“una e indivisibile ” saggio introduttivo di Augusto Barbera testo di Costantino Mortati con una nota di Guido Giuffrè e tre disegni di Giuseppe Colombo giuffrè ra i pensatori, i giuristi, gli statisti cui nel 1947 spettò il compito di dettare il testo della Carta costituzionale italiana, entrata in vigore nel 1948, Costantino Mortati si distingue certamente per dottrina, saggezza, passione civile. L’editore Giuffrè intende ricordare il sessantesimo della Costituzione, ancora integra nei suoi principi e nelle sue scelte fondamentali, traendo fuori dall’Enciclopedia del Diritto, e promuovendone la rilettura, la ‘voce’ che Mortati costituzionalista consegna all’Enciclopedia con la stessa determinazione missionaria del Mortati costituente. Nella sua introduzione, Augusto Barbera spiega largamente e perfettamente perché l’editore si sia affidato a quella ‘voce’, come avrebbe potuto ad altre, per ricordare che l’Enciclopedia - completa da tempo, ma in obbligo, già condiviso da direttori autori editore, di continuo e puntuale accrescimento - appare con il suo primo volume giusto nel 1958. Siamo perciò ad una data memorabile pure per Giuffrè: mezzo secolo di impegno al servizio della scienza, al servizio della democrazia. E perché non aggiungere che Mortati ha tenuto volentieri dal 1966 al 1985 la direzione dell’Enciclopedia? I collaboratori d’allora rendono gratissimo omaggio al rigore severo e insieme all’umiltà delicata e rispettosa del suo esemplare magistero. Due cose, dunque: sessant’anni di Costituzione e cinquanta di Enciclopedia raccomanda l’editore, premessi ovviamente i più sinceri auguri, ad amici, autori, collaboratori, lettori tutti di questa strenna. Milano, dicembre 2007 “ Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi ” (art. 54 cost.) Augusto Barbera Dalla Costituzione di Mortati alla Costituzione della Repubblica Dalla Costituzione di Mortati alla Costituzione della Repubblica di Augusto Barbera La dottrina della costituzione materiale La voce Costituzione, pubblicata dalla Enciclopedia del Diritto nel 1962, benché divisa in due parti, l’una dedicata alle dottrine generali e l’altra relativa alla Costituzione repubblicana, ha il pregio di riassumere le posizioni teoriche maturate da Costantino Mortati fin dagli anni trenta e di legarle strettamente al nuovo sistema costituzionale, alla cui edificazione aveva intensamente contribuito come relatore all’Assemblea Costituente e al cui consolidamento avrebbe ulteriormente contribuito come studioso e come Giudice della Corte costituzionale. Si intreccia perfettamente quindi con la nascita e i primi passi della Costituzione repubblicana, di cui sta per aprirsi, con il primo gennaio 2008, il sessantesimo anniversario della sua entrata in vigore. Nella prima parte Mortati ripercorre il concetto di costituzione; ripropone e affina la teoria della ‘costituzione materiale’; delimita la funzione dei principi generali; precisa la nozione di indirizzo politico; affronta il tema dei mutamenti ‘taciti’ e delle ‘rotture della Costituzione’; si interroga sulle consuetudini e sulle convenzioni costituzionali; affronta su basi nuove il problema dell’interpretazione giuridica. Ripropone in modo chiaro e sintetico il percorso che aveva consentito di introdurre nella cultura giuridica italiana una ‘dottrina della costituzione’, destinata a sostituire le sempre più invecchiate ‘dottrine dello Stato’, proprie della precedente tradizione giuridica. Punto di riferimento è l’individuazione 9 dell’elemento primigenio dell’esperienza giuridica, che egli individua nell’‘ordinamento’ più che nelle ‘norme’, rovesciando la posizione di quanti – Kelsen fra questi – individuano a posteriori il ‘sistema delle norme’ (e differenziandosi anche da Carl Schmitt che sottolineava il momento della ‘decisione’). Si tratta di posizioni non sempre accettate unanimemente ma che hanno sempre più influenzato la dottrina ed orientato la giurisprudenza della Corte costituzionale. Basti pensare in proposito all’insistenza sui ‘principi supremi’ dell’ordinamento costituzionale, che egli definisce ‘principi istituzionali’, che avrebbero rappresentato lo strumento attraverso cui la giurisprudenza della Corte ha individuato i limiti sia alla applicazione delle norme concordatarie (sentenza n. 30 del 1971, n. 12 del 1972; n. 175 del 1973; n. 18 del 1982 ed altre ancora), sia all’ingresso del diritto comunitario (sentenza n. 183 del 1973), sia all’adeguamento al diritto internazionale generale (sentenza n. 48 del 1979) sia alla stessa revisione costituzionale (sentenza n. 1146 del 1988). Il ricorso alla costituzione materiale è assai utile sia per comprendere le origini e il fondamento dell’ordinamento costituzionale; sia per qualificare la ‘forma di Stato’; sia per individuare, in una determinata situazione storica, la costituzione effettivamente vigente (non le singole regole della costituzione formalmente in vigore); sia per orientare la interpretazione e/o la integrazione dei testi costituzionali (soprattutto in riferimento a clausole elastiche o in riferimento a disposizioni ‘a fattispecie aperta’, come l’art. 2); sia per consentire il completamento delle lacune (non sempre possibile con gli strumenti della logica formale); sia per agevolare la corretta individuazione delle consuetudini; sia per individuare il nucleo dei principi insuscettibili di revisione costituzionale; sia per dare forza a principi e/o valori non formalmente inseriti nei testi costituzionali ma che tuttavia possono essere utili a selezionare le premesse dell’attività interpretativa (sopratutto laddove appaia debole il riferimento alle forme sillogistiche); in breve per contribuire a costruire, con gli strumenti della più rigorosa scienza giuridica, quell’or10 dine costituzionale di cui la costituzione formale è un precipitato (1). È vero; l’uso dell’espressione ‘costituzione materiale’ è suscettibile di creare equivoci, come se fosse contrapposta alla ‘costituzione formale’, in quanto solo formalmente in vigore. Ma è l’errore in cui cade chi rimane fermo all’aspetto semantico mentre l’impostazione di Mortati – e non credo di forzarne il pensiero – è volta a distinguere fra Costituzione e ordinamento costituzionale materiale, ricomprendendo in quest’ultimo le norme che danno identità ad un ordinamento, perché legate ad un progetto ordinante, quindi non necessariamente tutte le norme della costituzione formale, e ricomprendendo anche norme che formalmente costituzionali non sono (per esempio le norme delle pre-leggi sull’interpretazione o le consuetudini costituzionali) (2). È una distinzione, in poche parole, analoga a quella che intercorre fra Verfassung e Verfassungsgesetz e tra Constitution e Law of the Constitution, rispettivamente in Schmitt e in Dicey (e che nel nostro linguaggio giuridico non possiamo utilizzare distinguendo fra ‘Costituzione’ e ‘legge costituzionale’ perché tali termini hanno assunto altro significato). È la distinzione che negli anni trenta consentì di dire che nonostante la permanenza dello Statuto Albertino era mutato l’ordinamento costituzionale, da liberale a fascista, e consente, oggi, di affermare che pur avendo la Svizzera adottato nel 1999 un nuovo testo costituzionale ha tuttavia mantenuto la continuità dell’ordinamento costituzionale. Da questo equivoco semantico discende il paradossale uso improprio della (1) Mi sono intrattenuto sul punto più ampiamente in Costituzione materiale e diritto vivente, in La costituzione materiale. Percorsi culturali e attualità di un’idea, a cura di A. CATELANI e S. LABRIOLA, Giuffrè, Milano, 2001, p. 43 ss. (2) Tale ‘progetto ordinante’ verrà definito da V. GUELI (Il regime politico, ora in Scritti vari, I, Giuffrè, Milano, 1976, p. 406) ‘principio costituzionale’ richiamando lo Staatsprinzip di Rehm e collegandolo al concetto di ‘regime politico’. 11 ‘costituzione materiale’ da parte di quella dottrina che l’ha accettata o rifiutata nel falso presupposto che essa contrapponga la descrizione del fatto alla prescrittività delle regole costituzionali e che quindi possa giustificare la violazione di queste ultime, in particolare delle regole della Costituzione del 1948. Tale uso improprio è in effetti avvenuto negli anni cinquanta nel periodo della in-attuazione costituzionale e negli anni novanta nel periodo della transizione maggioritaria ad opera di profani (ma anche di giuristi) che, « semplificando e banalizzando », hanno utilizzato la categoria della costituzione materiale in funzione « giustificazionista » (3). Ma non mancano diffidenze e ostilità nei confronti della mortatiana ‘costituzione materiale’ anche da parte di chi l’ha letta in modo corretto. In primo luogo le diffidenze di quella parte della scienza costituzionalistica che non vuole disturbata la propria quiete e « che sembra avere perso interesse per l’investigazione delle proprie radici » (4) preferendo rifugiarsi nella più comoda analisi formale dei testi normativi. In secondo luogo le ostilità di quella parte della scienza costituzionalista che vuole tenere lontana dalla vita delle costituzioni ogni forma di soggettività politica. Diverse le motivazioni, spesso intrecciate fra loro, ma alla base v’è un filo comune che è possibile così riassumere: allorché il potere costituente si è esaurito con esso si è esaurita la funzione dei soggetti politici. La Costituzione italiana, in particolare, non potrebbe « poggiare sulla volontà e sui fini politici fondamentali » di soggetti determinati, quali le forze politiche mortatiane, perché essa deriva la sua validità dal fatto di « incorporare ta- (3) Sul punto sono d’accordo con G. ZAGREBELSKY, Premessa a C. Mortati, La costituzione in senso materiale, Giuffrè, Milano, 1998, p. XXXII, che parla di diffusa « semplificazione » e « banalizzazione ». Ma v. anche M.S. GIANNINI, Scienza giuridica e teoria generale in Costantino Mortati, in Il pensiero giuridico di Costantino Mortati, a cura di M. GALIZIA e P. GROSSI, Giuffrè, Milano, 1990, p. 7 ss. (4) V. G. ZAGREBELSKY, Premessa a Mortati, La costituzione in senso materiale, cit., p. IX. 12 luni assunti etici socialmente condivisi come basilari e irrinunciabili » (5). La base teorica di queste posizioni è nelle c.d. teorie ‘neocostituzionalistiche’, vale a dire nelle concezioni di quella parte della filosofia del diritto che, messe da parte le ricerche giusnaturalistiche, ha trovato il modo di agganciare ai documenti costituzionali quelle visioni di giustizia e quei principi morali che premono alle porte del diritto. Tali ostilità non appaiono convincenti. Esse non tengono conto che il neocostituzionalismo ha alla propria base la rule of recognition di Hart, vale a dire le regole di riconoscimento sociale che determinano i criteri di validità e di identificazione delle altre norme del sistema (e che a loro volta non possono essere qua- (5) O. CHESSA, Libertà fondamentali e teoria costituzionale, Giuffrè, Milano 2002, p. 258; ma così fra gli altri anche A. SPADARO, Dalla costituzione come “atto” (puntuale nel tempo) alla Costituzione come “processo” (storico). Ovvero della continua evoluzione del parametro costituzionale attraverso i giudizi di costituzionalità, in Quaderni costituzionali, 1998, p. 409 ss.; P. PINNA, La costituzione e la giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino, 1999, p. 131 ss.; v. anche DOGLIANI, infra, nota (7). Sulle posizioni neocostituzionalistiche della filosofia del diritto v. G. BONGIOVANNI, Teorie costituzionalistiche del diritto. Morale diritto e interpretazione in R. Alexy e R. Dworkin, Clueb, Bologna, 2000; ID. Costituzionalismo e teoria del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2005; G: GOZZI, Jurgen Habermas e Robert Alexy: morale diritto e democrazia discorsiva, in G. ZANETTI, Filosofi del diritto contemporanei, Cortina editore, Milano, 1999; T. MAZZARESE (a cura di) Neocostituzionalismo e tutela (sovra)nazionale dei diritti fondamentali, Giappichelli, Torino, 2002. Alle note posizioni di R. DWORKIN (ai I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna, 1982 si può aggiungere Freedom’s Law. The Moral Reading of the American Constitution, Oxford University Press, Oxford, 1996) e di R. ALEXY (Concetto e validità del diritto, Torino, Einaudi, 1997) possono accostarsi sia le teorie ‘discorsive’ di HABERMAS (Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e Associati, Milano, 1996) che quelle ‘comunitarie’ di P. HÄBERLE (Le libertà fondamentali nello stato costituzionale, Nuova Italia scientifica, Roma, 1993, p. 175 ss.). Ad essi si può aggiungere C.S. NINO, Diritto come morale applicata, Giuffrè, Milano, 1999, mentre va ricordata la posizione anticipatrice di N. MATTEUCCI, Positivismo giuridico e costituzionalismo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1963, volta a mettere in luce le insufficienze del positivismo nella teoria costituzionale. 13 lificate valide o invalide) (6). Tali regole, incorporando principi morali e valori politici, non possono essere librate nell’etere ma – aggiungo io – devono pur sempre trovare il proprio radicamento in quelle forze politiche e sociali prevalenti che di quei principi e valori si facciano portatori (forze che sono tanto più larghe quanto più la società è omogenea). È vero: nelle società occidentali, in cui il costituzionalismo liberaldemocratico ha messo radici, tali forze possono rimanere sullo sfondo. Ma altrettanto può dirsi per paesi nei quali è in corso una ‘lotta per la costituzione’ fra forze politiche portatrici di contrastanti fini politici fondamentali (per esempio fra laici e fondamentalisti in Medio oriente o fra populisti e democratici in America latina)? E come trascurare che nello stesso cuore d’Europa tali radici sono state piantate solo nel corso della seconda metà del novecento dopo drammatici conflitti per la costituzione (Spagna, Portogallo, Grecia dominati da regimi autoritari fino alla fine degli anni settanta)? A prescindere dal fatto che un concetto scientifico di costituzione deve adattarsi a tutte le realtà, e non solo a quelle segnate dal costituzionalismo liberaldemocratico, va sottolineato che anche in queste ultime società forze politiche e sociali, se non sempre nettamente distinguibili, agiscono e sono alla base della vitalità di una costituzione. Quei ‘principi morali’ cui si vorrebbero agganciare le costituzioni hanno, dunque, pur sempre dei Träger, non vivono per forza (6) Così DWORKIN, I diritti presi sul serio, cit., p. 88 ss. (a p. 90-91 la distinzione-connessione fra “politica” e “principi” potendo, afferma Dworkin, la politica presentarsi come affermazione di principi e i principi come affermazione di obbiettivi politici). Sulla regola di riconoscimento v. H. HART, Il concetto di diritto, Einaudi, Torino, 1991, p. 112 ss. Voglio tuttavia formulare una domanda che non posso qui sviluppare: quale la differenza, peraltro, fra la tanto citata “regola di riconoscimento” di Hart e la base materiale del diritto individuata dalla dottrina istituzionalistica italiana, Santi Romano in primis, cui lo stesso Mortati si rapporta sia pure con varie distinzioni? 14 propria; sono sulle spalle di soggetti egemoni necessariamente immersi nella « materialità del potere politico » (7). Che tale esigenza sia insopprimibile lo dimostra il fatto che di tanto in tanto affiora la tentazione di trovare tali soggetti nell’asse giudici-Corte costituzionale (cui si aggiungono – insiste Häberle – i costituzionalisti-interpreti). Stretti fra il più recente ‘neocostituzionalismo’, che vuole ancorare le costituzioni a principi etico-fondativi, e il filone più tradizionale della filosofia politica, che àncora le costituzioni alla politica, vi è chi ripiega in modo tautologico e autoreferenziale sui giudici stessi. Stretti fra la tendenza pervasiva della politica e la tendenza non meno pervasiva dell’etica, si cerca un limite nella forza razionalistico-discorsiva della metodologia giuridica, su cui fondare la autonomia del diritto stesso. La ricerca di tale limite rappresenta – è vero – un punto cruciale della scienza giuridica ma non è possibile prescindere da una base legittimante: è infatti la forza ‘materiale’ della costituzione che dà forza a quella ‘formale’, realizzando la ‘centralità’ della costituzione (8). La Corte costituzionale – mi limito a un esempio – ha giocato un ruolo decisivo nel temperare gli eccessi federalisti del nuovo Titolo V, anche con qualche forzatura interpretativa. Ma avrebbe (7) M. DOGLIANI, Introduzione al diritto costituzionale, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 343 e 344, non condivide la « materialità del potere » che è espresso dal concetto di costituzione materiale. In realtà Mortati e Dogliani parlano di cose diverse: il primo è alla ricerca di un concetto scientifico di costituzione, valido per tutti gli ordinamenti, e non solo per quelli ispirati al costituzionalismo liberaldemocratico, mentre Dogliani analizza un idealtipo di costituzione « di tutti perché non è fatta da nessuno ». Con minori accenti utopici nella stessa direzione S. FOIS, Costituzione legale e costituzione materiale, in La costituzione materiale. Percorsi culturali e attualità di una idea, cit., p. 21 ss.; e in modo più problematico A. PACE, La causa della rigidità costituzionale, Cedam, Padova, 1995, p. 74 ss. (8) Così G. AZZARITI, Critica della democrazia identitaria, Laterza, Roma- Bari, 2005, pp. 154-155 e già V. ZANGARA, Costituzione materiale e costituzione convenzionale (notazioni e spunti), in Aspetti e tendenze del diritto costituzionale, vol. I, Giuffrè, Milano, 1977, p. 333 ss. 15 potuto farlo se non fosse stata sostenuta da quelle forze politiche e sociali egemoni che ritengono un valore costituzionale il principio dell’Unità politica della Repubblica? E c’è la controprova. Come avrò modo di sottolineare i valori costituzionali unificano sempre più le forze politiche, sociali e culturali ma rimangono ancora zone d’ombra: cosa si intende per ‘dignità della persona’, quali i ‘diritti dell’embrione’? Si tratta, non a caso, degli stessi argomenti su cui la Corte non è finora riuscita a pronunciarsi (9). Dirò di più: solo il richiamo alla costituzione materiale può giustificare – io credo – il ‘primato del diritto comunitario’, definitivamente sancito dalla Corte con la sentenza n. 170 del 1984, ormai ‘fatto normativo’ da cui scaturisce un diritto costituzionale ‘vivente’. Tale primato è stato addossato sulle fragili spalle dell’art. 11 della Costituzione – scritto dai costituenti pensando all’Onu e considerando allora l’Unione europea un’utopia illuminista – ma esso trova la sua forza nella opzione europeistica promossa (o accettata con ritardo) dalle forze egemoni che sostengono la Costituzione repubblicana. Esse hanno visto in detta scelta la continuità, non la rottura, con le iniziali scelte costituenti e hanno sostenuto un così impegnativo orientamento della Corte costituzionale che sarà anni dopo ratificato formalmente con il richiamo ai vincoli comunitari nella novella costituzionale al primo comma dell’art. 117 introdotta nel 2001 (mentre altri Paesi avevano subito proceduto a revisioni costituzionali). Il filo rosso che unisce la concezione della costituzione materiale sia alla teoria liberale delle élites, di Mosca, Pareto e Michels sia a quella gramsciana dell’‘egemonia’ – vale a dire ai maggiori contributi della scuola italiana al pensiero politico – è altresì messo in luce criticamente in un recente studio, perché (9) Si pensi per esempio alla ordinanza n. 369 del 2006 con cui la Corte evita di pronunciarsi sulla legittimità del divieto di diagnosi pre-impianto sull’embrione previsto dalla legge n. 40 del 2004. 16 porta a « ridurre il diritto a strumento della politica » (10). È vero l’inverso. Tale concezione è invece tesa a trovare le condizioni perché il diritto costituzionale possa imporsi come limite anche a coloro dalla cui volontà politica trae legittimazione. D’altronde, se le basi fondative delle costituzioni non vengono rinvenute nella soggettività della politica, l’unica alternativa possibile è quella individuata da Luhmann: un « sistema complesso che si autogoverna », vale a dire quell’ordine del mercato che le costituzioni del novecento vogliono invece – sottolineava Mortati e sottolineerà Habermas – mettere sotto controllo (11). La tradizione costituzionale anglosassone non conosce gli eccessi soggettivistici del pouvoir constituant giacobino ma – aggiungo io – non per questo ignora le forze politiche e culturali su cui si reggono le costituzioni (12). È stato addebitato a Mortati, con riferimento alla ‘voce’ qui riprodotta, di non riuscire a individuare « la linea di confine » fra l’attività del giurista e quella del cultore di scienze sociali (13). Ma perché distinguere? In realtà la nozione di costituzione materiale serve ad entrambi gli ambiti scientifici proprio per identificare la forma di Stato come realtà giuridico-teoretica e co- (10) G. VOLPE, Il costituzionalismo del novecento, Editori Laterza, Roma-Bari, 2000, pp. 122-127 (la citazione testuale a p. 127). (11) V. sui sistemi ‘autopoietici’ N. LUHMANN, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Il Mulino, Bologna, 1990, nonché N. LUHMANN, R. De GIORNI, Teoria della società, Franco Angeli, Milano, 1994, p. 25 ss. (12) J. HABERMAS, Fatti e norme, loc. cit. Le posizioni di Habermas e Mortati, pur distanti sul ruolo del potere politico, hanno in comune il richiamo sia ai diritti come strumento di autodeterminazione degli individui sia alla sovranità popolare come strumento di realizzazione degli stessi nella comunità; posizioni che invece erano state divaricate, sulla scorta di una distorta lettura e di Kant e di Rousseau, da liberali e marxisti. Sui caratteri distintivi del costituzionalismo anglosassone rispetto al costituzionalismo francese mi sono intrattenuto più ampiamente nel volume da me curato Le basi filosofiche del costituzionalismo, Editori Laterza, Bari, 2007. (13) Così S. BARTOLE, Costituzione materiale e ragionamento giuridico, in Diritto e società, 1982, p. 620. Dello stesso autore v. anche Costituzione (dottrine generali e diritto costituzionale), in D. disc. pubbl., vol. IV, Utet, Torino, 1989, p. 310. 17 me realtà storico-fattuale. Questa duplice funzione percorre l’opera di Mortati proprio perché la costituzione materiale « non è una sorta di diritto ‘effettivo’ contrapposto a quello ‘formale’, ma piuttosto una … ricerca dello Stato stesso, quale suo principale oggetto di indagine, nel suo momento iniziale ed embrionale », quale plasmato dalle forze politiche egemoni (14). I principi della Costituzione: un giudizio da ribaltare La seconda parte della ‘voce’ è invece dedicata alla Costituzione italiana, ai suoi principi, ai diritti civili e ai diritti sociali da essa tutelati, alla forma di Stato delineata, alla forma di governo parlamentare, al decentramento regionale. In particolare Mortati insiste per la valorizzazione e l’attuazione dei principi della Costituzione repubblicana, in coerenza con l’azione che aveva svolto già in Assemblea Costituente per il loro inserimento nel testo costituzionale. In quella sede, infatti, mentre Piero Calamandrei tendeva ad abbassare a dichiarazioni politiche i principi costituzionali e Vittorio Emanuele Orlando presentava in Assemblea Costituente un ordine del giorno tendente a confinare in un preambolo significative norme di principio, Mortati era stato fermo a difenderne il valore normativo (15) (anche tornando ripetuta- (14) FIORAVANTI M., Dottrina dello Stato-persona e dottrina della Costituzione. Mortati e la tradizione giuspubblicistica italiana, in Il pensiero giuridico di Costantino Mortati, cit., p. 157. Sul punto v. amplius C. MORTATI, La costituzione in senso materiale, cit., p. 115 ss. (15) Per la posizione di Calamandrei v. Atti dell’Assemblea costituente, vol. I, seduta del 4 marzo 1947 (d’ora in poi le citazioni verranno fatte utilizzando l’edizione curata nel 1970-1971 dalla Segreteria generale della Camera dei deputati). In quella seduta Calamandrei, in riferimento alle norme programmatiche, afferma « non sono vere e proprie norme giuridiche ... ma sono precetti morali, definizioni, velleità, programmi, propositi, magari manifesti elettorali, magari sermoni … che tutti sono camuffati da norme giuridiche, ma norme giuridiche non sono ». La polemica con Mortati è esplicita. 18 mente sul tema negli scritti successivi, in sintonia con l’azione che sarà svolta da Vezio Crisafulli) (16). Ma Mortati va oltre il tema della loro efficacia giuridica. Tiene a sostenere « l’infondatezza delle tesi » di quanti vedevano nella Costituzione « una mera giustapposizione di principi e di orientamenti diversi o addirittura confliggenti fra loro » mentre invece l’adozione di corretti canoni ermeneutici consente di collegare le varie parti « in un sistema sufficientemente armonico ». Fra i non pochi sostenitori di tali tesi non solo Maranini e V.E. Orlando ma Croce, Bobbio e lo stesso Calamandrei, questi ultimi indubbiamente difensori strenui del testo costituzionale ma fortemente critici sull’impianto culturale dello stesso. Per Bobbio la Costituzione del 1948 è « una Costituzione liberale che ha ricevuto … apporti non sempre coerenti dalla dottrina sociale dei socialisti e dei cattolici »; per Calamandrei è invece la « risultante transattiva e forse provvisoria di concezioni contrastanti e di forze contrastanti » (17). Per Mortati questo eclettismo – oggi si direbbe ‘trasversalismo ideologico’ – è, al contrario, una ricchezza culturale della Costituzione italiana, perché « se si prescinde dal fondamento dottrinale delle ideologie, liberale, socialista e cattolica », e si ha invece riguardo al nucleo dei valori più essenziali presupposto da ognuna, si scorge L’ordine del giorno presentato da V.E. Orlando nella seduta del 23 aprile 1947, tendeva a spostare alcune norme di principio nel preambolo in quanto « mancano di un effettivo contenuto normativo ... e invadono campi riservati alla competenza legislativa ed attualmente regolati dai Codici, cioè da leggi costituenti un sistema »: cfr. Atti dell’Assemblea Costituente, vol. II, Seduta del 23 aprile 1946, p. 1156 ss.; a p. 1157 l’intervento di Orlando e a pp. 1165-1166 la replica di Mortati che riaffermava il valore giuridico delle dichiarazioni di principio. (16) Gli scritti di MORTATI sul tema sono ora raccolti in Studi sul potere costituente e sulla riforma costituzionale dello Stato, in quattro volumi, Giuffrè, Milano, 1972: si segnala in particolare lo scritto Il diritto al lavoro secondo la Costituzione della Repubblica, vol. III, p. 141 ss. (17) Gli Autori sono accuratamente citati da Mortati nella nota 225; ad essi si può aggiungere la posizione di Benedetto Croce in Atti delle Assemblea Costituente, vol. I, Seduta dell’11 marzo 1947, p. 337 ss. 19 la loro sostanziale affinità, muovendo tutte dalla stessa esigenza della tutela e del potenziamento della persona». Ed è proprio – sostiene Mortati a conclusione della ‘voce’ – dalla corrispondenza « del nucleo fondamentale dei suoi principi allo spirito dei tempi » che essa trae la « sua vitalità » (18). Aveva ragione Mortati. A sessanta anni dall’entrata in vigore, dopo aver superato le prove più difficili, la Costituzione repubblicana è riuscita a regolare il cambiamento ed è fortemente radicata nella coscienza degli italiani. L’eclettismo di cui sono espressione i principi della Costituzione del ’48 ha consentito di non subire i contraccolpi della crisi, non solo italiana, delle tradizionali ideologie politiche. So di andare controcorrente parlando di consolidamento dei principi costituzionali ma io credo che vadano rifiutati i giudizi espressi sia da parte di chi considera logori e invecchiati i principi costituzionali sia da parte di chi, pur riconoscendo attualità a quei principi, lamenta o denuncia il loro rifiuto da parte del sistema politico o addirittura da parte della società italiana. Giudizi espressi, quindi, sia da parte di chi ritiene tradita o comunque sconvolta la trama dei principi costituzionali sia da parte di chi ritiene superati detti principi ed auspica una nuova costituzione; sia da parte di chi è animato da una tentazione iconoclasta sia da parte di chi è sopraffatto dalla delusione per una mancata palingenesi (19). Visioni pessimistiche, (18) Le citazioni di cui nel testo sono, rispettivamente, alle pp. 252-253 e a p. 275. (19) È diffusa l’opinione che ritiene ormai ‘indebolita’, ‘stravolta’ o ‘sfilacciata’ la Costituzione repubblicana: così, fra gli altri, da ultimo M. AINIS, Vita e morte di una costituzione, Editori Laterza, Roma-Bari, 2006; ma prima anche G.U. RESCIGNO, A proposito di prima e di seconda repubblica, in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 1994, 20 ss.; M. DOGLIANI, La Costituzione italiana del 1947 nella sua fase contemporanea, Relazione presentata al Convegno dell’Accademia Nazionale dei Lincei su Lo stato della Costituzione italiana e l’avvio della Costituzione europea, tenutosi a Roma il 14-15 luglio 2003 (ora in www.costituzionalismo.it) nonché, anche con propositi di inquadramento teorico sulla natura del potere costituente, Potere costituente e revisione costituzionale nella lotta per la Costituzione, in Il futuro della Costituzione, a cura di G. ZAGREBEL- 20 queste ultime, che si intrecciano, peraltro, con altre opinioni tese a mettere in rilievo l’irrimediabile alterazione dei valori sociali della Costituzione che conseguirebbe dai Trattati europei. « Tesi pessimistico-realistiche » non meno pericolose delle prime perché « si autoverificano » e contribuiscono a indebolire i valori costituzionali (20). Torno a ripetere qui quanto mi è capitato di sostenere in altra sede (21): tali letture possono essere entrambe ribaltate atteso che la Costituzione non solo si è consolidata ma – aggiungo – nella coscienza degli italiani è oggi molto più forte e radicata di quanto non fosse nei primi decenni di vita. So bene che vanno nettamente distinte al riguardo le due parti della Costituzione. La parte relativa ai principi è più forte e SKY, P.P. PORTINARO, J. LUTHER, Einaudi, Torino, 1996, 253 ss.; C. AMIRANTE, Per la storia del processo di erosione di un sistema costituzionale democratico, in La democrazia riformata, a cura di A. BEVERE, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 2004, p. 123 ss.; M. LUCIANI, Intervento in Sull’attualità della Costituzione. Quindici domande ai costituenti, a cura della Fondazione Lelio e Lisli Basso, Manifesto Libri, Roma, 2004, p. 19; S. D’Albergo, Diritto e Stato, tra scienza giuridica e marxismo, Teti, Roma 2004. Così anche M. CALISE, La costituzione silenziosa, Editori Laterza, Roma-Bari 1998, p. 128 s. in riferimento all’emergere di nuovi poteri. Di analogo tenore molti interventi ospitati nel citato sito www.costituzionalismo.it. Di mancanza nei partiti di oggi di una cultura della Costituzione parla M. GREGORIO, Quale costituzione? Le interpretazioni della giuspubblicistica nell’immediato dopoguerra, in Quaderni fiorentini, 35, 2006, p. 908. Vi è chi si spinge più in là puntando a un’Assemblea costituente che elabori una nuova costituzione: v., tra gli altri, G. VACCA, La Costituente, Bompiani, Milano, 1996. Diversa la posizione di quanti, pur lanciando allarmi, ritengono tuttora solidi i principi costituzionali: v. V. ONIDA, La Costituzione, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 121 ss. nonché L. ELIA, La Costituzione aggredita. Forma di governo e devolution al tempo della destra, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 67 ss. (20) Così L. FERRAJOLI, Democrazia e costituzione, in G. ZAGREBELSKY, P. PORTINARO, J. LUTHER, Il futuro della Costituzione, cit., p. 335 il quale tuttavia non manca di concorrere a questo risultato con una visione assai pessimistica sulle ferite che sarebbero state inferte alla Costituzione sia dalla destra che dalla sinistra fino a parlare di avvento di una « seconda Repubblica ». (21) Principi (da conservare) e regole (da rivedere) della Costituzione repubblicana, in Valori e principi del regime repubblicano, III, a cura di S. LABRIOLA, Studi della Fondazione della Camera dei deputati, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 3 ss. 21 robusta perché attorno ad essa si è consolidato ed anzi si è accresciuto il consenso mentre mostra evidenti acciacchi la parte relativa alle regole organizzative in quei punti peraltro (bicameralismo, poteri del governo, sistema delle autonomie) che la stessa Costituente aveva palesemente lasciato aperti. Perché oggi la Costituzione è più forte e radicata? Le ragioni sono varie e fra loro collegate e attengono: a) alla ormai avanzata attuazione delle norme e degli istituti costituzionali; b) alla maturazione e trasformazione delle culture politiche che avevano alimentato il testo costituzionale; c) alla progressiva ‘omogeneità sociale’ favorita dallo sviluppo di un’economia aperta e dalla attuazione dei principi costituzionali; d) alla battaglia vinta contro il terrorismo interno. La ‘svolta’ degli anni sessanta A questo consolidamento dei principi costituzionali contribuiranno tre successivi appuntamenti della storia italiana ed europea: il primo centrosinistra; la primavera studentesca e l’autunno caldo; la caduta del muro di Berlino. Quando Mortati scrive la ‘voce’ qui riprodotta – pubblicata nel 1962 - il tema principale è ancora quello dell’attuazione della Costituzione, allora ai primi passi. Solo da pochi anni erano iniziate le attività della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura. Con l’attività della prima era stata finalmente messa ai margini la distinzione fra norme programmatiche e norme precettive con cui si volevano depotenziare le norme costituzionali di principio (a partire dalla decisione delle Sezioni Unite penali del 7 febbraio 1948, a poche settimane dall’entrata in vigore della Costituzione). Ma solo con l’avvento dei primi governi di centro-sinistra, nei primi anni sessanta, la pratica politica e amministrativa diverrà sempre meno in dissonanza con i principi costituzionali e cesserà progressivamente quell’« ostruzionismo di maggioranza » – secondo la celebre espressione di Piero Calamandrei – che aveva impedito l’attuazione dell’impianto organizzativo della 22 Costituzione. Fino a quegli anni forti e ripetute erano state le violazioni della Costituzione, favorite dal permanere di una legislazione di stampo autoritario. Spesso pesante era stata l’utilizzazione delle misure di polizia previste dal vecchio testo unico di pubblica sicurezza e il ricorso ad altre misure di ordine pubblico per reprimere battaglie operaie o contadine, per comprimere la libertà di iniziativa delle imprese cooperative, per pressare e sfiancare l’autonomia dei Comuni, limitando a questi fini il diritto di riunione, la libertà di corteo, il diritto di espatrio, o financo il diritto di petizione. Tale politica, che a sinistra si esprimeva con il termine ‘scelbismo’, era mossa in parte da una sincera preoccupazione per presunte attività eversive dei comunisti (il mai provato ‘piano K’) e in parte dalla strumentalizzazione in chiave politico-elettorale dell’allarme sociale, ma comunque non mancò di provocare morti e feriti nelle fabbriche e nelle campagne, nel Nord e nel Sud. Le espressioni usate in riferimento alle misure adottate in quegli anni – « leggi eccezionali », che avrebbero portato ad « un’altra costituzione vigente » – seppure esagerate, rendono l’idea delle tensioni accumulate (22). Peraltro solo le medesime tensioni accumulate possono avere portato a definire un « attentato alla Costituzione » (23) l’approvazione della (22) G. AMBROSINI, La Costituzione italiana, Einaudi, Torino, 2005, p. xxxxv. Sullo ‘scelbismo’ v. G. AMENDOLA, Il Pci all’opposizione. La lotta contro lo scelbismo, ora in Gli anni della Repubblica, Editori riuniti, Roma, 1976, p. 89 ss. Sulla ‘repressione’ v. dati, non sempre coincidenti, in M. G. ROSSI, Una democrazia a rischio, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. I, La costruzione della democrazia, Einaudi, 1994, p. 917; G. DE LUNA, Partiti e società negli anni della ricostruzione, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. I, cit., p. 768; A. LEPRE, Storia della prima Repubblica, il Mulino, 1993, pp. 128-129. Di leggi eccezionali parla G. SCARPARI, La democrazia cristiana e le leggi eccezionali 1950-1953, Feltrinelli, Milano, 1977. (23) G. AMBROSINI, op. cit., p. LXI; ma, come è noto, non si tratta di un’opinione isolata (v. La legge elettorale del 1953. Dibattiti storici in Parlamento, a cura di G. QUAGLIARELLO, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 39 ss.). 