse della parte integralmente vittoriosa ad impugnare la sentenza al solo
fine di ottenere una modificazione della motivazione, allorché da quest' ultima possa
dedursi un' implicita statuizione contraria all'interesse della parte medesima, nel senso che
a questa possa derivare pregiudizio da motivi che, quale premessa necessaria della
decisione, siano suscettibili di formare giudicato (CdS, Sez. IV 16 ottobre 1998, n. 1305;
Sez.
V,
17
luglio
2004,
n.
5127).
Nella specie, la sentenza, nella parte in cui riconosce "l'esistenza in capo alle ricorrenti
almeno di un danno emergente", individuato nei "costi sopportati per l'apprestamento dei
mezzi necessari o utili per avviare la realizzazione di un progetto la cui approvazione non
poteva che essere prossima ad un esame oggettivo", contiene una statuizione suscettibile di
produrre effetti pregiudizievoli nei confronti del comune, come testimonia la circostanza
che le società, proprio in ragione di tale statuizione, hanno chiesto all'amministrazione
comunale in via stragiudiziale il rimborso delle spese a suo tempo sostenute per
l'elaborazione della proposta di piano, riservandosi di ricorrere nuovamente all'autorità
giudiziaria nel caso di perdurante inadempimento del Comune all'obbligazione risarcitoria.
Fatta questa necessaria puntualizzazione, nel merito, la Sezione ritiene che la tesi del
comune
sia
da
condividere.
3.1. Sotto un profilo generale, la questione sottoposta all'esame della Sezione si inquadra
nell'ambito del complesso tema della natura giuridica della responsabilità
dell'amministrazione e attiene, in particolare, all'individuazione dei presupposti,
sostanziali e processuali, dell'azione risarcitoria instaurata dalle due società appellanti.
La fattispecie qui considerata è quella in cui sia fatta valere la mancata emanazione del
provvedimento richiesto nei tempi previsti dall'ordinamento, indipendentemente dal suo
contenuto. E ciò che occorre stabilire è se e in che limiti, oltre che a quali condizioni,
l'interesse procedimentale al rispetto dei tempi del procedimento possa ricevere, oltre che
una tutela sul piano dei rimedi strettamente processuali (per esempio, in sede cautelare e
di azione avverso il silenzio) una tutela risarcitoria per equivalente.
Più precisamente, la controversia in esame concerne il caso in cui l'amministrazione non
provveda o provveda (in senso negativo) in ritardo e il problema da risolvere, in questa
fattispecie, è se sia risarcibile il mero danno da ritardo; cioè, se sia risarcibile
oggettivamente il danno subito dal privato in conseguenza dell'inerzia protratta
dall'amministrazione
oltre
un
certo
termine,
normativamente
prefissato.
3.2. In tema di danno da ritardo in giurisprudenza si registra una diversità di opinione su
un punto centrale: se il danno sia risarcibile o meno indipendentemente dalla spettanza del
bene della vita, cioè indipendentemente dal fatto che il privato abbia titolo al rilascio del
provvedimento richiesto. In altri termini, la domanda che si pone è se a fondare un titolo
risarcitorio sia sufficiente la mera violazione di obblighi di correttezza e buona fede nello
svolgimento del procedimento, nella specie, il mancato rispetto dei tempi del
procedimento.
Un primo orientamento giurisprudenziale, nel delineare una responsabilità
dell'amministrazione da contatto qualificato (Cass. 10 gennaio 2003 n. 157; Cons. Stato VI,
20 gennaio 2003 n. 204 e 15 aprile 2003 n. 1945), ha posto in rilievo come, nel nuovo
modello di azione amministrativa introdotto dalla legge n. 241, possano assumere
rilevanza autonoma, rispetto all'interesse legittimo al bene della vita, posizioni soggettive
di natura strumentale che mirano a disciplinare il procedimento amministrativo secondo
criteri di correttezza, idonei a ingenerare, con l'affidamento del privato, «un'aspettativa
qualificata» al rispetto di queste regole (che non sono riguardate - come vorrebbe una
dottrina - alla stregua di «norme neutre», inidonee a radicare posizioni soggettive), con la
conseguenza che «la selezione degli interessi giuridicamente rilevanti non può essere
effettuata con riguardo al solo bene finale idealmente conseguibile» (Cass. n. 157 del 2003,
citata); sicché il privato ha titolo a una risposta certa e tempestiva a prescindere dal
contenuto
della
stessa.
In tale prospettiva, sarebbe enucleabile dal novero degli interessi pretensivi, e piuttosto
accanto a essi, un ambito di interessi procedimentali, la cui violazione integrerebbe un
titolo di responsabilità idoneo a fondare un danno risarcibile diverso e autonomo rispetto
alla lesione del bene della vita. A tale categoria di interessi procedimentali sarebbe
ascrivibile il danno da ritardo, sicché il privato avrebbe titolo ad agire per il risarcimento
del danno subìto in conseguenza della mancata emanazione del provvedimento richiesto
nei tempi previsti; e indipendentemente dalla successiva emanazione e dal contenuto di
tale
provvedimento.
Secondo un altro orientamento - che è allo stato prevalente nella giurisprudenza
amministrativa - il danno da ritardo è risarcibile solo se il privato abbia titolo al rilascio del
provvedimento finale, se cioè gli spetti il «bene della vita» (Ad. Pl. 15 settembre 2005, n.
7).
Nell'ambito di tale indirizzo giurisprudenziale vi è poi chi ritiene che il titolo andrebbe
accertato azionando il procedimento del silenzio e sindacando il successivo diniego
espresso, e chi, invece, è dell'avviso che il giudice, adito in sede risarcitoria, dovrebbe
effettuare un giudizio prognostico sulla spettanza del titolo, ai soli fini del risarcimento.
Va, peraltro, aggiunto che sulla questione influisce anche un principio cardine del diritto
processuale,
quello
della
domanda.
Come di recente è stato precisato (Sez. VI, 15 aprile 2003, n. 1945), non di rado, la pretesa
risarcitoria, in specie quando azionata da soggetti che entrano in contatto con
l'Amministrazione in quanto portatori di interessi economici di rilievo, non ha ad oggetto il
mero pregiudizio derivante dalla violazione dell'obbligo di comportamento imposto
all'amministrazione, a prescindere quindi dalla soddisfazione dell'interesse finale, ma, al
contrario, proprio il pregiudizio connesso alla preclusione frapposta dall'Amministrazione
alla
realizzazione
del
bene
finale.
In queste ipotesi il giudice non può né eludere la domanda, né tanto meno accoglierla a
prescindere dalla formulazione di un giudizio, laddove possibile, sulla certa o
statisticamente
probabile
spettanza
del
bene
dell'utilità
finale.
Questo giudizio prognostico si presenta particolarmente delicato, specie quando vi sia
necessità di distinguere a seconda della tipologia dell'attività amministrativa dal cui
concreto esercizio dipende il conseguimento del bene della vita: il giudizio prognostico,
difatti, pone problemi diversi e si atteggia in modo differenziato a seconda che il
soddisfacimento della pretesa sia correlato ad attività vincolata, tecnico-discrezionale o
discrezionale
pura.
Secondo quanto rilevato (Sez. VI, 15 aprile 2003, n. 1945), il rischio che il giudice si
sostituisca all'amministrazione, sia pure in modo virtuale e nella sola prospettiva
risarcitoria, diventa tanto più consistente quanto più sono intensi i margini di valutazione
rimessi alla seconda nel riconoscere al privato, asseritamente leso, il bene della vita.
Evenienza questa che viene individuata in quelle ipotesi in cui l'attività
dell'amministrazione sia connotata da margini di discrezionalità amministrativa pura,
anziché solo tecnica: in questa ipotesi si prospetta il rischio di un'ingerenza del giudice chiamato a formulare il giudizio prognostico sulla spettanza del bene non ottenuto con la
determinazione illegittima ed annullata - nella sfera davvero esclusiva
dell'amministrazione, quella afferente il merito amministrativo e le valutazioni di pura
opportunità e convenienza alla stessa spettanti nella prospettiva dell'ottimale
perseguimento
dell'interesse
pubblico.
In questi casi, connotati dalla persistenza in capo all'amministrazione di significativi spazi
di discrezionalità amministrativa pura, si esclude che il giudice possa indagare sulla
spettanza del bene della vita, ammettendo il risarcimento solo dopo e a condizione che
l'Amministrazione, riesercitato il proprio potere, abbia riconosciuto all'istante il bene
stesso: nel qual caso, il danno ristorabile non potrà che ridursi al solo pregiudizio
determinato
dal
ritardo
nel
conseguimento
di
quel
bene.
