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Teorie della scrittura
COMPLESSO DIBATTITO A PIÙ VOCI SULLA “LETTERATURA NELL’ERA
DELL’INFORMATICA”
Anticipiamo la nota introduttiva di un volume collettivo di saggi in via di
pubblicazione presso l’editore milanese Bevivino, in cui un nutrito gruppo di
studiosi, scrittori, poeti, filosofi, massmediologi e sociologi della cultura affronta da
varie angolazioni e con diverse prospettive critiche il tema delle trasformazioni e del
destino della prassi letteraria nella nuova koiné determinata dalla civilizzazione
cibernetica e dalla globalizzazione indotta dalla Rete. Un possibile, comune filo
rosso sembra essere legato alla nozione di ‘transrealismo’.
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di Cesare Milanese
Ogni Zivilisation esprime una propria Kultur attraverso la quale si autodefinisce e si afferma:
compito precipuo, questo, di ogni letteratura. Per cui si presuppone che anche “nell’era della
civilizzazione informatica” (la nostra, avviata ad affermarsi sempre più come tale nella direzione
della “futurità"), debba corrispondervi una cultura adeguata: una filosofia adeguata, una economia
adeguata e quindi una letteratura adeguata. Una letteratura attinente ad essa e coerentemente
conseguente ad essa. Il processo di ideazione e di elaborazione di una tale forma di letteratura è già
da tempo in corso di realizzazione e di definizione, sia pure ancora allo stato magmatico e soltanto
avviato, ma alcune direttrici di fondo sono già state individuate e delineate. I contributi “teorici”
presenti in questa raccolta di saggi (La letteratura nell’era della civilizzazione informatica), dovuti
ad alcuni autori italiani, impegnati in quest’ ambito specifico di interessi e di ricerca, ma tuttavia
collocati come contributi che si inseriscono a tutto campo nello scenario generale mondiale
(“globale”) di questa evoluzione-mutazione delle forme della letteratura “in divenire”, valgono
come documenti indicativi, riassuntivi e probanti, se non altro per grandi linee, dell’intera
questione.
Questi autori sono: Alberto Abruzzese, Pino Blasone, Vanni De Simone, Marco Palladini,
Gabriele Frasca, Enzo Berardi, Gabriele Perretta e Cesare Milanese (anche curatore). Nel libro i
loro testi compaiono nell’ordine della loro consegna in redazione, fatta eccezione per quello di
Perretta, che essendo il più esteso si presta meglio come silloge da conclusione onnicomprensiva.
Mentre il testo di apertura, Dalla modernità all’oltremodernità, vale come premessa d’orientamento
“storico” (o se si vuole storicistico) (tuttavia a matrice strutturalista) alle tematiche trattate dagli
altri autori e si sviluppa in base allo schema di una descrizione condotta su tre paradigmi di
attraversamento e di valutazione: la modernità, la postmodernità e l’oltremodernità. Pertanto una
descrizione atta ad inquadrare, per grandi linee, una possibile classificazione, sia temporale che
sistematica, delle problematiche obbligatoriamente preliminari che stanno alla base dell’intera
“nuova” questione letteraria, colta nella fase del suo passaggio (della sua “transizione”) dall’era
della Galassia Gutenberg all’era della Galassia Maxwell.
Alberto Abruzzese (Sulla vita e sulla morte del romanzo a partire dalle tecnologie moderne) apre
con questa affermazione: “L’avvento del computer prefigura qualcosa per cui il romanzo come noi
lo abbiamo inteso storicamente, socialmente e culturalmente non può più esistere: è un monumento
del passato, si è detto, e chi se ne occupa ne organizza una messa in scena come i curatori dei
musei allestiscono mostre. Se si pensa al significato del romanzo come narrazione del mondo, gli
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strumenti, i materiali e le forme di consumo che ora sarebbero necessari a raccontarlo, a
rappresentarlo, a farlo sentire, ora non possono essere più quelli della scrittura, perché questa sta in
larga misura perdendo il proprio carattere egemonico.”
Questa asserzione di Abruzzese viene a rivestire una importanza particolare se si tiene presente
che l’organismo-romanzo è da lui considerato come la forma letteraria in cui si decide la sorte
identitaria di chi e di che cosa venga a costituire il dato della soggettività e il dato dell’oggettività
del reale, categorie entrambe sottoposte, nell’ambito dell’attuale congiuntura storica (la congiuntura
della postmodernità), ai ben noti processi della loro decostruzione e della loro dissoluzione.
“Questa congiuntura, dice sempre Abruzzese, di cui non possiamo ancora prevedere la durata,
avrebbe bisogno di una profonda ridefinizione delle forme narrative attrezzandosi con strumenti di
transizione o di clamorosi rilanci creativi.”