23 legge elettorale, la c.d. legge truffa, che alterava con un premio di maggioranza, nella sola Camera dei deputati, la rappresentanza proporzionale delle varie forze politiche. Frequente, inoltre, la censura di opere cinematografiche e teatrali ritenute scomode perché critiche nei confronti dei partiti di governo (espressione di « culturame ») o perché ritenute offensive nei confronti della « religione di Stato » (tale rimasta fino alla revisione del Concordato con gli accordi di Villa Madama del 1984 e fino alla giurisprudenza della Corte nella prima parte degli anni novanta) (24). Solo nel 1962 sarà approvata la legge n. 161 sulla censura destinata a sostituire la legislazione fascista. Diffuse le ostilità e le difficoltà frapposte al pieno dispiegarsi dei diritti femminili: solo nel 1963 sarà consentito alle donne l’ingresso in magistratura. La primavera studentesca del 1968 e l’autunno operaio dello stesso anno contribuiranno, ulteriormente, ad attuare parti importanti della Costituzione ed anzi, con lo Statuto dei lavoratori, si arriverà a scrivere ciò che è stato possibile definire ‘una appendice’ della Costituzione stessa. Tali movimenti consentiranno nel corso degli anni settanta (fino alla implosione che si determinerà con il manifestarsi del terrorismo) una ulteriore espansione dei valori costituzionali (24) Il neologismo denigratorio « culturame », usato da Scelba nel 1949 nel Congresso della Dc svoltosi a Venezia, è ripreso in un brillante saggio di P. MELOGRANI, L’egemonia culturale della sinistra, in Prospettive nel mondo, n. 5, 1990, dalle cui puntuali citazioni non escono bene né i repressori né alcuni dei pur prestigiosi intellettuali repressi (di cui tuttavia non poteva essere compresso il diritto di dire sciocchezze e fandonie). Fanno sorridere, più che indignare, a tanti anni di distanza, le complesse vicende politiche e burocratiche (ricostruite di recente da la Repubblica dell’8 luglio 2007) che portarono il Governo, a firma di Giulio Andreotti, a negare il visto della censura a La governante di Vitaliano Brancati. Per non dire, ricordo a caso, di opere teatrali o cinematografiche come Il Vicario di Hochut, Il Lazzaro di Pirandello, la Mandragola di Machiavelli o il film Rocco e i suoi fratelli censurato, in realtà, perché denunciava i guasti morali e sociali della immigrazione meridionale a Milano. 24 attraverso il riconoscimento di diritti talvolta non espressamente previsti dal testo costituzionale ma che il clima di quegli anni contribuirà a fare germogliare dalle clausole generali introdotte dalla Costituzione stessa. In questo quadro si determinano mutamenti significativi nella giurisprudenza della stessa Corte costituzionale. Come spiegare altrimenti – per limitarci a un solo esempio – la diversa giurisprudenza della Corte sul reato di adulterio prima e dopo il 1968? Essa infatti prima legittima il reato di adulterio per le sole donne (sentenza n. 64 del 1961) e poi lo ritiene illegittimo per violazione del principio di eguaglianza (sentenza n. 126 del 1968). E in che cosa consiste il « mutamento della coscienza collettiva » cui la Corte espressamente si richiama nella seconda decisione se non nei mortatiani « valori delle forze politiche, sociali e culturali egemoni »? O come spiegare la diversa giurisprudenza della Corte, prima (sentenza n. 9 del 1965) e dopo (sentenza n. 49 del 1971), sull’incitamento a pratiche anticoncezionali vietate dall’art. 553 del codice penale? O, più in generale, come interpretare i progressivi mutamenti nella giurisprudenza della Corte relativa ai diritti fondamentali? Delle due l’una: o si ritiene che la base legittimante della Costituzione stia nei giudici oppure si è costretti a fare riferimento ai mutamenti nell’ordinamento materiale della Costituzione (25), vale a dire alle culture politiche. È ben vero che spetta alle Corti mettersi in ‘ragionevole sintonia’ con tali mutamenti ma è anche vero che, come sottolineo più avanti, non va trascurata l’azione del legislatore. (25) Sul collegamento fra ordinamento materiale della costituzione e clausole generali relative ai diritti, in particolare la fattispecie a schema aperto di cui all’art. 2 della Costituzione, non posso che richiamare i miei Commento all’art. 2 della Costituzione, in Commentario della Costituzione, a cura di G. BRANCA, I, Zanichelli, Bologna, 1975; e Nuovi diritti: attenzione ai confini, in Corte costituzionale e diritti fondamentali, a cura di L. CALIFANO, Giappichelli, Torino, 2004, p. 19 ss. 25 Le culture politiche alla prova A radicare maggiormente i valori costituzionali contribuiranno le vicende attraversate sin dalla fine degli anni cinquanta sia da quelle forze politiche che avevano dato vita alla Costituzione, in particolare i cattolici, i socialisti e i comunisti, sia da quelle forze, come i missini, che erano state contro la stessa. Sappiamo quanto sia rilevante per una costituzione il consenso delle forze politiche, vale a dire, sempre con le pagine di Mortati, la « consonanza fra i valori in essa espressi e i valori di cui sono portatrici le forze politiche dominanti » (26), siano esse quelle che hanno dato vita al progetto costituente, siano esse quelle che al testo costituzionale hanno successivamente aderito. Nel volume sulla Costituente, scritto nel 1945, Mortati aveva puntato sulle forze politiche che avevano vinto la battaglia contro il fascismo come l’architrave su cui poggiare il potere costituente, fino ad escludere l’idea di un referendum istituzionale che tale accordo avrebbe potuto rendere meno facile (27). Le posizioni di partenza dei socialcomunisti, dei cattolici democratici, dei gruppi legati ancora al vecchio regime liberale erano – come sappiamo – assai distanti. Ma c’era la comune volontà dei primi di mettere ai margini quanti volevano perseguire la conquista rivoluziona- (26) Anche per P. POMBENI, Introduzione alla storia dei partiti politici, Il Mulino, Bologna, 1990 per interpretare il sistema delle relazioni politiche è essenziale il riferimento alla cultura politica delle masse popolari legate ai partiti. Sulla stretta interdipendenza fra processi di integrazione costituzionale e storia è sempre utile il riferimento a R. SMEND, Costituzione e diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 1988, p. 283 ss. V. altresì, con riferimento alla prospettiva pre-testuale e con-testuale, in cui un testo si inserisce A. RUGGERI, Teoria e usi della Costituzione, in Quaderni costituzionali, 2007, per il quale i valori politici, pur appartenendo al mondo del pre-giuridico, « si rivelano nel mondo del giuridico per il tramite dei principi » mentre « l’interpretazione dei principi non può svolgersi sterilmente in se stessa ». (27) Così in La Costituente, ora in Studi, cit., p. 197 ss. Sulla funzione costituente dei partiti si muoveva nella stessa direzione P. BARILE, La costituzione come norma giuridica, Barbera editore, Firenze, 1951. 26 ria del potere, e dei moderati di mettere ai margini posizioni disponibili a perseguire obbiettivi reazionari. L’accordo fra tali partiti sarà decisivo e con l’approvazione della Costituzione si realizzerà un compromesso di alto profilo, « frutto prezioso » – come sottolinea Mortati – di una storica convergenza fra le grandi correnti ideali che dominarono la Costituente: la liberaldemocratica, quella cattolica, quella legata al movimento dei lavoratori. Ma tale compromesso presenterà il limite di rimanere a livello di élites intellettuali e politiche, di « punte colte ed avanzate » (28), senza un adeguato consenso di massa. Non mi riferisco alla nota contrapposizione fra gli storici che ritengono la Resistenza una vicenda frutto di larga partecipazione popolare e quelli che invece ritengono che essa sia stato il frutto di gruppi sociali e politici minoritari ma, più specificamente, alla Costituente e all’assenza di un’adesione popolare di massa ai suoi lavori, all’‘isolamento’ che l’accompagnò (29). Marcato, in particolare, il distacco fra i gruppi dirigenti comunisti e cattolici che avevano dato vita al compromesso costituzionale e il rispettivo elettorato, costituito da quelle che allora venivano chiamate le ‘masse comuniste’ e le ‘masse cattoliche’. Il riferimento alle culture politiche che alimentano le forze politiche, presente nelle elaborazioni di Mortati, sarà sviluppato ed affinato negli anni successivi dalle scienze politologiche con il riferimento agli intrecci fra società politica, società civile e istituzioni, ivi compresa la variabile delle ‘subculture politiche’, attorno a cui si costruiscono le condizioni per un ordinamento costituzionale ‘vivente’ (30). (28) E. CHELI, Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, il Mulino, Bologna, 1978, p. 25. (29) P. POMBENI, La Costituente, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 80. Sul collegamento fra Resistenza e l’attività costituente insiste P. SCOPPOLA, La Costituzione contesa, Einaudi, Torino, 1998, p. 19 ss. (30) V. per tutti, riassuntivamente, P. FARNETI, Introduzione, in Il sistema politico italiano, Il Mulino, Bologna, 1973, p. 12 ss., e ivi letteratura (dello stesso FARNETI, Sistema politico e società civile, Einaudi, Torino, 1971). 27 L’apporto dei cattolici alla Costituente – Mortati in testa, assieme a Dossetti, Fanfani, La Pira ed altri – era stato determinante. Non meno significativa l’azione svolta dall’intero gruppo dirigente democristiano che aveva contenuto le pretese di circoli clericali e di ambienti vaticani che erano contro l’accordo con ‘il comunismo ateo’ e avrebbero voluto un ben altro testo costituzionale tale da far correre il rischio di innalzare quegli « storici steccati fra Guelfi e Ghibellini » che invece De Gasperi voleva esorcizzare (circolavano in quel periodo, tra l’altro, testi elaborati dai gesuiti di Civiltà cattolica che presentavano una accentuata ispirazione clericale) (31). Ma tali posizioni illuminate saranno incrinate, ancor più dopo la vittoria del 18 aprile 1948, da marcati cedimenti confessionisti, integralisti e clericali, fino – per usare un’espressione di Jemolo – a una diffusa « intolleranza religiosa » (32). Saranno non pochi quanti chiederanno di dare attuazione a quelle norme del Concordato che con la Costituzione erano più dissonanti (per esempio l’art. 5 che vietava ai sacerdoti apostati l’assunzione di uffici a contatto con il pubblico) o quanti invocheranno (e spesso otterranno) limitazioni di polizia nei confronti dei culti acattolici, ivi compresi i non infrequenti ‘fogli di via’ per i pastori evangelici che svolgevano proselitismo nelle campagne o nelle località meridionali o quanti (Pio XII stesso da Piazza San Pietro) (33) protesteranno per le prime sentenze della Corte che elimineranno le autorizzazioni di polizia sugli stampati. È un aspetto del distacco fra il partito democristiano e il proprio elettorato, quest’ultimo su posizioni meno avanzate del (31) F. MARGIOTTA BROGLIO in G. SALE, De Gasperi, gli Usa e il Vaticano all’inizio della guerra fredda, Jaca Book, Milano, 2005. Sull’azione di De Gasperi in quel periodo il riferimento d’obbligo è a P. SCOPPOLA, La proposta politica di De Gasperi, Il Mulino, Bologna, 1988. (32) A.C. JEMOLO, I problemi pratici della libertà, Giuffrè, Milano, 1961, p. 138. (33) Fino a determinare il 10 marzo 1957 le dimissioni dell’allora Presidente della Corte Enrico De Nicola. 28 primo, che ha pesato per anni sulla vita di quel partito e sullo sviluppo democratico del Paese (34). Solo a metà degli anni sessanta il Concilio Vaticano II avrebbe radicato ancora di più nella coscienza delle ‘masse cattoliche’ i valori pluralistici della Costituzione, superando il distacco fra enunciati normativi e pratica vivente degli stessi. Inizialmente frutto di una élite cattolico-democratica il pluralismo religioso e culturale sarà pienamente assunto dal popolo dei fedeli grazie al Concilio. E solo all’inizio degli anni sessanta – con il Congresso di Napoli del febbraio 1962 – la Dc si sarebbe posto il tema dell’« allargamento delle basi democratiche dello Stato » (35). Considerazioni analoghe (e forse ancora più marcate) possono essere svolte in ordine alle culture politiche della sinistra. Di indubbio rilievo il contributo alla Costituente dei comunisti e dei socialisti. Non solo avevano reso possibile la sconfitta del fascismo e il passaggio dalla monarchia alla repubblica ma contribuiranno costruttivamente ai lavori della Costituente anche dopo la rottura dell’unità antifascista, nel maggio del 1947, e la loro estromissione dal governo. Netta tuttavia la dissociazione fra la prassi riformista di tali partiti e l’orizzonte rivoluzionario mai abbandonato del tutto (36). Per (34) G. BAGET BOZZO, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra: la DC di Fanfani e di Moro 1954-1962, Vallecchi, Firenze, 1977, passim. Da qui un certo filone interpretativo, da posizioni di sinistra radicale, su un « regime democristiano » teso a ridurre gli « spazi democratico-borghesi » della Costituzione: v. N. GALLERANO, C’era una volta la Dc, Savelli, Roma, 1975. Questo tema è presente nelle due relazioni di Sergio Cotta e Leopoldo Elia, e negli interventi succedutisi, nel Convegno di Cadenabbia del 1965 (Atti del Convegno di studio promosso dal comitato regionale della democrazia cristiana, Novecento grafico, Bergamo, 1965). (35) Ma appena due anni prima una nota vaticana aveva posto un veto alla formula politica di centrosinistra: v. Punti fermi, in L’Osservatore romano del 18 maggio 1960. (36) G. NAPOLITANO, Intervista sul PCI, a cura di E.J. HOBSBAWM, Laterza, Bari, 1976, p. 9 per il quale negli anni della Costituente nessuno dubitava « che l’ob- 29 merito di Togliatti il partito comunista aveva (di fatto) messo ai margini le posizioni più radicali, ma tanta parte del popolo comunista, e non pochi gruppi intellettuali, cioè il ‘corpo del partito’, erano su posizioni filosovietiche e guardavano ancora con speranza ai modelli dell’Est europeo fino a teorizzare la transitorietà delle istituzioni borghesi. La difesa della Costituzione operata con vigore dal partito comunista, fino a farne una propria bandiera, non oscura che altro era l’orizzonte finale, sia pure sullo sfondo. L’impianto marcatamente riformista delle norme costituzionali mal si conciliava con posizioni che invece ipotizzavano il passaggio dal capitalismo al socialismo. La Costituzione, sopratutto nella parte relativa ai diritti economici, era vista come « conquista sulla via italiana al socialismo » mettendo l’accento più sulle nazionalizzazioni dell’art. 43 che sulla libertà di impresa dell’art. 41. Altrettanto può dirsi per il partito socialista, fino all’inizio degli anni sessanta teso alla costruzione di una società socialista (37). Solo con il primo centro-sinistra i socialisti accetteranno di confrontarsi con l’economia di mercato presupposta dalla Costituzione. E solo con le maggioranze di solidarietà nazionale i comunisti faranno altrettanto. Ma in un saggio di Carlo Lavagna del 1977 la Costituzione era ancora letta come punto di partenza, come possibile strumento per il passaggio a una ‘società socialista’: e non era una posizione isolata (38). biettivo finale dovesse essere … una trasformazione in senso socialista della società » e a p. 25-26 considerazioni sul valore che ebbe la difesa delle libertà costituzionali per la cultura politica dei comunisti. La posizione di Togliatti alla Costituente emerge in modo chiaro dal volume che raccoglie i suoi interventi nell’Assemblea costituente Per una repubblica democratica e antifascista, Newton Compton, Milano, 1976, ma G. AMENDOLA, La rottura della coalizione tripartita: maggio 1947, in Gli anni della Repubblica, cit., p. 86 mette in rilievo (‘con sorpresa’) il contrasto fra la prudente condotta di Togliatti nell’assemblea costituente e la violenza « calcolata » di certi « articoli e discorsi ». (37) … ed anche oltre: v sul punto G. AMATO, L. CAFAGNA, Duello a sinistra. Socialisti e comunisti nei lunghi anni settanta, Il Mulino, Bologna, 1982. (38) C. LAVAGNA, Costituzione e socialismo, Il Mulino, Bologna, 1977. Negli 30 Ancora negli anni settanta, in un importante saggio che ha segnato sotto il profilo metodologico una tappa rilevante nella scienza politica, Giovanni Sartori individuava in Italia un sistema partitico « polarizzato », imperniato su un partito di centro reso « immobile e immobilizzante » da due ali partitiche, il Pci e il Msi, collocate « su posizioni antisistema » (39). Negli stessi anni Leopoldo Elia individuava una conventio ad excludendum nei confronti del partito comunista basata non solo sulle posizioni di politica estera dei comunisti ma anche « sul modo di interpretare i principi costituzionali » (40). Non minori le riserve su altri fronti. L’adesione alla Costituzione da parte delle organizzazioni ‘padronali’ – secondo il linguaggio allora più diffuso – era stata accompagnata da molti dubbi e da molte riserve. Se la parte più illuminata della borghesia italiana aveva voluto il quadro delle libertà politiche presenti nel testo costituzionale ed accettati, sia pure con riserve, i diritti sociali ivi fissati, una parte non secondaria della stessa rifiutava quel quadro costituzionale perché troppo avrebbe concesso alle organizzazioni operaie e contadine, sopratutto in tema di libertà di sciopero e di organizzazione sindacale. Propositi di revisione di queste parti della Costituzione furono anzi per diversi anni l’obbiettivo di talune organizzazioni imprenditoriali (la ‘reazione in agguato’ nel linguaggio della sinistra dell’epoca) che, anche sfruttando l’in- stessi anni riteneva invece l’impianto della Costituzione inconciliabile con il socialismo, G.U. RESCIGNO, Costituzione italiana e stato borghese, Savelli, Roma 1975. Ampia letteratura sul punto in P. PETTA, Ideologie costituzionali della sinistra italiana (1892-1974), Savelli, Roma, 1975. Da sottolineare che per V. CASTRONOVO, Italia contemporanea: 1945-1975, Einaudi, Torino, 1976, con il 1975 si conclude un ciclo iniziato nel 1960 dopo la reazione al governo Tambroni. (39) G. SARTORI v. Bipartitismo imperfetto o pluralismo polarizzato?, ora in Il sistema politico italiano, cit., p. 302. (40) L. ELIA, La forma di governo dell’Italia repubblicana, in Il sistema politico italiano, cit., p. 323. 31 tervenuta rottura dell’unità sindacale, non mancarono, attraverso vari canali, di sostenere movimenti volti a tale obbiettivo (in alcuni casi anche di tipo eversivo) (41). Fino al clima nuovo creato dallo Statuto dei lavoratori non infrequentemente ricorreva l’espressione ‘fascismo di fabbrica’; linguaggio talvolta dettato da enfasi sindacale, talaltra da effettivi comportamenti che negavano l’ingresso in fabbrica dei diritti costituzionali fino ai licenziamenti per motivi politici e alle discriminazioni a danno di militanti delle sinistre (42). I processi di modernizzazione dell’economia (non ultimo l’intreccio virtuoso fra lotte operaie e sviluppo capitalistico) e una diversa organizzazione del lavoro, conseguente alla crisi della fabbrica fordista, contribuiranno progressivamente a mutare il quadro, rendendo più aperte alla innovazione le organizzazioni imprenditoriali, indebolendo le più retrive, riducendo la conflittualità sociale, emarginando posizioni estreme, da una parte e dall’altra. Questa è la ragione di fondo per cui i diritti costituzionali dei lavoratori, il diritto di sciopero o la libertà dell’organizzazione sindacale sono ormai visti come strumenti necessari per governare il conflitto sociale, utili alla stessa modernizzazione dell’attività produttiva, non più, da parte imprenditoriale, come un ostacolo alla libertà di impresa e non più, da parte operaia, come uno degli strumenti della ‘lotta di classe’. Non mancano tuttora forme di conflittualità selvaggia favorite dalla mancata attuazione di alcuni istituti costituzionali, in particolare quelli relativi all’accertamento della rappresentatività sindacale, ma esse appaiono distanti dalle forme assunte nei decenni scorsi, e per lo più limitate (41) G. GALLI, Affari di stato. L’Italia sotterranea 1943-1990, Kaos Edizioni, Milano, 1991, p. 23 ss. (42) V., fra i tanti documenti dell’epoca, Assise per la difesa delle libertà democratiche. Per il rispetto e l’applicazione della Costituzione repubblicana, Edizioni Camera confederale del lavoro, Bologna, 1955, p. 10 e passim. 32 ai servizi pubblici. Non è azzardato dire che il ‘compromesso costituzionale’ ha rappresentato una variante italiana del ‘compromesso socialdemocratico’ che ha caratterizzato diverse società del novecento (43). Anche per effetto delle riforme elettorali maggioritarie, ormai lo ‘spazio politico’ dell’alternanza è tendenzialmente disposto lungo l’asse destra-sinistra (secondo schemi di ‘pluralismo centripeto’) lasciando ai margini equivoche discussioni, nella parte moderata, sulla ‘delimitazione dell’area democratica’ o, nella sinistra, sulla antica distinzione fra ‘alternanza’ (da respingere) e ‘alternativa’ (da perseguire). La Costituzione alla prova delle armi Drammatici tuttavia i tentativi di ritorno all’indietro. L’Italia ha conosciuto fenomeni terroristici che non hanno precedenti per virulenza in Europa (tranne i terrorismi di tipo secessionistico in Spagna o nel Regno Unito). Il terrorismo rosso e quello nero rappresentano fenomeni distanti ma che hanno avuto in comune la contestazione della stessa Costituzione e il rifiuto dei valori costituzionali. È noto che il ‘terrorismo nero’ è stato alimentato dall’idea che la Costituzione fosse stata una deviazione della storia nazionale, un ‘cedimento ai comunisti’ e che invece bisognasse aprire la strada alla instaurazione di uno Stato autoritario. È altrettanto noto (43) Da registrare, tuttavia, come risvolto negativo, una non commendevole deviazione dal testo costituzionale, accettata da tutte le parti interessate, che ha portato ad una regolazione dei rapporti di lavoro diversa da quella voluta dal Costituente nell’art. 39. Pretendere di giustificare tale deviazione come l’affermarsi di una regola vincolante della costituzione materiale (come pure è stato fatto, da sinistra, per contrastare il Decreto Craxi sulla scala mobile del 1984) è un altro modo con cui si altera la categoria mortatiana. Da segnalare altresì quelle pratiche di ‘concertazione’ che hanno finito per indebolire sia il Governo che il Parlamento. 33 che il ‘terrorismo rosso’ nasce, invece, dal mito della ‘resistenza tradita’; da una ‘rivoluzione mancata’ a causa del ‘compromesso costituzionale’, per perseguire il quale i comunisti e le forze della sinistra avrebbero tradito le potenzialità rivoluzionarie del proletariato (44). « Ma la Costituzione esiste ancora? » (45). È la domanda che si poneva alla fine degli anni settanta Leonardo Sciascia così tentando di giustificare la posizione assunta da un gruppo di prestigiosi intellettuali, riassunta con lo slogan « né con lo Stato né con le B.R. ». Alcuni di essi, con questo slogan, giustificavano quei cittadini torinesi che si erano rifiutati di fare parte della Corte d’assise che avrebbe processato alcuni brigatisti. Ma, a parte iniziali sbandamenti o sottovalutazioni, la vittoria sui terrorismi ha contribuito a consolidare i valori costituzionali e a consolidare un filo comune fra le forze politiche dell’allora ‘arco costituzionale’. Quei partiti seppero togliere ai gruppi eversivi ogni possibile base di massa e hanno rappresentato in quella occasione – avrebbe detto Mortati – l’ordinamento materiale della Costituzione. Nonostante ricorrenti e tragici colpi di coda, la democrazia italiana ha superato gli anni bui del terrorismo e dello stragismo, ha vinto sul duplice fronte del terrorismo (44) Un’ eco in A. NEGRI, La forma di stato: per una critica dell’economia politica della Costituzione, Feltrinelli, Milano, 1977. Per una lettura dei due terrorismi utili i saggi di R. MINNA, A. VENTURA, G. CASELLI, F. FERRARESI, N. DALLA CHIESA, raccolti da D. DELLA PORTA, in Terrorismi in Italia, Il Mulino, Bologna, 1984. Alle radici ideologiche indicate nel testo bisogna ovviamente aggiungere le cause scatenanti. Non ultima fra queste la ‘disperazione da immobilismo’ conseguente al sistema politico bloccato e alla mancata risposta alle istanze del 1968: così N. TRANFAGLIA, La crisi italiana e il problema storico del terrorismo, in M. GALLENI, Rapporto sul terrorismo, Milano, 1981; ma nella stessa direzione G. PASQUINO, Sistema politico bloccato e insorgenza del terrorismo: ipotesi e prime verifiche, in G. PASQUINO (a cura di), La prova delle armi, Il Mulino, Bologna, 1984, p. 218 ss. (45) L. SCIASCIA, La Sicilia come metafora, intervista di M. PADOVANI, Mondadori, Milano, 1979, p. 104 e 117. 34 nero e del terrorismo rosso riconfermando e consolidando i valori della Costituzione. Ed ha vinto utilizzando le armi della Costituzione repubblicana. Basta porre mente, a quest’ultimo proposito, ad alcuni concreti strumenti di lotta al terrorismo agitati o invocati in quegli anni. E basta ricordare che non soltanto l’allora Msi ma anche una parte non secondaria dell’opinione pubblica democratica – compreso qualche padre costituente dopo l’assassinio di Moro – ebbe a invocare la pena di morte. Ebbe a invocare la sospensione di un principio fondamentale della Costituzione, presente allora in nessuna altra importante costituzione europea, vanto della tradizione giuridica italiana, da Cesare Beccaria in poi. La legislazione dell’emergenza, prodotta tra gli anni settanta e i primi anni ottanta, ha sfiorato i confini dei diritti costituzionali ma – lo ha riconosciuto la Corte costituzionale più volte (46) - non li ha mai travolti. Forte di questa esperienza l’Italia è uno dei pochi Paesi occidentali che dopo l’11 settembre si è limitato a ritoccare la propria legislazione senza ricorrere a strumenti speciali nella lotta al terrorismo internazionale, utilizzando ancora una volta le stesse armi della Costituzione. I principi costituzionali alla prova della ‘transizione’ Tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, la caduta del muro di Berlino, la crisi del pentapartito, il successo dei referendum elettorali innescheranno un processo politico tormentato, inedito rispetto all’iniziale quadro costituzionale, e determineranno profonde trasformazioni nelle forze politiche, in primo luogo la caduta dei muri che avevano diviso gli italiani fra comunisti e anticomunisti, fra fa- (46) … nelle sentenze nn. 1 del 1980; 15 del 1982; 38 e 194 del 1985. 35 scisti ed antifascisti e che avevano costretto i cattolici ad una forzata coabitazione in un unico partito (47). Il mutamento della legislazione elettorale che ne conseguirà renderà possibile l’accesso al governo, in un quadro di (sia pur tormentata) alternanza, di tutte le forze politiche. Le forze politiche che avevano dato vita al patto costituzionale o non ci sono più o hanno subito profonde trasformazioni che ne hanno intaccato l’identità. Alcune sono state travolte dall’esplosione di Tangentopoli, altre hanno operato svolte radicali, tutte hanno subito gli urti provocati dalla bi-polarizzazione del sistema politico. Non formano più quell’‘arco costituzionale’ che aveva retto la Repubblica per un quarantennio e che aveva esaurito la sua funzione con la caduta del muro di Berlino. Travolta la conventio ad excludendum, gli eredi del partito comunista hanno contribuito a reggere in due legislature i governi della Repubblica, anche assumendo in uno di essi la Presidenza del Consiglio. E del governo ha fatto parte – con alte responsabilità – un partito che si era costantemente richiamato ai valori del fascismo e si riteneva estraneo ai valori della Costituzione antifascista, nata dalla Resistenza, ma che al Congresso di Fiuggi del 1995 ha dichiarato l’adesione ai valori costituzionali riconoscendo espressamente persino i meriti dell’antifascismo. La stessa Lega Nord, nata con intenti secessionisti, ha concorso alla formazione dei governi Dini e Berlusconi (anche se, perlomeno a livello di pur deprecabili proclami propagandistici, non ha mai smesso di contestare l’unità della Repubblica). Le culture politiche, prima divise in fascisti, comunisti, cattolici e laici, tendono a disporsi sempre più, come accennavo, sull’asse destra-sinistra. Tutto questo ha portato ad un indebolimento dei principi costituzionali? Sono certamente avvenuti dei mutamenti (47) L’articolazione del voto cattolico in più partiti avrebbe non indebolito ma reso più forte la democrazia costituzionale italiana: è la tesi di Pietro SCOPPOLA ora in La coscienza e il potere, Editori Laterza, Roma-Bari, 2007. 36 nella costituzione materiale (e quindi nella composizione delle forze politiche che hanno dato vita alla Costituzione) ma i principi costituzionali hanno retto ed hanno certamente assicurato la ‘continuità’ dell’ordinamento. L’effetto combinato di Tangentopoli e dei nuovi sistemi elettorali ha dato vita a un nuovo sistema politico - sottolineo il punto - ma non ha dato vita ad una ‘Seconda Repubblica’ (48). Parimenti la pasticciata riforma ‘federalista’ del 2001 non ha segnato il passaggio ad una organizzazione federale della Repubblica (che la Costituente aveva espressamente rifiutato). È stata sottolineata con enfasi ‘una disarticolazione della costituzione dei poteri’ effettuata dal nuovo testo dell’art. 114 (49), accentuata dall’introduzione del principio di sussidiarietà, verticale ed orizzontale. La ferita inferta è di non poco conto ma rimane in piedi il principio dell’unità politica della Repubblica, sancito dall’art. 5 della Costituzione. Tali espressioni (‘Seconda Repubblica’ ‘assetto federale’), pur diffuse anche sul piano giornalistico e talvolta (con superficiale leggerezza) in certa letteratura giuridica, non hanno – a mio avviso – nessun valido supporto giuridico-costituzionale né, tanto meno, corrispondenza con la realtà. Nonostante queste ferite, non è azzardato giungere alla conclusione che, anche in questa fase, siamo di fronte – per essere brevi – non ad una ‘sconfitta della Costituzione’ ma ad una vittoria della Costituzione stessa nel cui quadro è avvenuta la legittimazione costituzionale di tutte le forze politiche (ed un successo, aggiungo, del sistema maggioritario e bipolare che quella integrazione ha accelerato). Una costituzione (48) … a un nuovo « sistema politico » ma non a un nuovo « regime politico », espressione con cui una parte della letteratura contraddistingue la « costituzione materiale » (così V. GUELI, Il regime politico, ora in Scritti vari, cit., p. 391 ss.). (49) L’enfasi è diffusa tra quanti si occupano di autonomie e talvolta, paradossalmente, ad opera di autori che escludono la soggettività politica nelle dinamiche costituzionali: sul punto rinvio al mio Dal triangolo tedesco al pentagono italiano, in Quaderni costituzionali, 2002, p. 85 ss. 37 non è solo di chi l’ha ‘voluta’ ma di quanti l’hanno ‘riconosciuta’ (50). Il volere perseguire modifiche (anche radicali per alcune forze) alla seconda parte della Costituzione non mette in discussione l’adesione a quei principi supremi della stessa che ne costituiscono il nucleo identitario e irrivedibile (pena non la ‘revisione’ ma il ‘mutamento’ della Costituzione) (51). Sostenere che ormai la Costituzione si regge non più sui partiti ma – come prima accennavo – sul circuito giudici-corte costituzionale significa non ricercare più solidi sostegni ma, al contrario, delegittimare la Costituzione (52). Non può essere sottovalutato, tuttavia, che si è venuto acuendo, dalla seconda parte degli anni novanta in poi, un conflitto che lambisce gli stessi principi costituzionali. Non mi riferisco solo alla approvazione di testi costituzionali (che non hanno tuttavia toccato la prima parte della Costituzione) con il voto della maggioranza di governo (del centrosinistra nel 2001 e del centrodestra nel 2005) o alla contestata ap- (50) Così, anche in riferimento alle posizioni di HART, N. MAC CORMICK, La morale costituzionale e la costituzione, in Il diritto come istituzione, Giuffrè, Milano, 1990, p. 213 ss. (51) Non tutti, tuttavia, sono d’accordo su questo punto: v. per tutti A. PIZZORUSSO, La Costituzione ferita, Laterza, Roma-Bari, 1999; ivi a p. 57 ss. è richiamata anche la posizione assunta dai Comitati Dossetti, contrari a riforme incisive della parte seconda della Costituzione. Tali comitati sono stati in prima linea (aderendo poi al Comitato nazionale presieduto dall’ex Presidente Scalfaro e coordinato da Franco Bassanini) nella promozione del referendum che nel 2006 ha respinto la riforma costituzionale elaborata dalla maggioranza di centrodestra. (52) Sul cambiamento delle basi di legittimazione della Costituzione per il venir meno dei partiti fondatori – e sul maggior ruolo dell’asse giudici-Corte – insiste M. DOGLIANI, Validità e normatività delle costituzioni (a proposito del programma di “costituzionalismo.it), in www.costituzionalismo.it/articoli/art20050118-1.asp. Addirittura, secondo analoghe concezioni, la individuazione dei principi fondamentali operata dalla sentenza n. 1146 del 1988 avrebbe segnato la crisi della concezione mortatiana: così. O. CHESSA, La teoria costituzionale dopo lo “Stato di partiti”, in Diritto@Storia, 2005, n. 4. E invece, come sostenuto nel testo, è nei « principi istituzionali » di Mortati che bisogna trovare la radice di quella decisione. 38 provazione di talune leggi in violazione della Costituzione (su cui peraltro l’ordinamento costituzionale ha avuto modo di reagire grazie a due organi di garanzia costituzionale, il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale) ma all’infittirsi di reciproci anatemi, di vicendevoli demonizzazioni, di tentativi di reciproche delegittimazioni. Nonostante tali eccessi, talvolta solo verbali, la trama dei principi costituzionali è rimasta – ha ragione Sergio Bartole – un solido punto di riferimento (53). Ma si può ancora parlare della Costituzione ‘come programma’? Più di altre la Costituzione italiana contiene norme che prefigurano obbiettivi da perseguire e programmi da realizzare. L’‘attuazione della Costituzione’ ha rappresentato anzi, per anni, la parola d’ordine per prefigurare nuovi equilibri politici,verso sinistra in particolare. Non ha torto Roberto Bin nel sottolineare che l’enfasi programmatica appartiene ad altre generazioni (54), ma rimane il fatto che ricorrente è la tentazione di individuare solo in uno degli schieramenti politici gli ‘eredi legittimi’ dei Costituenti e ricorrente è altresì il tentativo di tradurre in conflitto costituzionale, in riferimento agli aspetti programmatici della Costituzione, quelle divergenze sulle politiche pubbliche che in altri Paesi appartengono al fisiologico conflitto politico. Una costituzione non può contenere un programma politico a sostegno di un’azione di governo. In ogni caso gli obbiettivi indicati devono essere mantenuti a maglie larghe. La Costituzione fu votata - mi è capitato più volte di ricordarlo - sia da un socialista radicale come Lelio Basso che da un liberista come Luigi Einaudi, fu ispirata sia da Dossetti (53) Così anche S. BARTOLE, Interpretazioni e trasformazioni della costituzione repubblicana, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 444 per il quale, nonostante il « ridimensionamento in tempi più recenti » dell’« impatto simbolico », si è avuta la « tenuta complessiva della costituzione ». (54) R. BIN, Che cosa è la Costituzione, in Quaderni costituzionali, 2007, p. 34. Su posizioni opposte, invece, A. RUGGERI, Teorie e usi della Costituzione, loc. cit. 39 che da Sturzo (55), fu votata sia dal solidarista Giorgio La Pira che dal liberale Epicarmo Corbino, sia dal comunista Concetto Marchesi che dal liberale Benedetto Croce, tutti così diversi fra loro, proprio perché fissava fondamentali valori comuni e tracciava regole comuni ma lasciava aperti, all’interno di quel quadro, indirizzi politici e di governo fra loro alternativi. Contestando la legittimità stessa della dialettica destra-sinistra si rischia di delegittimare non il fronte avversario ma la stessa Costituzione, ritenuta così non adeguata a fornire le regole comuni in regime di alternanza. Enfatizzare gli aspetti programmatici della Costituzione comporta il rischio di alimentare la posizione di chi vorrebbe mettere da parte la Costituzione repubblicana (una « costituzione impossibile ») (56) proprio perché ispirata ad un programma ritenuto non più attuale. Lo stesso Mortati, che distingue fra « costituzioni-programma » e « costituzioni-bilancio », e che pure costruisce la funzione di indirizzo politico come progressiva attuazione del programma costituzionale, non esclude che esso sia suscettibile di diverse letture, avendo tuttavia come punto di riferimento lo ‘Stato sociale’, vale a dire, aggiungo io, quel ‘modello sociale europeo’ entro cui l’Italia è venuta a collocarsi e che è riuscito a sopravvivere nonostante il tanto temuto crollo preconizzato dalla letteratura degli anni settanta sulla ‘crisi fiscale’ degli Stati. Entro questo quadro l’alternanza fra schieramenti che mettano l’accento sull’uno più che sull’altro valore, sulla libertà o sulla solidarietà, sui diritti dell’impresa o su quelli del lavoro, sui meriti o sui bisogni persegue valori diversamente modulabili nei programmi di governo ma che possono tutti trovare pari legittimazione costituzionale. (55) Sturzo non era deputato alla Costituente ma dall’esterno « continua a tuonare contro lo statalismo » (così nel diario di G. ANDREOTTI, 1947. L’anno delle grandi svolte, Rizzoli, Milano, 2005, p. 29, annotazione del 18 gennaio). (56) Così G. REBUFFA, La costituzione impossibile, Il Mulino, Bologna, 1995. 