3.3. È in applicazione di questi principi, ribaditi anche di recente (Sez. VI, 31 gennaio
2006, n. 321) e dai quali la Sezione non ravvisa motivi per discostarsi, che va risolto il caso
di specie nel quale le società appellanti chiedono il ristoro del danno inteso nella sua
pienezza.
Come agevolmente desumibile anche dalla entità del danno asseritamente patito, le
appellanti si ritengono lese per il deprezzamento di valore subito dalle aree di loro
proprietà nonché per il mancato utile che le medesime avrebbero conseguito per effetto
dell'operazione immobiliare connessa alla realizzazione del piano di lottizzazione.
Non è stato chiesto, quindi, il mero danno che può subirsi per effetto di una illegittimità
procedimentale sintomatica di una modalità comportamentale non improntata alla regola
della correttezza, ma l'intero pregiudizio derivante dal mancato conseguimento del bene
della vita, costituito dalla richiesta di approvazione del piano di lottizzazione.
Il Collegio, quindi, non può nel caso di specie attribuire autonomo rilievo risarcitorio alla
mera violazione dell'obbligo di comportamento imposto all'amministrazione,
indipendentemente dalla soddisfazione dell'interesse finale: ciò, per rispetto sia del
principio della domanda, sia di quello dispositivo cui il processo risarcitorio deve
conformarsi.
Da un lato, infatti, come rilevato, le due società non chiedono il danno da violazione
dell'obbligo di comportamento imposto all'amministrazione, a prescindere quindi dalla
soddisfazione dell'interesse finale, ma invocano il ristoro, per l'appunto, del pregiudizio
causato dal mancato conseguimento del bene della vita cui aspirano.
Dall'altro lato, l'accoglimento della domanda presuppone, come rilevato, la valutazione
circa la spettanza dell'utilità finale cui aspirano nel caso di specie le appellanti principali,
mediante un giudizio prognostico che, come ampiamente chiarito, non può esse consentito
allorché l'attività dell'amministrazione sia caratterizzata da consistenti margini di
discrezionalità
amministrativa.
Diversamente da quanto mostrano di ritenere le appellanti, l'approvazione del piano di
lottizzazione, pur se conforme al piano regolatore generale o al programma di
fabbricazione, non è atto dovuto, ma costituisce sempre espressione di potere discrezionale
dell'Autorità (a livello comunale o regionale), chiamata a valutare l'opportunità di dare
attuazione - in un certo momento ed in certe condizioni - alle previsioni dello strumento
urbanistico generale, essendovi fra quest' ultimo e gli strumenti attuativi un rapporto di
necessaria compatibilità, ma non di formale coincidenza; pertanto, per evidenti motivi di
opportunità, l'attuazione dello strumento generale può essere articolata per tempi, o per
modalità, in relazione alle esigenze dinamiche che si manifestano nel periodo di vigenza
dello
strumento
generale
(Sez.
IV,
2
marzo
2004,
n.
957).
Va, quindi, escluso che le società avessero maturato una concreta aspettativa alla sua
approvazione,
come
erroneamente
affermato
dal
primo
giudice.
D'altra parte, l'impossibilità di procedere in questa sede ad un giudizio prognostico sulla
spettanza del bene della vita, al quale aspirano le appellanti, trova la sua ulteriore
conferma nella circostanza che le potenzialità edificatorie dei terreni oggetto di
lottizzazione sono state azzerate prima con la variante di salvaguardia del 1995 e
successivamente con la variante generale del 1997, che non risultano essere state
impugnate
dalle
originarie
ricorrenti.
Né vale sostenere (pag. 11 della memoria 3 ottobre 2007) che, per agire in giudizio al fine
di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, le appellanti non erano obbligate ad
impugnare la sopravvenuta disciplina urbanistica, anche perché la giurisprudenza nel caso
di comportamento inerte della P.A. (TAR Puglia - Sezione di Lecce, Sezione III, 11 ottobre
2004, n. 7166) ha ammesso l'esperibilità dell'azione risarcitoria cosiddetta "pura" (ovvero
non collegata alla principale azione impugnatoria), atteso che l'elemento causativo del
danno è da rinvenirsi non in un provvedimento annullato dal Giudice ma in una condotta
omissiva
dell'Amministrazione.
È facile replicare, a confutazione di tale assunto, che il richiamo giurisprudenziale non
appare pertinente, posto che in quel caso la domanda di risarcimento era formulata per il
danno derivante da ritardo nell'adozione di provvedimento favorevole e, quindi, il suo
eventuale accoglimento avrebbe comportato un risarcimento limitato al cd. interesse
negativo.
Il caso, quindi, è del tutto diverso da quello che forma oggetto della presente controversia,
nella quale le società chiedono il pieno ristoro dei danni subiti per la mancata realizzazione
dell'intervento insediativo connesso all'approvazione del piano di lottizzazione: chiedono,
cioè, proprio il bene della vita al quale aspirano anche se, in relazione alla sopravvenuta
impossibilità di ottenere il risarcimento in forma specifica, hanno avanzato la domanda per
l'integrale
risarcimento
sotto
forma
di
equivalente
economico.
A queste considerazioni di ordine generale, si deve aggiungere che, secondo il consolidato
orientamento di questo Consiglio di Stato (Ad. Plen. 15 settembre 2005, n. 7; Sez. VI, 31
gennaio 2006, n. 321), non è possibile accordare il risarcimento del danno da ritardo della
p.a. nel caso in cui i provvedimenti adottati in ritardo risultino di carattere negativo per
colui che ha presentato la relativa istanza di rilascio e le statuizioni in essi contenute siano
divenute intangibili per la omessa proposizione di una qualunque impugnativa.
Neppure vale il richiamo alla circostanza che lo strumento urbanistico sarebbe stato
annullato, con efficacia erga omnes, con decisione di questo Consiglio di Stato (Sez. IV, 31
gennaio 2005, n. 524), essendo evidente che una tale evenienza esula dall'ambito della
presente controversia, dovendo, in ipotesi, l'amministrazione sempre pronunciarsi sul
progetto
di
lottizzazione.
4. In base alle considerazioni che precedono, l'appello delle società va respinto mentre va
accolto l'appello incidentale del comune di Genova. Per l'effetto, la sentenza appellata va
confermata
con
diversa
motivazione.
Le vicende anche anteriori al presente giudizio costituiscono ragione idonea per la
compensazione tra le parti delle spese di giudizio.
P.Q.M
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. IV), pronunciando sull'appello in epigrafe
specificato, respinge l'appello delle società, accoglie l'appello incidentale del comune di
Genova. Per l'effetto, conferma con diversa motivazione la sentenza appellata.
Spese
compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, addì 16 ottobre 2007, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sez. IV), riunito in Camera di Consiglio, con l'intervento dei signori
Giovanni
Vacirca
Presidente
Costantino
Salvatore
Consigliere
est.
Vito
Poli
Consigliere
Anna
Leoni
Consigliere
Bruno
Mollica
Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 29 GEN. 2008.
Consiglio di Stato, Sezione VI^, 14 settembre 2006, n.5323
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato
la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello proposto da ATI EAC SRL e VIAGGI DI MAIO SNC in persona del
suo legale rappresentante pro tempore, legale rappresentante della EAC SRL, quale società
capogruppo, quest’ultimo anche come rappresentante della EAC SRL che ricorre anche in
proprio, nonché la VIAGGI DI MAIO SNC in persona del suo legale rappresentante,
rappresentati e difesi dall’avv. Lodovico Visone ed elettivamente domiciliate presso il suo
studio in Roma alla via degli Avignonesi n. 5;
contro
ATCV Venezia spa in persona del legale rappresentante pro tempore rappresentata e difesa
dagli avvocati Alfredo Bianchini di Venezia ed Enrico Romanelli di Roma e domiciliato per
legge in Roma presso lo studio dell’avv. Enrico Romanelli Viale Giulio Cesare n. 14 scala A,
int. A;
PROVINCIA DI VENEZIA,
COMUNE DI VENEZIA, entrambi non costituiti in giudizio;
e nei confronti di
ATI LA LINEA SPA CSSA, non costituita in giudizio;
per l'annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, Sezione I - n. 2399 del
2003;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della parte intimata;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla camera di consiglio del 31 marzo 2006 relatore il Consigliere Giancarlo
Montedoro.