Per cui, secondo Abruzzese, gli autori-narratori (gli ideatori-operatori delle “forme narrative”),
cui spetta la mansione di sostituire il romanzo tradizionale come organismo specifico della
“narrazione del mondo”, saranno tenuti a porsi ad “un livello superiore del pensiero del mondo”; il
che vuol dire dover ripensare le modalità dell’inventività e della creatività passando attraverso le
modalità del pensiero più prossime alla filosofia. Questa volta è la filosofia che viene per prima.
D’altronde, “dopo la morte di dio, dopo la morte dell’uomo, dopo la morte del sovrano”, da dove la
letteratura potrebbe ricominciare se non recuperandosi come filosofia? Ed è ciò che sta succedendo
ormai da qualche tempo nei discorsi in atto, soprattutto dopo l’evidente messa fuori di rilevanza
della letteratura mainstream (la letteratura generalista indifferenziata). Infatti, dice Abruzzese:
“Laddove il romanzo cessò di esistere, la filosofia ha continuato a dire, anche grazie a ciò che si
poteva leggere nel vuoto che si era aperto” intorno (che è aperto tutto intorno). Senza reticenze,
aggiunge e completa: “Così pure, laddove il giornalismo tardonovecentesco si è istupidito e
asservito, i filosofi hanno animato meglio di altri le pagine culturali dei quotidiani. Quando Calvino
- autore che fu capace di uscire dal provincialismo letterario italiano e assimilare l’ambiente
multidisciplinare parigino, fatto di saperi più filosofici e scientifici che letterari - ha scritto di
società dell’informazione, la letteratura, nelle sue punte più avanzate, era ancora in grado di
formulare contenuti adatti a alimentare innovazione non solo nei circuiti della fruizione culturale
ma anche nella produzione di strategie di consumo adeguate al presente.” E in aggiunta: “Bisogna
ragionare al di là del romanziere, aprire uno sguardo a un panorama più vasto di saperi che passano
attraverso la scrittura.”
Una volta buttata davanti alla torma degli scrittori-creatori la trave-asticella della primazia della
filosofia (da collocarsi al livello più alto possibile: indurre cioè gli scrittori-creatori ad essere
preliminarmente scrittori-ideatori), Abruzzese, con il suo intervento, impegna di fatto anche gli
autori presenti in questo libro alla verifica della loro consistenza obbligandoli a dar prova della loro
disponibilità ed attitudine ad affrontare, passandole al di sopra, la trave-asticella della filosofia, che
egli ha posto loro davanti. Prova che essi possono superare ricorrendo alla concezione nicciana
della letteratura come arte del salto con l’asta dello stile della scrittura. A nostro parere risulta che
ce la fanno, anche perché in ciascuno di loro, sia pure a vario modo, la premessa filosofica,
considerata necessaria all’articolazione di una scrittura portatrice di un rinnovamento della
letteratura, viene affermata ed affrontata come la condizione preliminare indispensabile. Non a caso
il loro testi sono impostati come se fossero dei saggi filosofici.
Con questa premessa ad impostazione filosofica, Abruzzese avvia una analisi della crisi della
letteratura individuandola soprattutto nella crisi della scrittura, soprattutto narratologica, che
attualmente sta attraversando una fase di disgregazione della sua consistenza, ma al contempo
intravede un’occasione per la ricomposizione della scrittura stessa suggerendo agli autori di
avvalersi, ai fini di tale ricomposizione, proprio della messa in atto dei processi della sua
disgregazione. La cultura scritta, precisa Abruzzese, sino a oggi egemone sulle altre, ha una
consegna da trasmettere alle culture che la stanno disgregando: offrirsi loro non per essere
restaurata ma piuttosto per essere disposta alla distruzione produttiva di se stessa (sic, corsivo d.R).
Va detto che su questa “dottrina” tutti gli autori presenti nel volume, pur con differenze di tesi, di
lessico e di estetiche, sostanzialmente concordano. Gabriele Frasca, tra l’altro autore di ponderosi
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saggi in materia, ribadisce qui (A ciascuno la sua macchinetta) la sua critica (demolitoria e
superatrice) dell’ecumenismo mediale della postmodernità (plaga di ogni sincretismo non soltanto
estetico) e segnala invece, in questa fase di trasformazione tecnologica, la reincarnazione nei corpi
della parola (la riapparizione epocale dell’oralità) dopo il suo attraversamento di alienazione e di
estraniazione lungo il circuito delle incarnazioni macchiniche extracorporee dei media, sia vecchi
che nuovi. Frasca, autore che affronta di vigore il vortice delle tumultuarietà mediali, si esprime
con uno stile a sua volta a vortice, indicativo, sul piano dell’espressione (della scrittura), di tutto il
suo “sistema” non-sistemico.