40 Costituzione materiale e crisi della politica Mortati vedeva nei partiti i punti di riferimento per dare vita o mantenere vivo l’ordinamento costituzionale, ma la caduta delle ideologie, l’influenza pervasiva dei mass-media, la crescita delle forme di auto-organizzazione degli interessi hanno cambiato forme e modi della politica. Questo è oggi il punto di maggior sofferenza. La crisi di rappresentanza attraversata dai partiti, sempre più in difficoltà nell’esprimere interessi generali e divenuti veicoli di rappresentanza localistica o corporativa, non consente agli stessi di esercitare il ruolo auspicato da Mortati. A ciò si aggiungano le difficoltà derivanti dai processi di globalizzazione che tendono ad erodere quella cornice statuale entro cui i partiti politici hanno svolto la loro missione (57). Parlare di ‘eclissi della politica’ è eccessivo, ma già Mortati stesso intravedeva il rischio, come dice nelle pagine qui riprodotte, di una « feudalizzazione » dello Stato conseguente a una perdita di centralità della politica. Oggi non mancano, per di più, ricorrenti esplosioni di ‘antipolitica’ (ieri per effetto del qualunquismo di destra o del movimentismo di sinistra, oggi per effetto di reazioni indistinte) i cui rigurgiti – lo si è visto e lo si riscontra anche in questa lunga transizione – possono coinvolgere lo stesso quadro costituzionale e colpire i valori stessi della Costituzione (58). Non aiuta in questa direzione quella parte della dottrina che è tesa a confinare ai margini l’azione unificante della politica, ritenuta espressio- (57) E per di più con una governance ad opera di apparati tecnocratici internazionali senza government: così S. CASSESE, Universalità del diritto, Editoriale scientifica, Napoli, 2005, p. 40. (58) Un riferimento alla Costituzione « vittima dell’antipolitica » in M. DOGLIANI, Costituzione e antipolitica, in Lo Stato della democrazia, a cura di Claudio DE FIORES, Angeli, Milano, 2001 (numero speciale di Democrazia e diritto, II, 2001); un riferimento alla « costituzione silenziosa », vittima delle corporazioni, in M. CALISE, La costituzione silenziosa, cit., passim. Nella stessa direzione anche G. AZZARITI, Critica della democrazia identitaria, cit., p. 158 con un taglio tuttavia più pessimistico che pro- 41 ne di una declinante sovranità statuale, e ad esaltare un generico pluralismo ‘reticolare’ fra attori a più dimensioni, siano essi territoriali o culturali (59). Vecchie e nuove formazioni sociali, tradizionali o multiculturali, consolidate organizzazioni di interesse, molteplici livelli di governo (locali, regionali, statale, europeo), sarebbero tra loro uniti, in questa visione, soltanto dall’accordo sul metodo per negoziare. Ma è una visione discutibile perché nel (giusto) tentativo di combattere fondamentalismi e assolutismi ideologici si perdono di vista i valori su cui una costituzione è ancorata. Si alimenta così un pluralismo tautologico, ancorato a un generico politeismo di valori, lontano dalla visione ‘forte’ del pluralismo presente in Mortati, indissolubilmente legato all’‘unità politica’ di una comunità, sia sul piano territoriale che sul piano dei valori culturali. Il pluralismo, nella visione di Mortati, poggia invece su una fondamentale decisione della ‘politica’, un atto di affermazione comune delle forze politiche egemoni. La Costituzione di fronte alle nuove domande Non basta prendere atto del consolidamento dei valori costituzionali espressamente incorporati dal Costituente, poiché occorre interrogarsi sulla capacità del testo del ’48 di rispondere alle nuove domande poste dai mutamenti intervenuti in questi decenni. Le nuove domande di libertà; il pieno affer- blematico che lo porta a individuare le basi della costituzione materiale non più nei partiti ma nelle grandi imprese, nei media, nei poteri tecnici, nelle autorità comunitarie e internazionali. (59) Cfr. la dottrina citata nella nota n. 5 cui adde U. ALLEGRETTI, Il valore della Costituzione nella cultura amministrativistica, in Diritto pubblico, 2006, p. 812 ss. che tuttavia contrappone alle « reti lunghe » della mondializzazione le « reti di reti » che colleghino i poteri locali – ivi comprese le associazioni della società civile – alle dimensioni reticolari più ampie. 42 marsi della soggettività femminile; i mutamenti intervenuti nell’applicazione delle conoscenze scientifiche, nella genetica e nella biotecnologia; l’utilizzazione delle tecnologie elettroniche e l’avvento delle tecniche digitali; la crisi definitiva dell’impresa fordista; i fenomeni di globalizzazione; i processi di multiculturalizzazione sollecitano una rilettura delle norme costituzionali. Si tratta di processi in grado di innescare conflitti che possono toccare gli stessi principi costituzionali, come ci ricordano da ultimo le vicende del referendum sulla legge relativa alla fecondazione assistita o le tensioni innescate dalla proposta di riconoscimento delle unioni di fatto o di quelle omosessuali. Come affrontare tali sfide? Non mi pare che la risposta migliore possa venire da chi invoca modifiche costituzionali che andrebbero a intaccare pesantemente la prima parte della Costituzione. Già si è avuta una modifica dell’art. 51 della Costituzione per rafforzare le « pari opportunità » fra uomini e donne (legge costituzionale n. 1 del 2003), una modifica dell’art. 27 per la eliminazione della pena di morte anche in riferimento alle leggi militari di guerra (legge costituzionale n. 1 del 2007) ed altre microriforme sono in cantiere nell’una o nell’altra Camera (compreso l’uso della lingua italiana come lingua ufficiale). Talune riforme possono essere utili ma solo dopo avere tentato una lettura aggiornata della stessa Costituzione. E rifiutando comunque revisioni che contengano solo messaggi simbolici che – questi sì – possono deturpare l’edificio costituzionale (come la proposta di considerare la Repubblica fondata non sul lavoro ma « sul mercato » o « sulle libertà ») (60). A ciò si aggiunga che il risultato del referendum del 2006 sul testo di riforma costituzionale approvato dal centro-destra ha evidenziato un solido attaccamento degli elettori al testo costituzionale, vissuto come una (60) In tal senso, il progetto di legge Camera n. 2421 presentato in data 21 marzo 2007. 43 comune tavola di valori, a prescindere dal merito delle riforme proposte (perlatro rimaste in ombra). Esclusa la via delle revisioni costituzionali della parte prima, la Costituzione ormai è letta alla luce delle centinaia di sentenze della Corte costituzionale che hanno reso ‘viventi’ o integrato alcune norme della stessa, sia attraverso una messa a punto di importanti principi costituzionali sia attraverso le ‘clausole aperte’ contenute nel testo costituzionale. Vari diritti hanno fatto ingresso nell’ordinamento costituzionale, pur non previsti nel catalogo originario, dal diritto alla vita, al diritto alla privacy, all’obiezione di coscienza ad altri diritti ancora. Lo stesso Mortati, che pure molto aveva puntato sulla giurisprudenza costituzionale con molte intuizioni anticipatrici, non aveva potuto cogliere la ricchezza degli strumenti che sarebbero stati da essa elaborati, quali il bilanciamento fra principi costituzionali, il controllo di ragionevolezza, il principio di proporzionalità, il principio di leale collaborazione fra enti ed organi costituzionali. Sul punto il dibattito in letteratura è aperto. C’è chi valorizza il testo ponendosi su posizioni di « positivismo temperato » (61) o puntando più sulle regole che sui principi (62); o chi, attraverso un « movimento dal basso », valorizza il contributo dei giudici che pongono le questioni alla Corte (63), o chi invece punta alla valorizzazione della « situazione normativa » (64). E c’è anche la posizione che tende a una lettura ‘minima’ del testo, valorizzando, in alternativa alla dimensione interpreta- (61) A. PACE, Metodi interpretativi e costituzionalismo, in Quaderni costituzionali, 2001. (62) V. ANGIOLINI, Costituente e costituito nell’Italia repubblicana, Cedam, Padova, 1995. (63) A. PUGIOTTO, Sindacato di costituzionalità e “diritto vivente”. Genesi, uso implicazioni, Giuffrè, Milano, 1994. (64) … vale a dire al complesso dei materiali, normativi e fattuali, idonei a comporre la questione: A. RUGGERI - A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino, 2004, p. 125 ss. 44 tiva, la dimensione decisionista posta in essere dai giudici attraverso le tecniche di bilanciamento (65). L’attività interpretativa svolta dalla Corte è, infatti, sempre meno riconducibile alla classica ermeneutica e tende sempre più ad assumere i caratteri propri dell’attività discrezionale, meno attenta – direbbe M.S. Giannini – al momento intellettivo e più incline al momento decisionale (66). In ogni caso il contributo della Corte costituzionale alla lettura della Costituzione è divenuto talmente incisivo da porre problemi non diversi da quelli che contrappongono negli Stati Uniti i documentarians, che si richiamano al testo dei padri fondatori, e i fautori della evoluzione giurisprudenziale (67). Del resto, lo stesso Mortati aveva posto l’accento sulla necessità che le norme costituzionali siano lette non necessariamente facendo sempre e comunque riferimento alla volontà del legislatore costituente. E ciò soprattutto ove le norme della Costituzione siano formulate in termini generali « proprio al fine di renderla adattabile a situazioni nuove, lasciando aperto l’àdi- (65) R. BIN, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Giuffrè, Milano, 1992; posizioni ora riprese in Che cosa è la Costituzione, cit. Diverse invece le posizioni di A. RUGGERI, Ragionevolezza e valori attraverso il prisma della giurisprudenza costituzionale, in La ragionevolezza nel diritto, Giappichelli, Torino,1992, p. 129 ss.; nonché di S. Mangiameli, Il contributo dell’esperienza costituzionale italiana alla dommatica europea della tutela dei diritti fondamentali, in Corte costituzionale e processo costituzionale, a cura di A. PACE, Giuffrè, Milano, 2006, p. 480 ss. che tende a limitare a pochi casi le tecniche di bilanciamento. Sul punto v. A. MORRONE, Il custode della ragionevolezza, Giuffrè, Milano, 2001, p. 277 ss.; nonché il dibattito fra G.U. RESCIGNO, Interpretazione costituzionale e positivismo giuridico, in Diritto pubblico, 2005, p. 19 ss. e R. GUASTINI, Ancora sull’interpretazione costituzionale, in Diritto pubblico, 2005, p. 457 ss. (relativamente al volume di quest’ultimo, L’interpretazione dei documenti normativi, Giuffrè, Milano, 2004, passim ove si tende ad accostare l’interpretazione della Costituzione alla ordinaria interpretazione dei testi legislativi). (66) M.S. GIANNINI, L’interpretazione dell’atto amministrativo e la teoria giuridica generale dell’interpretazione, Giuffrè, Milano, 1939, p. 101 ss. (67) L. TRIBE, M.C. DORF, Leggere la Costituzione, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 63 ss. 45 to all’accoglimento di significati non previsti né prevedibili al momento della sua emanazione » (p. 155). Ma in realtà Mortati poneva un maggiore affidamento non nella Corte – sebbene non ne sottovalutasse l’apporto, che anzi voleva esteso alle omissioni del legislatore – bensì nell’azione del potere politico; contributo che la dottrina costituzionalistica odierna tende invece a svalutare o a sottovalutare, fino a teorizzare forme di « eterointegrazione non democratica » (68). Come è stato sottolineato, lo stereotipo di un legislatore sempre su posizioni più arretrate rispetto al programma costituzionale è affermazione « di evidente coloritura aristocratica … che esprime l’antico pregiudizio antiparlamentare » (69), e che è in stretta relazione con la tendenza, prima accennata, a svalutare l’azione delle forze politiche e a puntare sul circuito giudici-Corte costituzionale (spesso sfiorando il Richterstaat). Ma è uno stereotipo contraddetto dai fatti. Si pensi – ne ho già accennato prima – alla stagione dei diritti civili, alle leggi sul divorzio o sul nuovo diritto di famiglia, alle leggi sulla maternità responsabile, alle nuove norme sul trattamento delle malattie mentali o sul riconoscimento dell’obiezione di coscienza, allo statuto dei lavoratori, alle norme di procedura penale (le cui garanzie sono state arricchite, ancor più che nell’originario modello costituzionale, dal Codice varato alla fine degli anni ottanta). (68) L’espressione è di A. SPADARO, Conclusioni, in La ragionevolezza del diritto, cit., 2002, p. 420. Sull’« appello al legislatore » di Mortati v. G. AMATO, Costantino Mortati e la Costituzione italiana. Dalla costituente all’aspettativa mai appagata dell’attuazione costituzionale, in Il pensiero giuridico di Costantino Mortati, cit., p. 231 ss. La stessa Corte dopo avere respinto una questione di legittimità sulla trascrizione delle intervenute variazioni dei caratteri sessuali di una persona (sentenza n. 98 del 1979), che richiedeva una delicata opera di ‘bilanciamento’, prende atto con evidente sollievo della volontà del legislatore dichiarando (sentenza n. 161 del 1985) legittima la legge approvata qualche anno prima (legge n. 164 del 1982). (69) Così M. LUCIANI, Costituzionalismo ironico e costituzionalismo polemico, in Giur. cost., 2006, p. 1661 ss., sia pure in riferimento al costituzionalismo multilivello. 46 Lo stesso riferimento ai « lavoratori » presente in diverse parti della Costituzione – e che Mortati enfatizza – appare addirittura arretrato rispetto al modo in cui è andata avanti la legislazione sociale. Sebbene l’art. 35 si riferisca al lavoro « in tutte le sue forme ed applicazioni » il riferimento ai diritti previdenziali per i « lavoratori », contenuti nell’art. 38, secondo comma, è di chiara valenza fordista e riferito ai lavoratori subordinati. Sotto questo profilo il riferimento appare superato (melius arricchito) dalle conquiste di questo dopoguerra che hanno reso universali tali diritti, estesi anche ad artigiani, coltivatori diretti, lavoratori autonomi, dirigenti industriali e in vario modo agli stessi imprenditori. In pari modo il servizio sanitario ha assunto anch’esso, in forza di scelte del legislatore, un carattere più avanzato e le cure gratuite non sono assicurate - come recita l’art. 32 - agli « indigenti » ma sono divenute prestazioni universali estese a tutti i cittadini (70). Mentre la Costituzione, in breve, aveva presente il sistema nordamericano del medic-aid il legislatore è andato più avanti ed ha realizzato, con la riforma del 1978, quel servizio sanitario nazionale che era stato progettato da laburisti e liberali inglesi. I c.d. ‘diritti di cittadinanza’, per essere brevi, caratterizzano una lettura più avanzata del testo costituzionale. A questi risultati pensava Mortati allorché, utilizzando fra i primi l’espressione « Stato sociale », si riferiva non « ad un mero complesso burocratico di servizi e prestazioni, ma ... ad un vero e proprio processo dinamico di unità politica, basato su una economia sociale di mercato, in grado di determinare quella ‘omogeneità sociale’ su cui si reggono le costituzioni più stabili » (71). Nella lettura della Costituzione non si può (70) Così anche R. BALDUZZI, Salute (diritto alla), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. CASSESE, Giuffrè, Milano, 2006. (71) M. FIORAVANTI, Dottrina dello Stato persona e dottrina della Costituzione, cit., p. 177. 47 oggi prescindere, peraltro, dai vincoli europei, ovviamente poco presenti nel testo di Mortati, scritto a pochi anni dalla firma dei Trattati di Roma. Enfatizzare – come avviene da più parti – la non sempre piena armonia fra detti Trattati e la Costituzione – alcuni per difendere un testo costituzionale che si vorrebbe fisso nel tempo, altri per buttarlo fra i ferri vecchi – non giova a mantenere la piena legittimazione del testo costituzionale. È stato obiettato che il ‘mercato’, su cui si regge per tanta parte il processo di integrazione europea, non è espressamente considerato dal Costituente. E questo è vero, ma non può dirsi che esso sia del tutto ignorato, altro non essendo che uno dei valori posti alla base del diritto di « iniziativa economica » tutelato dall’art. 41 della Costituzione. Non si possono ritenere le politiche di aperture al mercato e alla concorrenza « estranee al quadro costituzionale » fissato nel 1948 (72). La stessa Costituzione ha previsto norme che consentono di porre l’accento ora sulla libertà dell’impresa ora sui limiti derivanti dall’‘utilità sociale’ ora sull’indirizzo della attività economica ‘a fini sociali’. Non sarà facile arrivare ad una Costituzione europea ma solo allora si potrà verificare se essa potrà essere vissuta come un arricchimento della Costituzione repubblicana ovvero come un fattore di delegittimazione della stessa. L’organizzazione costituzionale dei poteri e le riforme Mortati è ovviamente attento anche alla parte organizzativa della Costituzione. Sa che la seconda parte della Costituzione – lo dice in più occasioni – può determinare il successo o l’insuccesso della prima parte. Ma in essa - avverte Mortati - (72) Su tale posizione lo stesso T. PADOA SCHIOPPA, Il governo dell’economia, Il Mulino, Bologna, 1997. Nonché, fra gli altri, G. BOGNETTI, La Costituzione economica, Giuffrè, Milano, 1995, p. 159 ss. 48 sono presenti « antinomie » dovute al « contrasto esistente fra le forze sociali di cui il Costituente dovette prendere atto, indicando le vie per superarlo senza poterlo però eliminare ». Diverse le antinomie sottolineate. Un’antinomia fra efficienza delle istituzioni di governo e vincoli garantisti, dovuti sia alle esigenze di tutela dei diritti dei singoli sia, « in una situazione di tensione fra le classi come quella attuale », al timore che « le maggioranze detentrici del potere ne usino per rivolgerlo contro gli avversari ». Un’antinomia fra potere giuridico formale attribuito agli organi dello Stato e il « potere reale » assunto sia dai partiti politici (di cui sono espressione le crisi extraparlamentari) e sia dalle organizzazioni degli interessi (sino a determinare, mancando una adeguata assunzione di responsabilità, forme di « neofeudalesimo ») (73). Un’antinomia fra l’indispensabile decentramento regionale e l’altrettanto necessario « bisogno di una direzione unitaria », proprio dello Stato moderno. Un’antinomia, infine, fra adozione della rappresentanza politica proporzionale e processo di « razionalizzazione » della forma di governo. A quest’ultimo proposito la forma di governo appare indebolita dal contrasto, sottolinea Mortati, « fra l’estrema sinistra che l’avrebbe voluta di tipo assembleare e gli altri settori che invece propugnavano l’introduzione di un sistema di freni atti a impedire l’onnipotenza parlamentare ». Si ottenne l’intento di frenare l’onnipotenza parlamentare attraverso il rifiuto del monocameralismo (ma pagando il prezzo di un « bicameralismo perfettamente paritario »); la introduzione dell’istituto delle scioglimento delle assemblee; l’immissione del referendum abrogativo; la previsione di un giudizio di costituzionalità delle leggi; il riconoscimento al Governo sia (73) Il punto è sottolineato con forza anche in una lettera inviatami da Costantino Mortati, con data 12 aprile 1977, ora pubblicata da F. LANCHESTER, I Giuspubblicisti fra storia e politica. Personaggi e problemi nel diritto pubblico del secolo XX, Giappichelli, Torino, 1998, pp. 130-131. 49 della decretazione d’urgenza che di quella delegata (a differenza di quanto prevedeva la Costituzione della coeva IV Repubblica francese). Non mancarono – aggiunge Mortati – sia pur limitati tentativi di razionalizzazione come il conferimento al Capo dello Stato del potere di nomina del Governo o quello « dell’accettazione delle dimissioni … presentate in seguito a voto di sfiducia con la possibilità da parte sua di non accettarle e di procedere invece allo scioglimento di una o entrambe le Camere »; la previsione di modalità procedurali per evitare votazioni « avventate » di mozioni di sfiducia; la permanenza in vita del Governo in seguito a voti contrari a singole sue proposte. « Sulla disciplina dei rapporti fra Parlamento e Governo ha influito dannosamente il peso della tradizione che induceva ad assegnare a quest’ultimo il rango di ‘comitato esecutivo ’ del primo, peso aggravato dalla preoccupazione di evitare ogni ritorno a forme riecheggianti l’ordinamento fascista del governo ». Non si è riuscita ad affermare invece – sottolinea Mortati – la più moderna visione che affida al governo « il primato dell’attività politica, onde costituirlo in comitato direttivo del parlamento ». Di questo limite assemblearista sono espressione due istituti contro cui Mortati più volte tornerà. Da un lato « il mantenimento della pienezza dell’iniziativa legislativa dei membri del Parlamento nella materia finanziaria ». Dall’altro l’introduzione delle commissioni deliberanti, « del tutto ignote alle costituzioni contemporanee democratiche », che facilitano l’inflazione delle iniziative parlamentari, « rivolta a soddisfare interessi di settori o di clientela ». Ma, tiene a precisare Mortati, « se pure è vero che la Carta repubblicana è frutto di un compromesso … non è meno vero che essa non ha assunto solo il valore di patto di garanzia tra parti contrapposte rivolto a sottrarre ciascuna dal pericolo di sopraffazione per opera delle altre, poiché ha invece voluto esprimere con sufficiente chiarezza ed univocità un esigenza di rinnovamento ... poggiante su un fondo di idee comuni ai gruppi più rappresentativi dell’assemblea ». 50 Da qui, dall’analisi della debolezza del sistema di governo, la « lenta conversione al sistema maggioritario » di Mortati, che già ho avuto modo di mettere in rilievo in un saggio, scritto assieme a Stefano Ceccanti (74). Nel biennio 19461947 Mortati aveva proposto sia nella Commissione Forti che alla Costituente la costituzionalizzazione del sistema proporzionale, nel 1975, nel commento all’art. 1 della Costituzione, affermerà invece che « il regime di rigoroso proporzionalismo » svuota la sovranità popolare sottraendo alla stessa « funzioni decisorie sull’indirizzo politico » (75). Nell’ultima edizione delle Istituzioni di diritto pubblico, anch’essa del 1975, trarrà proprio dal diritto dei cittadini di concorrere alla politica nazionale, di cui all’art. 49 della Costituzione, « l’obbligo per il legislatore di predisporre sistemi elettorali non solo limitativi di un esasperato proporzionalismo, ma anche tali da agevolare la formazione, preventivamente al voto popolare, di accordi programmatici impegnativi per la futura coalizione di governo ...; accordi dai quali potrebbe derivare il duplice benefico risultato: di permettere una pronuncia da parte degli elettori sui programmi medesimi e di assicurare una loro maggiore stabilità quale può ottenersi attraverso la formazione di ‘governi di legislatura’ » (76). Nel gennaio 1973, intervenendo nel dibattito promosso dalla rivista Gli Stati, giungerà a proporre l’elezione contestuale diretta del Presidente del Consiglio e del Parlamento (77). Con queste proposte Mortati intende rimanere fedele sia alla forma di governo parlamentare sia alla sua concezione (74) A. BARBERA, S. CECCANTI, La lenta conversione maggioritaria di Costantino Mortati, in Quaderni costituzionali, 1995, p. 67 ss. (75) C. MORTATI, Commento all’art. 1, in Commentario della Costituzione italiana, a cura di G. BRANCA, cit., pp. 36-37. (76) C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, vol. I, Cedam, Padova, 1975, p. 461. (77) V. gli interventi nelle due tavole rotonde La Costituzione e la crisi e Le riforme nel sistema, in Gli Stati, 1974. 51 della sovranità popolare (non basata sull’unità indistinta del ‘popolo’ ma – precisa – articolata in partiti) (78). Fin dai lavori della seconda sottocommissione aveva contrastato il ricorso a forme di governo diverse da quella parlamentare insistendo, invece, perché venissero presi in considerazione congegni in grado di mettere i governi al riparo dall’instabilità e dalle degenerazioni assembleariste (pur insistendo anche su la previsione di forti contropoteri quali i referendum, la Corte costituzionale, le Commissioni di inchiesta su iniziativa delle minoranze) (79). Del resto, ad eccezione degli azionisti, favorevoli a un sistema presidenziale, e dei commissari comunisti, favorevoli a un governo di tipo assembleare, l’orientamento prevalente nella Costituente era stato per la forma di governo parlamentare. L’ordine del giorno Perassi, approvato nella seduta del 4 e del 5 settembre 1946, sulla scia degli orientamenti emersi nella discussione generale, aveva scelto la forma di governo parlamentare ma aveva richiesto rimedi contro le « degenerazioni del parlamentarismo » (80), vale a dire contro le forme di assemblearismo che avevano sfiancato le democrazie parlamentari del novecento (81). Ad individuare questi rimedi si era accinta la Costituente, avendo come comune punto di riferimento l’esclusione di forme assembleariste ma senza cadere nelle forme dualistiche (78) È questo che distingue la sua posizione da quella di Crisafulli, più propenso a dare rilievo alla universalità dei cittadini: così M. FIORAVANTI, Dottrina dello Stato-persona e dottrina della Costituzione, cit., p. 172. (79) Il punto è sottolineato da L. ELIA, Appunti su Mortati e le forme di governo, in Il pensiero giuridico di Costantino Mortati, cit., p. 253. (80) V. il testo in Atti dell’Assemblea Costituente, Commissione per la Costituzione, II Sottocommissione, Seduta del 4 settembre 1946, p. 917. (81) … ben conosciute nell’Italia prefascista ma di cui si avevano i primi segni nell’Italia repubblicana; proprio il 4 settembre 1946 le dimissioni del Ministro del Tesoro Corbino avevano portato al disimpegno dei liberali dal Governo: v. S. MERLINI, Il Governo, in Manuale di diritto pubblico, a cura di G. AMATO e A. BARBERA, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 187. 52 verso cui inclinavano invece Vittorio Emanuele Orlando e i liberali. Mortati aveva formulato proposte che correggevano il sistema parlamentare in senso direttoriale, almeno per il primo biennio di vita del governo; periodo durante il quale non si sarebbero potute verificare crisi di governo (82). In modo ancora più incisivo Egidio Tosato aveva previsto un Presidente del Consiglio eletto dalle Camere, sulla base di una lista predisposta dal Capo dello Stato, e che avrebbe potuto essere rimosso solo con un voto di sfiducia costruttiva votata a maggioranza assoluta (quindi con la necessaria indicazione del successore). In questa proposta era altresì previsto il ricorso anticipato alle urne nel caso di crisi extraparlamentari (83). Una proposta – come è stato sottolineato – che per molti versi anticipava la soluzione che qualche anno dopo sarebbe stata adottata nella Costituzione di Bonn. Su queste linee si era delineata un’intesa con Mortati (84). Ma la crisi politica del maggio 1947, conseguente alla rottura dell’unità antifascista e alla estromissione dei socialcomunisti dal Governo, bloccò il lavoro sul punto. Ciascuno dei due schiera- (82) Sul punto v. F. BRUNO, I giuristi alla Costituente: l’opera di Costantino Mortati, in Scelte della Costituente e cultura giuridica, a cura di U. DE SIERVO, Il Mulino, Bologna, 1980, p. 59 ss. (83) V. per una prima formulazione della proposta Atti dell’Assemblea Costituente, Commissione per la Costituzione, II Sottocommissione, Seduta del 5 settembre 1946, pp. 934-936 (lo stesso TOSATO definisce la propria proposta – p. 935 – ispirata a « una specie di contaminazione del governo presidenziale con il governo parlamentare »). Sulla posizione di Tosato in ordine alla forma di governo e sulle radici culturali di essa, dovute alla conoscenza delle vicende di Weimar, v. F. LANCHESTER, Tosato e i comunisti alla Costituente, ora in Momenti e figure del diritto costituzionale in Italia e Germania, Giuffrè, Milano, 1994, p. 125 ss. nonché F. BRUNO, Il problema del Governo alla Costituente: il contributo di Egidio Tosato, in Il Politico, 1981, p. 130 ss. (84) G. AMATO, F. BRUNO, La forma di governo italiana. Dalle idee dei partiti all’Assemblea Costituente, in Quaderni costituzionali, 1981, p. 67. In particolare si era raggiunta l’intesa sulla previsione di una maggioranza assoluta per la approvazione della mozione di sfiducia che avrebbe dovuto essere approvata non dalla Camera dei deputati ma dall’Assemblea nazionale. Mortati aveva presentato un emendamento in tale 53 menti temerà ancora di più il ‘18 aprile’ dell’altro, il riemergere dell’‘ombra del tiranno’. A causa del raggelamento della situazione politica e della difficoltà di dare origine a maggioranze ampie, Mortati sarà indotto nell’ottobre 1947 a prendere le distanze dalle proposte di Tosato e a mettere da parte la propensione allo scioglimento delle Camere per decisione del Governo, definito « di tipo inglese » (peraltro accolto con molte cautele dalla Costituzione francese del 1946) che non aveva escluso nel gennaio 1947 (85). Significative al riguardo le inedite convergenze fra la posizione assemblearista dei comunisti (negli interventi di Terracini, La Rocca, Greco, Spano) e quella vetero-parlamentare dei liberali (negli interventi di Einaudi, Colitto, Corbino), che non volevano toccare la forma di governo riponendo le loro aspettative nella introduzione del collegio uninominale (86). In quella occasione Mortati mostra di essere cosciente che non era allora possibile superare la polarizzazione ideologica ma ha fiducia che il progressivo rafforzamento delle istituzioni democra- direzione mentre Tosato aveva presentato un subemendamento riconoscendo detta facoltà a ciascuna delle due Camere: v. Commissione per la Costituzione, II Sottocommissione, I sez., Seduta antimeridiana del 10 gennaio 1947, vol. VIII (a p. 1817 per la proposta Mortati e a p. 1820 per la proposta Tosato). (85) … questa la motivazione ricostruita da G. AMATO e F. BRUNO, La forma di governo italiana, cit., p. 68 nonché da F. BRUNO, I giuristi alla Costituente, cit., p. 143 (l’intervento di MORTATI è in Atti dell’Assemblea Costituente, Seduta antimeridiana del 24 ottobre 1947, vol. IV, p. 3521 e ss. ove si fa esplicito riferimento alla necessità di avere maggioranze più compatte ed omogenee ancorché su base parlamentare ristretta). Sullo scioglimento « di tipo inglese » v. Atti dell’Assemblea costituente, II Sottocommissione, I. Sez., seduta pomeridiana del 13 gennaio 1947, vol. VIII, pp. 1854-1855 (ma già nella seduta pomeridiana del 7 gennaio 1947, Atti, cit., p. 1787 ed ivi la replica del Relatore La Rocca contrario ad un « esecutivo che si vuol sovrapporre al legislativo »). (86) Tali convergenze sono sottolineate da F. BRUNO, op. cit., p. 136. Per la posizione di Einaudi (ma che riflette posizioni più estese del gruppo liberale) v. Atti dell’Assemblea Costituente, Commissione per la Costituzione, II Sottocommissione, Seduta del 13 settembre 1946, vol. VII, p. 997. 54 tiche e soprattutto la salda tenuta dei principi costituzionali avrebbero potuto consentire più audaci riforme. Ad indebolire ancor più la figura del primo ministro concorrerà negli anni successivi la struttura correntizia del partito di maggioranza relativa. Nella prassi si affermerà la figura del ‘conferimento dell’incarico’ che porterà alla nomina del Presidente del Consiglio solo contestualmente alla scelta dei ministri, e non anteriormente, come invece adombrato dai Costituenti. La mancata dissociazione fra nomina del Presidente del Consiglio e atto di nomina dei ministri indebolirà la figura del Presidente sia rispetto al Capo dello Stato sia rispetto ai partiti politici (e alle correnti degli stessi). Il ricorso ai governi di coalizione porterà inoltre alla prassi di escludere la possibilità di revoca dei ministri da parte del Presidente del Consiglio sostenuta a più riprese da Mortati (87). Per quarant’anni sarà ritardata la approvazione della legge sull’ordinamento della Presidenza del Consiglio, ritenuta veicolo di possibile rafforzamento della corrente che avrebbe espresso il Presidente del Consiglio. La pagina dei rimedi alle degenerazioni del parlamentarismo rimase dunque aperta. E aperte rimasero altre due pagine. Quella relativa all’assetto delle regioni e delle autonomie locali in cui si scontrarono le posizioni autonomiste dei cattolici democratici e le posizioni delle sinistre restie a indebolire i poteri di pianificazione dello Stato centrale. E l’assetto del Parlamento, la cui ibrida configurazione lasciò insoddisfatte sia le sinistre, che erano su posizioni monocameraliste, sia i democristiani, fermi alla difesa di un bicameralismo che consentisse la presenza delle comunità regionali nella seconda Camera. Come anni dopo ci confermerà la testimonianza di Dossetti il bicameralismo ripetitivo e paritario LINI, (87) Sul punto, in riferimento a un tentativo operato da Spadolini, S. MERIl Governo, loc. cit., p. 208. 