Uditi gli avv.ti Visone, Fiore, Bianchini e Pafundi per delega di Romanelli;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
L’appellante ha partecipato ad una procedura negoziata, indetta dall’ATCV, con il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ex art. 24 lett. b) del d.lgs. n.
158/1995, per il sub affidamento dei servizi automobilistici di trasporto persone, dal 16
giugno 2002 al 31 dicembre 2003, lotto n. 1 – servizio urbano di Mestre.
Per il lotto in questione hanno presentato offerte la ricorrente e l’ATI LA LINEA che
è risultata aggiudicataria con punti 86,53 mentre l’ATI EAC ha conseguito punti 83,50.
La ricorrente ha impugnato gli atti ed i provvedimenti in epigrafe indicati,
formulando sette censure, concernenti violazione di legge ed eccesso di potere sotto
svariati profili, e chiedendo la reintegrazione in forma specifica ed il risarcimento del
danno per equivalente.
L’ACTV, costituendosi in giudizio, in primo grado, ha eccepito l’inammissibilità del
ricorso per diverse ragioni e comunque la sua infondatezza nel merito.
Il Tar ha respinto il ricorso.
L’appello critica la sentenza, articolando ben tredici motivi e ripropone
integralmente le censure già avanzate in primo grado.
Costituendosi l’appellata rileva l’inammissibilità di nuovi motivi proposti per la
prima volta in sede di appello e conclude per il rigetto del ricorso.
La causa è stata rimessa alla Corte di giustizia delle Comunità europee per la
risoluzione di alcune questioni pregiudiziali ed è stata poi riassunta innanzi al Consiglio di
Stato per la definizione del giudizio.
DIRITTO
L’appello è fondato.
Giova ripercorre i tratti salienti del giudizio.
1. Il motivo di ricorso, riproposto in appello, che pone una questione
interpretativa di diritto comunitario.
Il Collegio ha ritenuto che per la sua serietà la questione proposta con il terzo
motivo del ricorso originario imponesse la rimessione alla Corte di Giustizia CE.
Con esso si lamenta violazione di legge ( art. 36 dir. 92/50 CE; art. 24 1 comma lett.
b) del d.lgs. n. 158/1995) ed eccesso di potere,sotto il profilo della violazione del giusto
procedimento, dello sviamento, della disparità di trattamento, dello straripamento di
potere, violazione dei principi di segretezza e par condicio, ed ancora si denuncia
violazione di legge in relazione agli artt. 1 e 21 della legge n. 109/1994 e reg. n. 554/1999.
Con il terzo motivo citato, si censura l’aggiudicazione avvenuta in quanto la lettera
d’invito prevedeva l’attribuzione di 25 punti, genericamente, per modalità organizzative e
strutture di supporto, mandando all’arbitrio della Commissione la specificazione e, dunque
, l’aggiudicazione della gara.
Svolgendo tale illecita delega – nota l’appellante – con il verbale n. 1, note le
imprese partecipanti, ha suddiviso il punteggio in sottogruppi, attribuendo per le
attrezzature ( e depositi e sedi ) 10 punti.
Ciò non sarebbe consentito – secondo l’assunto del ricorrente – in quanto la
Commissione europea, con il parere 10 agosto 1998, reso nell’esame del c.d. decreto Karrer
( che, all’art, 3 legittimava tale prassi, ritenendola illegittima per contrasto con l’art. 36 dir.
92/50 ) ha già chiarito l’illegittimità dell’affidamento alla Commissione aggiudicatrice –
successivamente alla presentazione delle offerte, di disporre l’ulteriore suddivisione dei
criteri di valutazione delle offerte in sottogruppi, ancorché questo avvenga prima
dell’apertura dei plichi.
Tanto perché l’art. 36 dir. cit. così come l’art. 24 lett. b) del d.lgs. n. 158/1995,
obbligano le stazioni appaltanti ad enunciare nel capitolato d’oneri o nel bando di gara i
criteri che intendono applicare per assicurare che i partecipanti alla gara d’appalto
conoscano, attraverso la lettura del bando di gara in base a quali criteri verrà effettuata la
valutazione ( vengono in proposito richiamati il punto 9 parere della Commissione citato;
Corte di Giustizia CE , in causa n. 31/1987, decisione 20 settembre 1988 , Cons. Stato, Sez.
V, n. 3187/2001 ).
Nella specie, si sostiene, già nella fase della prequalificazione ( che per
l’insegnamento del Consiglio di Stato va distinta dalla fase di valutazione delle offerte )
erano note le attrezzature di cui disponevano le imprese richiedenti l’invito alla gara.
O, comunque, una volta note le imprese tali caratteristiche delle stesse sarebbero
state agevolmente conoscibili.
Tali principi avrebbero trovato espressa previsione legislativa per gli appalti di
lavori.
Infatti – si rileva – ad ulteriore specificazione del principio di trasparenza, con l’art.
91 del d.p.r. n. 554 del 1999 si è chiarito che la Commissione di gara non ha alcuna
autonomia nella ricerca dei criteri per la valutazione delle offerte tecniche, essendo a
questa riconosciuta solo la potestà di scegliere tra i criteri e le formule di cui all’allegato B
quelle indicate nel bando.
Precisandosi altresì che lo stesso bando di gara per tutti gli elementi di valutazione
qualitativa prevede i sub –elementi ed i sub-pesi o i sub-punteggi in base ai quali è
determinata la valutazione.
Principi che, per espressa previsione dell’art. 1 comma 2 della legge n. 109/1994,
costituiscono norme fondamentali di riforma economico –sociale e principi della
legislazione dello Stato anche per il rispetto degli obblighi internazionali dello Stato.
In nessun caso, pertanto – assume l’appellante – alla Commissione di una gara di
evidenza pubblica tesa all’aggiudicazione di un contratto di appalto, sarebbe consentito di
indicare i sub-elementi ed i sub-punteggi.
Sicché la stazione appaltante giammai avrebbe potuto tener conto di tali subelementi o sub-punteggi in sede di valutazione.
Da ciò deriva l’illegittimità dell’eventuale aggiudicazione definitiva, nonché
l’illegittimità della lettera d’invito che tanto consentiva.
Si assume che solo la fissazione dei sub-punteggi postumi ( fissati quando erano
note le imprese e quindi le loro caratteristiche organizzative ) avrebbe consentito
all’impresa controinteressata ATI LA LINEA di divenire aggiudicataria.
2. La difesa della stazione appaltante
La stazione appaltante – nelle difese di primo grado – ha richiamato la
giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo la quale nel procedimento di aggiudicazione
di un pubblico appalto ( nella specie si trattava di un appalto-concorso ) la commissione di
gara può introdurre elementi di specificazione ed integrazione dei criteri generali di
valutazione delle offerte già indicati nel bando di gara o nella lettera di invito, ovvero dei
sotto-criteri di adattamento dei criteri generali o regole specifiche sulle modalità di
valutazione, solo quando vi provveda prima dell’apertura delle buste recanti le offerte dei
partecipanti, dopo tale momento non è possibile introdurre nuovi elementi di valutazione
delle offerte ( CdS V, 26 gennaio 2001 n. 264) ( memoria del 28/10/2002).
Ulteriori decisioni erano poi richiamate nella memoria del 21 marzo 2003: CdS, V,
25 novembre 2002 n. 6478 e CdS , V, 17 ottobre 2002 n. 5675, secondo le quali : “nelle
procedure di gara, in via generale ed anche quando si tratti di appalti di servizi, la
Commissione può operare, ove ritenuto necessario, ulteriori specificazioni dei criteri di
valutazione delle offerte, ma alla inderogabile condizione che tale attività si svolga prima
della conoscenza del contenuto delle offerte stesse ( fatto incontestato nella specie ove si
mette in rilievo la circostanza che tale fissazione dei criteri è avvenuta dopo la
presentazione delle offerte, quindi quando erano note le imprese partecipanti e le loro
caratteristiche non il contenuto delle loro offerte ).
3. La sentenza impugnata
La sentenza impugnata ha rilevato che i criteri di aggiudicazione ed i relativi
punteggi da applicare vanno indicati nella lex specialis di gara, e che, nel caso in esame, il
disciplinare di gara ( pagine 4 e 5 ) ha indicato gli elementi di valutazione da considerare ai
fini dell’aggiudicazione del servizio .