Seguiamolo ponendo attenzione soprattutto alla sua terminologia come esplicito indizio della
nuova dimensione che sta facendo la sua comparsa in seguito all’espansione della Galassia Maxwell
e della fuoriuscita della parola letteraria dalla parola scritta: “Ecco, alla fine gli attori della cultura
sono sempre quattro: l’informazione, il supporto (tavoletta, papiro, pergamena, ecc.), la modalità di
registrazione (scrittura quale che sia) e il corpo”: il corpo da “informare”. Anche il corpo da
“informare” è un mezzo, perché l’informazione non si esaurisce in lui, ma vene diffusa, propagata.
Un corpo parla, agisce, scrive (cioè parla comunque e comunque informa); se così non fosse non ci
sarebbe nemmeno, usando la sua terminologia, la “pendenza lieve” della parola come vita e della
vita come parola (precipuamente orale), bensì la “pianura dell’immodificabile”. Ma trascriviamo
direttamente: Ciascuno dei quattro attori della cultura (l’informazione, il supporto, la modalità di
registrazione, il corpo) “modifica l’altro e ciò determina la pendenza lieve, che investe però gli
‘attori’ ciascuno a suo modo. Il supporto, estroflesso da un corpo (il supporto è un’ulteriore pròtesi),
tende a divenire sempre più immateriale, e a ritornare pertanto sul corpo come una pellicola (ecco
da dove ‘lentamente’ è nato il design). La modalità di registrazione rimappa il sensorio umano (è il
trait d’union fra corpo e supporto), ma oscilla per lo più fra vista, udito e tatto, la cui gerarchia
viene ‘ripertinentizzata’ a ogni eventuale variazione di supporto. L’informazione procede nel corso
del tempo (come ha giustamente osservato Harald Weinrich) ‘denarrativizzandosi’ (dal catalogo
delle navi omerico da compitare al ‘manualetto della navigazione’ da consultare), salvo poi
‘rinarrativizzarsi’ nelle fasi in cui cambia il supporto (come nel caso del ‘sapere narrativo’ posto a
base da Lyotard giusto della ‘condizione postmoderna’, quando cioè l’elettricità si è stratificata
sulla carta e, avrebbe aggiunto McLuhan, con il lancio del primo satellite artificiale siamo diventati
tutti attori del ‘teatro globale’). E il corpo? Si modifica, naturalmente, molto più lentamente di
quanto non vorrebbero i cantori del postumano, ma si modifica e, soprattutto, si percepisce
modificato. Del resto, perché un corpo si ‘propriocepisca’ altro da ciò che era, e sarà il caso di
convocare una volta ancora don Chisciotte, basta che con un soprassalto senta l’informazione non
genetica che l’attraversa.”
E così prosegue: “Ecco: non sto ripetendo per l’ennesima volta che la letteratura è morta (l’arte, a
mio parere, gode come sempre di ottima salute, anzi ‘cospira’ per un’ottima salute), ma
semplicemente che è diventata da un lato ‘letteratura’, restringendo il suo campo di circolazione in
comunità autoreferenziali (sono sempre stato convinto che la cosiddetta ‘letteratura di genere’, ad
esempio, identifichi dei settori di pubblico, e delle pratiche di ‘riconoscimento’, non già delle
strategie testuali) e dall’altro si è trasformata, alla lettera, in un’altra cosa; o, meglio, è tornata ad
essere quello che è sempre stata, prima di finire sotto la pressa tipografica: l’arte di mettere insieme
parole con cui ravvivare, e rendere ripetibile, un insieme percettivo. E dunque un’avventura
conoscitiva. Avventura conoscitiva e critica (ed è ciò Abruzzese richiede). Frasca così conclude il
suo saggio: “Mi piacerebbe dire che siamo qui per questo”.