55 rappresentò una assicurazione reciproca per i due schieramenti (88). Invece di chiudere le pagine lasciate aperte dal Costituente le forze politiche hanno avuto la pretesa di affrontare problemi di riforma del sistema politico, quale manifestatisi dalla fine degli anni settanta in poi, ricorrendo a riforme tese a mettere in discussione in più parti il testo costituzionale (89). Il mito della ‘grande riforma’ ha contribuito a sviare l’attenzione dalle riforme effettivamente necessarie, quali una seria legge elettorale, la riforma dei regolamenti parlamentari, la legge sui partiti e sul loro finanziamento, la revisione del bicameralismo, la riforma della pubbliche amministrazioni centrali e locali (90). Ad esso si è aggiunto il tentativo di utilizzare le riforme costituzionali al solo fine di catturare consenso elettorale, fino a giungere alla cicatrice inferta alla Costituzione dalla riforma ‘federalista’ del 2001. Scriverà Mortati nel 1973 su Gli Stati che una adeguata lettura della nostra Costituzione « esige che si distingua la parte che si potrebbe chiamare sostanziale, rivolta com’è a disciplinare i rapporti dei cittadini fra loro e con lo Stato, dall’altra dedicata alla organizzazione dei poteri, ai modi di esercizio dell’autorità … Non mi pare contestabile che essa, nella formulazione dei principi racchiusi nella prima parte, sia riuscita particolarmente felice, tale da porla a un rilievo superiore a quello delle altre costituzioni emanate nello stesso periodo » ma, prosegue Mortati, « per quanto riguarda (88) V. A colloquio con Dossetti e Lazzati, intervista a cura di L. ELIA e P. SCOPIl Mulino, Bologna, 2003, pp. 64-65. (89) Sul punto sia consentito rinviare al mio Le riforme come pretesto, in Quaderni costituzionali, 2006, p. 759 ss. (90) Contrario a riforme costituzionali tese a incidere sul sistema politico V. ONIDA, Il mito delle riforme costituzionali, in Il Mulino, n. 1/2004, p. 15 ss. (cui risponde in modo critico M. CAMMELLI, Le riforme costituzionali un mito necessario, loc. ult. cit., p. 30 e in modo ancora più deciso P. POMBENI, Ma le riforme costituzionali sono davvero un mito?, in www.forumcostituzionale.it ). POLA, 56 la parte organizzativa », tutti i congegni pensati per stabilire l’efficacia e la stabilità dei governi sono risultati scarsamente operanti, « a causa della struttura partitica ». Per Mortati difendere la Costituzione non significa arretrare di fronte alle sue possibili revisioni – che egli stesso non mancherà di suggerire – ma solo valutare la loro compatibilità con i principi di fondo su cui essa si regge (91). Ne esce confermata – io credo – la esigenza di tenere distinta la prima parte della Costituzione, tuttora attuale ed anzi rinsaldatasi ancor più, dalla seconda parte, relativa alla organizzazione dei poteri pubblici, che ha invece bisogno di chiudere le pagine lasciate aperte dalla Costituente. Lo stesso Mortati ci dice quanto sia problematica la distinzione fra prima e seconda parte della Costituzione, fra principi e regole organizzative, ma la distinzione va mantenuta e perseguita. La non risolta contrapposizione fra chi ritiene – e Mortati fra questi – che il testo costituzionale sia stato il frutto di una felice scelta ‘compromissoria’ della Costituente e chi invece ritiene che essa sia stato il frutto della sovrapposizione di posizioni ideali fra loro non conciliabili perde dunque di rilievo se si guarda al ‘dopo’, al cammino della Costituzione, al progressivo radicamento dei valori costituzionali. Sotto questo profilo la Costituente è stata – in riferimento ai principi – « presbite » (92). Il che non significa, ovviamente, che non abbiano pesato distorsioni e corruttele e che tutti i principi e valori incorporati nella Costituzione abbiano trovato piena attuazione e definitivo equilibrio. Che la Costituzione sia percepita come una tavola di valori non tutti pienamente (91) Peraltro non mancano aggiustamenti ed arricchimenti (e talvolta torsioni) posti in essere dalla Corte costituzionale in relazione alla forma di governo (dalla legittimazione della sfiducia individuale al ridimensionamento dell’insindacabilità parlamentare). (92) L’espressione è di E. CHELI, ora in Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, cit., p. 61. Il che non toglie che invece la Costituente sia stata invece ‘miope’ in altre parti, in cui ha peraltro operato con gli occhi rivolti all’indietro. 57 realizzati e da promuovere ulteriormente, secondo l’impegno del secondo comma dell’art. 3, può anzi ulteriormente legittimarla e consolidarla. Come scriverà Mortati nella prefazione al primo dei volumetti di questa stessa collana dedicato alla riedizione della Costituzione italiana nel 1972: « Se è vero che principi ed istituti valgono non già in virtù di un meccanico automatismo in essi riposto bensì per le energie che sanno suscitare e li fanno muovere, il dubbio dovrebbe essere superato, apparendo evidente l’efficacia animatrice che le proclamazioni istituzionali vanno via via assumendo, attraverso un processo di lenta maturazione nella coscienza popolare » (93). (93) V. Costituzione della Repubblica italiana, Giuffrè, Milano, 1972, edizione fuori commercio. 58 “ Nessuno è uomo dabbene, se non è lealmente e religiosamente osservatore delle leggi ” (art. 5 Costituzione cisalpina, 1797) Costantino Mortati La costituzione in generale in Enciclopedia del Diritto, XI, Milano, 1962, pp. 139-233 La costituzione in generale di Costantino Mortati Il problema dell’origine e del fondamento della costituzione Concetto generale di ‘costituzione’. - La parola ‘costituzione’ (dal latino constitutio, da constituere) nel suo significato più generico, valido per ogni ramo di conoscenza che si rivolga ad indagare l’intima e più propria essenza di un’entità, vuole designare quel carattere, o quell’insieme di caratteri, ritenuti necessari ad individuare ognuna di tali entità, differenziandola dalle altre, e pertanto destinati ad accompagnarla in tutto il suo ciclo di vita. Si parla così di costituzione della materia, di costituzione delle specie o dei singoli individui che entrano a comporle, sempre per designare le qualità, elementi o parti che, esprimendone la natura sostanziale e condizionandone il modo di essere, rimangono costanti nel tempo, suscettibili di variazioni solo quantitative, necessariamente contenute entro un margine, al di là del quale verrebbe meno la stessa identità del soggetto cui si riferiscono. Considerata, così, la costituzione di un corpo come il principio d’ordine in esso immanente, devono considerarsi suoi attributi necessari: a) la priorità (logica, non già temporale, dato che il corpo comincia ad esistere nel momento stesso in cui il principio diviene operante) rispetto alle singole parti o alle singole manifestazioni di vita; b) la preminenza, quale discende dalla funzione condizionante le concrete estrinsecazioni della sua attività; c) la permanenza nel tempo, 61 dato che alla medesima è legata la nascita e l’estinzione del corpo medesimo. Il concetto ora delineato riflette esigenze intrinseche all’ordine universale, e perciò trova applicazione sia nel mondo della natura sia in quello degli aggregati umani che vengono a formarsi per la soddisfazione di bisogni collettivi. Ogni struttura organizzativa desume il suo ordine primo da un centro unificante e motore, da una costituzione, conforme al tipo di ente sociale cui essa corrisponde, con la funzione della stabilizzazione dei singoli rapporti che si svolgono in esso. L’indole dello spirito umano, sottratto alla legge della causalità meccanica perché capace di autodeterminazione, non opera su tale funzione bensì sul modo del suo concreto operare, nonché sul procedimento necessario ad assumerne una conoscenza riflessa. A differenza dell’ordine naturale quello umano non è dato ma costruito, sicché la sua esistenza è condizionata al sorgere di un elemento capace di far valere, al di sopra delle volontà oscillanti e mutevoli dei singoli associati, l’esigenza della costanza dei comportamenti necessari a mantenere unito il gruppo, per quel tanto che occorre alla soddisfazione dei bisogni comuni. L’elemento cui si accenna, pur estremamente vario nelle sue concrete manifestazioni, presenta sempre un medesimo carattere, qualificabile con il termine « autorità », inteso quale entità la quale, anche se non si concreta in un soggetto distinto dai consociati, ed opera quale mera energia spirituale, è tuttavia considerata da essi così efficiente da riuscire a far valere e rendere costanti nel tempo i fini o i valori ritenuti fondamentali per la consociazione. Sicché nella fedeltà a questi il gruppo trova la propria unità e stabilità, e diviene società giuridicamente ordinata. Particolare rilievo per lo studio della Costituzione assumono quelli fra gli enti sociali i quali hanno carattere ‘originario’ (per il fatto che traggono vita da una volontà ad essi non estranea, bensì in loro compenetrata, promanante dalle stesse forze che operano nel loro interno), ed in particolare quelli che si dicono ‘politici’, per significarne la specifica finalità rivolta alla soddisfazione non già di uno o dell’altro dei vari bisogni dei 62 consociati, bensì di quello che tutti li precede condizionandone il conseguimento, e che consiste nell’assicurare i presupposti necessari affinché le varie attività promosse dai bisogni stessi possano svolgersi in modo ordinato e pacifico. Il più importante di tali enti originari a fini generali è quello che, con termine moderno, si chiama ‘Stato’, ed è con riferimento ad esso che qui sarà studiato il problema della costituzione. La costituzione dello Stato. Il concetto di costituzione nella sua prospettiva storica. - L’indagine rivolta alla costituzione dello Stato dal punto di vista strettamente giuridico è fenomeno relativamente recente. Può essere rilevata una certa coincidenza (sia pure intesa in senso approssimativo) fra il polarizzarsi dell’attenzione della scienza del diritto su tale fenomeno e l’uso di consacrare per iscritto, raccolti in un documento cui si conferisce particolare solennità, i princìpi fondamentali intorno a cui si raccoglie un determinato ordine statuale positivo, e correlativamente il diffondersi dell’impiego del vocabolo « costituzione » per designare l’atto che raccoglie tali princìpi (1). Tralasciamo qui l’esame particolare dello svolgimento avuto nel tempo del nome e dell’idea di costituzione. I cenni che seguono hanno lo scopo più specifico di cogliere alla loro stessa origine, gli aspetti problematici che l’idea presenta, di mostrare la persistenza dei motivi che stanno alla base delle diversità del modo di intenderla. (1) Per l’evoluzione storica del concetto moderno di ‘costituzione’ cfr. JELG., Allgemeine Staatslehre, IV, Berlin, 1920, 505, 531; ZWEIG, Die Lehre vom « pouvoir constituant », Tübingen, 1909, 6 ss.; SCHMIDT R., Die Vorgeschichte der geschriebenen Verfassungen, in Festgabe für O. Mayer, Leipzig, 1916, 29 ss.; MC ILWAIN C. H., Constitutionalism Ancient and Modern, New-York, 1947; CROSA, Il concetto di costituzione nell’antichità classica e la sua modernità, in Studi di diritto costituzionale in memoria di Luigi Rossi, Milano, 1952, 99 ss. Per l’evoluzione in Inghilterra ESMEIN A., Les constitutions du protectorat de Cromwell, Parigi, 1900, 4 ss.; ROTHSCHILD W., Der Gedanke der geschriebenen Verfassung in der englischen Revolution, Tübingen u. Leipzig, 1903. LINEK 63 Il primitivo uso del termine fu limitato a designare non già il principio primo dell’ordinamento, bensì quelle fra le norme giuridiche cui si attribuiva una posizione in qualche modo più elevata di altre: il che si verificò specialmente quando, con il concentrarsi del potere supremo nelle mani di un solo organo, si avvertì il bisogno di differenziarne le varie manifestazioni di volontà normativa attribuendo loro una distinta denominazione. Anche le norme primarie cui detto nome si soleva riferire avevano carattere derivato, perché non creavano ma presupponevano un anteriore organo costituzionale. Questo può dirsi per le constitutiones, designanti a Roma le manifestazioni di volontà normativa di grado più elevato dell’autorità imperiale (2), nonché le ‘costituzioni’ pontificie o quelle sinodali nel diritto della Chiesa. L’uso di un termine speciale per designare il totale assetto dello Stato si ritrova invece nella speculazione politica dell’antichità classica. In Aristotele πολιτεια è contrapposta a πóλιs, non come norma che dà validità alle leggi, ma come ordine complessivo dei νóμoι, l’integrale sua realtà quale risulta dall’insieme degli elementi che entrano a comporlo, e quindi della globale struttura sociale ed economica oltre che di quella del governo, di un ordine naturale al quale si devono adeguare le leggi (3). Corrispondente al pensiero aristotelico della forma come essenza delle cose era la concezione dell’ordine politico come essenza dello Stato, assunto a criterio per la sua identificazione, tale da doversi desumere dall’intero sistema di vita, ed al cui mantenimento si considera collegata la stessa conservazione dello Stato. Il pensiero politico romano, quale si manifesta sotto l’influenza dello stoicismo in Cicerone, si distacca sostanzialmente da quello (2) Una terminologia in certo modo analoga a quella moderna di potere costituente, può ritrovarsi nella potestas rei publicae constituendae affidata dal popolo ai triumviri e che dette vita all’ordinamento imperiale. (3) Cfr. ARISTOTELE, Politica, IV (trad. it., Torino, 1955), 174. 64 tradizionale greco (4). Se anche la raffigurazione ciceroniana della civitas come constitutio populi, si richiama all’assetto politico della consociazione, il suo elemento caratteristico sta nella posizione che in tale constitutio assume il popolo, come fonte del potere, sicché la res publica, nome assunto a designare l’organizzazione giuridica statale, appare sinonimo di res populi (5). È appunto al pensiero stoico, trasmesso attraverso l’opera di Cicerone, che si ricollegano le successive correnti del pensiero medioevale, dei Padri della Chiesa prima e poi di quello giusnaturalista, le quali pongono a base dello Stato il vincolo associativo che germina spontaneamente nella coscienza dei singoli, contrapponendosi così a quelle altre che si facevano sostenitrici delle strutture autocratiche. La prassi di questo periodo che succede al tramonto del mondo antico continua ad ignorare il nome di « costituzione » quale complessivo ordine politico, che viene invece designato di solito con il termine status reipublicae, in un significato però più vicino a quello aristotelico di πολιτεια. In questo stesso senso una parte della dottrina medioevale (Marsilio, Patrizi) parla di constitutio promiscuamente con institutio, o fundamentum reipublicae. Per indicare la funzione più specifica di legge suprema limitativa del potere regio si comincia ad adoperare (dai monarcomachi francesi) l’espressione lex fundamentalis, che si ricollega alla distinzione introdotta in Francia nel XVI sec. fra le lois du royaume e le lois du roi, la cui garanzia veniva ritrovata in consuetudini immemorabili che sottraevano determi- (4) È da notare che il principio del collegamento dell’ordine fondamentale dello Stato con la volontà popolare non manca neanche in Aristotele, come risulta dalla sua teoria delle forme di governo e delle loro correlative degenerazioni, svolte nei libri IV, V e VI di Politica. Cfr. su questo punto CROSA, op. cit., 105. (5) Cfr. LOMBARDI, Su alcuni concetti del diritto pubblico romano: civitas, populus, res publica, status rei publicae, in Arch. giur., 1941, 192 ss. 65 nate materie (il dominium politicum, contrapposto al dominium regale) ad ogni disciplina unilaterale. Già nel periodo feudale si era fatto richiamo ad una lex terrae, che però esprimeva in sostanza l’originaria parità di posizione fra il sovrano ed i signori, da cui derivava l’esigenza di una base consensuale per i loro rapporti, sicché anche le garanzie dei diritti concesse da atti del sovrano emanati ‘di nostra propria e buona volontà’, si presentavano accompagnate da controprestazioni di chi ne beneficiava. La formazione di nuovi centri di autorità, che invocano l’autonomia e così accentuano il pluralismo caratteristico della società feudale, conduce ad una moltiplicazione di patti, lettere patenti, carte di franchigia rivolte a definire lo status di singoli gruppi, o particolari aspetti dei rapporti fra i gruppi medesimi ed il principe, e delimitano pertanto indirettamente l’àmbito di azione consentito a quest’ultimo. I documenti che li consacrano vengono custoditi con speciale cura, in ragione della funzione di garanzia loro attribuita: funzione che, però, riesce adempiuta in concreto solo quando si riescono a stabilizzare i rapporti sociali che sottostanno ai patti. Le Carte di questo tipo, divenute celebri perché sono le sole riuscite a sopravvivere ai sempre rinnovati attacchi dell’assolutismo, sono quelle inglesi: dalla Carta delle libertà di Enrico I del 1110 alla Magna Charta di Enrico III del 1225, allo Statuto de tallagio non concedendo del 1297 (6). Questi documenti, per il loro carattere frazionario e particolaristico, non realizzano ancora la figura propria della costituzione scritta. È il risveglio della coscienza del valore della persona, che trae la sua origine dal diffondersi dell’idea cristiana e si esprime nel rigoglio assunto dalle dottrine giusnaturalistiche, che conduce a ricercare la fonte più remota del (6) Vedile nella raccolta Le Carte dei diritti2, Firenze, 1946. 66 patto di governo, un criterio, cioè, di legittimazione del potere di carattere non più storico-pragmatico ma razionale e universale: non più contratto di assoggettamento fra governanti e governati, ma contratto di società fra i singoli che convengono di vivere in comune. Sono, da una parte, i canonisti, interessati a limitare il potere dell’autorità politica, che si richiamano al pensiero agostiniano dell’omnis potestas a Deo per populum, dall’altra le correnti riformatrici che ricercano il fondamento del vincolo che sottomette i singoli all’autorità nella loro stessa volontà la quale liberamente trasferisce l’esercizio del potere al sovrano. Lo sforzo delle tendenze assolutistiche di conferire al contratto costitutivo della società significato di alienazione definitiva del potere spettante ad ogni contraente appariva privo di ogni fondamento razionale, e pertanto doveva cedere alle altre che rivendicano ai singoli la potestà, positiva, costituente e quella, negativa, di resistenza alla oppressione. Nel pensiero politico più maturo (soprattutto in Altusio), meno permeato degli intenti politici che avevano alimentata l’ideologia del contratto sociale, questa perde il primitivo aspetto individualistico, ed appare come esteriorizzazione dell’unità organica del popolo raccolto in una consociazione politica, unità che conferisce il principio di legittimità al potere sorto per realizzarne i fini fondamentali. È questa concezione che apre la via all’idea moderna di costituzione, come espressione di un potere costituente che fonda l’ordinamento e ne dirige e sostiene la funzione limitatrice ed unificante. In contrapposto alle costituzioni consuetudinarie basate sulla tradizione e considerate espressione di una realtà quasi naturale, cui quindi ripugnava lo scritto, si fa valere un’esigenza volontarista e razionalista che conduce a derivare la costituzione dall’intervento creativo dell’uomo. Gli antichi documenti scritti, aventi ad oggetto la disciplina di singoli rapporti, cedono il posto a quelli che si propongono di fissare i princìpi fondamentali capaci di dare unità al sistema della vita associata, di farne risultare, mediante la stessa solennità della consacrazione formale, la loro supremazia ri67 spetto ai poteri che da essa derivano, di offrire la prova e rafforzare le garanzie degli impegni da essi risultanti, a salvaguardia delle libertà, sostituendo al governo degli uomini il governo della legge. In realtà tale mutamento è il risultato dell’emersione di nuove forze sociali che si sostituiscono nella posizione dominante occupata da quelle tradizionali, e che assegnano alla costituzione scritta, insieme ad una funzione polemica di negazione del passato, l’altra di definire il nuovo ordine, stabilizzandone le strutture destinate ad assicurarlo. Ed è degno di nota come i regimi tradizionali, allorché riemergono dall’ondata rivoluzionaria che li aveva sommersi, avvertono una analoga esigenza, e consacrano in solenni dichiarazioni di principio la fonte dell’autorità che li caratterizzava (v. il Preambolo della Carta francese del 4 giugno 1814, dovuto al Beugnot). Il nome con cui si usa designare i documenti in parola non è ancora quello di costituzione ma l’altro più tradizionale di lex fundamentalis, nel quale si trova una precisa esplicazione della sua funzione. L’impiego del termine « costituzione » (estraneo alla prassi inglese, com’è comprovato dal fatto che ad esso non si è fatto ricorso anche quando con l’Instrument of Government che Cromwell emise nel 1653 si ebbe il primo esempio di costituzione scritta in senso moderno, e non smentita dall’uso che se ne fece per designare l’imputazione fatta valere contro Giacomo II, perché la ‘costituzione del regno’ che si assumeva violata da costui indicava qualcosa di diverso da un corpo organico di norme), si trova per la prima volta in alcuni degli atti nei quali venne consacrata la volontà autonomistica delle colonie nord-americane, e che comprendono princìpi di carattere organizzativo, sia pure generalissimi, ed altri relativi ai diritti dei cittadini (più tipica in questo senso la costituzione del Connecticut del 1776). Più frequente appare però l’uso di distinguere ‘dichiarazioni di diritti’ e ‘costituzione’, considerando specifico delle prime la determinazione della posizione dei cittadini, i cui diritti vengono solo ‘dichiarati’, perché considerati preesistenti e ricavati dalla natura, o anche di alcuni princìpi di organizzazione 68 (come la separazione dei poteri), nei quali appare più accentuata la funzione della garanzia dei diritti; mentre propria della seconda è la disciplina della parte fondamentale dell’organizzazione. Così l’ordinamento della Pennsylvania risulta dalla costituzione e dalla dichiarazione dei diritti; e nello stesso senso si è regolato il primo costituente francese (1791), che però ha preposto alla costituzione la Dichiarazione dei diritti ch’era stata votata due anni prima. Il fatto che le due parti non siano riunite nello stesso testo, lungi dall’esprimere l’opinione della mancanza di una loro connessione, deriva dal proposito di conferire alle dichiarazioni dei diritti, concepiti nel senso prima ricordato, un rango superiore alle norme organizzative, di valore strumentale rispetto alle prime (7). Elementi costitutivi del concetto di costituzione. - La denominazione di ‘costituzione’, quale risulta al termine dell’evoluzione storica cui si è accennato, appare contrassegnata da tre caratteri che concorrono nel conferirle la supremazia che essa vuole esprimere: il primo, relativo al momento formativo, alla cui perfezione appare essenziale la partecipazione del popolo, configurato non già nella veste di parte di un rapporto avente quale altro termine il sovrano, bensì quale titolare unico del potere di dar vita, con atto unilaterale, all’ordine costituzionale perché fornito di una potestà di volere sopraordinata su ogni altra; il secondo, di carattere formale, consistente nella redazione per iscritto, attraverso un procedimento particolarmente solenne, di un complesso di norme, coordinate fra loro in modo organico, regolanti i princìpi ritenuti essenziali all’assetto statale; l’ultimo attinente al fine politico della tutela delle libertà dei cittadini di fronte allo Stato. (7) Cfr. GALY, La notion de constitution dans les projets du 1793 (Thèse), Paris, 1932. Fu messo in rilievo nella Convenzione come la Dichiarazione dei diritti serva di base alla costituzione, nel senso che ne determina la funzione di garanzia. 69 In sostanza la funzione di tali costituzioni fu di realizzare un nesso fra le strutture organizzative ed il fine politico generale proprio dell’ideologia liberale, fra la libertà dallo Stato e la libertà nello Stato, vedendosi in quest’ultima il mezzo necessario per garantire l’altra, e rivolta a significare non solo la partecipazione dei cittadini alla gestione statale ma altresì una distribuzione del potere autoritario tale da corrispondere al fine della garanzia dei diritti nei confronti del medesimo. Senza diffondersi oltre sui fattori che hanno promosso e contribuito ad estendere il fenomeno delle costituzioni scritte, basterà riaffermare la coessenzialità al costituzionalismo di un principio, almeno idealmente ed in potenza democratico, anche se in realtà esso, al suo sorgere e successivamente per lunghissimi periodi di tempo, è stato il prodotto e l’espressione di oligarchie, ed ha dato vita ad assetti su base aristocratica. Una riprova di tale connessione si può desumere dalla constatazione della diversità delle denominazioni (di Carte, di Statuti, o, per quelli che intendevano porre in rilievo il carattere bilaterale della loro formazione, di patti) date alle costituzioni di origine non popolare, proprio allo scopo di differenziarle dalle altre. Con la scomparsa delle situazioni di dominio dinastico sono venute ad eliminarsi le vecchie denominazioni, sicché il nome di ‘costituzione’, nel significato suo specifico, è divenuto generale (8). (8) In tal modo, si identifica nella costituzione così intesa il tipo di formazione dal basso dell'ordine statale: ciò che per il KANT doveva considerarsi la pietra di paragone della giuridicità della costituzione. V. sul punto ROMANO Santi, Le prime carte costituzionali, in Scritti minori, I, Milano, 1950, 265. Deroghe all'uso del nome sono da attribuire a finalità politiche contingenti come nel caso della Germania occidentale che ha sostituito al nome di Verfassung quello di Grundgesetz per significare il carattere di provvisorietà che si è inteso dare a questa. Secondo ESMEIN, (Éléments de droit constitutionnel français et comparé, I, Parigi, 1927, 604) tre fattori conducono alla redazione in iscritto della costituzione, e cioè: la superiorità della legge scritta sulla consuetudine, il significato di rinnovazione del contratto sociale che il testo scritto riveste, la funzione che questo ha di mezzo di educazione civile e di conoscenza delle istituzioni. 70 I vari significati attribuibili alla costituzione. - Il fenomeno delle costituzioni scritte ha condotto a distinguere un concetto di costituzione « assoluto », o per meglio dire sostanziale o anche materiale (per designare il principio di ordine fondamentale insito in ogni specie di Stato, quali che ne siano il contenuto ed i modi di esplicazione), da uno relativo, storicamente condizionato e caratterizzato da contrassegni specifici. Si parla di « costituzione in senso formale » per indicare appunto un complesso di norme differenziate dalle altre per via di contrassegni esteriori, e formanti altresì un tutto unitario, indipendentemente dal loro contenuto. È quest’ultimo elemento, della codificazione in un solo testo delle disposizioni cui si attribuisce rilievo preminente, che si fa valere per affermare l’esistenza di una costituzione. Si dice così, per esempio, che l’Inghilterra non ha una costituzione, e ciò nonostante l’esistenza di documenti che contengono i princìpi fondamentali dell’ordinamento politico dello Stato (9), perché essi non disciplinano interamente la struttura organizzativa ma rinviano alle norme consuetudinarie che ne regolano molte altre parti, mentre le libertà fondamentali risultano da una serie di documenti distinti, già in parte ricordati in precedenza. Si considera tuttavia esistente una costituzione formale anche quando (come è avvenuto in Francia nel 1875) le Sull’ulteriore diffondersi del costituzionalismo nel secondo dopoguerra che ha visto più di 50 nuove costituzioni e sui fattori che ciò hanno promosso: cfr. LÖWENSTEIN K., Verfassungsrecht und Verfassungsrealität, in Arch. öff. Rechts, 1951, 387 ss. (9) Il documento tipico, sotto quest'aspetto, è il ‘Bill dei diritti’ del 1689, nel quale, a conclusione della seconda rivoluzione, il Parlamento, rivendicata a sé la spettanza del potere costituente, ebbe a determinare l’ordine della successione al trono dei nuovi sovrani che esso dichiarava legittimamente investiti del potere, e dopo aver richiamato i princìpi fondamentali regolativi dei rapporti fra Stato e cittadini, affermava di volerli consacrare, insieme alle decisioni prese sull’organizzazione dello Stato, in un documento solenne affinché « siano e restino in perpetuo leggi di questo Regno ». 71 norme costituzionali non siano consacrate in unico documento, se esse, pur emesse in tempi diversi, si integrano a vicenda formando un insieme organico (10). Poiché la funzione propria della costituzione, da cui trae la sua preminenza, è di condizionare la validità delle varie attività dello Stato, si ritiene che l’elemento meglio idoneo a renderla effettivamente operante sia di richiedere per ogni sua modifica l’esperimento di procedure diverse da quelle prescritte per la formazione delle leggi ordinarie. Sotto questo riguardo le costituzioni in senso formale si suddistinguono in costituzioni flessibili e rigide; con possibilità di ulteriori sottodistinzioni nell’àmbito di quest’ultime, secondo che la costituzione sottragga alcune delle sue norme ad ogni revisione, o richieda per la loro modifica procedure superaggravate (11). Secondo un punto di vista diverso da quello prima considerato viene dato alla figura della costituzione formale un significato ampio che prescinde dalla rigidezza o flessibilità e prende in considerazione la funzione che sempre le norme comprese nella carta fondamentale adempiono di condizionare la validità degli atti derivati (12). Ad un analogo orienta- (10) Per comprendere quanto sia relativo il modo di intendere il concetto di costituzione scritta, si può ricordare come il MOUSKHELY, La notion soviétique de constitution, in Rev. fr. dr. publ., 1955, 895, esclude che in esso sia da far rientrare la costituzione russa. (11) Secondo una terminologia, diversa da quella riferita (che è dovuta al DICEY, Introduction a l’étude du droit constitutionnel, Parigi, 1902, 82 e al BRYCE, La Repubblica americana, I, Torino, 1916, 54), e che è stata proposta dal DONATI (Costituzione, in Enciclopedia italiana, XI, Roma, 1938, 653), costituzione ‘in senso formale’ dovrebbe designare quella la cui modifica richiede forme speciali, mentre la consacrazione in apposito documento dovrebbe venire espressa con il termine ‘costituzione strumentale’. Invece secondo il Mokre la denominazione di costituzione formale deve ritenersi applicabile anche quando non siano previsti aggravamenti di procedura per la modifica, e ciò perché le norme in essa comprese hanno sempre funzione condizionante il procedimento di formazione di atti di grado inferiore; cfr. Zum Begriffe der Verfassung im materiellen u. in formellen Sinn, in Arch. öff. Rechts, 1932, 238. (12) V. in questo senso MOKRE, loco cit. 72 mento, che potrebbe chiamarsi formale-sostanziale, si ispirano coloro che utilizzano la distinzione tra forma e sostanza per mettere in rilievo l’esistenza in ogni documento costituzionale di un contenuto tipico che lo caratterizza e ne esprime l’essenza, sicché non sarebbe possibile non includerlo nel medesimo, e di un altro meramente accidentale, che può mancare o essere mutato senza che ciò eserciti influenza sulla restante parte. Quando si tenga presente il rilievo per ultimo formulato, si è condotti ad attribuire alla distinzione, basata sulla esistenza o no di procedure aggravate per operare dei mutamenti costituzionali, un carattere del tutto relativo: infatti ogni costituzione contiene una parte sottratta ad ogni possibilità di revisione, cioè rigida in senso assoluto, e poiché è questa che la contrassegna, ogni suo mutamento avrebbe per effetto di farla venir meno (13). Sotto lo stesso riguardo della materia inserita nella costituzione si sogliono distinguere le costituzioni brevi da quelle lunghe. Lo svolgimento storico ha condotto ad ampliare sempre più il numero degli articoli inseriti nella costituzione, fino ad arrivare ai 315 di quella indiana: il che è dovuto in parte alla complessità dei rapporti da regolare, in relazione alla particolare struttura sociale e politica dello Stato, come è il (13) Cfr. SCHMIDT, op. cit., 36; MOKRE, op. cit., 222. Anche BALLADORE-PAL(Diritto internazionale pubblico7, Milano, 1956, 30) riconduce alla costituzione in senso formale il complesso delle norme originarie che dànno valore a tutte le altre senza derivare il proprio da norme superiori. Sulla diversità dei significati attribuibili alla costituzione v. anche SOMLÒ, Juristische Grundlehre, Leipzig, 1927, 309 ss.; FRIEDRICH, La démocratie constitutionnelle (tr. franc.), Paris, 1958, 64. Per un’analisi della distinzione fra il concetto di costituzione in senso formale e sostanziale v. anche BACHOF O., Verfassungswidrige Verfassungsnormen, Tübingen, 1951, 12. Per la storia della distinzione fra i due concetti, formale e materiale della costituzione cfr. HSU DAU LIN, Formalistische u. antiformalistische Verfassungsbegriffe, in Arch. öff. Rechts, 1932, 29 ss. LIERI 73 caso dell’India, nonché all’accrescimento dei compiti statali, ma ancora ed in parte all’illusione di trovare in garanzie di carattere formale un surrogato di quelle sostanziali che fanno difetto negli ambienti nei quali mancano sufficienti tradizioni di libertà. Considerazione quest’ultima che dà ragione di altra distinzione che si suol fare tra costituzioni « storiche » e costituzioni dogmatiche. L’ideologia che presiedette alla formazione delle due prime costituzioni moderne (e che, diffondendosi poi in tutti gli Stati occidentali, pur sulla base di differenti sostrati sociali e seguendo linee di svolgimento diverse, venne a dar vita ad un diritto costituzionale comune, perché dappertutto animato dagli stessi grandi princìpi informatori) ha condotto ad assolutizzare alcuni dei caratteri che si sono ricordati, considerandoli non, quali in realtà sono, legati a contingenze storiche, ma necessari ad integrare il concetto stesso di costituzione. Si parla in tal caso di un concetto ideale di costituzione, ossia della ‘costituzione in senso ideale’. Così la codificazione in unico testo delle disposizioni fondamentali fu intesa valevole non già solo nella misura in cui essa consente di tradurre sul piano giuridico il principio politico che l’ispira, ma anche a dar vita ad un sistema chiuso, onnicomprensivo e senza lacune, di per sé sufficiente a raccogliere ed a dare ordine ad ogni specie di rapporti, in ogni contingenza, e non mai derogabile (14). Analogamente la funzione di garanzia attribuita alla codificazione stessa fece considerare necessaria la rigidezza, e di conseguenza ritenere che la nozione di costituzione rimar- (14) Cfr. SCHMITT C., Verfassungslehre, München u. Leipzig, 1928, 55 ss. e 129, sulla correlazione fra tale concetto di costituzione ed il tipo di Stato-borghese, sistema normativo chiuso e sovrano, non mai derogabile in nome delle esigenze di vita dello Stato. V. anche HENRICH, Die Verfassung als Rechtsinhaltsbegriff, in Gesellschaft, Staat, Recht, Wien, 1931, 203. 74 rebbe priva di significato positivo e di vera ragion d’essere giuridica ove venisse a mancare quel requisito (15). Ancora, sotto l’aspetto del contenuto, gli ideali di vita consacrati nelle Carte dei diritti furono considerati sub specie aeternitatis, così da far dire che « lo Stato che non si informi ad essi non ha costituzione » (16). Da un altro lato, l’avere identificato il potere costituente con il popolo, o con la nazione sovrana, condusse a lasciare nell’ombra le forze reali che sole posseggono la capacità di assumere e di far valere, legittimandola, l’autorità da cui un ordinamento trae vita, e viene indirizzato verso i fini politici di cui esse sono esponenti. La rappresentazione dei diritti fondamentali consacrati nelle ‘dichiarazioni’ che si sono ricordate quali diritti di natura, e, come tali, sopraordinati alla volontà del Costituente non è sufficiente ad occultare il carattere di scelta politica effettuata dalle classi che li proclamavano; secondo appare palese dal diverso rilievo dato alle varie libertà, e come è con- (15) Cfr. HAURIOU, Précis de droit constitutionnel, Paris, 1923, 2 ss., 39 ss. L’autore vede nel « regime costituzionale » il risultato di uno svolgimento secolare, che si concreta nel realizzare un equilibrio fra l’ordine, il potere e la libertà esprimentesi in un sistema formale, oggettivo, sistematico e totale, quale si è storicamente verificato, nella civiltà mediterranea, alla fine della civilizzazione greco-romana e nel XVIII secolo. La epoca della costituzione segue, secondo Hauriou, a quella dello Stato (che aveva segnato l’origine della legge scritta) ed ha per scopo di assicurare una protezione giuridica del popolo contro gli abusi del potere statale. V. anche in senso analogo, CARRÉ DE MALBERG, Contribution à la théorie générale de l’État, II, Paris, 1922, 573, nonché HSU DAU LIN, op. cit., 29 e 51. Cfr. in senso critico, HENRICH, op. cit., 195 ss. (16) Così testualmente l’art. 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789. Corrispondente allo stesso concetto è la contrapposizione fatta dal MONTESQUIEU, L’ésprit des lois, II, 1, della « forma di governo costituzionale » rispetto a quella dispotica e assolutista; contrapposizione che poi si è fatta valere nell’uso di considerare « regime costituzionale » quello corrispondente alle monarchie limitate da organi di derivazione elettiva nonché dal rispetto di certi diritti fondamentali. La critica a tale concezione vuole contestare non già la funzione, propria di ogni costituzione, di limitare l’esercizio del potere, ma solo la possibilità di considerare inerente ad essa necessariamente un certo tipo di limite. 