Ha poi continuato la sintetica motivazione rilevando che la Commissione di gara,
prima dell’apertura delle buste con le offerte, ha legittimamente specificato ed integrato
l’elemento di valutazione indicato nel disciplinare e riguardante le modalità organizzative e
le strutture di supporto, attribuendo sub-punteggi ad alcune voci indicate, appunto, nel
verbale del 29 maggio 2002, a pag. 2 ( v . allegato 4 fasc. ATVC ), tra le quali vi sono la
proprietà o la disponibilità di depositi e sedi.
Ha, in ultimo, concluso, rilevando che la giurisprudenza del Consiglio di Stato ( e
viene citata CdS, V, 25 novembre 2002 n. 6478 ) in materia di appalti di servizi, qualora la
scelta della migliore offerta discenda dalla valutazione di una pluralità di elementi di
natura tecnica ed economica, riconosce alla commissione di gara la facoltà di specificare ed
integrare i criteri generali di valutazione delle offerte già indicati nella lex specialis,
individuando sotto-voci e stabilendo sub-punteggi, in maniera tale da rendere la scelta
dell’Amministrazione maggiormente aderente alle effettive esigenze della stazione
appaltante, purché tale specificazione ed integrazione avvenga prima dell’apertura delle
buste recanti le offerte ( sul punto si richiama inoltre CdS, V, n. 264/2001; CdS , n.
1614/2000; CdS VI, n. 2117/1999; CdS VI, n. 370/1999 ).
La sentenza ha poi , quanto all’art. 91 del d.p.r. n. 554/1999 ritenuto che esso non è
applicabile agli appalti nei settori ex esclusi, disciplinati dalla normativa interna della
direttiva CE sugli ex settori esclusi ossia dal d.lgs. n. 158/1995 ed ha rimarcato che nella
specie la specificazione dei criteri è avvenuta prima dell’apertura delle buste e che ciò
basta, indipendentemente da ulteriori considerazioni circa l’estrema opinabilità
dell’affermazione della ricorrente secondo cui era di immediata conoscenza, o comunque
era agevolmente conoscibile, da parte della stazione appaltante, la (mera) disponibilità di
depositi o aree per il parcheggio degli autobus.
La sentenza ha concluso quindi per la conformità della condotta della stazione
appaltante al disposto di cui all’art. 24 lett. b) del d.lgs. n. 158/1995.
4. L’appello.
L’atto di appello, con ampia motivazione, ripercorre la motivazione della sentenza,
censurandola , e ripropone la censura già avanzata in primo grado e sintetizzata sub 1 della
parte motiva di questa ordinanza. Ciò determina la rilevanza della questione nel presente
giudizio.
5. Le operazioni di gara.
Va rilevato, sul piano dello svolgimento dei fatti, che la stazione appaltante ha
fissato i criteri di aggiudicazione nel disciplinare di gara.
Il punto 5 del disciplinare di gara, allegato alla lettera di invito, stabilisce che
l’aggiudicazione dell’appalto avverrà sulla base del criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa previsto dall’art. 24 lett. b) del d.lgs. n. 158/1995 relativamente ai seguenti
elementi di valutazione:
1. prezzo al chilometro per i servizi indicati negli allegati A,B, e C del capitolato:
max 60 punti attribuiti mediante la relazione:
prezzo minimo tra le offerte : prezzo dell’offerta considerata x 60
2. prezzo al chilometro per servizi aggiuntivi a quelli degli allegati A, B, e C del
capitolato :
max 10 punti attribuiti mediante la relazione :
prezzo minimo fra le offerte: prezzo dell’offerta considerata x 10
Nel calcolo dei punteggi si terrà conto fino alla seconda cifra decimale mediante
troncatura delle eventuali cifre successive.
3. modalità organizzative e strutture di supporto utilizzate per l’esecuzione del
servizio desumibili dal documento di cui al punto 3.10 n. 6 del presente disciplinare:
max 25 punti attribuiti da ACTV a suo insindacabile giudizio.
4. possesso di certificazione di qualità conforme alle norme EN9000: 5 punti.
Il punto 3.10 n. 6 prevede che il plico d’offerta debba contenere una “relazione
descrittiva dell’organizzazione e delle strutture logistiche e di supporto che saranno
utilizzate nella gestione dei servizi oggetto del contratto in caso di aggiudicazione, che
dovrà contenere obbligatoriamente almeno le seguenti indicazioni :
- depositi e/o aree per il parcheggio degli autobus, di proprietà o in disponibilità
dell’impresa, nel territorio della provincia di Venezia ( n°, ubicazione, superficie indicativa,
breve descrizione )
- modalità di controllo del servizio erogato e n° di addetti al controllo del servizio
stesso
- n° conducenti di linea e tipo di patente posseduta
- n° sedi di proprietà o in disponibilità dell’impresa ( diverse dai depositi ) nel
territorio della provincia di Venezia ( n°, ubicazione, superficie indicativa, breve
descrizione )
- n° addetti all’organizzazione dei turni del personale di guida.
La Commissione, prima di procedere all’apertura dei plichi, preso atto dell’elenco
delle ditte invitate e di quelle che avevano presentato offerte nei termini, ha preso atto dei
punteggi massimi da attribuire agli elementi di valutazione delle offerte così come fissati
dal disciplinare di gara, ed ha poi fissato, circa il punto 3, modalità organizzative e
strutture di supporto, per il quale erano , a tenore del disciplinare di gara , attribuibili max
25 punti , di ripartirli tra varie voci nel seguente modo:
- depositi e/o aree per il parcheggio degli autobus, di proprietà o in disponibilità
dell’impresa, nel territorio della provincia di Venezia ( n°, ubicazione, superficie indicativa,
breve descrizione ): punti 8
- modalità di controllo del servizio erogato e n° di addetti al controllo del servizio
stesso : punti 7
- n° conducenti di linea e tipo di patente posseduta: punti 6
- n° sedi di proprietà o in disponibilità dell’impresa ( diverse dai depositi ) nel
territorio della provincia di Venezia ( n°, ubicazione, superficie indicativa, breve
descrizione ): punti 2
- n° addetti all’organizzazione dei turni del personale di guida: punti 2.
La Commissione ha anche stabilito di attribuire i punteggi per modalità
organizzative e strutture di supporto sulla base della documentazione prodotta al riguardo
dalle concorrenti.
In sostanza la Commissione ha predeterminato il valore da attribuire agli elementi
già indicati in sede di disciplinare di gara, attribuendo ad essi un peso relativo, nell’ambito
del punteggio massimo attribuibile , ma non ha introdotto delle sotto-voci non previste
dalla lex specialis.
6. Le norme di diritto comunitario rilevanti.
In materia di appalto di servizi si incontra la norma di cui all’art. 36 paragrafo 2,
della direttiva CE n. 50/1992, che stabilisce: “qualora l’appalto sia aggiudicato all’offerta
più vantaggiosa sotto il profilo economico, le amministrazioni enunciano, nel capitolato
d’oneri o nel bando di gara, i criteri di aggiudicazione di cui esse prevedono l’applicazione,
possibilmente nell’ordine decrescente dell’importanza che è loro attribuita.”
In materia di appalti negli ex settori esclusi, l’art. 34 paragrafo 2 della direttiva CE
n. 38/1993 recita , in modo analogo: nel caso di cui al paragrafo 1 , lettera a) (
aggiudicazione secondo il metodo dell’offerta economicamente più vantaggiosa ), gli enti
aggiudicatori menzionano nel capitolato d’oneri o nel bando di gara tutti i criteri di
aggiudicazione di cui prevedono l’applicazione, possibilmente nell’ordine decrescente
dell’importanza che è loro attribuita.
La Commissione CE ha ritenuto, valutando della legittimità comunitaria del c.d.
decreto Karrer , che esso violasse l’art. 36 paragrafo 2 della direttiva 92/50 in quanto l’art.
3 comma 2 del decreto 116/1997, consentiva alla commissione giudicatrice di suddividere
gli elementi di valutazione in sub elementi, e, pertanto, in contrasto con il principio di
trasparenza.
La Corte di Giustizia della Ce con sentenza del 20 settembre 1988, nella causa
31/1987 ha affermato che quando le amministrazioni aggiudicatrici non adottano come
unico criterio di aggiudicazione dell’appalto quello del prezzo più basso, ma si basano su
vari criteri al fine di procedere all’aggiudicazione dell’appalto a chi abbia effettuato l’offerta
economicamente più vantaggiosa sono tenute a menzionare questi criteri nel bando di gara
( punto 38 della decisione predetta ).
7. L’orientamento del Consiglio di Stato e la sua contestazione nella tesi
dell’appellante.