L’avventura della letteratura intesa come distruzione produttiva di se stessa, indicata da
Abruzzese, trova in Gabriele Perretta una interpretazione particolare da lui qualificata come
ricombinazione. Titolo del suo intervento: La nuova sfida della ricombinazione è un saggio esteso,
il più esteso di tutti, ricco storicamente e teoricamente, e quasi onnicomprensivo dei fattori che
costituiscono il panorama degli ultimi decenni, attraversati dalle invasioni linguistiche e
fantasmatiche della letteratura nata nell’ordine-disordine della cybersfera. Quindi una rassegna
documentata e ragionata dei dinamismi espressivi ed estetici generati dalle strutture e dai sistemi
delle medietà. Difatti Perretta mira alla individuazione e alla sistematizzazione di una poetica che
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egli stesso definisce col termine di realismo mediale, dal momento che la medialità opera
direttamente, oltre che sui linguaggi, anche sull’immaginazione e sull’immaginario, di conseguenza
su tutta la realtà, interna od esterna alla soggettualità, sia umana ed ora, in virtù della civilizzazione
ex machina informatica e tecnocratica, anche extraumana. Il di più del mondo che sta per
sopraggiungere e a cui si deve poter far fronte, sia inglobandolo e sia lasciandosi inglobare:
condizione che non ha scampo. Ciò che risulta dalla esposizione che Perretta ne fa, è l’esigenza
della formulazione di una letteratura di anticipazione (di precorrimento), che intenda essere
criticamente consapevole di quale mondo, di quale scienza, di quale società, di quale uomo (il
ricettore e il trasmettitore primo della nuova medietà) stiano per aver luogo a livello della realtà e a
livello dell’idealità (leggasi pure vivibilità).
Perretta procede nella sua esposizione ricostruendo i percorsi complessi del sorgere della nuova
scrittura, che fino a ieri (all’epoca della fantascienza ‘classica’) appariva come un prodotto di quelle
“letterature che si inserivano in uno scambio onnivoro tra la ‘scienza della fantascienza’ e la
‘fantascienza della scienza’”: dialogo che oggi appare alterato e modificato, reso più complicato e
più evoluto dalla compara di una fantasy capace di una ulteriore forma di ricombinazione. Il termine
“ricombinazione” che Perretta estende all’apparato simbolico, cioè linguistico, tenendo conto del
passaggio di questo attraverso le strutture della medialità, è da lui mutuato dalla scienza biologica e
individuato come modello di ricombinazione sia dei geni procreativi corporei, sia degli schemi della
creatività: un modo di mettere insieme lo scienziato, il filosofo e l’artista. Procedimento che egli
qualifica come ricorso al “comparativismo euristico” (ottima definizione), da intendersi come
ricombinazione di scienze della vita e di scienze dell’informazione.
Sulla scia (attrattiva) di Nelson Goodman, Perretta si attiene al principio che “scrivere nuove
pagine di letteratura che integrino scienza e letteratura significa fabbricare mondi.” Ben inteso si
tratta di mondi nuovi, per cui tale letteratura ha per suo oggetto obbligato la ricerca e
l’individuazione di ciò che può accadere e di come lo si debba dire uscendo da un’estetica
autoconservativa ed entrando in un’estetica esplorativa, entrando, per l’appunto, nella dimensione
della letteratura d’anticipazione. In sintesi: “Sempre di più la scienza ha provato a far slittare gli
ambiti, essa è spesso passata da quello tecnico-matematico a quello letterario. Se un tempo era l’arte
che allargava i suoi confini di transitare nella scienza, come nella scienza della fantascienza
classica, adesso è la scienza che transita verso l’arte, ovvero tende a sviluppare un pensiero
‘creativo’. La letteratura non aspira più soltanto ad un’estetica, ma assurge anche alla funzione di
ragionamento o di informazione scientifica. Un tempo la fantasia superava la realtà, poi è soggiunta
un’altra epoca in cui la realtà supera la fantasia; adesso siamo in un periodo in cui la costruzione
della realtà, ovvero le gittate scientifiche e tecnologiche che sistematicamente e quotidianamente
crescono sotto i nostri occhi, hanno la capacità di inventare contemporaneamente sia la realtà che la
fantasia, o meglio ‘la fantasia della realtà’ e la ‘realtà della realtà’”.
Enzo Berardi, con una testimonianza più da scrittore che da argomentatore, si richiama
esplicitamente alla poetica del realismo mediale proposta da Perretta, ma il suo intervento non verte
propriamente sulla teorizzazione di questa prospettiva, si pone piuttosto come una presa di
posizione problematica ed etica (si potrebbe dire “impegnata”) di chi, in qualità di scrittore, deve
esistenzialmente scontrarsi con i “disagi” e le furiosità della società mediatizzata, di cui egli coglie
la condizione di emergenza. Concetto espresso chiaramente nel titolo del suo intervento: Il
contemporaneo in emergenza. Per cui una letteratura, che nasca all’interno di questa condizione non
può essere che una “letteratura in all’erta”. La società mediatica (la società dello spettacolo, già
ultradiscussa da Debord in poi), dominata com’è dal prevalere dell’informazione a discapito
dell’esperienza, implica con la prevaricazione anonima dei media il generarsi di una scrittura (o di
un insieme di scritture) sempre meno letteraria. Spetta allora al medialismo (il realismo mediale,
inteso dal suo propugnatore Perretta, come una pratica della critica delle tecnologie mediatiche),
escogitare fattualmente, soprattutto sul piano del vivere biologicamente e corporalmente
quotidiano, un’arte che sappia stabilire una connessione generativa dell’esperienziale con le
tecnologie e con i processi “mentali” che da queste derivano, sapendo avvalersi, creativamente e
criticamente, della polimorfia dei media. E’ questa la via che consente il recupero di una letterarietà
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da riscatto esistenziale e di reviviscenza di una creatività a soggettualità più ampia di quella
riconosciuta finora dalla società “borghese” (e in via di dissoluzione della stessa soggettualità).