75 fermato dalla divergenza riscontrabile fra l’attuazione data ai princìpi e le loro enunciazioni (17). Per completare la serie delle distinzioni possibili fra i vari modi di configurare la costituzione, è da ricordare quella, fatta valere dalla dottrina marxista-leninista, che si richiama alla considerazione enunciata per ultimo della realtà sociale sottostante alle forme giuridiche e che porta a contrapporre le ‘costituzioni - programma’ alle ‘costituzioni - bilancio’, secondo che esse tendano ad affermare l’esigenza del raggiungimento di fini ancora lontani dal trovare concreta realizzazione (e che perciò appaiono espressione di una tensione fra il sistema in atto e quello che si vorrebbe attuare), o viceversa riflettano una struttura sociale che abbia già conseguito il suo equilibrio, del quale la costituzione vuol essere dichiarazione e guida per i successivi svolgimenti. Si collegano in sostanza ai presupposti su cui implicitamente poggia quest’ultima distinzione, e muovono perciò da un concetto di costituzione delimitato storicamente nel tempo, al pari di quello derivato dalla filosofia razionalista, le opinioni che, considerando inapplicabile il concetto stesso alle società pluraliste contemporanee, lo riducono di conseguenza a mero relitto storico, pura sopravvivenza (18). La costituzione, secondo tali opinioni, è espressione di staticità, richiede l’unità del sistema giuridico, il monopolio della coazione con la correlativa sottoposizione effettiva ad essa della totalità della vita politica. (17) Il più esatto significato che le instaurazioni costituzionali rivestono, sotto l’aspetto della identificazione delle forze sociali che le promuovono e della speciale ideologia che le anima, può esser còlto nei Proemi e nelle Dichiarazioni premesse alle costituzioni d’ispirazione marxista, sul modello di quelle russe del 1918 e del 1923. (18) V. in tal senso BURDEAU, Une survivance: la notion de constitution, in L’évolution du droit public. Études en l’honneur d’A. Mestre, Parigi, 1956, 53 ss. V. anche sul pluralismo sociale e le condizioni necessarie per l’unità SCHMITT C., Der Hüter der Verfassung, Tübingen, 1931, 71 ss. Sulla crisi del costituzionalismo e sulla decadenza dell’idea di diritto costituzionale, inteso in senso formale v. bibliografia in KÄGI, Die Verfassung als rechtliche Grundordnung des Staates, Zürich, 1945, 27, n. 14. 76 Essa diviene pertanto inutilizzabile nelle comunità eterogenee, le quali, pel fatto di trovarsi in fase di divenire; presentano una molteplicità di centri di autorità, una diffusione non coordinata, né facilmente coordinabile del potere. È da riconoscere che effettivamente nelle costituzioni le quali si formano nei periodi di passaggio da un tipo di Stato ad un altro, come risultato di compromessi tra forze politiche eterogenee e fra loro contrastanti, perché portatrici di valori irriducibili l’uno all’altro nei loro nuclei fondamentali, si realizza un equilibrio instabile che toglie alla costituzione la possibilità di raccogliere sotto di sé, in modo anche solo relativamente unitario, tutto l’insieme dei rapporti sociali. L’esame delle costituzioni appartenenti a siffatto tipo compromissorio mostra come in esse, o viene omessa la disciplina di quei rapporti sociali in ordine ai quali non si è raggiunto alcun accordo, o se ne dà una solo apparente, ricorrendosi a forme di compromesso che lo Schmitt ha chiamato dilatorie, oppure si accolgono (senza poterle armonizzare, ma solo giustapponendole), disposizioni fra loro eterogenee, corrispondenti alle ideologie di uno o dell’altro dei gruppi che hanno partecipato alla loro formazione. È chiaro come tali costituzioni riescano a realizzare un ordine in sé non equilibrato, esposto com’è al giuoco delle forze contrastanti, tendente a rompersi in favore di quelle fra esse che, di volta in volta, riescano a prevalere, così che le divergenze fra i loro precetti e la concreta loro attuazione, fra costituzione formale e costituzione reale, divengono frequenti e gravi. La crisi del costituzionalismo non è che il riflesso della crisi dello Stato, qual è derivata dalle profonde trasformazioni sociali intervenute. Sarebbe però erroneo ritenere che negli ordinamenti omogenei, unificati intorno a valori generalmente accolti dai consociati, si renda possibile alla costituzione formale di soddisfare in pieno l’esigenza di stabilizzazione e di certezza, che ad essa si suole collegare. Si avrà occasione di notare in seguito che fenomeni, come quelli di rottura o di sospensione della costituzione, o, altrimenti, di contrasto fra le proclamazioni dei 77 princìpi consacrati nei testi e la concreta attuazione data ad essi si presentano costantemente, sia pure con diversa intensità, in ogni tipo di ordinamento. Ciò perché la costituzione formale non è mai autoscopo, bensì sempre strumento rivolto alla realizzazione di determinate finalità, e quindi soggetto a subire quelle compressioni o deformazioni che si dimostrino, di volta in volta, necessarie per poterle soddisfare (19). Fattori che promuovono lo studio della costituzione sotto l’aspetto giuridico. Determinazione dei problemi che ne sono oggetto. - Si è già avuto occasione di notare come la diffusione dell’interesse della scienza del diritto per lo studio della costituzione segue abbastanza davvicino l’espandersi dell’uso delle costituzioni scritte. Ciò si spiega con facilità pensando che l’attenzione dei giuristi doveva sentirsi più specialmente attratta a tale studio quando essi poterono porre a suo oggetto un corpo più o meno organico di norme, qual era quello consacrato nelle costituzioni scritte, ed applicare al medesimo gli strumenti propri della dommatica giuridica. Ma i caratteri che alla costituzione provengono dal rango che essa occupa nell’ordine delle fonti presentano peculiarità tali da non potere essere adeguatamente intese col semplice sussidio del metodo deduttivo. Le insufficienze che ebbero ben presto a palesarsi nei risultati dell’indagine effettuata con i soli strumenti tradizionali della tecnica giuridica hanno persuaso della necessità di ampliare l’àmbito della ricerca; ciò che in definitiva ha condotto ad un approfondimento dei problemi più generali relativi al modo di intendere e valutare il (19) Sull’esistenza di un denominatore comune per cui varie teorie, espressione di pensieri giuridici diversi, appartenenti al mondo della cultura occidentale o di quella orientale, appaiono tuttavia riconducibili ad una stessa idea centrale, più o meno latente, che è quella dell’influenza del fatto che si pone contro la regola, cfr. ORLANDO, Intorno alla crisi mondiale del diritto, in Scritti giuridici in onore di F. Carnelutti, IV, Padova, 1950, 593. 78 fenomeno giuridico. Uno studio che voglia rivolgersi, dal punto di vista della scienza del diritto, a tutti gli aspetti del concetto di costituzione, e non già ad alcuni di essi individuabili sulla base dell’analogia dei caratteri presentati da gruppi di costituzioni (come fanno le opinioni riferite le quali dall’osservazione delle odierne strutture politiche sono condotte ad escludere l’utilizzabilità del concetto stesso) deve proporsi di ricercare gli elementi necessari e sufficienti a configurarlo in modo che riesca spiegata la funzione specifica della costituzione. E poiché tale ricerca non potrebbe utilmente effettuarsi se non si assumesse previamente un criterio in ordine al modo di intendere la categoria della giuridicità, si rende necessario precisare quello che viene qui assunto. Il mondo del diritto non può configurarsi altrimenti che come il mondo del dover essere, caratterizzato dall’esigenza di assicurare la conformità dei comportamenti dei membri del gruppo sociale a determinati criteri rivolti a qualificarli nel senso ritenuto più idoneo alla soddisfazione dei bisogni comuni. Criteri che, per adempiere alla loro propria funzione, devono porsi quali norme trascendenti le volontà dei loro destinatari (20) e che operano di solito non già solo come giu- (20) L’affermazione dell’eteronomia della norma giuridica (su cui cfr. JELop. cit.3, 332; KELSEN, General Theory of Law and State, tr. it., Milano, 1952) può considerarsi sufficiente a far rigettare l’opinione che vede nella relazione intersubiettiva il dato elementare dell’esperienza giuridica, il suo prius logico. Il rapporto fra soggetti non potrebbe assumere carattere giuridico se le pretese delle parti non si considerassero obbligatorie, se non fossero quindi assoggettate ad una regola che le trascende (cfr. BOBBIO, Teoria generale del diritto come teoria del rapporto giuridico, in Scritti giuridici in onore della Cedam, I, Padova, 1953, 50). Quando si dice che la giuridicità deriva al rapporto dalla sua intrinseca struttura, dalla corrispettività o reciprocità delle situazioni soggettive, non si fa altro se non constatare l’avvenuta sua obiettivazione, il suo assoggettamento ad una norma cha si distacca dalla volontà delle parti e che, disciplinandone i comportamenti, si impone ad essi come entità superiore. Muovere dal rapporto per risalire da esso alla norma può essere una esigenza necessaria per giungere alla conoscenza di quest'ultima, ma non può farsi discendere da una priorità logica del primo rispetto alla seconda. Il rapporto precede, come espressione di bisogni LINEK, 79 dizio presente di comportamenti passati (fatto valere dall’autorità in cui si incarna la volontà comune obiettivata), ma altresì come comandi destinati ad essere realizzati anche coattivamente in caso di trasgressione. A tale ineliminabile esigenza è legato il carattere sanzionatorio da attribuire alla norma giuridica (21). di soggetti diversi la cui soddisfazione esige comportamenti corrispettivi: può offrire perciò solo la trama sulla quale poi si opera il giuridicizzarsi dei comportamenti trasformando la regola pratica del rapporto da economica, culturale, religiosa, ecc. in regola giuridica obbligatoria. Sull’esigenza dell'autorità, quale che sia la forma da essa assunta, cfr. QUADRI, Diritto internazionale pubblico3, Torino, 1960, 28. Sulle vicende delle due concezioni, subbiettivistica ed obiettivistica, del diritto e sul loro collegamento con le esigenze di determinate concrete esperienze v. i suggestivi scritti dell’ORESTANO, Diritti soggettivi e diritti senza soggetto, in Jus, 1960, 149 ss.; ID., Azione, in Enciclopedia del Diritto, IV, Milano, 1959, 785 ss. (21) Le opinioni che escludono dalla norma giuridica il carattere sanzionatorio sono forse il risultato dell’inesatto modo di intenderlo ed esse non riescono a sottrarsi a inestricabili contraddizioni. È anzitutto da osservare in proposito come non valga ad escludere l’esigenza della sanzione il constatare che l’obbedienza all’ordine sia il risultato di influenze varie (così BARILE P., La costituzione come norma giuridica, Firenze, 1951, 23 ss.). Infatti, ciò ammesso, rimane sempre da decidere quale posto abbia fra esse quella attribuibile alla minaccia della sanzione, e soprattutto se l’ordine stesso sia suscettibile di mantenersi quando venga meno ogni concreta possibilità di una coazione esterna all’obbligato. L’esperienza dimostra come, appena tale possibilità si attenui o sparisca, esplodono gli impulsi egoistici dei singoli, sì che l’ordine sociale ne esce travolto. È più esatto pertanto ritenere che la convinzione dell’opportunità dell’osservanza sia il meccanismo psichico attraverso cui l’autorità si fa valere in via di media, ma presuppone appunto l’influenza che quest'ultima esercita nel formarla e mantenerla operante. Contro la norma intesa quale comminatoria di sanzione v. fra i più recenti ALLORIO, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziario, Milano, 1957, 5, ed in precedenza, fra gli altri CAMMARATA, Sulla cosiddetta coattività delle norme giuridiche, Milano, 1932, e ora in Arch. pen., 1953, 3 ss. L’opinione che si confuta è influenzata anche dall’attribuire al concetto di sanzione caratteri non coessenziali (così come quando si fa rientrare in esse la forza materiale preordinata alla coazione), con la conseguenza di doverla escludere per potere affermare la giuridicità di certi gruppi sociali (come la Chiesa) in cui le sanzioni sono d’ordine spirituale, o di altri (come l’ordinamento internazionale) in cui manca una organizzazione ad hoc predisposta a far valere coattivamente l’osservanza degli obblighi. In realtà, la conseguenza dannosa a carico dell’inadempiente, in cui si concreta la sanzione, è varia in relazione agli interessi che essa tende a tutelare e quindi all’influenza che riesce ad 80 Dai caratteri ora rilevati, inerenti alle norme, si desume come la loro giuridicità risulti dalla inserzione di queste ultime in un’entità organizzativa nella quale ritrovano un’unità sistematica e da cui traggono la validità ed insieme l’efficacia che le rende concretamente operanti e ne fa prevedere l’attuazione, in via di media, anche in avvenire, confe- esercitare sui portatori dei medesimi. La scomunica per il credente, per esempio, con le conseguenze che importa anche per quanto riguarda i rapporti con gli appartenenti alla stessa fede, è sanzione che può riuscire praticamente più grave del carcere. Così ancora la mancanza di un’organizzazione sanzionatoria non incide sull’elemento della coercibilità potendo questa rimanere affidata anche a chi ha subìto il torto, o comunque ad un membro del gruppo la cui azione si riconosca valida dagli altri in quanto necessaria ad assicurare la permanenza dell’aggregato. (V. in questo senso ROMANO Santi, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1945, 19; DUGUIT, Traité de droit constitutionnel, I, Paris, 1927, 43; ORLANDO, Recenti indirizzi nei rapporti fra diritto e Stato, in Riv. dir. pubbl., 1926, I, 279; QUADRI, op. cit., 21 ss.). Dire, come fa Allorio, che effetto del verificarsi della fattispecie non è la sanzione ma il dovere, è lasciare non risolto il problema della distinzione fra norma giuridica e norma morale. Sembra, del resto, che il detto autore si proponga non tanto di escludere la sanzione quale connotato della norma giuridica quanto di mostrare come l’ammissione di questa non contraddica all’esigenza di un concetto unitario di norma, dato che la sanzione si riconduce allo schema comune del giudizio su comportamenti, riferito, anziché ai soggetti, all’organo titolare del potere sanzionatorio. Non è però essenziale, al fine di intendere l’essenza del fenomeno giuridico, lo stabilire se la sanzione debba intendersi incorporata nella norma materiale del rapporto o formi il contenuto di una norma distinta: e se l’unica vera norma sia quella che si rivolga all’autorità, come per esempio ritiene il Kelsen (nella cui concezione l’illecito è condizione del diritto, mentre esulano dalla sfera propria di questo i fatti conformi al diritto. Cfr. op. cit., 61 ss.). Il riferimento ora fatto al pensiero del Kelsen assume particolare rilievo perché dalle difficoltà in cui esso si avvolge per potere giungere ad escludere il carattere imperativo della norma giuridica sembra possa riuscire riaffermata l’esigenza contraria qui sostenuta. Infatti anche ad ammettere che il precetto non abbia sempre né necessariamente indole imperativa, tale indole dovrà rivestire la norma che si rivolge all’organo cui compete l’attuazione della sanzione (la regola giuridica « primaria » secondo il Kelsen) e che, condizionando l’attività dell'organo stesso, non potrà non precederla. È noto l’espediente cui il Kelsen ricorre per mantenere in piedi la tesi del carattere non imperativo delle norme primarie, le quali non possono non avere come loro destinatario un organo. Espediente, più che altro verbale, che consiste nel distinguere il dovere dell’imposizione della sanzione dal dovere dell’organo, il quale ultimo, discendendo da una norma anteriore avente valore secondario, non entra a comporre la prima. 81 rendo la stabilità e la certezza necessarie ai rapporti ai quali si rivolgono. Il nome di « ordinamento » è quello che meglio designa l’entità di cui si è parlato, e ad esso bisogna risalire onde poter cogliere e sistemare, da un punto di vista unitario, l’intera esperienza giuridica. Se comune è la convinzione della esigenza di un rapporto fra norma ed ordinamento (22), diversità vi sono circa il modo di considerare il rapporto stesso e che derivano dal diverso modo di intendere il concetto di ordinamento. Su tale punto occorre fermarsi, poiché, come risulterà dalla successiva esposizione, in esso confluisce lo stesso problema della costituzione. Cenni sull’elemento primigenio dell’esperienza giuridica: norma o ordinamento? - Si tratta in particolare di accertare se il prius del fenomeno giuridico sia da considerare la norma o l’ordinamento. Deve essere chiaro che nel porre tale problema non si intende contrapporre fra loro i due termini (poiché anche l’ordinamento, in conformità del resto al suo significato letterale, etimologico e storico: ordo = disposizione ordinata di più parti che compongono un insieme, non può non incorporare in sé una normatività, e precisamente quella che si rivela nella regolarità delle sue estrinsecazioni), bensì vedere se le norme, di per sé prese, posseggano un’intrinseca giuridicità, o se, invece, questa sia da far derivare da un principio o da un’entità che in certo modo logicamente e temporalmente le preceda, pur partecipando della loro stessa natura giuridica, e se ne ponga come (22) La correlazione necessaria fra i due termini sembra negata da A GO (Scienza giuridica e diritto internazionale, Milano, 1950, 78) il quale ritiene possibile che un ordinamento sia organizzato in modo che siano adempiute le funzioni cui normalmente provvede l’ordinamento giuridico e che tuttavia lo stesso possa non essere giuridico per la mancata giuridicità delle norme che lo compongono. Come ciò può ritenersi possibile, una volta ammesso che in tanto le norme sono da ritenere giuridiche in quanto da esse discendano pretese vincolanti e una volta ammesso che offrire la garanzia a tali pretese sia la funzione propria dell’ordinamento? 82 fonte (nel senso di fondamento di validità), cioè presieda in modo continuativo al processo di produzione delle medesime, conferendo loro il crisma della giuridicità. Si è sostenuto che l’unità sistematica di un complesso di norme sia da considerare non già come fonte, essendo invece un prodotto a posteriori. Il fatto dell’esistenza di date norme, qual è offerto dall’osservazione di ciò che avviene in una società, sarebbe sufficiente a farle ritenere giuridiche, mentre la giuridicità del sistema sarebbe solo un derivato, un riflesso delle norme stesse. Muovendo da quest’ultima impostazione si è affermato, in particolare, che la spontaneità del processo di produzione del diritto (spontaneità sempre riscontrabile negli ordinamenti originari) fa venir meno il problema della ricerca di una fonte di produzione delle norme (23). (23) V. in questo senso AGO, op. cit., 77 ss. ed il più recente suo scritto, Diritto positivo e diritto internazionale, in Scritti giuridici in onore di Perassi, I, Milano, 1957, 43 ss. La critica di Ago appare ineccepibile solo nella parte in cui si rivolge a confutare le opinioni che ripongono la fonte nella coscienza dei membri della comunità sociale (ivi, nota 102), dato che, così intesa, e cioè non qualificata, sempre uguale a sé stessa, non è suscettibile d’offrire la base che il giurista ricerca. Contra, per la riaffermazione dell’esigenza di risalire ad una fonte v. soprattutto ROMANO Santi, Ordinamento, cit., 11 ss. e 83 nota. Vedi anche, con riferimento all’ordinamento internazionale, ZICCARDI, La costituzione dell’ordinamento internazionale, Milano, 1943, 103; SPERDUTI, La fonte suprema dell'ordinamento internazionale, Milano, 1946, 100 ss. Il GALIZIA (Scienza giuridica e diritto costituzionale, Milano, 1954, 120 ss.) seguendo le orme dell’Ago, con riferimento al diritto statuale, sostiene che la giuridicità non dev’essere cercata (se non si vuole perpetuare l’errore del giusnaturalismo) in elementi esterni e superiori alle norme, cioè con riferimento ad una autorità, dato che la costituzione di un ordinamento è il risultato della enucleazione che la dottrina fa di « princìpi sistematici fondamentali » ricavabili da tutte le norme efficaci di fatto in un preciso momento. L’interprete, quindi, mentre da una parte accerta i dati relativi alla esistenza delle norme (tutte fra loro potenzialmente pari), procede, poi, a graduarle secondo rapporti da condizionante a condizionato. Si deve, in contrario, ribadire che (come lo stesso Kelsen ha fatto rilevare quando ha contestato l'esattezza di quelle interpretazioni del proprio pensiero che avrebbero voluto attribuire una funzione dinamico-creativa alla conoscenza scientifica) la scienza del diritto, in quanto si limita a desumere dall’esperienza non solo delle serie di rapporti, ma anche elementi relativi alla posizione o graduazione delle serie stesse fra di loro, lungi dal porsi come fonte dell’ordina- 83 Tale tesi non è da accogliere, non apparendo possibile prescindere dalla determinazione di una fonte, intesa quale punto fermo (nel tempo e nell’àmbito spaziale proprio dell’ordinamento) da cui attingono valore giuridico ed a cui si ricollegano le varie manifestazioni le quali presentano i caratteri che consentono di ricondurre queste ad uno stesso sistema. Sarà compito della successiva trattazione, dedicata all’esame delle varie concezioni della costituzione, mostrare come anche coloro che contestano il ricorso al concetto di ‘fonte’ non possono prescindere dal fare riferimento ad un’entità stabile in sé ordinata (anche se poi finiscono per intendere quest’ordine in senso meramente sociologico e pre-giuridico) (24). Dev’essere, in proposito, riaffermato che quando si propone la ricerca della fonte di un ordinamento non ci si vuole riferire né a valori desumibili da altri ordini di conoscenze (poiché l’ordinamento non solo non può fondarsi su di essi, ma, richiamandoli, nella misura in cui lo ritenga rilevante ai propri fini, se ne pone a fondamento, conferendo loro validità nella propria sfera), né ai fattori che storicamente ne hanno influenzato il sorgere, e neppure richiamarsi alla ‘convinzione collettiva’ quale può essere desunta dal fatto della media obbedienza, della media conformità dei mento, non fa che dichiarare i princìpi in esso immanenti, i quali, dotati come sono di un grado minimo di stabilità, senza della quale l’ordinamento non sarebbe conoscibile e non esisterebbe, ne esprimono l’intrinseca legge di vita. Le critiche alla norma-base formulate di recente dal MONACO (Manuale di diritto internazionale pubblico, Torino, 1960, 19 ss.) non sembrano persuasive perché inficiate dall’equivoco di considerare la norma come se fosse avulsa dall’ordinamento, prospettando come estranei e diversi da essa i soggetti o gli organi (o perfino i princìpi che ne informano la struttura!); mentre invece è chiaro come essa, proprio perché sta a base dell’ordinamento non può non comprendere quegli elementi come sue parti integranti. Decisivo è il modo di ricostruire la norma affinché rifletta il modo d’essere dell’ordinamento. (24) Ciò può dirsi per lo stesso Ago il quale, ad un certo momento, avverte l’imprescindibilità di una fonte prima, che egli fa coincidere con la ‘coscienza sociale’ (op. cit., 94, nota 1). 84 comportamenti ai precetti (25). La convinzione collettiva (se non la si assuma come mera descrizione del meccanismo psicologico attraverso cui un comando eteronomo riesca a farsi valere, oppure come rappresentazione conoscitiva del fatto normativo, se si prescinda da presupposti giusnaturalistici che riconducano all’adesione dei soggetti la legittimazione dell’ordinamento, e si rigetti altresì la concezione che disconosce l’eteronomia della norma giuridica), non può porsi come fonte. Con riserva di esaminare in seguito il rapporto da porre fra validità ed effettività dell’ordinamento, è da osservare che il fatto psicologico, in sé considerato, è un fatto neutro, non qualificato, che accompagna ogni manifestazione di vita associata e non risponde alla domanda rivolta ad indagare ciò che dirige e stabilizza la convinzione, la forza attiva di impulso e di orientamento, che determina l’obbedienza e quindi la precede, la condiziona e tende a mantenerla ferma nel tempo. Sicché si rende necessario risalire ad una fondamentale struttura organizzativa, ricercare, in relazione al tipo di ordinamento, i caratteri che questa deve presentare per poter adempiere alla funzione costitutiva e di garanzia che le è propria. Il problema della costituzione secondo il positivismo agnostico e quello critico. - Assunto il concetto di fonte, nel senso che si è detto, è da porsi il quesito se i mezzi necessari per giungere alla sua conoscenza siano quelli propri della ricerca giuridica, o se invece, rimanendo a questa estranei, debba il concetto stesso confinarsi nel campo dell’inconoscibile giuridico. Il positivismo, nella maggior parte delle sue manifesta- (25) Su di esso cfr. JELLINEK, op. cit., 334, e di recente GUELI, Elementi di una dottrina dello Stato come introduzione al diritto pubblico, Roma, 1959, 51 ss., 224 ss. Cfr. TRIEPEL (Les rapports entre le droit interne et le droit international, in Académie de droit international, Recueil des Cours, 1923, 87 ss.) che contrappone la teoria della « volontà collettiva » alla norma base di Kelsen. 85 zioni, ha assunto tale posizione negativa, di agnosticismo, nella considerazione dell’impossibilità di applicare a tale scopo il procedimento deduttivo, ritenuto proprio del pensiero giuridico. Infatti, la fonte di ogni ordinamento originario, appunto per esser fonte primigenia, non può rimanere condizionata ad un diritto preesistente, ma solo a meri procedimenti di fatto, insuscettibili di essere classificati in una qualsiasi categoria giuridica (26). È stato efficacemente messo in rilievo come in nessun caso l’esistenza materiale di un fatto possa offrire la base per un giudizio giuridico, qual è pure quello con cui si afferma l’esistenza di un ordinamento (27). L’esperienza empirica di certi accadimenti non può condurre a farli valutare ove previamente non si assuma un criterio idoneo a selezionarli, a determinare i caratteri e la rilevanza di ciascuno, il grado della regolarità necessaria a presupporsi in essi. L’acquisto di tale consapevolezza ha condotto il pensiero scientifico, in un suo grado ulteriore di evoluzione, ad assumere fra i compiti suoi propri quello di risalire ad un criterio primo capace di rendere ragione, in termini di diritto e quindi di normatività, dell’obbligatorietà di un sistema positivo. A siffatta consapevolezza critica si è pervenuti per vie e secondo svolgimenti diversi, se anche in notevole parte con- (26) Così, fra gli altri BURCKHARDT, Die Organisation der Rechtsgemeinschaft, Basel, 1927, 220 ss.: CARRÉ DE MALBERG, Contribution, cit., II, 490 ss.; ESMEIN, Eléments7, cit., I, 633; BERTHÈLEMY H., Le fondement de l’autorité politique, in Rev. fr. dr. publ., 1915, 667; HÉRAND G., L’ordre juridique et le pouvoir originaire, Th. Toulouse, 1946, 377. V. anche, nel senso della pregiuridicità di ciò che sostiene le norme, BONUCCI, Ordinamento giuridico e Stato, in Riv. dir. pubbl., 1920, 97. Analogamente, per l’ordinamento internazionale, v. per esempio il BALLADORE-PALLIERI, op. cit., 18, per cui il fondamento del diritto internazionale rimane misterioso e inconoscibile pel giurista. (27) Cfr. CESARINI-SFORZA, Ex facto ius oritur, in Studi Del Vecchio, I, Modena, 1930, 87, il quale osserva come allorché ci si riferisca alla ‘natura dei fatti’ come fonte del diritto, si presuppongono fatti già ordinati dalla coscienza sociale, già qualificati da una regola tacita. 86 vergenti. Una di esse è quella percorsa dal Perassi (28), per cui la conoscenza ‘dommatica’ di qualsiasi ordinamento positivo (la conoscenza cioè dei processi di produzione, o altrimenti detti di qualificazione, relativi alla serie dei rapporti che in esso si coordinano in sistema) conduce a risalire ad una norma prima originaria. Tale norma, pur assumendo valore di vero e proprio criterio giuridico necessario a spiegare l’intera successione dei fatti di produzione che ne derivano, ha questo di particolare: di poter essere conosciuta secondo uno schema logico diverso da quello dal quale si fa dipendere la conoscenza del carattere giuridico delle altre norme dello stesso ordinamento, assumendo così la posizione di ‘postulato’; posizione che tuttavia, mentre non impedisce di farla considerare vera e propria norma costitutiva del sistema, esige la nozione sociologica dell’ordinamento giuridico cui essa si riferisce. La sua determinazione deve pertanto, in definitiva, risultare da una scienza giuridico-sociologica distinta da quella giuridico-dommatica, per la quale la norma-base rimane un mistero (29). In particolare, secondo il Kelsen. - Da premesse analoghe a quelle ora considerate (ma muovendo da impostazioni non ‘dommatiche’, bensì ‘teoretiche’) muove anche il Kelsen, quando afferma la necessità di ricollegare la validità del diritto positivo ad una norma fondamentale. (28) Cfr. PERASSI, Teoria dommatica delle fonti di norme giuridiche in diritto internazionale, ora in Scritti giuridici, I, Milano, 1958, 242 ss. V. anche dello stesso Lezioni di diritto internazionale4, Padova, 1955, 35, in cui è messa in rilievo la formazione storica delle norme primarie. È stato osservato come il Perassi nelle più recenti enunciazioni del suo pensiero abbia mostrato di attribuire sempre minore importanza alla norma-base. (29) Può essere opportuno mettere in rilievo come la qualifica di ‘positivo’ riferita a diritto, può assumersi o nel significato di ‘vigente’, e cioè effettivamente operante in concreto, o in quello di ‘posto’ ossia derivato da una fonte superiore, o, secondo una accezione ancora più particolaristica, da una fonte che si concreta in atti di volontà emanati secondo forme precostituite. 87 La ‘purezza’ del metodo proprio della scienza giuridica, qual è sostenuta dal Kelsen, deve condurre a respingere ogni contaminazione con ordini di conoscenze diversi, come quello della sociologia cui il Perassi si richiamava, ed a far considerare la norma-base una mera sintesi concettuale delle varie norme, da presupporre in via giuridico-logica, quale ipotesi necessaria e sufficiente a spiegare come siano possibili le proposizioni concernenti le valutazioni normative, e perciò a porsi quale condizione di pensabilità del fenomeno giuridico. La norma in parola è assunta a contenuto di una costituzione in senso giuridico-logico, che precede e condiziona la costituzione in senso giuridicopositivo, e che, a differenza di quest’ultima, avente la funzione di disciplinare il procedimento legislativo, assume l’altra di dar ragione del come sia possibile imporre tale disciplina (30). Muovendo dalla raffigurazione del carattere ‘dinamico’ proprio del sistema giuridico, le cui norme si riconducono ad esso non già in ragione della conformità del loro contenuto (deducibile in via logico-deduttiva) ai valori prescritti da una norma superiore, ma solo in virtù della comune derivazione da una volontà abilitata a porle, il Kelsen configura la normabase dell’ordinamento statale come rivolta a stabilire che gli atti da esso garantiti debbano compiersi alle condizioni e secondo i modi determinati dai ‘padri’ della costituzione originaria, o dagli organi da essi delegati. Il principio di legittimità, che inerisce a tale modo di con- (30) V. per la più recente espressione del pensiero del KELSEN, General Theory of Law and State (trad. it.), cit., III ss. Cfr. in ispecie in ordine al carattere non dommatico ma logico-trascendentale proprio della ricerca kelseniana, rivolta alla qualificazione della categoria della giuridicità, intesa come categoria della relazione, Reine Rechtslehre, Leipzig u. Wien, 1934, 9. Sulla conversione dell’a priori logico che ricava la norma-base dal concetto di ordinamento in a priori normativo, in funzione di fonte ipotetica, cfr. ZAMPETTI, Metafisica e scienza del diritto in Kelsen, Milano, 1956, 60 nota 69, 61 e 65; HENRICH W. (op. cit., 197) ha rilevato come, se il Kelsen avesse tenuto ferme le ragioni della sua polemica contro la sociologia, avrebbe dovuto ritenere estraneo alla scienza giuridica il problema filosofico delle forme del pensiero giuridico. 88 siderare la norma-base, conduce a far ritenere derivati da essa (e perciò validi), tutti quei mutamenti che, anche se abbiano per effetto la sovversione del precedente assetto, si verifichino tuttavia nelle forme da questo prescritte, mentre ogni mutamento effettuato senza la loro osservanza, determina una frattura tra vecchio e nuovo, venendo a rivestire di conseguenza carattere rivoluzionario (31). È noto come il Kelsen, di fronte alle critiche mosse alla sua concezione, cui si è imputato di essere espressione di ‘giusnaturalismo logico’, o di puro nominalismo, ha convenuto nell’esigenza di affermare, accanto al principio di legittimità che adempie alla funzione di rendere valido l’ordinamento, quello della ‘effettività’, ma intendendolo solo come condicio sine qua non, valutabile perciò a posteriori, e la cui mancanza, ove venisse accertata nei confronti non già di singole parti ma della totalità dell’ordinamento ne determinerebbe la cessazione (32). Esame critico della concezione del Kelsen. - Non è contestabile il merito del Kelsen nel far valere l’esigenza di ancorare l’ordinamento positivo ad un punto fermo, inteso come criterio idoneo ad identificarlo, a farne conoscere la permanenza nel tempo, nonché correlativamente il momento della sua cessazione. Inaccettabile è invece l’identificare tale punto fermo in una norma solo ipotetica, avulsa dalla struttura su cui si radica, relegata nel campo dell’inconoscibile giuridico. Non sembra possibile che la norma ipotetica assuma valore scientifico (e non (31) Anticipazioni del pensiero del Kelsen sono da considerare le notevoli opere dello svizzero BURCKHARDT, op. cit., 206 ss., ed il precedente scritto Verfassung u. Gesetzrecht, in Politisches Jahrbuch der schweizerischen Eidgenossen, 1910, 37. Lo ZITELMANN, in Gewonheitsrecht und Irrtum, in Arch. civ. Prax., 1883, 458, aveva fatto cenno ad una allgemeiner Rechtssatz piena di mistero, senza peraltro svolgerne il concetto. È da richiamare anche l’intuizione di JELLINEK W. che fin dal 1913 faceva cenno di un oberster Satz aller Rechtsordnungen (in Gesetz, Gesetzesanwendung u. Zweckmassigkeitserwägung, Tübingen, 1913, 26 ss.). (32) Cfr. KELSEN, Der soziologische und der juristische Staatbegriff. Kritische Untersuchung des Verhältnisses zwischen Staat und Recht, Tübingen, 1928, 93. 89 potrebbe non possederlo quella cui si affida non già solo la funzione di postulato logico, ma altresì l’altra di porsi a fondamento di un sistema positivo) se non a patto di disporre di un criterio capace di discriminare in modo obiettivo i dati offerti dall’esperienza, onde graduarne il diverso rilievo al fine della determinazione del contenuto della norma predetta. Senonché tale possibilità viene meno quando si ritenga che l’esperienza, intesa come realtà meramente esistenziale, debba rimanere sottratta ai mezzi di conoscenza propri dell’indagine giuridica. Rimanendo affidata alla libertà dell’interprete la scelta del materiale da cui attingere la norma base, questa non può che rivestire carattere arbitrario, e rappresentarsi in modo vario in ragione del differente punto di vista da cui si muova (33). D’altra parte se si riconosce, con il richiamo fatto al requisito dell’effettività, di non poter prescindere dal mondo dei fatti, dalla realtà dell’accadere, non si riesce ad evitare la contraddizione con le premesse che conducevano a far ritenere l’estraneità di questa al mondo del dover essere giuridico. Né vale ad eliminarla il distinguere tra fondamento di validità (condicio per quam) e condizione (sine qua non) di efficacia: poiché tale distinzione, esatta se riferita alle norme derivate, non lo è più nei confronti della norma assolutamente primaria, su cui il tutto si fonda e da cui tutto deriva. Se poi si ha riguardo al contenuto che il Kelsen ritiene proprio della norma base, si deve contestare che, concepito (33) Una riprova dell’esattezza di quanto si afferma si può desumere dalla opinione dello stesso Kelsen circa l’uguale possibilità di fondare la concezione monistica dell’ordinamento giuridico sulla primarietà, o dello Stato o della società degli Stati. Se nel successivo stadio di pensiero lo stesso autore è giunto alla conclusione che l’originarietà competa all’ordinamento internazionale, ha tuttavia ammesso che a determinare questa o l’altra soluzione influiscono le preferenze etiche e politiche, in senso nazionalista o viceversa internazionalista, dell’interprete. Possono ricordarsi anche le osservazioni del PERASSI (Teoria dommatica, cit., 235, nota) in ordine alla influenza che sulla teoria del fondamento del diritto internazionale di un altro scrittore della scuola di Vienna, il Verdross, esercitano i valori connessi ai fini perseguiti. 