L’orientamento tradizionale ed assolutamente pacifico nella giurisprudenza del
Consiglio di Stato è nel senso di legittimare un’antica prassi, ispirata a ragionevolezza
sostanziale ( quando tale modus procedendi non comporta alcun reale vulnus alla
legittimità del procedimento) tesa a riconoscere un certo spazio di intervento integrativo
delle Commissioni di gara: si considera in questa chiave legittimo che la commissione
giudicatrice possa introdurre elementi di specificazione, nell’ambito dei criteri generali
prefissati dal bando e prevedere sottovoci delle categorie principali già definite per una più
esatta valutazione delle offerte stesse ( ex multis CdS IV 21 luglio 1997 n. 737;CdS VI 16
aprile 1999 n. 370 ; CdS V, 13 aprile 1999 n. 412 ; CdS V, 26 giugno 2000 n. 3622 ; CdS, V,
23 marzo 2000, n. 1614; CdS VI 31 ottobre 2001 n. 5691;CdS VI 22-10-2002 n. 5808; CdS
V 28 dicembre n. 6459; CdS IV 21 giugno 2001 n. 3348 – quest’ultima ha ritenuto
ragionevole la disciplina del decreto Karrer ).
Tale orientamento è ritenuto – dall’appellante – in contrasto con le indicazioni
ricavabili dal diritto comunitario, in relazione al parere della Commissione CE sul c.d.
decreto Karrer espresso in data 10 agosto 1988.
L’appello richiama anche il tenore dell’art. 36 della dir. n. 92/50 CE, che è analogo
al disposto dell’art. 34 della direttiva n. 93/38 CE, applicabile al caso in esame, anche se
non espressamente e testualmente richiamato dall’appellante, che ha comunque dedotto in
relazione al principio regolatore espresso da tale norma, ricavando da essa l’obbligo per le
amministrazioni di enunciare al più tardi nel capitolato d’oneri i criteri di aggiudicazione,
in modo da evitare che essi vengano formulati quando sono note esperienze o
caratteristiche delle imprese.
In sostanza secondo la prospettazione dell’appellante la possibilità di specificare i
criteri da parte della Commissione potrebbe determinare un vulnus ai valori di trasparenza
espressi dalla disciplina comunitaria, a fronte dei quali non sarebbero sufficienti le
condizioni particolari di cautela poste dalla giurisprudenza nazionale, quali condizioni di
legittimità dell’operato delle Commissione, ossia la necessità di precisare i criteri prima
dell’apertura delle offerte e di determinarli nell’ambito dei criteri prefissati, poiché
rileverebbe invece la prequalificazione, quale momento nel quale già divengono note le
imprese ed diverrebbe astrattamente possibile quindi “orientare” la predeterminazione dei
criteri secondo valutazioni mirate a favorirne una in luogo di altra.
Ciò in relazione alla norma dell’art. 34 della direttiva n. 93/38 CE (ed all’analoga
norma di cui all’art. 36 della dir. n. 92/50) pone il seguente serio problema interpretativo:
“se sia legittimo interpretare tali disposizioni ( l’art. 36 della direttiva 92/50 e l’art.
34 della direttiva 93/38), come contenenti norme elastiche che permettono alla stazione
appaltante, in caso di aggiudicazione con il metodo dell’offerta economica più vantaggiosa,
di fissare i criteri in via generale nel bando o nel capitolato d’oneri, consentendo poi alla
Commissione di gara, l’eventuale specificazione e/o integrazione di tali criteri, ove
necessaria, e sempre che tale specificazione e/o integrazione avvenga prima della apertura
dei plichi contenenti le offerte e non risulti innovativa dei criteri predeterminati dal
bando o se, invece, detta norma debba essere interpretata come norma rigida, che impone
alla stazione appaltante di determinare analiticamente i criteri di aggiudicazione nel bando
o nel capitolato d’oneri, prima della prequalificazione o dell’invito ed esclude che la
Commissione di gara possa in qualsiasi modo intervenire successivamente specificando
e/o integrando i predetti criteri, o costruendo sotto-voci o sub-punteggi, in quanto ogni
indicazione dei criteri di aggiudicazione , per ragioni di trasparenza, deve essere contenuta
nel bando o nel capitolato d’oneri e, quindi, se sia legittimo, in definitiva, alla luce del
diritto comunitario l’orientamento interpretativo tradizionale maturato nella
giurisprudenza del Consiglio di Stato volto ad ammettere l’intervento della Commissione di
gara.”
Riteneva il Collegio che l’interpretazione data tradizionalmente dal Consiglio di
Stato potesse trovare conferma alla luce dell’avverbio “possibilmente” contenuto nella
disposizione che, riferito alla indicazione dei criteri in ordine decrescente, può anche
significare che il bando può rimandare ogni specificazione dell’ordine di importanza dei
criteri alla Commissione di gara purché si tratti di criteri desumibili e/o ricavabili dallo
stesso bando, implicitamente od esplicitamente, ma rileva altresì che, trattandosi di
questione nuova , per la quale non si rinvengono precedenti, essa, per la sua serietà, debba
obbligatoriamente essere rimessa alla Corte di Giustizia CE.
Ancora: “ se sia legittimo, alla luce di tale norma interpretata elasticamente alla
luce dell’avverbio “possibilmente”, per la stazione appaltante emanare un disciplinare di
gara che in relazione ad un criterio di aggiudicazione ( nella specie modalità
organizzative e di supporto ) preveda l’assegnazione di punti ad insindacabile giudizio
della stazione appaltante, con riferimento una serie di complessa di criteri di cui il bando
non prevede la graduazione risultando in tal senso, in parte, indeterminato o se
comunque la norma imponga una tassatività di massima nella formulazione dei criteri
non compatibile con la mancata graduazione degli stessi, e se, in caso di legittimità della
previsione, per effetto della ritenuta elasticità della norma e della non obbligatorietà della
graduazione di tutti gli elementi, a fronte di essa, in mancanza di un espresso
conferimento di poteri alla Commissione da parte del bando possa ammettersi l’intervento
integrativo –specificativo della Commissione ( risoltosi semplicemente nel attribuire
rilevanza autonoma e peso relativo ad ogni singolo elemento che il bando voleva valutare
attribuendo complessivamente massimo 25 punti ) o, se, invece, a fronte di tale previsione,
debba invece farsi applicazione letterale del disciplinare di gara, attribuendo il punteggio
con valutazione unitaria dei vari e complessi elementi considerati dalla lex specialis ”.
Ed ancora: “ se comunque sia legittimo alla luce di tale disposizione, riconoscere in
via generale alla Commissione di gara che deve valutare le offerte, indipendentemente
dalle modalità di formulazione del bando, nel procedimento di aggiudicazione mediante
offerta economicamente più vantaggiosa, ma solo a fronte della complessità degli elementi
da valutare, un potere di autolimitare, in via generale, la propria azione , specificando i
parametri di applicazione dei criteri prefissati dal bando, e se tale potere della
Commissione possa essere esercitato costruendo sotto voci, sub-punteggi, o
semplicemente dettando criteri più specifici di applicazione dei criteri indicati in via
generale dal bando o dal capitolato d’oneri naturalmente sempre prima di procedere
all’apertura delle buste.”
Ogni altra questione è stata riservata, compresa la pronuncia sulle spese.
La pronuncia della Corte di giustizia delle Comunità europee
La Corte di Giustizia delle Comunità europee si è pronunciata con sentenza del 24
novembre 2005.
Il giudice europeo ha notato che la commissione aggiudicatrice ha semplicemente
determinato il modo in cui i 25 punti previsti per il terzo criterio di aggiudicazione
dovessero essere ripartiti tra i cinque sottocriteri già definiti nel disciplinare di gara.
In sostanza, alla luce dei fatti di causa, ha ritenuto di essere investita della questione
se gli artt. 36 della direttiva 92/50 e 34 della direttiva 93/38 debbano essere interpretati
nel senso che il diritto comunitario osta a che una commissione aggiudicatrice attribuisca
un peso relativo ai sub-elementi di un criterio di aggiudicazione stabilito precedentemente,
effettuando una ripartizione tra questi ultimi dei punti previsti dall’amministrazione
aggiudicatrice al momento della redazione del capitolato di gara.