Berardi, infatti, parla della opportunità della comparsa di una soggettualità determinata da una
creatività diventata collettiva.
Fabio Giovannini, forse il più attento tra i primi iniziatori della letteratura della cybersfera in
Italia, trova occasione con Le continue battaglie dei generi letterari di ribadire alcune tematiche
generali da lui sostenute ormai da più di un decennio. Una di queste, come dice il titolo del suo
intervento, riguarda la valorizzazione e la rivalutazione della letteratura di genere, di cui ripercorre
gli itinerari ormai storicizzati, dal gotico alla fantascienza, dalle storie poliziesche al noir, dal pulp
al cyberpunk, le cui contaminazioni reciproche stanno alla base dell’allargamento della letteratura
come luogo dell’immaginario generalizzato: un risultato culturale e sociale di grande importanza ai
fini del superamento della distinzione classista (e perciò arretrata) tra letteratura alta e letteratura
bassa, letteratura maggiore e letteratura (considerata a torto) minore, tra letteratura di qualità e
letteratura senza qualità. La letteratura di genere, tutt’altro che minore per Giovannini, “sembra
essere la più vivace fucina per cogliere i cambiamenti della modernità e della postmodernità”.
La narrativa di genere, inoltre, si rivela importante soprattutto se viene praticata come estrema
“nel senso di spingere oltre i limiti del realismo, portando alla ultime conseguenze la realtà, senza
limitarsi a riprodurla o ‘raccontarla’”. L’estremizzazione dei generi, anzi, è la modalità con cui la
letteratura può diventare indicatrice e portatrice di una capacità d’urto (farsi letteratura “urtante”)
sulla realtà fino al punto da poter portare la realtà ad andare oltre se stessa. Giovannini ha dato alla
modalità che egli propone il nome di transrealismo. Nel ribadire questo suo concetto si richiama a
un volume collettivo, pubblicato dieci anni fa, L’immaginario mutante (Synergon-Edigroup), in cui
il concetto di transrealismo era stato sostenuto soprattutto da parte sua.
Oggi, difatti, scrive: “In quella raccolta di saggi (L’immaginario mutante, N.d.R.), infatti,
ricorreva il termine ‘transrealismo’, che prendeva origine dall’antologia Transreal, pubblicata in
America agli inizi degli anni Novanta a cura di Ruddy Rucker. Quella tendenza rielaborava il
concetto di realtà. Nell’epoca della simulazione informatica e della realtà virtuale, la realtà
‘normale’ è solo uno dei livelli del reale, a volte riduttivo se non fuorviante. La stessa realtà
quotidiana oggi ha raggiunto una complessità tale da rendere inadeguata la chiave di lettura del
vecchio realismo.” Ed è così che prosegue: “Il transrealismo non prospettava ‘fughe’ dalla realtà
attraverso il fantastico, ma ricomponeva realismo e fantastico. Anzi, intendeva la propria estetica
come un grimaldello per la critica sociale dell’esistente. Quel nuovo approccio alla realtà, negli
interventi contenuti in L’immaginario mutante, veniva suggerito attraverso la contaminazione tra le
diverse letterature di genere: il nero, il giallo, il cyber, ecc. Giallo e nero (in versione neo-noir)
come sguardo alla violenza nei rapporti umani, come volontà di non chiudere gli occhi di fronte al
‘lato oscuro’ della realtà. Cyber come aggiornamento e sviluppo della fantascienza, alla ricerca di
un immaginario tecnologico che affronti il mutamento della realtà con l’irruzione delle alte
tecnologie.”