90 com’è in modo formalistico, possa adempiere alla funzione ad essa attribuita. Non adempie infatti a quella di raccogliere in unità coerente le varie manifestazioni dell’ordine giuridico, riuscendo a ciò solo per quella sua parte costituita dalla produzione normativa, non già per l’altra cui dà vita l’esercizio della discrezionalità (e della stessa attività interpretativa), perché le manifestazioni di questa non sono suscettibili di collegarsi al sistema delle norme in virtù di una concatenazione logico-deduttiva (34). Non soddisfa neppure l’altra esigenza di rendere possibile il giudizio sulla permanenza dell’ordinamento pur nel mutare delle sue strutture, poiché, se il criterio a ciò necessario si desuma dalla considerazione delle forme prescritte per il mutamento, lo si priva della validità generale che dovrebbe avere, riuscendo utilizzabile solo per le costituzioni scritte, e si finisce con lo svuotare la normabase del valore conoscitivo della realtà da cui emerge, che dovrebbe costituire la vera ragione del ricorso ad essa (35). I fatti che operano in funzione di fonte dell’ordinamento. - Le precedenti osservazioni hanno mostrato come l’importanza da attribuire al pensiero del Kelsen non stia nelle soluzioni (34) Riesce pertanto compromessa la finalità attribuita dallo stesso Kelsen all’ipotesi fondamentale di fare del diritto un tutto obbiettivo e coerente (Teoria, cit., 445). Quando si consideri estraneo all’ordine giuridico, come ritiene il Kelsen, tutto ciò che non è deducibile logicamente da norme, si coglie solo una frazione, e forse non la maggiore, del medesimo. (35) V. la critica di ROSS, Theorie der Rechtsquellen, Leipzig u. Wien, 1929, 362, e ivi l’osservazione della inutilità della norma-base se intesa come norma in bianco. Tale è l'imperativo «obbedite all'organo supremo», una volta che si ammetta la possibilità che tale organo subisca ogni specie di mutamento senza che l’ordinamento si trasformi. Muovendo dalle premesse del Kelsen, si dovrebbe essere indotti a considerare ogni mutamento come extragiuridico, e ciò perché, costituendo la norma sul mutamento quella suprema (quindi solo presupposta), qualunque sua modifica non potrebbe ricondursi ad un procedimento legale (logico-deduttivo). V. infatti in questo senso BURCKHARDT, Die Organisation, cit., 206 ss. Per la tesi che vede nelle norme sul mutamento il contenuto specifico della norma-base ROSS, op. cit., 359. 91 da questi accolte, che si rivelano poco persuasive, bensì nella fecondità delle impostazioni da cui muove e della problematica che ne deriva. Se si afferma l’esigenza di un ordine primario (raffigurato in una norma-base, che non sia intesa come condizione di pensabilità di un ordine giuridico e neppure mera ipotesi razionale, bensì fondamento di validità dell’intero sistema) e si riconosca che essa non può riuscire soddisfatta se non a patto che venga eliminato ogni carattere di arbitrarietà e di genericità nella determinazione del contenuto specifico del principio dell’ordine primario medesimo, e se, d’altra parte, si riconosca che il principio stesso assume valore giuridico solo in quanto se ne accerti la effettiva operatività, quale risulta dall’osservazione offerta dall’esperienza del concreto accadere, è uopo concludere: a) che procedere a tale osservazione del fatto non può reputarsi estraneo al compito ed alle capacità del giurista, visto che da essa deve farsi derivare un giudizio di esistenza o meno dell’ordine normativo (36); b) che se la vigenza, quale emerge dall’osservazione dei fatti, deve considerarsi elemento neces- (36) L’obiezione secondo cui i concetti giuridici consentano solo di conoscere norme (sollevata, fra gli altri da JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit., 162) non incide sull’affermazione di cui al testo, poiché essa fa riferimento appunto a norme, in senso generico, comprensivo anche di quelle non legali. Ed è compito dell’interprete dichiarare l’esistenza ed il contenuto delle norme non scritte, ricavabili dall’osservazione di concreti accadimenti, quali si verificano in via di fatto. Il BALLADORE-PALLIERI, Dottrina dello Stato, Padova, 1958, 135, differenzia lo studio della società nel suo aspetto normativo da quello rivolto ad indagarne la reale esistenza. Ma la reale esistenza di una società (se società si intenda, come esattamente il Balladore-Pallieri fa, entità ordinata dal diritto) non viene ad identificarsi sulla base del suo aspetto normativo? Se è vero il rilievo del KELSEN (Teoria, cit., 168 ss.) che compito della giurisprudenza normativa è di affermare la ‘possibilità’ giuridica (il diritto di pretendere alcunché), possibilità che si desume dall’ordinamento che sia efficace nel suo complesso, è vero altresì che quando si risalga appunto all’ordinamento nel suo complesso il problema della ‘possibilità’ viene a collegarsi necessariamente con quello della ‘probabilità’, della previsione della sua stabilità, quale può risultare da certi caratteri posseduti da una comunità reale. 92 sario a conferire giuridicità alla norma, è da escludere che essa assuma un valore distinto da quello della validità e sia rilevante solo a posteriori. Se la norma-base non è giuridica se non a patto che se ne accerti la effettiva osservanza, non è possibile procedere alla sua identificazione ove non si muova dall’osservazione del fatto, e quest’ultimo non può non considerarsi elemento necessario a conferirle validità. Alla stregua di quanto ora osservato, la tesi del Kelsen dovrebbe essere rovesciata, nel senso di attribuire alla positività o vigenza un valore autonomo, costitutivo di ogni particolare ordine giuridico considerato nel suo complesso, ed irradiantesi poi sulle varie norme che entrano a comporlo. Si può dunque concludere che il sistema normativo ha la sua radice ed il suo fondamento ultimo in una realtà sociale. Il principio primo di tale sistema (come che si pensi di poterlo raffigurare, o, partendo dalla concezione formalistica del Kelsen, come una unica norma-base, o, secondo invece appare più esatto, un insieme coordinato di una serie di norme supreme) poggia su un supporto reale, che opera quale fonte di giuridificazione e conferisce ad esso validità. È degno di nota come, nonostante la diversità delle premesse e la varietà delle formulazioni, la maggiore o minore consapevolezza della portata delle ammissioni fatte, si riscontri una sostanziale convergenza di opinioni circa la rilevanza da assegnare a tale fonte che condiziona le singole norme e ne opera la coordinazione in sistema. Sicché, sotto questo riguardo, normativismo e istituzionalismo (mentre si presentano fra loro contrapposti) finiscono per avvicinarsi quando si richiamano ad un ordine iniziale che deve avere in se stesso una sua legge di vita (37). (37) Cfr. PIOVANI, Il significato del principio di effettività, Milano, 1953, 63 e ivi citaz. alla nota 69. Cfr. anche CALASSO, Gli ordinamenti giuridici del rinascimento medievale2, Milano, 1953, 35, per la concezione che vede nel diritto la risultante di ordinamento e norma. 93 Lo stesso Kelsen, nella cui opera sembra trovarsi la più recisa contrapposizione tra fatto e diritto, fra essere e dover essere, ha avvertito come con il conferire carattere meramente ipotetico alla norma base si finisce con lo svuotarla di ogni utilità, ed ha perciò affermato che il suo contenuto debba essere determinato sulla base del materiale offerto dall’esperienza dell’ordinamento cui si riferisce e concretarsi negli atti effettivamente compiuti dagli associati, da valutare come atti giuridici (38). Se il fatto sociale precede la norma-base e le conferisce un contenuto corrispondente ai fini propri della consociazione, non si dovrà riconoscerle valore e funzione di fonte della medesima? Si potrà non attribuirle una intrinseca giuridicità? (39) In sostanza, i dissensi che si riscontrano fra le varie correnti dottrinali rivolte ad indagare il problema della fonte dell’ordine costituzionale nascono non già dal contestare il bisogno che vi è di risalire dal sistema normativo ad un’entità sociale che lo condiziona, bensì dal non avere sempre dedotto dalle premesse poste le conseguenze che pur dovevano apparire in esse implicite, dall’avere cioè trascurato l’indagine (ritenuta estranea al compito della scienza del diritto) degli elementi da prendere in considerazione al fine: a) di individuare (38) V. specialmente KELSEN, Théorie du droit international coutumier, in Revue internationale de la théorie du droit, 1939, 256. V. anche una chiara affermazione della necessità per la scienza giuridica di muovere, per la determinazione del contenuto e dell’efficacia del diritto obbiettivo, dalla valutazione della realtà empirica su cui esso poggia in DONATI D., La persona reale dello Stato, in Riv. dir. pubbl., 1921, I, 4. (39) QUADRI, Stato, in Nuovo dig. it., XII, 1, Torino, 1940, 813, fa osservare come si cada in un circolo vizioso, quando si vuole dimostrare la positività dell’ordinamento ricorrendo alla sua efficacia: ciò perché, richiedendosi che la norma preceda l’osservanza da parte dei destinatari, non è possibile fondarla sulla obbedienza di costoro, ma si rende invece necessario postulare che essa sia osservata in quanto già valutata quale norma giuridica. Il rimprovero che Balladore fa al Kelsen, di aver posto prima l’autorità e poi la norma (o più esattamente di aver posto prima dell’autorità 94 l’assetto tipico intrinseco ad una data società, o, come anche può dirsi, il soggetto reale che promuove e sostiene l’ordine legale, b) di determinare il contenuto e l’estensione della funzione ad esso inerente (funzione da limitare secondo alcuni solo al momento del primo costituirsi dell’ordinamento, secondo altri invece persistente anche nell’ulteriore corso della vita di questo), c) di definire, ove si accolga l’ultimo dei punti di vista ora indicati, il rapporto fra l’ordine legale, risultante dal diritto ‘posto’, attraverso gli svolgimenti dati alla normabase, e l’ordine che è espressione del diritto ‘presupposto’, da cui trae alimento quest’ultima. Una volta escluso che il momento formativo dello Stato sia estraneo al diritto, una volta ammessa una giuridicità intrinseca ad esso e tale da conferire validità al diritto derivante dagli organi successivamente costituiti, non sembra logico porre una differenza di essenza fra l’una e l’altra specie di diritto, considerare cioè quella che si suole chiamare ‘costituzione reale’, se non proprio contrapposta, giustapposta alla ‘costituzione giuridica’. Se si parte dall’assunto che la prima non si esaurisca con il concludersi della fase dell’instaurazione dello Stato, e non sia assorbita interamente nella seconda (come vorrebbe una tesi che si prenderà in esame) ed invece si affermi l’esigenza di tro- una norma solo ipotetica) poggia su un’intima contraddizione del suo pensiero. Tale autore infatti ritiene che l’unica fonte di giuridicità è la norma positiva (nel senso di posta) che attribuisce in modo formale il potere di comandare. Ma poiché questa ha una giuridicità solo provvisoria, sarà il fatto dell’osservanza del comando che le conferirà giuridicità definitiva: essa si legittima a posteriori (Dottrina, cit., 150). Se, come il Balladore-Pallieri ritiene (ed esattamente, rovesciando la tesi del Kelsen) la effettività è non condicio sine qua non, bensì condicio per quam, si dovrebbe giungere alla conclusione che la fonte della norma che crea l’autorità sia appunto questo fatto (oboedientia facit imperantem) e come tale opera a priori, non solo logicamente ma giuridicamente. Altrimenti dovrebbe valere come condicio sine qua non. Una volta poi che si convenga essere sempre un fatto ciò da cui la norma attinge validità, è da chiedersi se sia da guardare al fatto aleatorio puntuale dell’obbedienza, o a quello delle forze organizzate che la promuovono e stabilizzano. 95 vare nella prima la ragione dell’effettivo vigore dell’altra, uopo è rendersi conto del nesso fra le due e della funzione corrispettivamente spettante a ciascuna (40). Sotto quest’aspetto la contrapposizione fra ‘ciò che è’ e ‘ciò che dev’essere’ è in certo modo trascesa, poiché anche ciò che è, se non sia pura descrizione empirica di un accadere, ma presupponga una valutazione di esso quale fenomeno giuridico, deve, per potersene affermare l’esistenza, presentare caratteri di obiettività, di doverosità, di costanza, tali da far ritenere che ciò che accade (ed è ‘probabile’ che accada in avvenire, dal punto di vista dell’osservazione sociologica) deve accadere (ossia determina la pretesa a che accada), e ciò in virtù di un vincolo intrinseco ai rapporti che si svolgono nel gruppo, in virtù cioè di un’organizzazione coattiva. Se è vero che a tale scopo bisogna muovere dall’osservazione del modo di operare, dell’effettivo prodursi dei comportamenti, non ci si può limitare a descriverli, occorrendo anche interpretarli alla stregua del concetto che si assuma del diritto, e, più precisamente, sulla base di quanto si è detto (40) V. sulla distinzione fra due specie di diritto DONATI, La persona, cit., 5 nota 1, e bibliografia ivi. V. anche per la raffigurazione dello Stato come un prius rispetto al diritto ANZILOTTI, La formazione del Regno d’Italia, in Riv. dir. internaz., 1912, 30. La omissione di ogni ricerca sul rapporto fra le due costituzioni, di cui si afferma l’esistenza, si riscontra fra gli altri, in JELLINEK G., Verfassungsänderung und Verfassungswandlung, Berlin, 1906, 72, e Allgemeine Staatslehre, cit., 308, 337; in HELLER, Staatslehre, Leiden, 1934, 260 e dello stesso A., Die Krisis der Staatslehre, in Archiv f. Soziale Wissenschaft und Sozialpolitik, 1926, 260. Solo nel senso enunciato nel testo potrebbe pensarsi alla sussistenza di due diverse specie di diritto, uno coevo al sorgere dello Stato, l’altro che ha la sua fonte nello Stato, secondo le enunciazioni del Donati. Non avrebbe senso, perché non rispondente al fine pel quale si afferma di dover risalire alla persona reale, intendere le due specie di diritto come eterogenee fra loro. Lo stesso Donati (p. 7) osserva come la natura e i caratteri della persona reale sono simmetrici a quelli della persona giuridica. Non può ritenersi sufficiente il rappresentare l’entità sottostante alle norme come mero fenomeno causale, occorrendo specificare la natura della causalità, la sua operatività in senso normativo. 96 prima, alla stregua del concetto di un ordinamento valido ed efficace nel suo complesso (41). Caratteri da attribuire a tali fatti. Vari modi di intendere il soggetto reale che dà vita alla costituzione. - L’indagine da effettuare per prima è dunque quella rivolta a determinare i caratteri dell’entità che si pone quale potere di fatto, operante come sostrato reale, supporto o fonte prima dell’ordine normativo, e che è quindi portatrice dell’interesse o della serie degli interessi specifici i quali promuovono la formazione dell’ordine stesso e lo caratterizzano (42). La varietà che si riscontra nella dottrina circa il modo di configurare il soggetto reale discende dalla varietà delle interpretazioni date del fenomeno giuridico in generale e della funzione ad esso inerente. Se tale funzione si intenda nel senso prima chiarito, dovrebbe riuscire non dubbio che la qualifica di ‘reale’ data al soggetto di cui si parla implichi il possesso da parte sua non solo di una capacità di azione concreta, ma di un tipo di azione suscettibile di esplicarsi in modo continuativo, ed altresì così qualificata da assicurare, da (41) Una chiara riaffermazione della funzione di presupposto che il concetto del diritto, qual è definito dalla giurisprudenza normativa (avendo per oggetto il comportamento umano che si orienta in considerazione di un ordinamento valido) assume rispetto alla giurisprudenza sociologica è dovuta al KELSEN (Teoria, cit., 178). V. anche, in senso analogo GURVITCH, L’expérience juridique et la philosophie pluraliste du droit, Parigi, 1935, 155. (42) ll richiamo ad un portatore (o Träger) del potere statale è dovuto, nella dottrina giuridica moderna, agli scrittori tedeschi che se ne servirono per spiegare la posizione del sovrano nella monarchia costituzionale, quale titolare in proprio della potestà statale (cfr. MEYER G., Lehrbuch des deutschen Staatsrechts, München u. Leipzig, 1919, 19 ss.; REHM, Allgemeine Staatslehre, Freiburg, 1899, 172; LABAND, Das Staatsrecht des deutschen Reiches (trad. franc.), I, Parigi, 1900, 163). Su tale concezione v. i rilievi critici di JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit., 553. Il termine francese equivalente di support è adoperato piuttosto dagli istituzionalisti, in senso diverso. Il DUGUIT (op. cit., I, 631) nega l’esistenza di un soggetto della sovranità, perché nega carattere di diritto al potere sovrano. 97 una parte, un minimo di durata all’ordinamento e, dall’altra, da caratterizzare il particolare tipo di Stato, consentendo di determinare il momento del suo inizio e della sua fine. Sotto quest’aspetto si palesano ovviamente insoddisfacenti sia le concezioni che si sogliono chiamare « realistiche » o « empiriche », e che identificano la realtà ultima sulla quale si fonda lo Stato con le persone fisiche dei governanti, quali effettivi titolari del potere supremo (43), sia le altre che invece la riconducono alla popolazione. Pur apparendo contrapposte, le une e le altre presentano la stessa insufficienza, perché non soddisfano all’esigenza prospettata di render conto del modo di essere dell’ordine necessario a conferire giuridicità allo Stato e conducono a risultati ugualmente aberranti: di far coincidere la nascita e la fine dello Stato, o con l’assunzione in carica e la cessazione da essa delle persone fisiche dei governanti (44) oppure con la permanenza o no della stessa popolazione risiedente nel territorio, quali che siano i mutamenti, anche se radicali, verificatisi nella sua composizione o nei fini che ne determinano l’aggregazione. Un tentativo per superare le obiezioni suscitate dalla seconda delle correnti di opinione ora riferite è quello effettuato dagli organicisti, i quali mettono a base dello Stato il popolo inteso come unità vivente, unificato da uno spirito comune, che, finché permane, determina, trasmettendosi di (43) In questo senso più specificamente il BORNHAK, Allgemeine Staatslehre, Berlin, 1896, § 1, 2. Fra le teorie realistiche si fanno rientrare, più genericamente, tutte quelle che indicano nel rapporto fra dominatori e dominati l'eterno carattere distintivo di ogni comunità politica, e vedono nel diritto pubblico la linea di delimitazione risultante dalla lotta fra la classe dominante e la massa della popolazione, attraverso cui si opera la trasformazione della mera forza in diritto. Cfr. GUMPLOWICZ, Die sociologische Staatsidee (trad. it.), Torino, 1904, 129. Cfr. anche per lo stesso indirizzo SYEDEL, Grundzüge einer allgemeinen Staatslehre (trad. it. in Biblioteca di scienze politiche, serie 2a, VIII), Torino, 1902, 1154 ss.; LINGG, Empirische Untersuchungen zur allgemeine Staatslehre, Wien, 1890, 102 ss. In Italia SIOTTO-PINTOR, I criteri direttivi di una concezione realistica del diritto pubblico, in Ann. Perugia, 1905, III, 1 ss. (44) V. i cenni critici di DONATI, La persona reale, cit., 5. 98 generazione in generazione, la continuità dello Stato, alla pari di un vero e proprio organismo dotato di vita propria (45). Qui il popolo appare qualificato in virtù di una serie di caratteri destinati a riflettersi nell’ordinamento costituzionale, e che si dovrebbero ritenere tali da consentire anche un giudizio sulla permanenza o meno del medesimo, in correlazione ai mutamenti che in esso si verificano. Senonché l’alternativa che si presenta è: o di attribuire al popolo unificato, nel senso che si è detto, una propria capacità di azione alla pari di un organismo umano, e allora i singoli vengono in certo modo privati della loro individualità, assorbiti come sono nell’ente collettivo, o viceversa di considerare l’unificazione quale risultante dal concorso delle volontà singole (come fa il Gierke), ed allora, non essendo possibile fare emergere da queste ultime una volontà unitaria, occorre risalire ad un’organizzazione, discriminare cioè nell’universalità dei cittadini quelle fra tali volontà capaci di concorrere attivamente alla sua formazione, ed effettivamente a ciò abilitate, dalle altre che rimangono nella posizione di mero oggetto della volontà collettiva (46). (45) V. sulla differenza fra organismo e organizzazione: ROMANO Santi, L’ordinamento, cit., 25. Sulle teorie organiche e neo-organiche v., oltre ad opere meno rilevanti sotto l’aspetto giuridico (come sono quelle di intonazione antropomorfica dello Schüffle e più recentemente del Kjellen), le altre classiche del GIERKE (specie, Das Wesen der menschlichen Verbände, Berlin, 1902); del PREUSS (Gemeinde, Staat, Reich als Gebietskörperschaften, Berlin, 1899); del GERBER (Die Grundzüge des deutschen Staatsrechts, Leipzig, 1880). (46) Sulla impossibilità di identificare la fonte della volontà dello Stato con un suo elemento costitutivo, qual è il popolo, cfr. DONATI, La persona, cit., 12 e citazioni ivi. Il Donati giustamente osserva che per considerare il popolo quale organismo unitario bisognerebbe trascurare i risultati dell’esperienza, i quali dimostrano quanto diversi, e spesso contrapposti, siano gli interessi e valori avvertiti dai vari individui o gruppi che lo compongono, e ciò in corrispondenza alla diversità, di supremazia o di inferiorità, delle posizioni rispettive. La volontà comune del popolo non può perciò valere come se fosse spiritualmente unitaria, dato che la partecipazione ad essa o può far difetto nei confronti di ceti più o meno numerosi, o può attuarsi in modo da escludere un vero ed efficiente loro concorso alla medesima. 99 a) Le teorie della nazione. - Né il problema si chiarisce quando si proceda ad una più specifica qualificazione del vincolo dal quale si fa derivare l’unità del popolo che si vuol porre a base dello Stato: così come avviene con le teorie della nazione, fiorite nell’epoca moderna. Il merito che potrebbe attribuirsi a tale qualificazione, (pel rilievo da questa implicitamente dato a determinati valori, intesi quali creativi di un’omogeneità atta a promuovere l’aggregazione dei singoli in un organismo unitario fornito di determinati lineamenti distintivi) si palesa poi in realtà poco consistente quando si consideri l’estrema genericità dei caratteri da cui essa risulta, e l’impossibilità di riscontrare quel minimo di requisiti indispensabili per dar vita ad un soggetto capace di azione (47). La semplice consapevolezza di una comunanza di interessi (se opera quale uno dei possibili impulsi verso l’unificazione) ha funzione di mero presupposto pel sorgere dello Stato, ma non basta a rendere attiva l’entità nel cui seno si manifesta, non basta a conferirle un potere qualsiasi, anche semplicemente di fatto. Coloro che si sono richiamati ad un potere di diversa natura non sono riusciti a dimostrarne l’effettiva sussistenza; ed anzi esso dovrebbe negarsi, se è vero, come essi stessi affermano, che ogni possibilità di azione rimane concentrata nell’organizzazione dello Stato, mentre il rapporto di rappresentanza, che si afferma sussistere fra la medesima e la nazione, risulta sfornito in definitiva di pratico significato, data la mancanza di ogni congegno idoneo a comprovare la corrispondenza dell’attività statale con gli interessi nazionali (48). Non può neanche attribuirsi una rile- (47) V. per esempio la definizione che della nazione dà il RENARD (Théorie de l’institution: essai d’ontologie juridique, Paris, 1930, 153): «una mistica incorporata in una popolazione». (48) È da ricordare in particolare, nel senso qui criticato, il tentativo, peraltro notevole, dell’ESPOSITO di costruire in termini più tecnicamente giuridici il rapporto fra l’ordine sociale e quello costituzionale. Cfr. Lo Stato e la nazione italiana, in Arch. dir. pubbl., 1937, 418 ss. e La rappresentanza istituzionale, Tolentino, 1939, in cui detto 100 vanza al sostrato nazionale sotto l’aspetto di una necessaria correlazione del medesimo con un determinato tipo di organizzazione statale, essendo invece ben noto come la determinazione del sistema da ritenere più idoneo per far rappresentare dallo Stato la volontà nazionale è stata effettuata sulla base di criteri assai diversi, ispirati, più o meno consapevolmente, da intenti politici (49). Si potrebbe pensare di attribuire al sostrato nazionale la funzione di identificare il tipo di Stato, nel senso di considerarlo mantenuto fino a quando quel sostrato permane. Ma, a parte il rilievo (che troverà svolgimento in seguito) se esso sia sufficiente ad adempierla, rimane da stabilire se la corrispondenza fra i due termini debba argomentarsi dal riferimento che le norme positive facciano al sostrato predetto o dalla permanenza effettiva di questo. Nel quale ultimo caso si ripresenta il quesito circa i caratteri da prendere in considerazione per poterla identificare. Appare degno di nota come da alcune fra le meglio elaborate opinioni qui prese in esame si ammetta, almeno im- autore sostiene la tesi della possibilità di formulare in termini di rappresentanza giuridica la sostituzione di un soggetto giuridico ad un soggetto meramente di fatto. È da ricordare come già la Costituzione francese del 1791 (ed in armonia con essa una notevole parte della dottrina di quel Paese), raffigurava come di delegazione necessaria il rapporto fra la nazione e gli organi rappresentativi (art. I tit. III). (49) Le costituzioni francesi promosse dai ceti borghesi, nella dichiarazione dei diritti dell’89 e poi, dopo la parentesi giacobina, in quella dell’anno VIII, nel porre, in luogo della sovranità del popolo, quella della nazione, vollero evitare le conseguenze che sarebbero derivate dalla prima, ed affermare invece che il potere appartenente alla nazione, intesa quale universalità ideale del popolo, deve rimanere indipendente dai singoli cittadini per assommarsi invece interamente negli organi rappresentativi, come i soli interpreti della medesima. La tesi della incompatibilità del concetto di democrazia con quello della sovranità nazionale ha avuto il più ampio svolgimento per opera del CARRÉ DE MALBERG, Contribution, cit., II, 185 ss. Contra, DUGUIT, op. cit., I, 538 ss., II, 16 e 585. In parte convergenti le teorie dei giuristi tedeschi che dall’unità dello spirito nazionale hanno argomentato per l’esclusione di un regime di partiti, fino a giungere all’affermazione del Führerprinzip, del capo carismatico, il solo idoneo a interpretare e realizzare nello Stato quell’unità. 101 plicitamente, l’insufficienza, al fine della caratterizzazione di un determinato aggregato nazionale, della pura e semplice sussistenza nei suoi componenti di una generica « volontà di vivere insieme », e si affermi quindi la necessità di risalire a particolari modi di atteggiarsi di tale volontà, a orientamenti e valori specifici, che non possono non qualificarsi lato sensu politici e che esigono strutture statali capaci di dare ad essi soddisfazione (50). Ma, se così è, non si dovrebbe dubitare della necessità, al fine dell’identificazione del tipo di Stato e della sua permanenza nel tempo, di richiamarsi non già solo al persistere del generico sentimento nazionale, bensì al mantenimento o meno di quei determinati orientamenti e valori, nonché delle forze da cui promanano. Il dire che una nazione, la quale si assorbe o si identifica in un singolo momento in uno di tali tipi di Stato, riacquista poi la sua autonomia agendo in modo diretto ed immediato quando infrange l’ordine costituito per dar vita ad uno diverso, significa trascurare l’ovvia considerazione che l’esercizio dell’asserita autonomia presuppone un’organizzazione, e questa, a sua volta, non può effettuarsi altrimenti che secondo le forme e modalità idonee a realizzare il nuovo assetto, facendo cioè operare la nazione non genericamente intesa, bensì nella veste di entità ordinata in guisa da realizzare l’ordine politico cui tende. Non appare dunque possibile attribuire rilievo giuridico ad una ‘prima costituzione’ o ‘costituzione ontologica’, che si presuma coeva al sorgere della nazione e che alimenterebbe (50) L’affermazione del testo appare comprovata da quanto si è detto in ordine alla concezione francese della sovranità nazionale, che avrebbe dovuto implicare una sola possibile forma di Stato, e cioè il regime rappresentativo, escludente sia la monarchia che la democrazia (così CARRÉ DE MALBERG, Contribution, cit., II, 193). Anche nel pensiero di ESPOSITO sembra implicito il rilievo dato alle finalità ed interessi specifici di ogni determinata fase attraverso cui passa la nazione, là dove afferma che lo Stato italiano dell’epoca cui egli si riferisce era corporativo e fascista perché tali caratteri aveva la nazione (cfr. La rappresentanza, cit., 478-479). 102 di volta in volta il sorgere delle varie costituzioni positive succedentisi nel tempo (51). Dottrine come queste ora esposte nessun altro valore possono assumere se non quello di offrire, piuttosto che una spiegazione giuridica, una giustificazione della formazione dello Stato, riconducibile, in certo modo, a quella del contratto sociale, e che dovrebbe postulare un consenso popolare rivolto a legittimare le varie costituzioni positive (52). b) Le dottrine istituzionali francesi. - Sembra così dimostrato che, una volta ammessa l’esigenza di risalire dall’ordinamento posto ad uno presupposto onde fornire al primo una base reale, da cui esso deriva ed in cui si concreta la sua intima sostanza, si rende necessario, da una parte, evitare la petizione di principio che si avrebbe se si facesse poggiare la base stessa sul medesimo sistema positivo, e dall’altra ricercare i caratteri che consentano ad essa una concreta possibilità di azione politica, in correlazione con quella della costituzione positiva (53). (51) Il Sieyès, il grande teorico del « perenne potere costituente » della nazione, la raffigurava in tale sua funzione come entità « allo stato di natura », cioè agente fuori di ogni legge. Raffigurazione esatta se rivolta ad escludere l’esistenza di leggi ad essa preesistenti, non più se volesse esprimere l’assenza di una legge ad essa intrinseca, quale le è data dalle forze sempre nuove espresse di volta in volta nel suo seno. Conforme alla stessa ragion d’essere di ogni costituzione positiva è il dettato della costituzione del 1791, secondo cui il diritto della nazione non può esercitarsi se non con i mezzi previsti dalla costituzione, in contrapposto a quello della dichiarazione giacobina dei diritti, che invece proclamava « il diritto del popolo di cambiare in ogni momento la sua costituzione ». (52) A riprova può farsi richiamo a quanto afferma il CARRÉ DE MALBERG (Contribution, cit., II, 492, n. 6) sulla ‘illegittimità’ di ogni organizzazione statale fondata sulla forza. Poiché lo stesso autore aveva messo in rilievo l’impossibilità di risalire ad un diritto anteriore allo Stato, cioè ad una concreta organizzazione di effettivo dominio e di costrizione, si deve ritenere che il consenso richiesto a legittimare lo Stato sia da intendere come non derivato da questo, bensì ad esso precedente, e quindi di puro diritto naturale. (53) È da osservare che la trascuranza di quanto si osserva nel testo ha condotto il Donati, allorché egli passa dalla parte critica che si è riferita a quella ricostruttiva del suo pensiero, a contraddire alle premesse poste ed a lasciare insoddisfatte le esigenze da 103 Le numerose teorie (elaborate dalla dottrina francese, italiana e tedesca), che, come quella della nazione, si ricollegano, in modo più o meno diretto, all’organicismo del Gierke, e che si possono raggruppare sotto la generica qualifica di « istituzionali », vantano il merito di avere, sia pure con differenti gradi di approfondimento, messo in rilievo l’elemento organizzativo (trascurato dai teorici della nazione), da postulare in una società affinché questa operi appunto quale ‘istituzione’, quale entità in sé ordinata intorno a certi fini (che non sono quelli generici del conseguimento del bonum commune, bensì di un particolare modo di intendere e di conseguire tale bonum) ed a certe forze qualificate da un’intima connessione con quei fini; fornita pertanto di un’intrinseca giuridicità, che dovrebbe consentire di superare la dicotomia fra i due ordini, istituzionale e legale (54). Alla più o meno chiara affermazione di tale esigenza non sembra però che corrisponda in nessuna di dette teorie un’altrettanta precisa individuazione sia degli elementi necessari a conferire la giuridicità che si postula, e sia del rapporto fra originante e originato. Ciò risulterà da una breve esposizione delle meglio significative fra esse. Un posto a sé deve farsi a quella parte della dottrina francese (che ha come suo più eminente rappresentante il Duguit), che, pur configurando nel modo che sembra più esatto lui stesso messe in rilievo. Infatti, affermando com’egli fa, che la «persona reale» dello Stato, la sua sostanza e la fonte del suo diritto, sia formata dal complesso dei suoi funzionari, il Donati, da una parte viene a cadere nello stesso errore che aveva rimproverato alle dottrine empiriche, e dall’altra trascura di considerare che l’assetto organizzativo nel quale i funzionari si inseriscono presuppone il diritto statale e non può porsene pertanto quale fonte. In realtà il Donati, lungi dal risolvere il problema propostosi, si limita alla constatazione che, essendo lo Stato un’entità astratta, la volontà che giuridicamente si imputa ad esso è la volontà concreta delle persone fisiche dei titolari dei suoi organi. (54) Esattamente il RENARD ha rilevato come il diritto costituzionale nel suo significato materiale, porta in sé tutta la teoria dell’istituzione (in Qu’est-ce-que le droit constitutionnel?, in Mélanges Carré de Malberg, Parigi, 1934, 485). 104 la struttura da porre a fondamento del potere statale, e che è fatta consistere nei rapporti di dominazione risultanti dalla differenziazione dei gruppi socialmente più forti che si impongono agli altri più deboli, la colloca tuttavia fuori del diritto come mera potestà di fatto, non suscettibile di limiti giuridici. Secondo il Duguit ogni vero ordinamento giuridico esige che i rapporti intersubbiettivi si ordinino sulla base di una solidarietà sociale, qual è quella che risulta dalla convinzione psicologica della giustizia delle regole spontaneamente sgorganti dal seno della società, e che formano il diritto oggettivo. Lo Stato, secondo tale impostazione, cessa di essere espressione di forza solo quando si piega alla regola di diritto, e si costituisce sulla base di una convergenza di interessi fra loro equilibrantisi, all’infuori di ogni coazione ad essi esteriore (55). Appare chiaro come i presupposti realistici che vengono fatti valere da tali concezioni non risultano idonei ad offrire il fondamento della costituzione statale, perché finiscono con il collocarli, almeno implicitamente, fuori del diritto, ponendo una specie di incompatibilità fra quest’ultimo e lo Stato (considerato nel suo aspetto non eliminabile di apparato coattivo), con la conseguenza di togliere rilievo pratico all’at- (55) Cfr. DUGUIT, op. cit., I, 116 ss. e 534 ss. La dottrina del Duguit si collega al filone di pensiero (che ha avuto in Francia la sua più significativa espressione nell’opera del Proudhon) che vede il rapporto fra società e Stato in termini di contrapposizione, e giunge all’assorbimento del secondo nella prima, nella quale solo si fa consistere la vera giuridicità. Presupposti analoghi stanno alla base dell’ideologia marxista, che, se vede nello Stato il prodotto di determinate strutture economico-sociali che ne dirigono l’azione in senso contrario alla solidarietà sociale, vi scorge anche lo strumento che, con il verificarsi di certe condizioni, può rivolgere il proprio apparato coattivo al fine della totale e definitiva eliminazione di quelle strutture, rendendo possibile il ricostruirsi di un ordine spontaneo, e con esso segna la sua stessa eliminazione, pel venir meno delle ragioni da cui sorge. Il DUGUIT invece affida il verificarsi di tale evento all’autorganizzarsi della società intorno ai sindacati professionali, che, equilibrandosi a vicenda, darebbero vita ad uno Stato di mera amministrazione, gestore di servizi pubblici, senza potestà di comando (op. cit., 665). 