La Corte ha ricordato che i criteri di aggiudicazione definiti da un’amministrazione
aggiudicatrice devono essere collegati all’oggetto dell’appalto, non devono conferire alla
detta amministrazione una libertà incondizionata di scelta, devono essere espressamente
menzionati nel capitolato d’oneri o nel bando di gara e devono rispettare i principi
fondamentali di parità di trattamento e trasparenza ( in tal senso sentenza 17 settembre
2002, causa C 13/99, Concordia Bus Finland Racc. pag. I- 7213, punto 64).
In particolare, la Corte ha ricordato, nel contesto della causa in esame, che il dovere
di rispettare il principio di parità di trattamento corrisponde all’essenza stessa delle
direttive in materia di appalti pubblici (v. sentenza Concordia Bus Finland punto 81 ) e che
i concorrenti devono trovarsi su un piano di parità sia nel momento in cui essi preparano le
loro offerte sia nel momento in cui queste sono valutate ( v. sentenza 18 ottobre 2001 causa
19/00 SIAC Construction Racc. pag. I-7725, punto 34 ).
Conformemente agli artt. 36 della direttiva 92/50 e 34 della direttiva 93/38, tutti i
criteri presi in considerazione devono essere espressamente menzionati nel capitolato
d’oneri o nel bando di gara, se possibile nell’ordine decrescente di importanza che è loro
attribuita, affinché gli imprenditori siano posti in grado di conoscere la loro esistenza e la
loro portata ( sentenza Concordia Bus Finland , citata, punto 62 ).
Parimenti, per garantire il rispetto dei principi di parità di trattamento e di
trasparenza, occorre che tutti gli elementi presi in considerazione dall’amministrazione
aggiudicatrice per identificare l’offerta economicamente più vantaggiosa, e, se possibile, la
loro importanza relativa siano noti ai potenziali concorrenti al momento della
preparazione delle loro offerte ( v. in tal senso, sentenze 25 aprile 1996, causa C 87/94,
Commissione / Belgio ; racc. I – 2043, punto 88, e 12 dicembre 2002 , causa C- 470/99
Universale Bau ed a., Racc. pag. I -11617, punto 98 ).
Spetta al giudice nazionale secondo la Corte valutare se, alla luce di tali norme e
principi, nella causa principale, sia stato violato il diritto comunitario, prevedendo una
ponderazione dei vari sub-elementi del terzo criterio indicato nell’appalto.
La Corte ha poi indicato un iter logico che deve essere seguito dal giudice nazionale.
In primo luogo, secondo la Corte, occorre verificare se, tenuto conto di tutti gli
elementi pertinenti della causa principale, la decisione che prevede tale ponderazione
modifichi i criteri di aggiudicazione definiti nel capitolato d’oneri o nel bando di gara.
Se così fosse la detta decisione sarebbe incompatibile con il diritto comunitario.
In secondo luogo occorre valutare se tale decisione contenga elementi che, se
fossero stati noti al momento della redazione delle offerte avrebbero potuto influenzare
detta preparazione.
Se così fosse la detta decisione sarebbe incompatibile con il diritto comunitario.
In terzo luogo occorre verificare se la commissione aggiudicatrice abbia adottato la
decisione che prevede una ponderazione tenendo conto di elementi che possono avere un
effetto discriminatorio nei confronti di uno dei concorrenti.
Se così fosse la detta decisione sarebbe incompatibile con il diritto comunitario.
Il caso di specie.
Nel caso di specie la stazione appaltante solo con il disciplinare di gara ha
specificato i criteri selettivi dell’aggiudicatario mentre con la lettera d’invito a rimesso alla
commissione di gara la graduazione fra alcuni degli stessi criteri.
La commissione di gara ha graduato le sottovoci previste dal disciplinare di gara,
attribuendo, a suo insindacabile giudizio i 25 punti previsti dal bando fra dette sottovoci,
che, pur specificate dal disciplinare, per essere relative all’organizzazione ed alle strutture
logistiche e di supporto da utilizzarsi nella gestione dei servizi oggetto del contratto,
ovviamente sono direttamente attinenti le caratteristiche aziendali dei partecipanti alla
gara.
Ne deriva, a giudizio del Collegio, che la importanza relativa delle predette sottovoci
avrebbe dovuto essere nota ai potenziali concorrenti già al momento della produzione delle
loro offerte al fine di evitare il pericolo che la commissione potesse orientare a proprio
piacimento ed a posteriori l’attribuzione di tale determinante punteggio e, quindi l’esito
stesso della gara, dopo averne conosciuto gli effettivi concorrenti.
Per la Corte di Giustizia, inoltre, nel caso di specie, occorre valutare se tale
decisione contenga elementi che, se fossero stati noti al momento della redazione delle
offerte avrebbero potuto influenzare detta preparazione: ebbene, a giudizio del Collegio,
tale decisione contiene elementi che avrebbero potuto influenzare la preparazione delle
offerte, essendo chiaro che le imprese partecipanti alla gara quantomeno andavano sin
dall’inizio messe su un piano di parità nella conoscenza del peso relativo da assegnarsi alla
disponibilità di immobili nella Provincia di Venezia da destinarsi a depositi o sedi
aziendali.
Va inoltre considerato che le sottovoci ponderate dalla Commissione davano rilievo
ad elementi quali il possesso dei depositi disponibili nella Provincia ed il numero delle sedi
( diverse dai depositi ) aziendali disponibili nella Provincia di Venezia che, per essere
riferite al collegamento con un determinato territorio, dovevano considerarsi aventi
potenziale valore discriminatorio fra gli operatori in ragione della localizzazione
territoriale delle loro attività e , quindi, dovevano essere rese note, nel loro peso relativo,
prima della preparazione delle offerte, se non prima della loro candidatura alla gara.
In ultimo va considerato che gli elementi che , secondo la lettera di invito, erano da
ponderarsi da parte della Commissione di gara, non avevano un vero e proprio carattere
tecnico, sicché non sussisteva alcuna effettiva necessità, per la stazione appaltante, in
ragione della complessità tecnica delle scelte da effettuarsi in ordine alla valutazione
dell’offerta tecnica, per demandare alla commissione di gara la graduazione del punteggio
o per definire, come è stato nella specie, solo nella lettera d’invito e non nel bando di gara i
criteri selettivi ed i relativi pesi degli stessi, peraltro riservandosi di meglio tararli nel corso
della procedura, mediante l’intervento della Commissione di gara.
In sostanza dal modus operandi prescelto dall’amministrazione potrebbe derivare
una discriminazione a favore delle imprese già localizzate in un determinato ambito
territoriale, senza che la stessa sia collegabile ad alcuna apprezzabile necessità di definire
in sede tecnica la complessa ponderazione di elementi di valutazione dell’offerta ( gli
elementi ponderati dalla commissione sono strettamente correlati ad esigenze
amministrative della stazione appaltante definibili compiutamente nella lex specialis sin
dal momento della formazione del bando ).
Di qui l’illegittimità degli atti di gara.
Ne deriva quindi l’accoglimento dell’appello ( ed in particolare del primo e terzo
motivo del ricorso originario da leggersi in stretta connessione logico-giuridica ) e
l’annullamento della gara.
Dall’accoglimento dell’appello deriva, per giurisprudenza consolidata del Consiglio
di Stato, la caducazione del contratto già stipulato, ma , alla luce della discrezionalità del
metodo di aggiudicazione prescelto dall’amministrazione, non può disporsi alcuna
reintegrazione in forma specifica dell’impresa ricorrente mediante aggiudicazione dello
stesso appalto alla ditta ricorrente o mediante nuova assegnazione di un analogo contratto.
L’amministrazione dovrà, quindi, rinnovare la procedura di gara e, nelle more di
tale rinnovo, valuterà le modalità più idonee per garantire l’espletamento del servizio.
Va poi accolta anche la domanda di risarcimento dei danni avanzata dalla ditta
ricorrente, che, stante la discrezionalità del metodo di aggiudicazione, devono valutarsi
come danni da perdita di chance e possono liquidarsi in via equitativa.
Il danno sofferto dall’impresa appellante è stato stimato in complessivi euro
1.148.978, 20 dalla consulenza tecnica di parte prodotta in giudizio dalla ATI EAC.
La consulenza tecnica stima i danni patiti dalla ATI EAC basandosi quali parametri
di liquidazione del danno sull’utile conseguibile prima delle imposte e su una valutazione
indennitaria della perdita di chance intesa solo come perdita di quote di mercato relativa al
mancato incremento economico-finanziario e tecnico operativo capace di abilitare
l’impresa alla partecipazione a gare di maggiore valore economico, ma si muove da
presupposto ( erroneo ) della spettanza del contratto all’ATI ricorrente.