In questo senso, transrealisti effettivi, certamente, sono Pino Blasone, Vanni De Simone e Marco
Palladini. Pino Blasone, presente con un intervento di taglio filosofico (Figure del tempo nella
narrazione di genere), enuncia già nell’esergo la sua impostazione con una citazione di Eugenij
Zamjatin: “Una letteratura che sia viva non vive secondo il ritmo dell’orologio di ieri, né di quello
di oggi, ma di quello di domani.” Indica inoltre come suoi autori di riferimento i due pensatori
“marxisti” più sofisticati, che per lui si rivelano anche come i più validi per una comprensione
organica e proficua dell’attualità: Walter Benjamin ed Ernst Bloch (quest’ultimo preso come
referente soprattutto per i concetti del Principio speranza e Spirito dell’utopia). La categoria del
tempo e lo spirito dell’utopia costituiscono infatti le due tematiche, strettamente collegate tra loro,
intorno alle quali Blasone sviluppa la sua analisi acuta ed approfondita, incentrata, va da sé,
considerati i due concetti principali da lui posti in questione: il concetto di tempo e il concetto di
utopia.
Posta in questi termini, è naturale che la sua argomentazione sia prevalentemente interessata alla
formazione e alla formulazione di una letteratura d’anticipazione; e si può dire che, data la
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prospettiva prevalentemente filosofica entro la quale Blasone si muove, questa possa essere
qualificata come una disamina dell’ontologia del non ancora. Si capisce che l’intenzionalità
dell’idea, sia pure generalissima, della mutazione come prospettiva da rivoluzione permane in lui
come orizzonte ineliminabile del reale. Ed è su questo sfondo che Blasone concepisce il pensareagire della letteratura come funzione di una coscienza anticipante: ciò che da sempre si presenta in
essa come l’immaginario di una realtà che rivela l’essenza di se stessa nella visione interpretante
dell’utopia (termine quest’ultimo che Blasone, non disgiungendolo dall’analisi della categoria del
tempo -compito specifico del filosofo - porta a completezza strutturale e terminologica
aggiungendovi quello dell’ucronia). Difatti un’appropriata costruzione impostata sulla dimensione
dell’utopia può considerarsi completa ed esauriente solo se essa è inclusiva ed esplicativa anche
della dimensione dell’ucronia. Un non-luogo è “integralmente” un non-luogo solo se, al contempo,
esso è anche un non-tempo.
Utopia e ucronia sono in effetti le opzioni privilegiate e congiunte sulle quali si è sviluppato (e
continua a svilupparsi) l’immaginario letterario di ogni tempo; ed in particolare nel “nostro” tempo
(quello della maturità del moderno), l’immaginario elaborato in modo del tutto particolare ed
interamente specifico della fantascienza. Blasone mette bene in evidenza come le storie (o le
mitologie) costruite sulle ipotesi-ipostasi che si avvalgono delle visioni generate dallo spirito
dell’utopia-ucronia (processo che non riguarda soltanto la fantascienza), culminano di per sé, dati i
loro effetti di straniamento (indizio questo, peraltro, del conseguimento di un valore aggiunto
estetico), in una dimensione di alterità (di straniamento, appunto, e pertanto di valore aggiunto
dell’arte), che egli definisce col termine di eterotopia.
Certo, per questa via, Blasone viene a dar man forte alla valorizzazione delle letteratura di genere
propugnata da Giovannini, giacché è indubbio che è proprio la letteratura di genere quella che si
avvale di più di ogni altra forma di letteratura del far ricorso alle mitologie impostate sulle ideazioni
ispirate alle ipotesi-ipostasi delle utopie, le quali, va ribadito, sono pur sempre pur sempre un
costrutto sinergico costituito dal nesso, obbligatoriamente unitario, secondo l’impostazione generale
che ne dà Blasone, dell’utopia-ucronia. Utopia-ucronia (e anche questo è da ribadire) come nesso
unitario con effetti di eterotopia. Perché se questi effetti mancano, allora è l’intero costrutto
inventivo che viene meno a se stesso, sul piano del valore letterario, ovviamente. Ed è ciò che al
letterato “impegnato” prima di tutto interessa. Blasone, infatti, si mostra subito pronto a cogliere
questo punto debole che la letteratura d’utopia può facilmente generare. Una costruzione utopistica,
che sul piano artistico (a livello cioè degli effetti di straniamento e di moltiplicazione di senso che
gli derivano dalla dimensione raggiunta dell’eterotopia) risulti non riuscita, corre il rischio esiziale
di elaborare da sé la propria stessa negazione di validità (di credibilità) col rivelarsi portatrice di
“distopia”. Terminologicamente un “fuori luogo”, per cui un fuori senso, anche a livello di
contenuto. L’esito in distopia è ciò che annulla il risultato vivo e creativo dell’utopia-ucronia:
l’effetto cioè di oltrereale (di transreale, come direbbe Giovannini assieme ai suoi compagni che si
riconoscono nell’estetica e nella poetica dell’Immaginario mutante).