105 tribuzione, che esse pure non contestano, di un’intrinseca giuridicità alla società sottostante all’organizzazione statale. Può aggiungersi che le concezioni medesime, lungi dal portare un contributo di approfondimento alle dottrine giusnaturalistiche o a quelle della volontà popolare, negandone le premesse su cui poggiano, le svuotano di ogni valore. Diversa valutazione deve farsi del pensiero dell’Hauriou (56), perché il tentativo da lui compiuto di superare la dicotomia società-Stato è animato dalla consapevolezza che l’aggancio fra l’una e l’altro si rende possibile solo a patto di intenderli entrambi in termini di piena giuridicità, e pertanto considerando l’istituzione sottostante all’ordinamento costituzionale (l’elemento ontologico del diritto) organizzata essa stessa sulla base di posizioni di sopra e sotto-ordinazione, cui presiede la volontà di un ‘fondatore’. Tale volontà può più propriamente intendersi nel senso del potere di un gruppo sociale minoritario, il quale tende a ‘nazionalizzare’ le istituzioni governative, estendendo il consenso o la partecipazione ad esse (57) e che è diretta da una finalità, raffigurabile quale autoscopo, espressione dell’idea-forza che plasma di sé l’intera realtà sociale, e che è da considerare l’elemento più importante di ogni istituzione corporativa. I concetti ora riferiti costituiscono il nucleo veramente vitale dell’opera dell’Hauriou: anche se il loro valore è sminuito dalle oscurità ed incertezze delle premesse poste e degli svolgimenti ad essi dati dall’autore, che li fa oscillare fra due poli opposti: o di una estrema genericità del modo di configurare l’istituzione, (56) Svolto, com’è noto, in una serie di scritti particolari, che vanno dal primo (L’institution et le droit statutaire) pubblicato in Recueil de législation de Toulouse, 1906, 134 ss., all’ultimo La théorie de l’institution et de la fondation (in Cahiers de la nouvelle journée, Parigi, 1925, IV) e nelle trattazioni generali Principes de droit public, Parigi, 1916, 41 ss. e Précis de droit constitutionnel, Parigi, 1929. V. anche L’ordre social, la justice et le droit, in Rev. trim. dr. civ., 1927, 195 ss. (57) Cfr. HAURIOU, Précis de droit constitutionnel, cit., 230. 106 così da privarla di rilievo giuridico, o, viceversa, di un’eccessiva determinatezza dei suoi caratteri organizzativi fino al punto da considerare necessarie ad essa le stesse strutture proprie del tipo di Stato rappresentativo e di diritto (58). c) Le dottrine istituzionali italiane. - Obiezioni sostanzialmente non dissimili, di genericità da una parte, di mancato approfondimento del rapporto dell’istituzione con il sistema normativo dall’altra, suscitano le concezioni istituzionalistiche italiane e tedesche. Promotore delle prime può considerarsi il Romano, al quale si deve una delle più acute ed esaurienti dimostrazioni della necessità che v’è di risalire all’istituzione sociale (da considerare non già fonte esterna al diritto bensì diritto essa stessa) onde poter conseguire un’esatta visione del fenomeno giuridico. Tuttavia non solo non si ritrovano nell’opera del Romano quelle applicazioni all’ordinamento dello Stato, che sembrerebbero dover discendere dalle premesse da lui poste, ma vi sono affermazioni che le svuotano di ogni concreto rilievo. Infatti non è sufficiente porre a requisito dell’istituzione, onde ridurla a concetto giuridico, l’esistenza obiettiva di un corpo sociale, inteso quale entità in sé chiusa o dotata di una ‘suità’, quale « unità ferma e permanente nonostante il mutare dei singoli suoi elementi », se prima non si determini se fra questi elementi (identificabili nelle persone, nei mezzi, (58) V. sul punto le esatte osservazioni critiche dell’ORLANDO, Recenti indirizzi, cit., 298 e specie 301 ss. V. per altre osservazioni sull’opera dell’Hauriou, MORTATI, La costituzione in senso materiale, Milano, 1940, 63. Nessun progresso rispetto a tale opera sembra abbia arrecato il RENARD (nelle sue opere principali: Théorie de l’institution, cit.; L’institution: fondements d’une rénovation de l’ordre sociale, Parigi, 1933; La philosophie de l’institution, Parigi, 1939), che considera come separate istituzioni (senza chiarirne gli elementi differenziali ed i rapporti) la nazione e lo Stato. Cfr. BOBBIO, Istituzione e diritto sociale, in Riv. intern. fil. dir., 1936, 385 ss. 107 negli interessi, nei destinatari) ve ne siano alcuni così connaturati con l’ente o con un determinato tipo di ente, da non poter subire dei mutamenti senza che il mutamento incida sulla stessa identità di questo. È vero che il Romano si richiama anche al ‘principio vitale’ che deve animare, tenere riuniti i vari elementi costitutivi, promuovere ed assicurare il processo espansivo dell’istituzione: principio per la cui esistenza si postula una forma, fatta tuttavia consistere non in altro che nei caratteri i quali consentono di affermare la sua connessione, o meglio la sua immanenza nell’istituzione (59). Si tratta però solo di un cenno che, almeno per quanto riguarda il punto che qui interessa dell’ordinamento dello Stato, non solo non riceve alcuno svolgimento (rimanendo ancora più vago di quanto non sia quello dato dall’Hauriou con il riferimento all’idea-forza) ma anzi, come si è osservato, sembra contrastare con l’opinione dello stesso autore, che fa coincidere il momento formativo dello Stato nell’autenticazione che di questo fa la costituzione formale, ed induce a far ritenere esaurita in questa ogni funzionalità del corpo sociale su cui sorge. Con il risultato di assorbire nell’elemento legale quello istituzionale, e di attribuire a quest’ultimo in definitiva un valore meramente storico, non già giuridico, come invece i presupposti assunti avrebbero dovuto condurre a far ritenere (60). (59) Da quanto il ROMANO dice circa il ‘principio’ su cui poggia l’ordinamento internazionale (L’ordinamento, cit., 51) si dovrebbe argomentare che esso sia da intendere precisamente come il complesso di valori, interessi, ecc. quali risultano dai rapporti di forza fra i soggetti che lo compongono. Se tale interpretazione si estenda all’ordinamento statale si dovrebbe affermare, implicitamente, una coincidenza del pensiero del Romano con quello che viene sostenuto in questo scritto. (60) Cfr. ROMANO Santi, Princìpi di diritto costituzionale generale, Milano, 1945, 23 ss. La contraddizione nel pensiero del Romano è rilevata dall’ORLANDO, Recenti indirizzi, cit., 293. Anche in Romano si può notare un’oscillazione analoga a quella rilevata nell’Hauriou fra la concezione che conduce a richiedere per l’istituzione un complesso di strutture organizzative idonee ad offrire la possibilità della personifica- 108 d) Le dottrine istituzionali tedesche. - Tentativi di raggiungere un maggior grado di concretezza nella ricerca della specifica sostanza dello Stato come oggetto della regolamentazione costituzionale sono stati compiuti dalla moderna dottrina tedesca, soprattutto ad opera dello Smend e dello Schmitt. Il primo vede tale sostanza in un « principio dinamico del divenire dello Stato », in un principio cioè che si realizza attraverso un continuo processo di « integrazione » fra i singoli e la comunità, che assume tre aspetti (a seconda dei diversi fattori che la promuovono), personale, funzionale e reale, e che trova nella costituzione il valore ordinativo del processo predetto, il criterio base della fenomenologia integrativa. La costituzione pertanto opera non già solo come norma, ma come intreccio intimo di valore (norma) e di realtà (integrazione) ed in tale intreccio si risolve la sua giuridicità (61). Nelle impostazioni riferite si rinvengono elementi di notevole interesse, ma che tuttavia appaiono tanto generici da non riuscire utilizzabili in modo proficuo a chiarire il rapporto fra le due parti, che la costituzione dovrebbe unificare. Illuminante potrebbe apparire il riferimento che lo Smend fa ai « supremi valori politici » i quali valgono a caratterizzare lo Stato allorché esso li positivizza; ma in realtà così non è perché l’autore considera rilevanti tali valori in quanto siano dif- zione, e quella che invece raffigura l’elemento che fa dell’istituzione una unità ferma e permanente in termini di così estrema genericità da consentire di ricondurla a quelle entità (come per esempio la nazione) delle quali si è già dimostrato la insuscettibilità di porsi a fondamento della costituzione. Esattamente il BALLADORE-PALLIERI, Dottrina, cit., 168, ha messo in rilievo il dubbio se il concetto di istituzione del Romano si debba riferire all’aspetto reale dello Stato o a quello formale, osservando che esso potrebbe acquistare un senso solo se interpretato nel primo modo. Sicché l’assorbimento che il Romano stesso finisce con il fare dell’uno degli aspetti nell’altro toglie pregio alla sua costruzione. (61) Particolare importanza fra le opere dello SMEND ha lo scritto Verfassung u. Verfassungsrecht, pubblicato nel 1918 ed ora ripubblicato in Staatsrechtliche Abhandlungen, Berlin, 1955, 119-276. 109 fusi nella coscienza sociale, sicché in definitiva essi, anziché presentare un qualche carattere di stabilità, risultano subordinati all’incessante mutamento cui la coscienza medesima è sottoposta. Si dovrebbe allora concludere che il supremo criterio integrativo non offre alla soluzione del problema della costituzione elementi diversi da quelli risultanti dalle concezioni psicologistiche, o genericamente sociali. Lo Schmitt ha dedicato particolare attenzione alla distinzione già posta dallo Smend fra costituzione assoluta e costituzione positiva (relativa), o, altrimenti detta, costituzione e legge costituzionale, affermando che a fondamento di quest’ultima debba porsi una ‘decisione’ circa la specie e forma dell’unità politica di un popolo, nella quale si esprime il suo status politico, condizionante non già gli aspetti formali ma quelli sostanziali dell’attività giuridica dello Stato (62). Se è merito dello Schmitt avere posto in più preciso rilievo l’esigenza di ricercare la base di un ente politico, qual è lo Stato, in una concezione politica fondamentale, deve tuttavia rilevarsi come egli non abbia raggiunto una sufficiente determinatezza nell’individuazione tanto del soggetto che deve considerarsene portatore (cioè nella specificazione del grado e specie della struttura organizzativa del gruppo di cui esso è esponente) quanto del contenuto che essa deve assumere perché ne rimanga contrassegnata (63). Non è chiaro, infatti, in primo luogo, se la detta funzione di portatore debba spettare al popolo, nella veste che assume allorché si dà « la prima ed originaria costituzione », con la quale, costituendosi per la prima volta in Stato, realizza l’unità politica che rimane uguale a se stessa pur nel mutamento dei princìpi organizzativi (ciò che farebbe ritornare alla gene- (62) Cfr. SCHMITT, Verfassungslehre, cit., 1929, 23 e 59. (63) Giustamente ha osservato lo HENRICH (op. cit., 192) che definire la costituzione come decisione non fa fare nessun passo avanti al problema. 110 ricità propria delle teorie organiciste), o se invece al popolo ordinato secondo uno specifico assetto ispirato da un particolare criterio aggregativo, che allora non potrebbe mutare senza che muti la costituzione fondamentale. Uguale incertezza si nota in ordine al modo di intendere l’attività che, dopo aver dato vita allo Stato agendo quale potere costituente, ne dirige gli svolgimenti. Se da una parte lo Schmitt nega che essa possa configurarsi come mero decisionismo dovendo invece ricollegarsi a princìpi che le conferiscono stabilità, dall’altra intende poi tali princìpi in modo da privare quell’attività dei caratteri necessari a sottrarla al puro soggettivismo. Il merito dello Schmitt si esaurisce quindi nella riaffermazione dell’esigenza di includere nella categoria della statualità, come componente necessaria alla sua configurazione giuridica, il « concreto ordine ed assetto della società » sottostante al sistema normativo, quale risulta da un principio politico che lo permea in ognuna delle sue strutture e ne forma la costituzione, e di cui il sistema predetto non è causa ma conseguenza, senza però che riescano spiegate la natura e la consistenza del rapporto che, secondo le premesse, dovrebbe postularsi fra il sostrato reale e la costituzione formale. È vero che lo Schmitt ha, meglio di quanto non sia accaduto al Romano, avvertito l’impossibilità di spiegare la fenomenologia di uno Stato concreto in termini di puro normativismo, ma la imprecisione dei caratteri attribuiti alla decisione sul modo di essere politico di una società che diviene Stato non consente di intendere i modi ed i limiti della funzione che ad essa compete (64). (64) Ciò risulta comprovato dalla considerazione che il principio del Führer (uno di quelli fondamentali secondo lo Schmitt dell’ordine concreto cui egli si è riferito in altri suoi scritti), non trova un limite (sufficiente ad evitare che esso si faccia valere come mero decisionismo) nell’altro principio della ‘comunità di stirpe’, dato il carattere vago da questo rivestito, e che non si supera quando se ne affermi genericamente la politicità. Quando poi lo Schmitt tenta di uscire dalla genericità e passa a 111 Conclusioni dell’esame e ricostruzione. - L’esame, sia pur breve e sommario, delle dottrine che si sono chiamate, genericamente, istituzionali sembra aver mostrato come queste, sia pure per vie diverse o contrapposte, giungono al risultato di contraddire alle stesse premesse da cui partono e di compromettere le finalità perseguite. Ciò perché esse, come si è visto, o cadono nell’estremo di risolvere senza residui la « complessa e reale organizzazione in cui lo Stato effettivamente si concreta » nell’ordinamento giuridico, regolato nella sua parte fondamentale dalla costituzione formale, la quale con il suo sorgere segnerebbe l’instaurazione dell’impero del diritto ed il superamento della fase prodromica e preparatoria, appartenente al mondo ‘dei fatti’. Oppure, orientandosi verso un estremo opposto, non si danno cura di precisare i caratteri che devono considerarsi necessari per potere assegnare all’organismo societario la funzione di fondare la costituzione, di stabilizzarla e dirigerne gli svolgimenti, e così giungono al risultato di considerare sufficienti ad identificare i singoli ordinamenti e far giudicare della loro permanenza nel tempo i soli elementi personale e territoriale, con la conseguenza di non riuscire a sottrarsi alla non immeritata censura di sociologismo. Non senza sorpresa si constata come vengano a confluire verso risultati convergenti correnti di pensiero, le quali pur muovono da punti di vista contrapposti. Così, per esempio, il solco che sembra dividere l’istituzionalismo del Romano ed il normativismo del Kelsen si appiana per il fatto che l’uno e l’altro finiscono con il respingere nel campo del pregiuridico la realtà sociale, richiamata da entrambi, ma su presupposti e delle esemplificazioni storiche di decisioni politiche, mostra di intenderle in modo da riflettervi le particolarità organizzative della costituzione formale (così quando dice che la Costituzione francese del 1791 contiene la decisione politica popolare di instaurare una monarchia costituzionale con due rappresentanti del popolo: il re e l’assemblea legislativa). Per altre osservazioni critiche al pensiero dello Schmitt cfr. anche la successiva nota 199. 112 con fini diversi (65). Così ancora il formalismo kelseniano, svincolando la volontà della suprema autorità da ogni limite sostanziale di contenuto, consentendole qualunque mutamento, anche il più radicale dell’ordine costituito, viene in certo senso a sboccare nel ‘decisionismo’. Per poter, invece, trarre dalle concezioni istituzionali elementi sufficienti a fornire una risposta agli interrogativi che le hanno promosse (e che non vengono certamente soddisfatte ove si ritenga che la struttura sociale si muova e operi in un campo diverso dal sistema normativo) occorre ammettere un rapporto giuridicamente rilevante fra l’ordine concreto di una società ed il sistema costituzionale positivo instaurato in questa, e pertanto postulare un’omogeneità di natura fra i due termini, una qualche corrispondenza negli elementi da ritenere costitutivi di entrambi. Ora se ogni costituzione formale assume, secondo si è detto, una funzione strumentale (rivolta com’è alla soddisfazione, non già solo del generico interesse ad una convivenza ordinata, ma di un interesse qualificato dal particolare tipo di convivenza, quale risulta dai valori che la caratterizzano, dal modo di valutare le posizioni dei singoli che entrano a comporla e dal sistema dei rapporti ad esse corrispondenti) è necessario che la società ad essa sottostante si presenti non già come entità del tutto amorfa, o tenuta insieme solo dalla comunanza dei fattori ambientali, psicologici, naturalistici (i quali possono venire in considerazione solo come presupposti), bensì già in sé strutturata sulla base di certi fondamentali orientamenti, sufficienti ad ispirare il sistema dei rapporti economici, religiosi, culturali, ecc. che in essi svolgono. In altri termini, l’organizzazione sociale, per porsi a base della costituzione, deve presentarsi in (65) Il PIOVANI, op. cit., 63 nota l’analogia fra la «necessità iniziale» del Romano e la «norma-base» del Kelsen. Come nel termine di «decisione» si celi un elemento normativo hanno messo in rilievo lo HENRICH, op. cit., 191, e lo HÜBER, Wesen u. Inhalt der politischen Verfassung, Hamburg, 1935,40, nonché lo stesso SCHMITT, Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens, Hamburg, 1934, 28. 113 qualche modo già politicamente ordinata, secondo la distribuzione delle forze in essa operanti e le posizioni di sopra e di sotto-ordinazione che queste determinano. Sono i gruppi, prevalenti in virtù del potere di fatto esercitato, che ricercano nella costituzione lo strumento idoneo alla tutela degli interessi di cui sono portatori, al consolidarsi dei princìpi di vita associativa che meglio giovano alla stabilizzazione ed al più ordinato svolgimento del potere stesso. Questi gruppi preminenti possono diversamente denominarsi, benché l’espressione ‘classe governante’ appaia quella più adeguata a raffigurare il fenomeno che si vuol mettere in rilievo del potere reale su cui poggia quello legale. Classe governante è qui intesa in un senso ampio, comprensivo degli individui e dei gruppi detentori delle varie posizioni che di fatto sono capaci di assicurare un predominio (il possesso delle armi, o del suolo, o di beni mobili, o di quello che può chiamarsi patrimonio spirituale, costituito da valori religiosi e culturali). Una specificazione del concetto si ottiene quando si distinguono dai titolari di tali forme di possesso (cui può darsi il nome di ‘classe dirigente’) i detentori del potere di esercizio dell’attività attraverso cui si estrinseca la volontà dello Stato (che compongono la ‘classe politica’). Questi ultimi, anche nel caso che siano reclutati fra i primi, operano (organizzandosi nel loro interno secondo una struttura oligarchica) quale strumento tecnico della classe dirigente, in quanto, sotto l’influenza della medesima, concretano, di volta in volta, e per la migliore realizzazione dei fini suoi propri, gli orientamenti dell’azione statale (66). (66) Per la connessione fra classe e costituzione nel pensiero classico v. in particolare: ARISTOTELE, Politica, cit., cap. IV, V e VI, passim, p. 23, prefazione alla edizione italiana. V. la rassegna storica del DE MATTEI, Embrioni e anticipazioni della teoria della classe politica, in Riv. intern. fil. dir., 1932, 235 ss. Fra gli scrittori socialisti, particolarmente importante il breve ma denso scritto di LASSALLE F., Über Verfassungswesen, Berlin, 1862, 10 ss. che si richiama alla concezione marxista dello Stato come « comitato esecutivo della classe dominante ». V., poi, oltre l’opera fondamentale del MOSCA, Elementi di scienza politica, Roma, 1896, 60 ss. (di tendenza conservatrice), 114 La distinzione fra le due sottospecie della classe governante si riflette nel fenomeno della non corrispondenza, a volte riscontrabile, tra i fini che effettivamente muovono gli appartenenti alla prima e le proclamazioni di principio (quelle che il Mosca designò con il nome di ‘formule politiche’) desunte da DORSO G., Dittatura, classe politica, classe dirigente, Torino, 1955; BURZIO F., Essenza ed attualità del liberalismo, Torino, 1945; CRISAFULLI, Realtà e concetto giuridico dello Stato, in Soc., 1949, 221. Sulla priorità delle strutture economico-sociali rispetto a quelle politiche, v. anche JELLINEK G., Verfassungsänderung u. Verfassungswandlung, cit.; SOMLÒ, op. cit., 312; STRAUSS W., Wirtschaftsverfassung u. Staatsverfassung, Tübingen, 1952, 20 ss.; VEDEL, Manuel élémentaire de droit constitutionnel, Parigi, 1949, 253; BURDEAU, Traité de science politique, III, Parigi, 1949, 221; GUMPLOWICZ, op. cit., 160; DUGUIT, op. cit., II, 655; SCHINDLER, Verfassungsrecht u. soziale Struktur, Zürich, 1932, 92 ss.; RIVERO, Constitutions et structures sociales, in Droit social, 1947. Sul ceto « effettivamente dirigente » cfr. BELING, Revolution u. Recht, Augsburg, 1923, 23. Cfr. anche sui rapporti fra classi e partiti politici DUVERGER, Partis politiques et classes sociales en France, Parigi, 1955; LAVAU, Partis politiques et realités sociales, Parigi, 1923. Nella letteratura italiana, GUELI, Il regime politico, Roma, 1949, 30. Le concezioni marxista e leninista considerano la costituzione dello Stato come espressione delle forze sociali dominanti muovendo dal ristretto angolo visuale dell’appropriazione privata dei mezzi di produzione, e pertanto dalla scomparsa di tale fenomeno deducono la conseguenza della trasformazione dello Stato in mera organizzazione amministrativa di pubblici servizi. È invece più vicina alla realtà l’opinione che ritiene ineliminabile l’organizzazione coattiva del potere in correlazione con i rapporti delle forze sociali, differenziate fra loro in ragione della diversità degli interessi e dell’effettivo potere di cui riescono a disporre. Pensabile non è già l’eliminazione ma solo l’attenuazione di tale fenomeno, quale può ottenersi imprimendo una più accentuata mobilità sociale (quella che il Pareto chiamava « circolazione delle aristocrazie ») che può riuscire a neutralizzare la spinta sovversiva dell’ordine costituito da parte della classe dominata. Mobilità necessariamente limitata dal fenomeno, messo bene in rilievo dai sociologi, della tendenza delle classi dominanti a divenire, di fatto, ereditarie, riuscendo a perpetuare nel tempo il monopolio del potere. Su tale fenomeno, nel quale si esprime anche la cosiddetta legge della degenerazione oligarchica delle democrazie, v., in particolare, con riferimento agli USA, l’opera di WRIGHT MILLS, The Power Elite (trad. it.), Milano, 1959. L’ipotesi di una ruling élite, formulata dallo scrittore ora citato, è stata confutata da DAHL R. A. (A Critique of the Ruling Elite Model, in American Political Science Review, 1958). Ma v. le osservazioni avverso le impostazioni del DAHL DI LAVAU, Nota sulle élites politiche, negli Atti del IV Congresso mondiale di Sociologia, Bari, 1961, 83. Cfr. anche in questo stesso volume la relazione, e ivi la storia dell’idea, di PENNATI, Le élites politiche nelle teoriche minoritarie, 3-53. 115 convinzioni popolari o dottrinali, spesso di carattere mitico (67) elaborate e diffuse da coloro che compongono la seconda. Fenomeno nel quale si manifesta l’esigenza di occultare, sotto apparenze suggestive, i reali interessi che alimentano quei fini ed offrire una giustificazione del potere posseduto di fatto, onde meglio assicurargli consensi quanto più possibile vasti. Di fronte a quella dominante sta la classe dominata, includente quanti non sono partecipi del potere o lo sono in posizione di effettiva subordinazione. Per ottenere tale risultato si escludono (finché ciò si renda possibile) i portatori di interessi non coincidenti con quelli dei ceti privilegiati dalla titolarità dei diritti politici, e si limita altresì nei loro confronti l’esercizio degli altri diritti ad essi strettamente connessi (come la libertà di stampa e di associazione). Anche quando gli esclusi si fanno promotori di movimenti rivolti ad ottenere la partecipazione alla vita politica e riescono nel loro intento, l’opera delle forze dominanti si svolge nel senso di neutralizzarne l’efficienza e di indebolire la spinta verso la trasformazione, nelle vie legali, dell’assetto sociale esistente. A ciò giova sia l’uso arbitrario del potere statale (dalla messa fuori legge dei partiti che si definiscono ‘non di governo’, alla corruzione elettorale, all’impiego, a scopi di repressione o di intimidazione, delle forze di polizia e di quelle armate), sia l’utilizzazione dei mezzi offerti dal predominio economico, verso il quale gravitano anche, in ragione della convergenza di interessi materiali che viene a determinarsi, gruppi religiosi, culturali, ecc., e che si esplicano nelle forme più varie (dalla influenza sulla formazione della pubblica opinione attraverso la disponibilità quasi esclusiva degli strumenti di diffusione del pensiero, con la conseguente formazione di ideologie, di miti, costituenti la cosiddetta sovra- (67) V. su ciò anche ROMANO Santi, Mitologia giuridica, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1953, 126. 116 struttura ideologica del regime esistente; dalla formazione artificiosa di organizzazioni di partito o sindacali, indirizzata allo scopo di rompere l’unità delle forze avverse, agli allettamenti diretti a captare frazioni a queste appartenenti, alla minaccia di sanzioni religiose, ecc.). Dev’essere chiaro che alle distinzioni fatte per precisare il modo di essere della costituzione materiale è da attribuire valore di tipizzazione generalissima, che però trova riscontro nelle varie costituzioni positive, sia pure in forme.più o meno composite, in relazione alle varie situazioni ambientali. In particolare è da mettere in rilievo come la ‘classe’ non può essere considerata quale blocco unitario e compatto, risultando invece composta da più ceti (o sottoclassi), che possono anche trovarsi in lotta fra loro. Ed in conseguenza, fino a quando le forze estranee alla classe dominante rimangono fuori della lotta politica, i ceti in essa inclusi (ad esempio: agrari e industriali) sono di questa i soli protagonisti, sicché l’alternativa al potere degli uni e degli altri, nella dialettica di governo-opposizione, si presenta come mezzo normale del suo esercizio, reso possibile dalla comune concordanza ai valori fondamentali che reggono la consociazione statale, ed è tale da assicurare l’omogeneità sociale necessaria al regolare funzionamento delle istituzioni statali (68). (68) La cosiddetta ‘omogeneità sociale’ non può essere intesa in senso naturalistico, come qualche cosa di dato e di permanente, essendo ogni società politica caratterizzata da una molteplicità di interessi che, per la disuguaglianza di posizione dei loro portatori, non riescono ad essere tutti ugualmente rappresentati e fatti valere. A seconda della varietà degli ambienti, le forze dominanti riescono a mantenere l’unità del sostrato sociale necessaria alla formazione e al mantenimento della costituzione con mezzi diversi. Così la stabilità dei regimi cosiddetti liberali dell’800 viene assicurata disconoscendo la capacità politica alla parte più numerosa della popolazione, lasciata in uno stato amorfo ed inarticolato e privata dell’esercizio dei diritti associativi, che avrebbe potuto condurre al suo superamento. Negli Stati moderni, che si sono chiamati ‘totalitari’, lo stesso fine si consegue con altri strumenti e principalmente con l’opera capillare di compressione esercitata dal partito unico di Stato. 117 Quanto si è detto vale a contestare la validità dell’obiezione che è stata formulata contro il modo qui assunto di intendere la costituzione materiale da coloro che considerano la realtà dello Stato come prodotto di un processo circolare, nel quale ognuno dei componenti esercita una funzione attiva, quale si ha anche con la stessa obbedienza che, essendo libera, potrebbe essere rifiutata facendo venir meno il dominio (oboedientia facit imperantem). È facile obiettare che l’obbedienza, in quanto comportamento passivo, non può considerarsi elemento costitutivo, mentre sono i fattori politicamente attivi, che, operando nel senso di prevenire o combattere la resistenza ad essi, conferiscono all’obbedienza media dei soggetti valore di prodotto e non già di producente del potere statale. Ciò appare comprovato dalla considerazione che la disobbedienza, anche quando sia diffusa, se pur può determinare la decadenza di un ordinamento giuridico, non è di per sé suscettibile di porre alcunché al suo posto (69). Risulta così chiarito che la società da cui emerge ed a cui si collega ogni particolare formazione statale possiede una sua intrinseca normatività, quale le è appunto data dal suo ordinarsi intorno a forze ed a fini politici. È tuttavia da notare un differente atteggiarsi di tali totalitarismi in confronto alla tendenza che qui si esamina verso le costituzioni formali. Mentre i regimi totalitari che poggiano sul mito dell’unità della razza in senso naturalistico non indulgono a tale tendenza e danno vita a forme di dominio individualizzato, accentrato nella persona di un capo carismatico, espresso dal genio della stirpe e tale da non trovare di fronte a sé pretese di altri soggetti capaci di arrestarlo, viceversa quelli sorti da una radicale trasformazione della struttura sociale e rivolti a realizzare rapporti più equi fra i cittadini non si distaccano da quella tendenza ed affidano alla costituzione scritta la dichiarazione dei princìpi intorno ai quali si articola la nuova società, e dànno vita a dittature, non già di uomini ma della classe che si considera attiva, ritenute necessarie per giungere a conseguire l’effettività del godimento dei diritti che vengono riconosciuti di fronte allo Stato. (69) In sostanza la tesi della ‘circolarità’ riconduce il diritto alla realtà vivente, ma postula una situazione di fatto ideale, in cui ciascuno abbia la possibilità di influenzare la volontà comune in posizione di uguaglianza, e trascura di considerare 118 Tale normatività si differenzia da quella propria del sistema delle norme derivate per la mancanza di forme precostituite (il che non contraddice alla qualifica assegnata, se è vero, come afferma anche il Romano (70), che diritto non è solo e necessariamente forma), ed altresì per la diversità del contenuto: ciò perché essa non opera una specifica predeterminazione di comportamenti, ma si limita ad enucleare interessi associativi, che si impongono come scopi dell’azione statale (e non vi è ragione di dubitare della giuridicità di criteri di giudizio concretantisi nell’indicazione di fini da conseguire). Il che porta anche a far ritenere che l’ordine fondamentale intrinseco ad una società non può mai esprimersi in una sola norma-base, qual è stata configurata dal punto di vista formalistico proprio del Kelsen, ma in una molteplicità di princìpi, che si presentano quali particolari aspetti di una Weltanschauung politica (71). come, a parte le stratificazioni derivanti dall’esercizio di potere tradizionale, sono le stesse disuguaglianze naturali che determinano concentrazioni di forza politica in gruppi oligarchici. Sul rapporto fra forza e convincimento sociale v. anche QUADRI, Diritto internazionale, cit., 32, nel senso che l’autorità sia causa della convinzione, e RADBRUCH, Grundzüge der Rechtsphilosophie, Leipzig, 1914, 164. Sulla circolarità v. anche ROSS, op. cit., 366 ss., il quale la intende nel senso che la convinzione popolare trasformi la norma fondamentale dalla posizione ad essa propria di puro fatto a quella di normatività, e ciò perché essa vuole la norma stessa in quanto crede che valga indipendentemente da sé: la convinzione così creerebbe il suo proprio obietto. Si può replicare che non lo crea, ma lo riconosce qual è, intrinsecamente giuridico. (70) Cfr. L’ordinamento, cit., 40. Nello stesso senso SCHMITT, Verfassungslehre, cit., 76. (71) È stato contestato che a base di un ordinamento possano porsi più norme fondamentali coesistenti, essendosi fatto rilevare che, in tal caso, o la molteplicità delle norme darebbe luogo ad una pluralità di ordinamenti originari (così MORELLI, Nozioni di diritto internazionale5, Padova, 1958, 9), oppure che sarebbe da postulare, onde mantenere l’unità dell’ordinamento, una norma ancora più elevata cui ricondurre le altre (così SPERDUTI, La fonte suprema dell’ordinamento internazionale, Milano, 1946, 145). Il rilievo appare ineccepibile quando, come fanno gli autori ora ricordati, si raffiguri la norma-base come norma sulla produzione. Esso invece perde la sua validità 119 Come vi è una considerazione funzionale-teleologica di singoli istituti positivi, che non può sfuggire all’interprete che voglia cogliere l’intimo loro significato, così sussiste un’analoga considerazione nei confronti dell’intera normazione costituzionale, che non può pienamente intendersi se non risalendo agli interessi fondamentali dei gruppi sociali di cui è espressione. Esame delle obiezioni. - È stato obiettato che l’esistenza della costituzione formale ostacola il conferimento di una diretta rilevanza giuridica al sostrato sociale, poiché si determine- allorché si assuma, secondo qui si è fatto, il diverso punto di vista che conduce a risalire ad un sistema di valori il quale riflette una certa struttura economico-sociale, e che trova in un determinato tipo di ordinamento giuridico la sua specifica organizzazione protettiva. È ben noto come sia da ritenere illusorio il tipo di Stato (tale si diceva fosse quello liberale ottocentesco) capace d’accogliere in sé il contenuto di diverse ideologie politiche. In realtà la struttura economico-sociale propria di quel tipo imprimeva ad esso un ben delineato fine politico, di incontrollato dominio della proprietà privata dei beni di produzione. La raffigurazione della costituzione come Weltanschauung si trova in antichi scrittori, come COKE, Institutes of the Law of England, V, London, 1654, 1. Cfr. in REHM, Geschichte der Staatswissenschaft, Leipzig, 1896, 96 la storia del concetto di ‘principio costituzionale’, inteso come idea fondamentale da cui si deduce l’intero ordine giuridico dello Stato. Ripone l’essenza della costituzione in una Wertintention HSU DAU LIN, op. cit., 51. Lo ‘spirito’ della costituzione, al quale spesso ci si richiama, non altro può significare se non i valori fondamentali inespressi che sono alla sua base. In questo stesso senso è da intendere la nota frase del Machiavelli che afferma la necessità di ritirare spesso ogni Repubblica, affinché essa viva lungamente, verso il ‘suo principio’. Una recente riaffermazione di un « momento essenziale della costituzione non scritta » è dovuta al von Hippel, che intende quest’ultima come una morale Weltverfassung, contenente i princìpi superpositivi di valore, che però egli desume dalla idea di giustizia, evidentemente troppo vaga per poterne ricavare precetti positivi, anche se poi è vero quanto lo stesso autore afferma che l’ideologia che si fa valere di fatto non può sorpassare ‘in modo notevole’ la misura di sopportabilità nella violazione della legge morale (Ungeschriebenes Verfassungsrecht, in Veröffentlichung der Vereinigung der deutschen Staatsrechtslehrer, Heft 10, Berlin, 1952, 11 ss.). Si può notare l’affinità di tale pensiero con quello rilevabile nella recente dottrina internazionalista, sulla quale v. anche la nota seguente. 