Non essendovi prova possibile dell’aggiudicabilità della gara all’ATI ricorrente, in
ragione del metodo discrezionale di aggiudicazione, l’interesse pretensivo violato –
secondo il Collegio - deve essere invece stimato come una perdita di chance di
aggiudicazione, parametrabile non solo alla perdita di quote di mercato, ma anche alla
probabilità di aggiudicazione concretamente raggiunta nella specie.
Va tuttavia precisato il rapporto tra perdita di chance e violazione dell’interesse
pretensivo nelle ipotesi nelle quali l’amministrazione sia titolare di un potere discrezionale
, in tali ipotesi – secondo gli insegnamenti ritraibili da Corte di Cassazione n. 500/1999 solo dal nuovo esercizio del potere possono - a rigore - derivare certezze in ordine alla
spettanza del bene cui il privato aspira.
In tali ipotesi il risarcimento dei danni dovrebbe essere negato fino alla
rinnovazione degli atti di gara, che , tuttavia, avvenendo in un altro momento e contesto
storico, non è detto che possa coinvolgere nuovamente le parti in causa nello stesso modo e
sulla base dei medesimi presupposti che erano a base dell’azione amministrativa giudicata
illegittima.
Il giudizio sulla spettanza ossifica eccessivamente, in tali casi, l’azione
amministrativa e posticipa irragionevolmente le possibilità di ottenere il risarcimento,
costringendo il giudice a pronunciare una sentenza di inammissibilità dell’azione
risarcitoria per difetto di presupposti e rimettendo in moto l’azione amministrativa, che,
nel riesercizio del potere, si presenta paradossalmente scissa fra necessità di ottemperare
al giudicato e timore di ingenerare i presupposti per l’esperimento dell’azione di danni.
E’ evidente che in tali casi, ove, a giudizio del giudice amministrativo, non vi sia
agevole rinnovabilità delle attività amministrative o delle operazioni di gara, come nei casi
di appalti ad aggiudicazione non automatica, il danno vantabile nei confronti
dell’amministrazione deve essere visto unicamente nella prospettiva della perdita di
chance.
La chance, secondo questa prospettiva ricostruttiva,
si pone quale bene
patrimoniale a se stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma
valutazione, e deve essere distinta, sul piano ontologico, dagli obiettivi rispetto ai quali
risulti teleologicamente orientata e di cui possa costituire la condizione o il presupposto in
potentia.
Ne consegue che la lesione della “entità patrimoniale chance” formerà oggetto di
valutazione ai fini del riconoscimento di un risarcimento del danno, in termini di
probabilità, definitivamente perduta, a causa di una condotta illecita altrui, senza dovere
fare alcun riferimento al risultato auspicato e non più realizzabile ed alla consistenza del
suo assetto potenziale.
Non ignora il Collegio che in altra prospettiva qualificatoria, coltivata in dottrina, la
perdita della chance o, rectius, dell’utilità potenziale è configurata come lucro cessante,
ossia “la lesione diverrebbe risarcibile soltanto in una prospettiva condizionata: quando,
secondo un giudizio di prognosi postuma, la chance persa aveva notevoli possibilità di
giungere a buon fine” .
La chance, allora, non ha una propria consistenza intrinseca ed autonoma, ma
presenta piuttosto una natura ontologicamente strumentale e teleologicamente orientata,
concretizzandosi in un mero supporto verso un obiettivo finale di cui costituisce un
semplice presupposto causale, privo di rilevanza giuridica quale autonomo bene
patrimoniale.
La dicotomia in parola, apparentemente, ingenera rilevanti ripercussioni sotto il
profilo del sistema probatorio applicabile. In particolare con riguardo alla prima
configurazione ontologica della fattispecie in esame, quanto alla consistenza dell’onere
probatorio da raggiungere per conseguire il riconoscimento della pretesa risarcitoria per
perdita di chance, sembra sufficiente dimostrare la semplice probabilità della chance,
accompagnata dalla constatazione che il bene anelato è oramai irrimediabilmente perso e
dall’accertamento del nesso eziologico fra la condotta e l’evento lesivo, consistente
nell’elisione di quell’entità patrimoniale, avente autonoma rilevanza giuridica ed
economica, rappresentata dall’utilità potenziale che si assume lesa.
Nell’ambito della seconda ricostruzione interpretativa, invece, pare necessario
provare che la chance, irrimediabilmente persa, avrebbe assunto la consistenza o, rectius,
avrebbe condotto al sorgere, ex novo, di un bene giuridico o di una situazione giuridica
soggettiva di vantaggio, avente quest’ultima, e non la mera utilità potenziale da cui
scaturisce, una propria rilevanza patrimoniale e giuridica, e ciò con un grado di
verosimiglianza vicino alla certezza. In altri termini, nell’orientamento in parola, coltivato
dalla dottrina civilistica, non basta dimostrare il nesso di causalità tra l’attività lesiva e la
perdita della chance, già presupposta come esistente e giuridicamente rilevante, ove avente
la consistenza di un’utilità potenziale, ma occorre anche provare che “un evento positivo
per il danneggiato vi sarebbe comunque stato con rilevante probabilità, ove lo stesso non
avesse subito il pregiudizio cagionato dalla condotta contra legem” .
In realtà la contrapposizione fra le due posizione dottrinali e giurisprudenziali
suesposte, sia sotto il profilo ontologico sia sotto il profilo dei conseguenti oneri probatori,
deriva esclusivamente da una visione parziale della fattispecie risarcitoria in esame, che
contrappone erroneamente, come blocchi distinti e reciprocamente incompatibili, i vari
elementi costitutivi il danno da perdita di chance. E’ necessario, invece, procedere ad
un’attività esegetica, che, dopo avere individuato gli elementi costitutivi della fattispecie in
parola, li riconduca ad unità, in guisa da determinare una ricostruzione ontologica
complessiva, uniforme e coerente.
In primo luogo si deve esattamente individuare l’ambito semantico-giuridico del
termine chance, che costituisce la chiave di volta dell’ipotesi risarcitoria in esame. La
parola chance deriva, etimologicamente, dall’espressione latina cadentia, che sta ad
indicare il cadere dei dadi, e significa “buona probabilità di riuscita” . Si tratta, dunque, di
una situazione, teleologicamente orientata verso il conseguimento di un’utilità o di un
vantaggio e caratterizzata da una possibilità di successo presumibilmente non priva di
consistenza. In particolare, trasponendo tale definizione in ambito giuridico, si può
rilevare che, affinché un’occasione possa acquisire rilevanza giuridica, ossia ricevere tutela
da parte dell’ordinamento, è necessario che sussista “una consistente possibilità di
successo, onde evitare che diventino ristorabili anche mere possibilità statisticamente non
significative” (Consiglio di Stato sez. VI, 7 febbraio 2002, n. 686) .
In altri termini la chance, ove si configuri quale mera possibilità di ottenere un
risultato favorevole non è idonea ad assumere rilevanza per il mondo del diritto e dà vita
ad un interesse di fatto, insuscettibile di ricevere tutela per la propria esigua consistenza.
Tale esito definitorio consente proficuamente ed agevolmente di riunificare i due
orientamenti interpretativi esposti in precedenza, in quanto da un lato riconosce alla
chance la qualità di bene giuridico autonomo, indipendente dalla situazione di vantaggio
verso cui tende, dotato di per sé di rilevanza giuridica ed economica, in quanto elemento
facente attivamente parte del patrimonio del soggetto che ne ha la titolarità; dall’altro lato,
invece, attribuisce un rilievo decisivo all’elemento prognostico o, rectius, probabilistico, il
quale è posto quale fattore strutturale e costitutivo, da accertare indefettibilmente al fine di
riconoscere ad una mera possibilità la consistenza necessaria per rientrare nella nozione di
chance e, dunque, per ricevere protezione da parte dell’ordinamento.
E’ decisivo, allora, distinguere fra probabilità di riuscita (chance risarcibile) e mera
possibilità di conseguire l’utilità sperata (chance irrisarcibile). A tal fine bisogna ricorrere
alla teoria probabilistica, che, nell’analizzare il grado di successione tra azione ed evento,
per stabilire se esso avrebbe costituito o meno conseguenza dell’azione, scandaglia, fra il
livello della certezza e quello della mera possibilità, l’ambito della c.d. probabilità relativa,
consistente in un rilevante grado di possibilità. Nello specifico occorre affidarsi al metodo
scientifico, che si sostanzia in un procedimento di sussunzione del caso concreto che si
voglia di volta in volta analizzare sotto un sapere scientifico; ossia, quanto ai sistemi
giuridici, sotto un sapere probabilistico, non sorretto da leggi statisticamente universali,
ma pur sempre scientifico perché razionalmente fondato sulle conoscenze di una specifica
scienza (quella giuridica) e, quindi, anch’esso attendibile.