Blasone mette così in evidenza il rischio di ambiguità (dovuta senz’altro anche alla sua inevitabile
complessità, complicata dalla sua altrettanto inevitabile collocazione su contenuti relegati alla
settorialità) che la letteratura di genere comporta, soprattutto tenendo conto della tendenza di questa
forma letteraria a capovolgere da sé la prospettiva pur positiva dell’utopia-ucronia, suo locus
firmus, nella lisi autodissolutoria della distopia, ma al tempo stesso afferma e conferma le ragioni di
fecondità e di validità del far ricorso all’ispirazione e all’elaborazione impostata sull’immaginario
dell’utopia (“per ambigua che sia” e per quanto essa abbia la tendenza a dissoversi nella distopia) in
ogni forma di letteratura, di genere o non specificatamente di genere che essa sia.
Muovendosi completamente all’interno di questa “nuova dimensione” della letteratura, immerso
nella sua stessa metaforizzazione transrealistica e nel ritmo della sua scrittura “da scrittore”
(incorporando la sua teorizzazione nella forma di un racconto ragionante ed agonisticoantagonistico), Vanni De Simone conia la dicitura di DeadLine: esplorazione in direzione
dell’estremizzazione. Titolo del suo intervento: Missione DeadLine. Tra l’altro DeadLine è anche la
denominazione di una nuova collana di narrativa da lui diretta per l’editore Bevivino. Pertanto il suo
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testo va letto anche come se fosse una specie di manifesto. Eccone gli enunciati: “Scopo della
Missione DeadLine non è negare valore a opere passate e presenti, ma considerare i mezzi, le
estetiche e le poetiche più ‘organiche’ per l’interpretazione e la lettura della fase odierna. Si tratta di
verificare l’assunto paradossale secondo cui in un’epoca di iper produzione e fruizione di
informazioni, la realtà in quanto tale risulta interpretabile con mezzi artistici o mediali già noti. Il
cosiddetto realismo letterario delle opere contemporanee (tv, fiction, cinema, narrativa, soap-opera,
sitcom, grandi fratelli nani e deformi, fattorie e isole più o meno rintracciabili) ricreano spesso solo
un’immagine capovolta della realtà, quando non sbracatamente finta e contraffatta. Non
costituiscono, nonostante la iperinflazione da notizia che contribuiscono a creare, alcuna via di fuga
(o scampo) verso la verità. Spesso esse ignorano, poco spiegano, molto cancellano e moltissimo
confondono, manipolando, contrabbandando, fuorviando. Questo corto circuito rende inutile non
l’immaginario in quanto tale, ma la rappresentazione artistica della realtà così come appare, perché
il fatto reale supera in inventiva di gran lunga qualsiasi elaborazione letteraria. Se ne deduce che la
rappresentazione artistica dovrebbe porsi super partes, dovrebbe simbolicamente rappresentare
l’evento reale, trasfigurarlo per renderlo in qualche maniera puro e astratto.”
Il medium da lui privilegiato come strumento di questa trasfigurazione del reale nella dimensione
della sua astrazione è il medium naturale dello scrittore autenticamente naturale, quello su cui si
fonda la sua autonomia: il medium originario della funzione fantastica (anzi neofantastica, come lui
si esprime), attività mentale ed esperienziale insieme di una mitopiesi in cui la soggettualità
dell’artista dà conferma a se stesso di se stesso introducendo nei mutamenti della realtà la
mutazione immaginaria che egli intende affermare nella stessa realtà, contribuendo, in questo modo
al suo mutamento, ma in senso tutto umano, al fine di renderla “esistenziabile”: o meglio, “più
esistenziabile” Dice: “Così il fantastico è divenuto un mezzo (un medium?) di comprensione di tale
mutazione, di tale ininterrotta metamorfosi della realtà. E’ in questa ottica che il fantastico diventa a
sua volta realtà, quando funge da lente di rifrazione e poi di ingrandimento. La quale, se in
apparenza deforma, contemporaneamente mette a fuoco, contribuisce alla giusta percezione o alla
visione del mondo. Si assiste cioè alla metaforizzazione del tempo presente in funzione della
comprensione del tempo presente medesimo.” E con la nettezza d’ardimento di chi non teme di
porsi allo scoperto, precisa che tale “funzione della comprensione del tempo presente”, che da lui
viene considerata come lo specifico conoscitivo della letteratura, implica e conduce al
raggiungimento della verità.
High zona, quindi, quella della DeadLine di De Simone. Suo motto: “Andare al di là dei media
attraverso i media implementati dal fantastico (anzi dal neofantastico)”, tuttavia con l’attenzione
rivolta anche all’estensione della letteratura ai 3/4 di umanità, ai quali, non arrivando la letteratura,
non arriva né verità né liberazione. In sintesi egli condensa così la sua impostazione: “Il neo
fantastico dunque, scrittura del ‘nostro tempo’, con tutti i modi di esprimere i due elementi di cui si
compone - valenza mitica e valenza metaforica - è un insieme di scritture in apparenza diverse fra
di loro ma che si scompongono e ricompongono continuamente, dando luogo a ciò che abbiamo per
qualche tempo definito transrealismo. Mitologia, realismo magico, elementi di fantascienza
classica, i vari punkismi, rapporto tra tecnologia e spiritualità, New Age, sono altrettanti tasselli che
uniti, o fusi tra loro, concorrono alla formazione di una nuova estetica.”
Marco Palladini, anche lui autore “estremista” e assertore di una scrittura che attraversa i generi,
anche lui “transrealista”, prefigura lo status per così dire politico e antropologico dello scrittore coi
requisiti della sua funzione di rispondenza e di corrispondenza con l’odiernità. Ne fa il facitore (e il
dicitore) di una “letteratura portatile”. E’ ciò che dice nel titolo stesso del suo intervento: Derive
imperfette di letteratura portatile a futura memoria. Questa è la collocazione di verità in cui ora si
trova ogni autore (e non soltanto di letteratura): nella condizione imperfetta del moto di deriva,
anche perché la realtà stessa è in situazione di deriva, che inoltre è la situazione che la rende
invivibile, ma che comunque deve essere assunta ed affrontata come vivibile, dal momento che
viverla bisogna, anche se reattivamente in stato di ribellione. Palladini trae spunto da questa
consapevolezza per dare forma ad una sua scrittura che intende esplicitamente essere la voceportavoce di una rabies da sprezzatura che attinge la propria energia dalla “spezzatura” di una
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scrittura plurigenere, una “neo o ultra-lingua globale”, stilisticamente molto “serrata” (molto
letteraria quindi), ma che si qualifica, data la condizione di errabondità dello scrittore che la pratica,
come la scrittura di una letteratura “portatile”, come il personal computer.
Pertanto una letteratura diasporica che si sposti ed errabondi con l’autore, una letteratura
idiosincratica e rizomatica, capace forse di esistere senza consistere in un luogo dell’anima o in un
territorio di privilegiate forme estetiche. Patria del poeta è la stessa poetrìa che egli si porta
addosso, gestore di uno stile di vita che coincide con il suo stile di espressione, tutto fondato sui
materiali che l’attualità offre tenendo conto delle dimensioni passate e della dimensione futuribile,
nella consapevolezza di trovarsi nel bel mezzo di una conflittualità che non è dato di eludere e di cui
anzi ci si alimenta. Perciò si scrive come si vive, in antagonismo e furore. Ciò vale sia quando si fa
della “teoria”, sia quando si fa della “poesia”: le due scritture devono essere uniche o per lo meno
devono essere commiste ed appaiate. E’ una teorizzazione che egli sostiene, in questo suo
intervento, inserendo nel corpo del suo testo argomentativo, testi da autore “poetico”, che egli
riporta in corsivo e nei quali scarica l’eccedenza di “indignazione”, di cui la componente “teorica”
dell’intervento è sostanzialmente il vettore. Ebbene, chi son li maggior sui? Sui di Palladini
s’intende. E Palladini li nomina: Joyce di Finnegans Wake e Kerouac di On the Road. Adozione che
egli suggerirebbe anche agli altri suoi “compagni di strada” poetica.
Per quanto riguarda il timbro “serrato” dello stile e per quanto riguarda la tematica (si badi, anche
qui di ordine filosofico), si tenga conto del paragrafo dello stesso incipit, che inoltre sembra essere
anche un momento da dialogo con Blasone sulla categoria del tempo. Scrive così Palladini: “Il
tempo rettilineo non esiste. E’ una illusione cronologica o una superstizione metodologica. Fa parte
di una vigente cronolatria credere che esso si rivolga sempre in avanti e non, piuttosto, che esso si
ravvolga anche all’indietro secondo un modo di continuum orbitale come già presumeva Nietzsche
con la sua filosofia dell’Eterno Ritorno.”
Resta da dire che dall’insieme degli interventi di tutti i compagni on the road di questa raccolta di
scritti (La letteratura nell’era della civilizzazione informatica), si può trarre la convinzione che il
salto con l’asta della trave della filosofia, posta da Alberto Abruzzese come asticella da dover
superare come prova preliminare e primaria per l’accesso e l’inoltro nella dimensione della nuova
letteratura, sia stato consapevolmente affrontato e, va detto, anche “virtuosamente” eseguito, ai
rispettivi livelli, da tutti gli autori in agone.
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