Secondo tale metodo scientifico la verificazione dell’azione o della situazione
fattuale esaminata quale condicio, certa o probabile, di un evento favorevole, va effettuata
“secondo la migliore scienza ed esperienza”, ragion per cui si rende opportuno precisare
l’orientamento interpretativo del Consiglio di Stato, per cui “la concretezza della
probabilità deve essere statisticamente valutabile con un giudizio sintetico che ammetta,
con giudizio ex ante, secondo l’id quod plerumque accidit, sulla base di elementi di fatto
forniti dal danneggiato, che il pericolo di non verificazione dell’evento favorevole,
indipendentemente dalla condotta illecita, sarebbe stato inferiore al 50%” (Consiglio di
Stato sez. VI, 7 febbraio 2002, n. 686).
Infatti, oltre a ricorrere al criterio dell’id quod plerumque accidit utilizzabile nelle
fattispecie nelle quali la realtà sia comprensibile sulla base di nozioni di comune
esperienza, è possibile fare riferimento alla migliore scienza, ossia al più esauriente assetto
gnoseologico in grado di fornire un giudizio il più possibile corretto e compiuto in ordine
alla prognosi probabilistica circa il verificarsi o meno dell’evento vantaggioso preso in
considerazione.
Occorre, poi, osservare che il parametro del 50%, non ha valore assoluto anche
perché secondo la scienza statistica il grado di possibilità qualificabile come probabilità
presenta una soglia costitutiva variabile da determinare caso per caso sulla base del
concreto assetto della situazione esaminata.
Quanto finora enunciato deve, però, necessariamente, essere esaminato alla luce
della peculiarità delle situazioni giuridiche soggettive di vantaggio, proprie del diritto
amministrativo, la cui probabilità di transitare dalla fase in potentia a quella in actu,
requisito indispensabile per la configurabilità di una chance risarcibile, va verificata alla
stregua
della consistenza dei poteri attribuiti dall’ordinamento alla pubblica
amministrazione.
In altri termini, bisogna chiedersi se ed in che misura la discrezionalità
amministrativa incida in ordine all’esito del giudizio prognostico in parola, ovvero con
riguardo alla determinazione della consistenza e della rilevanza dell’utilità potenziale e,
dunque, della sua concreta tutelabilità. Gli esiti di tale prognosi, infatti, si diversificano a
seconda che il conseguimento della posizione di vantaggio, verso cui è teleologicamente
orientata la chance, sia correlato ad un’attività vincolata, tecnico-discrezionale o
discrezionale pura.
Nelle prime due ipotesi il giudice può, essendo la valutazione dell’amministrazione
ancorata a parametri precisi e vincolanti, “sostituirsi” alla stessa, sia pure in modo virtuale
e nella sola prospettiva risarcitoria e giungere così ad individuare il grado di possibilità di
ottenimento, da parte del privato asseriamento leso, del bene della vita, irrimediabilmente
perso che poteva scaturire dalla chance, senza che la natura dei poteri attribuiti alla
pubblica amministrazione possano in alcun modo alterare l’esito prognostico.
Contrariamente, ove sia riconosciuta, in capo all’amministrazione, una potestà di
natura discrezionale, tanto maggiori saranno i margini di valutazione rimessi alla pubblica
amministrazione, tanto maggiore sarà l’alterazione del giudizio probabilistico, il quale in
presenza di parametri valutativi elastici ed insindacabili, se non nei termini ristretti ed
estrinseci della logicità e ragionevolezza, dovrà inevitabilmente rinunciare a riconoscere la
sussistenza di un’apprezzabile probabilità di esito positivo e, dunque, di una chance
risarcibile, onde evitare un’inammissibile e problematica surrogazione dell’autorità
giudiziaria nei poteri dell’amministrazione. In altri termini la discrezionalità
amministrativa elide, nella maggior parte dei casi, la possibilità di compiere il giudizio
prognostico in parola in termini di preciso calcolo percentuale ma non esclude di poter
riconoscere una perdita di chance, nella base del grado di approssimazione al bene della
vita raggiunto dal ricorrente.
A completamento dell’analisi degli elementi costitutivi dell’istituto in parola, occorre
rilevare che è necessaria una lesione, concreta ed attuale, di una chance, individuata nella
sua consistenza e rilevanza giuridica conformemente ai parametri in precedenza enunciati.
Tale lesione deve consistere nella perdita, definitiva, di un’occasione favorevole di
cui il soggetto danneggiato si sarebbe avvalso con ragionevole certezza, ossia nella elisione
di un bene, giuridicamente ed economicamente rilevante, già esistente nel patrimonio del
soggetto al momento del verificarsi dell’evento dannoso, il cui valore, però, è dato dalle sue
utilità future, ovvero dalla sua idoneità strumentale a far sorgere in capo al dominus dello
stesso una data e specifica situazione di vantaggio. In particolare la condotta illecita deve
concretarsi “nell’interruzione di una successione di eventi potenzialmente idonei a
consentire il conseguimento di un vantaggio, generando una situazione che ha carattere di
assoluta immodificabilità, consolidata in tutti gli elementi che concorrono a determinarla,
in modo tale che risulta impossibile verificare compiutamente se la probabilità di
realizzazione del risultato si sarebbe, poi, tradotta o meno nel conseguimento dello stesso”
( Consiglio di Stato sez. VI, 15 aprile 2003, n. 1945).
L’evento dannoso deve essere, inoltre, imputabile alla pubblica amministrazione
quantomeno a titolo di colpa, conformemente a quanto previsto in via generale in tema di
responsabilità civile e risarcimento del danno. A tale riguardo occorre sottolineare che,
secondo oramai consolidata giurisprudenza, l’illegittimità dell’atto attraverso cui si
manifesta la condotta illecita non è sufficiente per fondare la responsabilità
dell’amministrazione, ma è altresì necessario che l’agire della pubblica amministrazione sia
connotato dall’elemento soggettivo della colpa, che non può essere considerato in re ipsa
nella violazione della legge o nell’eccesso di potere estrinsecatesi nell’adozione ed
esecuzione dell’atto illegittimo.
Ciò premesso, va rilevato che , nella specie, l’ATI EAC aveva conseguito punti 83,50
a fronte dell’ATI LA LINEA, aggiudicataria con punti 86,53.
Può pertanto ritenersi che l’ATI appellante, per la esiguità della distanza nei
punteggi assegnati, abbia raggiunto una elevata probabilità di aggiudicarsi l’appalto , non
concretizzatasi per effetto dell’illegittimità evidenziata.
Quanto all’elemento della colpa dell’amministrazione, trattandosi di applicazione di
principi comunitari di trasparenza e parità di trattamento, nonché di cautele poste dalla
necessità di evitare pericoli di discriminazione fra le imprese in ragione della loro
collocazione territoriale la Sezione ritiene sussistente l’elemento soggettivo e non
invocabile alcuna ragione scriminante.
Il danno sofferto va quindi unitariamente ed equitativamente valutato in euro
150.000 oltre spese di partecipazione alla gara che possono liquidarsi in euro 5000.
Ne deriva la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni nei limiti
predetti.
Le spese seguono la soccombenza liquidate come in dispositivo.
P. Q. M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta accoglie l’appello e, per
l’effetto, in riforma della sentenza impugnata accoglie il ricorso di primo grado ed annulla
gli atti impugnati.
Condanna l’Amministrazione ACTV SPA al risarcimento dei danni in favore
dell’appellante pari ad EURO 155.000/00 per le causali specificate in parte motiva.
Condanna l’Amministrazione ACTV SPA al pagamento, in favore dell’appellante, di
EURO 20.000 per spese diritti ed onorari del giudizio oltre iva e cassa come per legge.
Compensa le spese del giudizio nei confronti delle altre parti costituite, Provincia di
Venezia, Comune di Venezia, La Linea SPA.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, il 31 marzo 2006 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sez.VI -, riunito in Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:
Claudio Varrone
Sabino Luce
Lanfranco Balucani
Domenico Cafini
Giancarlo Montedoro
Presidente
Consigliere
Consigliere
Consigliere
Consigliere Est.