120 rebbe altrimenti un invincibile dualismo fra quest’ultimo e la prima (72). Tale obiezione viene però a perdere di valore quando si tenga presente la necessità, messa prima in rilievo, di ricondurre la validità della costituzione alla sua effettività. Infatti se la positività (intesa non già nel senso di puntuale attuazione concreta di singole statuizioni – ciò che sarebbe constatabile solo a posteriori – bensì come probabilità di attuazione e normale previsione di questa) si consideri quale contrassegno dell’ordine giuridico primario, questo non può non farsi derivare da un assetto di forze capace di esprimere e far valere un orientamento generale che unifichi la complessiva attività sta- (72) V. nel senso del totale assorbimento della costituzione originaria in quella formale, dopo l’entrata in vigore di questa (oltre agli scrittori, come il Romano ed il Balladore, prima ricordati), LAVAGNA, (Per una impostazione dommatica del problema della rappresentanza politica, in Stato dir., 1942, 12, nota 13) che muove dalla distinzione fra concetto filosofico-giuridico e giuridico-positivo della costituzione, e PIERANDREI (La Corte costituzionale e le modificazioni tacite, in Scritti A. Scialoja, II, Bologna, 1953, 308), forse in senso non pienamente convergente con quanto sostenuto a p. 12 nota 40 dell’altro scritto La rivoluzione e il diritto, in Nuova riv. dir. comm., 1952, I, 152. Fra coloro che allegano il dualismo di cui è cenno nel testo, cfr. ZICCARDI, op. cit., 243 ss. Lo Ziccardi ritiene necessario risalire ad una fonte primaria (così qualificabile in base all’accertamento dell’influenza che il suo mutamento esercita, facendolo venir meno, sull’intero ordinamento), ed afferma che per l’ordinamento internazionale tale fonte sia da far coincidere con i fondamentali valori storici e sociali su cui esso poggia, quali sono rappresentati dalle forze sociali che li incorporano, osservando altresì che la considerazione giuridica non può arrestarsi prima di giungere ad esse, ma vi deve giungere assumendo come dato l’esperienza dell’ordinamento positivo. Ora mentre nella società degli Stati l’esperienza da cui si deve muovere è quella offerta dagli effettivi comportamenti dei soggetti, viceversa in quella statale gli elementi di giudizio dovrebbero trarsi esclusivamente dalla costituzione tormale. Si può osservare in contrario come l’essenza del fenomeno giuridico ed il compito dell’interprete non possono configurarsi diversamente sulla base di considerazioni esclusivamente formali, tenuto presente quanto afferma lo stesso autore circa il verificarsi di divergenze, rispetto allo schema formale, del funzionamento effettivo delle istituzioni, e la inidoneità del medesimo ad offrire sempre gli elementi sufficienti a raccogliere in unità sistematica l’insieme dei rapporti rilevanti per l’ordinamento. Sembra potersi altresì rilevare come anche nella ricerca del reale contenuto della norma base nel diritto internazionale lo 121 tale, e la mantenga almeno relativamente costante così da indurre la fondata presunzione della sua realizzazione. La natura dell’ordine sociale di cui si parla si presenta dunque quale sintesi di essere-dovere. La formula ‘fatto normativo’ appare idonea ad esprimere il concetto, a patto però che si escluda la necessità, affermata invece dallo Jellinek, di una formazione consuetudinaria del fatto medesimo, e ciò perché la struttura sociale la quale presenti i caratteri messi in rilievo, di per sé, anche all’infuori del decorso del tempo, può porsi quale fonte primaria dell’ordinamento giuridico. L’effettiva obbedienza dei soggetti non può ritenersi componente autonoma dell’effettività di questo, bensì sua conseguenza, laddove la constatazione della sua normale man- Ziccardi non svolga fino in fondo le premesse da cui muove. Infatti egli, partendo dal presupposto del carattere paritario del medesimo, e dedottane una norma base che postuli la formazione consuetudinaria del diritto, distingue fra gli enti che entrano a comporre l’ordinamento, da una parte, le ‘potenze’, costitutive della forza sociale prevista dalla norma stessa, e dall’altra, i vari soggetti che rimangono in una posizione subordinata alle prime, desume poi il criterio per individuare le ‘potenze’ dalla loro posizione di autonomia e di conseguente corrispettiva paritarietà (v. in particolare, 290 ss.; e 309). Ora, se forza sociale costitutiva di un ordinamento deve intendersi quella che opera attivamente alla produzione delle norme più generali le quali condizionano le altre, dovrebbe ritenersi che solo le grandi potenze entrino a costituirla e riferire solo ad esse il concetto di equilibrio, inteso come correlato sociologico della paritarietà. V. in questo senso (oltre al cenno a p. 289 dell’opera dello Ziccardi) SOMLÒ, op. cit., 157 e citazioni ivi; VERDROSS, Die Verfassung der Völkerrechtsgemeinschaft, Wien, 1926, 95 ss. e dello stesso autore, Le Nazioni Unite ed i terzi Stati, in Comun. intern., 1947, 448, che dallo Statuto dell’Onu deduce la esistenza di due costituzioni internazionali; GUGGENHEIM, La realtà nell’organizzazione delle nazioni unite, ivi, 343, sempre con riferimento all’Onu; VON DER HEYDTE, Völkerrecht, I, Köln, 1958, 26; BENTIVOGLIO, Diritto internazionale pubblico, in Noviss. dig. it., V, Torino, 1960, 911. Il Bentivoglio, dopo aver mostrato come la insoddisfazione suscitata dai risultati raggiunti dalla dottrina del normativismo giuridico abbia condotto a ricercare il punto di appoggio dei rapporti giuridici internazionali fuori del sistema positivo (risalendo ad istanze deontologiche, giusnaturalistiche o etiche), ed avere esattamente rilevato come le ragioni di validità del sistema si risolvono interamente in quelle di efficacia, afferma che il fondamento del diritto si deve trovare nella dinamica della vita di relazione del gruppo sociale, quale risulta da un fenomeno di condensazione delle forze prevalenti 122 canza per un certo tempo ha valore solo di condizione negativa, idonea a far cadere la presunzione che nasce da quell’assetto (73). Si dovrebbe pertanto concludere, muovendo dal punto di vista enunciato, che non la validità si deduce dalla legalità, ma che viceversa quest’ultima in tanto opera come elemento dell’ordine giuridico, in quanto sia collegata al più profondo ordine sociale che la legittima. Di conseguenza l’indagine rivolta alla conoscenza dei fattori che conferiscono effettività, lungi dal dar luogo ad una visione dualistica dell’ordine, si rende necessaria per potere ricondurre ad unità il complesso delle manifestazioni di vita dell’ordinamento (74). nel gruppo stesso (32 ss.). Sul concetto materiale della costituzione internazionale v. anche MOKRE, op. cit., 245. V. anche KUNZ, Statisches u. dinamisches Völkerrecht, in Festschrift für Kelsen, Wien, 1931, 220 e HUBER M., Die soziologische Grundlagen des Völkerrechtes2, Grünewald, 1928. (73) Intende la validità come amalgama di normatività e fattività, ossia come validità sociologico-normativa, per cui sein e sollen coincidono, HENRICH, op. cit., 208; cfr. anche WEBER M., Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen, 1925, 16; SOMLÒ, op. cit., 110, 119; ESPOSITO, La validità delle leggi, Padova, 1934, 238, per cui la costituzione è il punto di incidenza fra diritto e fatto; JELLINEK (Verfassungsänderung, cit., 73) fa notare come l’ordine formale sia impotente a dominare gli effettivi rapporti di forza, i quali seguono proprie leggi sovrapponentisi a quelle formali. Sul problema V. anche ZAMPETTI, Considerazioni metodologiche sul problema dei rapporti fra norma e fatto, in Ius, 1959, 217. Il PIOVANI, op. cit., 79 ss., per esprimere il concetto dell’effettività legittimante ricorre alla formula di ‘legittimità dinamica’. Egli avverte però (182, nota 2) che tale dinamismo non deve essere talmente eccessivo da togliere la comprensione dello Stato nel suo storico divenire e condurre a configurarlo in una elastica informità. Ma per eliminare tale rischio sembra necessario procedere alla predeterminazione degli elementi idonei a circoscrivere il dinamismo. Non sembra che il Piovani abbia identificato tali elementi, ed anzi, attribuendo ad ogni volontà di concorrere a formare lo Stato e riponendo nel consenso il modo di affermarsi dell’effettività, viene in sostanza ad eliminare quei limiti, o meglio a connettere la continuità dello Stato al carattere pacifico che assumono i mutamenti. (74) Contraddittorio risulta l’atteggiamento di pensiero di chi, come il Romano, giunge a negare ogni funzione all’ordine sociale, del quale pure aveva affermato la giuridicità. Analogo rilievo è da fare nei confronti del BALLADORE-PALLIERI che, mentre intende la positività quale fattispecie giuridica fondamentale attraverso cui si riversa- 123 Rapporto fra le due costituzioni (sostanziale e normativa). Funzione della costituzione normativa. - Al rimprovero di dualismo si deve poi opporre la considerazione che le forze dominanti, nel dar vita ad una costituzione formale, tendono di norma a conferirle la specifica funzione di consolidare, stabilizzare e meglio garantire il proprio dominio. È stato di recente messo in rilievo efficacemente la sussistenza di una reciproca condizionalità di costituzione giuridica e di realtà sociale, resa possibile in quanto si attribuisca alla prima una propria forza (la ‘normativa forza del normativo’) (75); forza che rimane tuttavia condizionata a certi presupposti e circoscritta in limiti variabili secondo le situazioni concrete. Se è vero, infatti, che di solito si affida al sistema delle norme positive la soddisfazione degli interessi collegati alle forze dominanti, è vero tuttavia che il primo riveste sempre valore strumentale rispetto a questi ultimi. Sicché, ove in deter- no nel campo del diritto i fatti sociologici da essa risultanti (Dottrina, cit., 131), afferma poi che decisivo pel giurista sia non l’accertamento di chi in fatto comandi, ma di colui che secondo l’ordine formale deve comandare, ed in nome del quale sono emanati i comandi che ottengono positività, e quindi qualifica ‘assurda’ la contrapposizione fra costituzione materiale e formale, essendo le norme e le forze operanti concetti diversi e antitetici. Il BALLADORE, pertanto è condotto a contrapporre, come non assimilabili fra loro, il caso della sostituzione in via di fatto di certe norme con altre e quello in cui le norme sussistono ma ricevono un’applicazione diversa da quella che ne dovrebbe risultare, sicché nella prima ipotesi vi sarebbe formazione di nuovo diritto, nella seconda invece fatto rilevante solo politicamente (op. ult. cit., 151-153). Dare ad una norma un’applicazione diversa da quella che essa importerebbe significa modificarla, in via di fatto, sicché non si comprende perché nel secondo dei casi ipotizzati si dovrebbe guardare solo all’aspetto formale escludendo dal campo del diritto ciò che agisce nella concreta realtà come forza modificatrice delle norme. Se fosse vero che sia da limitare l’osservazione all’aspetto formale, perché non si dovrebbe ritenere che il re inglese sia ancora oggi organo di indirizzo politico? (75) Cfr. HESSE K., Die normative Kraft der Verfassung, Tübingen, 1959, 19 ed ivi citazioni del pensiero espresso in senso analogo di HENNIS W., Meinungsforschung u. repräsentative Demokratie, Tübingen, 1957, 52, e di KÄGI W., Rechtsfragen der Volksinitiative auf Partialrevision, in Verhändlungen der Schweizerischen Juristenvereins, 1956, 741. Lo Hesse, mentre afferma che la ragion d’essere di una scienza del diritto costituzionale è condizionata alla impossibilità di considerare la costituzione un « pezzo di 124 minate contingenze le norme legali non riescano ad assolvere a tale loro funzione, si dà vita ad attività che, pur non potendosi inquadrare negli schemi legislativi, entrano a fare validamente parte di quel più ampio sistema giuridico che comprende ogni manifestazione promossa e giustificata da quegli stessi valori giuridici ai quali la costituzione formale è condizionata. Il rapporto da porre fra la costituzione sostanziale e quella formale può giustificare il procedimento di pensiero che parta da quest’ultima per risalire alla prima: ma perché tale procedimento riesca proficuo e non si risolva in vuota astrazione è necessario tener conto non già solo delle formule normative bensì della loro vigenza, dell’effettiva funzionalità degli istituti da esse regolati. Quando si muova da una considerazione integrale del modo di svolgersi di un ordinamento, evitando ogni apriorismo, sarà possibile giungere alla identificazione dei caratteri dell’entità sociale su cui esso poggia. È chiaro come l’esigenza del ricorso al detto procedimento è meno avvertita allorché sussistano situazioni di equilibrio sociale tali da non determinare divergenze notevoli fra le norme costituzionali e l’applicazione che in realtà se ne fa. Per quanto la cosa appaia paradossale è da rilevare che la costituzione formale è destinata ad acquistare il massimo grado di vincolo quanto più il suo contenuto corrisponde alla realtà sociale e quanto più quest’ultima si presenta stabilizzata in un sistema armonico di rapporti sociali, cioè proprio nei casi in cui la importanza pratica che le si può riconoscere viene ad attenuarsi, essendo il limite posto dalla me- carta », affida ad essa il compito di studiare le condizioni sotto le quali la costituzione può avere validità e di sviluppare la sua dogmatica sotto quest’angolo visuale facendo assegnamento sulle vicine scienze della realtà. Cfr. anche WEBER M., op. cit., 19, che osserva come oggi la forma di legittimazione più frequente sia l’opinione della legalità. Sul rapporto fra le due costituzioni cfr. oltre ai rilievi di ENGISCH, Die Einheit der Rechtsordnung, Heidelberg, 1935, 12 e nota, anche BURDEAU, Traité, cit., III, 12, e vON HIPPEL, op. cit., 11 ss.; JELLINEK G., op. ult. cit., 67. 125 desima all’esercizio del potere radicato nella stessa configurazione della società. Invece in situazioni diverse, caratterizzate dalla eterogeneità degli interessi, resa palese dal prorompere di nuove forze che si oppongono a quelle prima detentrici esclusive del potere senza tuttavia riuscire a superarle, si affida alla costituzione scritta una funzione di garanzia delle posizioni di compromesso raggiunte (nelle varie forme che questo può assumere). Avviene così che proprio là dove più gravi si presentano i pericoli per la stabilità dell’assetto cui si dà vita, più accentuata si manifesta la tendenza ad irrigidire la funzionalità del sistema, moltiplicando le garanzie ed ampliando la serie delle proclamazioni di principio, con il risultato di aggravare il distacco fra i precetti costituzionali e la prassi. È infatti quest’ultima che, influenzata dai rapporti di forza quali riescono di fatto ad instaurarsi, conduce lo svolgimento della vita dello Stato verso una o altra direzione svuotando via via di significato le ‘menzogne convenzionali’ consacrate nella Carta e conferendo alle formule un significato diverso da quello che esse esprimono. Una concezione ‘relativistica’ di costituzione si afferma anche quando, com’è avvenuto negli Stati socialisti, le forze divenute dominanti, pur non dovendo ricercare dei compromessi con altre, essendo loro riuscito di eliminarle, si trovano tuttavia di fronte al problema di organizzare rapporti associativi che, per essere privi di ogni addentellato con il passato, esigono un procedimento di progressiva adeguazione alle situazioni concrete e quindi non tollerano l’eccessivo irrigidimento che proviene dalle normazioni costituzionali. In altri termini, sono la composizione e le finalità delle forze sociali, in relazione all’ambiente in cui operano, che conducono ad assegnare alla costituzione formale valore diverso, a ricondurre e ad assorbire in essa l’intera realtà dell’ordinamento, considerandolo valore in sé, oppure a relativizzarla e a strumentizzarla, facendola piuttosto considerare solamente parte di un sistema più ampio, che nella sua totalità sfugge alla normazione formale, e rispetto a cui que126 st’ultimo assume valore di mezzo, necessitata perciò a piegarsi al fine. Si ispira al primo orientamento l’ideologia costituzionalistica di tipo liberale, e con essa la dottrina giuridica influenzata dalla medesima, che affidando allo Stato, inteso come Stato di diritto, un fine solo negativo, qual è quello della tutela della libertà dei singoli, lo vede interamente soddisfatto con il rispetto delle strutture formali a ciò preordinate dalla costituzione. Il concetto di costituzione, così costruito sulla base di una razionalità tecnica e formale, viene ad occultare la sostanza politica che in realtà vi sottostà (poiché nessuno Stato può esaurire il proprio compito nella tutela della libertà). Sostanza politica che, secondo quanto prima si è osservato, non avrebbe avuto bisogno di apposita protezione perché la trovava già nello stesso modo di intendere la funzione dell’ordine giuridico positivo, considerato il più idoneo a mantenere in vita il tipo di assetto sociale quale era allora dominato dalle aristocrazie detentrici del potere economico-politico (76). I precedenti svolgimenti conducono a far ritenere: 1) che la costituzione scritta è sempre solo una parte del complessivo ordine statale e richiede che si risalga ad una fonte dalla quale trae origine e che pertanto non può non avere essa stessa natura giuridica; 2) che tale fonte (risultante dall’organizzazione delle forze sociali stabilmente ordinate intorno ad un sistema di interessi e di fini ad esse corrispondenti) è assolutamente primaria, non potendosi ritrovare al di sotto della medesima nessuna altra volontà organizzata, ma unicamente bisogni, (76) È stato notato come a concezione che raffigura la costituzione formale quale ordine in sé concluso abbia una doppia radice: una di diritto naturale, ed un’altra positivistica. Così KÄGI, Die Verfassung als rechtliche Grundordnung des Staats, Zürich, 1945, 80, 89, e, ivi, l'osservazione sulla tendenza che si manifesta, allorché il contenuto costituzionale non sia controverso, a concentrare l’attenzione sulla forma, così da giungere ad identificare teoria del diritto e teoria delle forme. Cfr. anche HOLLERBACH, Auflösung der rechtsstaatsliche Verfassung?, in Arch. öff. Rechts, 1960, 241, a proposito della questione della compatibilità di Stato di diritto e Stato di giustizia sociale. 127 aspirazioni, valori, suscettibili di offrire solo la materia per la scelta degli elementi fra i quali sono da operare le sintesi politiche; 3) che l’organizzazione di base trova nel sistema dei poteri costituzionali lo strumento necessario a stabilizzare ed a garantire la soddisfazione degli interessi cui è rivolta (nel grado massimo reso possibile dall’ambiente in cui opera) senza tuttavia esaurirsi nel sistema stesso, dato che, in determinate contingenze, si fa valere direttamente, e comunque piega il funzionamento del sistema predetto alle finalità che lo condizionano; 4) che il giurista non può considerare estranea al proprio compito l’indagine relativa alla costituzione non scritta, tenuto conto non solo della funzione che essa adempie, nel senso già visto di fonte e di garanzia, ma altresì del fatto che la medesima offre gli elementi necessari sia per interpretare ed integrare in modo unitario il sistema delle norme, e sia per identificare la forma dello Stato ed insieme stabilire i limiti entro i quali si rende possibile apportare modifiche alla costituzione, senza che ne riesca alterata la forma essenziale. Adempiendo a tale compito, il giurista non fa della sociologia perché non ricerca i fattori i quali hanno determinato il sorgere delle forze e delle ideologie che stanno alla base dello Stato, né tanto meno esprime giudizi in ordine alle medesime; ma, risalendo ai caratteri necessari a conferire giuridicità a comportamenti e rapporti sociali, enuclea dai fatti emersi dalla osservazione dell’effettivo svolgersi dei rapporti stessi in un dato ordinamento, quelli che sono da considerare parte della costituzione reale (77). (77) Riconosce che per la dommatica il criterio dato dalla nozione sociologica di ordinamento viene ad assumere carattere di criterio giuridico (in quanto ritenuto necessario a fondare la giuridicità dell’ordinamento) il PERASSI, Teoria, dommatica, cit., 246. La progressiva consapevolezza che la fenomenologia giuridica non può esaurirsi nelle norme (alle quali la dommatica limitava il suo studio) conduce a far considerare compito della scienza del diritto l’indagine rivolta a tutti gli aspetti della medesima e quindi a far considerare non estranea ad essa la ricerca sociologica che si proponga di individuarli. È stato bene messo in rilievo come, operando tali ricerche, il giurista non 128 Costituzione formale e materiale Sulla possibilità di distinguere nel testo della costituzione fra norme costituzionali in senso materiale ed in senso solo formale. - Le considerazioni finora svolte hanno mostrato come una nozione di costituzione che voglia assumere valore generale non è configurabile altrimenti che con riferimento al suo contenuto, al complesso dei fini istituzionali intorno ai quali si ordinano le forze poste, in virtù della detenzione dei mezzi atti ad assicurare l’esercizio del potere sociale, in una posizione di sopraordinazione. È dalla identificazione di tali elementi, da effettuare per ogni ordinamento statale positivo, che si desumono i criteri necessari a determinare il tipo dello Stato, il momento del suo sorgere e quello del suo estinguersi. Requisiti relativi alle forme di esercizio del potere non possono mancare, quale che sia la fonte, scritta o consuetudinaria, da cui derivano. Ma tali forme, per lo stesso fatto di assumere una funzione strumentale rispetto al nucleo che identifica un particolare tipo di ordine concreto non possono ritenersi coessenziali ad esso: sicché il loro mutamento, a differenza di quello che incide sugli elementi veramente costitutivi, non ne altera l’identità. Un significato diverso da quello finora visto assume il problema della materia costituzionale quando venga proposto allo scopo di ricercare se ed in che modo si renda possibile invade un campo non suo, in quanto determini egli stesso l’oggetto delle medesime e proceda per vie sue proprie, in posizione di autonomia. V. sul fenomeno dell’immanenza sociologica negli studi giuridici, e sull’esigenza di giungere, dalla separazione fra i due ordini di studi, ad una loro collaborazione, GIANNINI M. S., Sociologia e studi di diritto contemporaneo, in Jus, 1957, 222. Con analoghe impostazioni, ma con riferimento alle indagini di storia del diritto, cfr. ORESTANO, Sociologia e studio storico del diritto, ivi, 199 ss., e dello stesso autore, Introduzione allo studio storico del diritto romano, Torino, 1961, 485. 129 operare una differenziazione tra le norme che entrano a comporre un testo costituzionale, così da attribuire ad alcune una posizione di primarietà e di supremazia per il fatto di riguardare la materia tipica, veramente propria della costituzione, in contrapposto alle altre, le quali, pur costituzionali sotto l’aspetto formale, non lo sono sotto quello sostanziale (78). In un senso parzialmente analogo al precedente, sempre con riferimento ad una costituzione formale, lo stesso problema della differenziazione di forma e di materia costituzionale si può poi porre quando si ritenga possibile attribuire rango costituzionale (o per lo meno posizione sopraelevata rispetto alle leggi ordinarie) a norme non inserite nel testo, ma affidate alla legge, o ai regolamenti parlamentari o alla consuetudine, con funzione integrativa del testo medesimo (79). Contestano il valore giuridico della distinzione fra un concetto materiale ed un altro formale di costituzione coloro che fanno derivare il contrassegno distintivo delle norme costituzionali dalla loro inserzione nel documento cui si dà il nome di costituzione, dalla quale discende la loro collocazione in un rango superiore a quello delle altre norme che non ne fanno parte, quale che sia la materia disciplinata. Ma poiché tale risultato non potrebbe conseguirsi, né la superiorità farsi concretamente valere se le norme inserite nel testo potessero essere modificate per opera dello stesso organo che procede all’emanazione di norme subordinate, uopo è consi- (78) Cfr. FRIEDRICH, op. cit., 123, e ivi riferita la opinione di Cromwell sulla ‘parte accessoria’, e come tale regolabile ‘secondo le occasioni’ del suo ‘Instrument of Government’. Cfr. anche KELSEN, Teoria, cit., 265; BURDEAU, Traité, cit., III, 104. La distinzione non è del tutto assimilabile a quella che si suol fare fra leggi formali e sostanziali (su cui cfr. ESPOSITO, Legge, in Nuovo dig. it., VII, Torino, 1939, 719 ss.; Marchi, Sul concetto di legislazione formale, Milano, 1911), e ciò perché quest’ultima viene fondata non già sulla diversa importanza delle disposizioni, bensì su criteri differenti, come il grado di novità delle statuizioni, il loro carattere particolare, ecc. (79) Sulla possibilità della distribuzione della materia costituzionale in fonti di grado diverso, cfr. CARRÉ DE MALBERG, Contribution, cit., II, 571. 130 derare contrassegno essenziale delle leggi costituzionali la sottoposizione di ogni loro mutamento a procedimenti differenziati e più complessi rispetto a quelli richiesti per l’emanazione delle altre leggi (80). Non è il caso di ripetere quanto si è già osservato sui risultati aberranti cui conduce tale opinione, perché da una parte elimina ogni rilievo giuridico per le costituzioni flessibili, dall’altra fa venir meno la funzione di garanzia e di conservazione propria del potere di revisione, poiché, non fornendo alcun criterio suscettibile di porre dei limiti ad esso, apre l’àdito ad ogni mutamento, anche il più radicale. Opinioni che considerano sostanzialmente costituzionali solo le norme organizzative (di relazione). - I sostenitori della distinzione nel seno della costituzione formale di una parte che sarebbe anche sostanzialmente costituzionale sono portati a configurare quest’ultima in modo diverso, sulla base dei differenti presupposti che, in via esplicita o sottintesa, assumono, secondo cioè l’accentuazione data all’elemento soggettivo o (80) V. in questo senso CARRÉ DE MALBERG, op. ult. cit., I, 570 ss., che fa risalire a Sieyès tale caratterizzazione solo formale, in contrapposizione a quella materiale, di derivazione giusnaturalista, fatta valere in seno all’assemblea costituente francese. Una applicazione di tale concetto il Carré compie quando contesta che, nel silenzio delle leggi costituzionali francesi del 1875, potesse ritenersi rivestita di efficacia costituzionale la ‘Dichiarazione dei diritti’ del 1789, e ciò anche a ritenere che le sue prescrizioni abbiano dato vita a una consuetudine, dato che la consuetudine non sarebbe stata garantita da procedure speciali di revisione e quindi non idonea a vincolare il legislatore ordinario (op. ult. cit., 582). Analogamente DUGUIT, op. cit., II, 515, III, 688 (ma con qualche attenuazione rispetto al pensiero del Carré) e già prima LABAND, Das Staatsrecht des deutschen Reiches (tr. fr.), cit., II, 314; JELLINEK G., Allgemeine Staatslehre, cit., 113. Nella letteratura più recente Ross, op. cit., 369; Henrich, op. cit., 205; Nawiasky, Die Auslegung des Art. 48 der Reichsverfassung, in Archiv öff. Rechts, 1925, 1 ss., che nega ogni possibilità di distinguere fra parti essenziali o meno della costituzione, in opposizione alla tesi di Schmitt e di Jacobi (in Veröffentlichung des deutschen Staatsrechtslehrer, 1924, 63 ss.) il primo dei quali sosteneva la superiorità delle norme di organizzazione ed il secondo di quelle relative ai diritti. 131 all’elemento oggettivo del concetto di diritto postulato dai medesimi. Così coloro che muovono dal primo dei punti di vista ora accennati considerano specifico dell’ordine costituzionale solo la determinazione delle strutture organizzative supreme destinate ad assumere le attribuzioni che costituiscono il logico e necessario presupposto di tutte le altre, ed in particolare della funzione legislativa, cui compete in grado primario siffatta funzione condizionatrice (81). L’esclusione di ogni diverso contenuto dall’àmbito proprio della costituzione viene dedotta da considerazioni diverse. Si dice in primo luogo che qualsiasi statuizione avente ad oggetto la regolamentazione di altre materie (ed anche di (81) In quest’opinione convergono autori di diversa ispirazione. Così per esempio ROMANO, Princìpi di diritto costituzionale generale, cit., 36; VIRGA, Libertà giuridica e diritti fondamentali, Milano, 1947, 246; ID., La revisione della costituzione, in Circ. giur. 1948, 17; KELSEN (Teoria, cit., 116 e 265) per cui contenuto tipico della costituzione (intesa in senso stretto in contrapposto ad una nozione ampia, racchiudente anche le parti riferentisi al contenuto) è la disciplina della produzione normativa. Già prima nello stesso senso BURCKHARDT, Die Organisation, cit., 3 ss. Da questo punto di vista si potrebbe dare a contenuto della Grundnorm la massima regis voluntas suprema lex: così SCHLESINGER, Der « pouvoir constituant », in Zeitschr. öff. Recht, 1933, 104. Per una critica al formalismo kelseniano cfr. MOKRE (op. cit., 222 ss. e specie 240), il quale osserva come solo apparentemente il riferimento all’aspetto formale vale a fare superare i pericoli di incertezza che si addebitano ad ogni concetto contenutistico e che hanno indotto al rigetto di quest’ultimo. Infatti quando si affida alla costituzione di porre condizioni per la emanazione di altre norme non si deduce da ciò che queste norme siano effettivamente leggi. Se si considerasse implicito che esse debbano necessariamente avere certi caratteri, come quelli della generalità ed astrattezza, già si assumerebbero criteri di valore. Inoltre se si lascia fuori dalla materia costituzionale ciò che attiene all’esecuzione, si presuppone che questa sia in tutte le sue parti deducibile dalla legge. Che se così non è, data la necessità di larghe sfere di discrezionalità, ne segue che l’intera attività attraverso cui questa si esercita, non potendo ricollegarsi all’ordine legale, darebbe vita ad un ordine a sé stante, contraddicendo alla esigenza di unità del sistema. Il ROSS (op. cit., 359) fa poi rilevare come non possa ammettersi l’esigenza logica di una costituzione che ponga le condizioni pel riconoscimento degli atti legislativi, poiché la costituzione stessa può sorgere dalla prassi legislativa. 132 quelle che disciplinassero l’attività degli organi amministrativi o giudiziari), non assumerebbe funzione autonoma di limite, data la possibilità della sua eliminazione mediante il ricorso alle procedure aggravate. Cosicché le prescrizioni di contenuto verrebbero ad essere assorbite da quelle di carattere formale (82). Si aggiunge che l’imposizione al legislatore di vincoli di contenuto che implicassero un fare positivo, sarebbe destinata a rimanere inoperante, per l’impossibilità di richiedere ed ottenere la loro osservanza. Si sostiene, poi, come sia ripugnante alla natura della costituzione l’inclusione di norme regolative di rapporti dei soggetti fra loro o con lo Stato, e ciò sotto riguardi diversi. Da un punto di vista di opportunità, si osserva come ciò contraddica all’esigenza di porre a base della costituzione il consenso più vasto possibile, perché il prendere posizione in ordine al modo di regolare i rapporti predetti ha per effetto di restringere l’ampiezza di tale consenso. Si adduce anche un motivo più tecnico, desunto dalla funzione della costituzione la quale, esigendo la stabilità e la sua sottrazione a revisioni troppo frequenti, non può contenere vere e proprie norme tanto particolareggiate da riuscire a disciplinare direttamente rapporti concreti, ma deve limitarsi a porre proposizioni formulate in modo generico ed elastico, così da potersene effettuare l’adattamento ad una serie di situazioni assai varie fra loro. Se ne deduce che tali proposizioni, in quanto si risolvono in pure massime enunciative di indistinte tendenze politiche, risultano sfornite di ogni pratico rilievo giuridico. In ogni ca- (82) KELSEN, La garantie jurisdictionnelle de la constitution, in Rev. fr. dr. pubbl., 1928, 240, e anche CARRÉ DE MALBERG, Confrontation de la théorie de la formation du droit par dégrés, Parigi, 1933, 155. In un senso diverso si è ritenuto di potere ricondurre anche le norme regolative dei rapporti fra cittadini e Stato a quelle di organizzazione, nella considerazione che le prime, in quanto pongono dei limiti o autolimiti all'esercizio del potere, rientrano nella categoria dell'organizzazione. Cfr. SOMLÒ, op. cit., 313; PIERANDREI, La Corte costituzionale, cit. 133 so, le norme materiali inserite nel testo costituzionale hanno come loro esclusivo destinatario il legislatore e solo attraverso la auctoritatis interpositio del medesimo se ne rende possibile la traduzione e svolgimento in vere e proprie norme, efficaci nei riguardi dei soggetti e da essi invocabili (83). Pertanto la parte della costituzione dedicata ai diritti dei cittadini non è sufficiente ad offrire a costoro una diretta garanzia, ma vale esclusivamente come limite per il legislatore, limite che diventa operante solo quando questi ritenga opportuno intervenire dettando un’apposita disciplina. La tesi in esame crede poi di rinvenire un motivo di rafforzamento dalla constatazione che in alcuni ordinamenti le statuizioni diverse da quelle meramente organizzative sono collocate fuori del testo della costituzione, ed inserite in ‘preamboli’ o ‘dichiarazioni’ o ‘princìpi’, poiché da ciò ritiene di potere argomentare un’implicita volontà del costituente di sottrarre loro ogni efficacia vincolante (84). (83) Tale l’opinione sostenuta nella Convenzione di Filadelfia. Cfr. WARREN, The Making of the Constitution, Boston, 1937, 392. Cfr. anche FINER, The theory and practice of modern Government, I, London, 1932, 240. Nello stesso senso nella meno recente letteratura STAHL, Philosophie des Rechtes, II, Heidelberg, 1837, 281. Nella letteratura francese ESMEIN, Éléments, cit., I, 591; CARRÉ DE MALBERG, Contribution, cit., II, 578-581; LAFERRIÈRE, Manuel de droit constitutionnel, Parigi, 1947, 342; DUEZ, Esquisse d’une définition réaliste de droit publique individuel, in Mélanges Carré de Malberg, cit. Sono anche da richiamare le discussioni sorte in relazione alla seconda parte della costituzione di Weimar, per le quali cfr. THOMA, Die juristische Bedeutung der grundrechtlichen Sätze der deutschen Reichsverfassung im allgemeinen, in NIPPERDEY, Die Grundrechte u. Grundpflichten der Reichsverfassung, I, Berlin, 1929, 4 ss. e SCHMITT, Inhalt und Bedeutung des zweiten Hauptteils der Reichsverfassung, in Handbuch des deutschen Staatrechts, di ANSCHÜTZ u. THOMA, II, Tübingen, 1932, 596. Cfr. anche SMEND, op. cit. e KAGI, Die Verfassung, cit., 132. Nella letteratura italiana cfr. ROSSI L., L’elasticità dello Statuto italiano, in Scritti Romano, I, Padova, 1939, 25 ss.; VIRGA, Origine, contenuto e valore delle dichiarazioni costituzionali, in Rass. dir. pubbl., 1948, I, 243; AMORTH, Il contenuto giuridico della costituzione, Modena, 1946, 9 ss.; GIANNINI M. S., Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 1950, 70. (84) Cfr. KELSEN, Teoria generale, cit., 265. A riprova del carattere non univoco che la collocazione fuori del testo assume, è da ricordare quanto è stato prima 134 Osservazioni critiche. - Nessuna delle argomentazioni riferite sembra però idonea a sostenere l’opinione che intende far valere. Infatti, quella che vorrebbe ricondurre il limite di natura contenutistica all’altro d’indole formale non considera che la predisposizione di un’istanza diversa e superiore all’altra legislativa ordinaria risponde proprio all’intento di garantire, nei confronti degli atti da questa emananti, l’osservanza delle prescrizioni contenutistiche (che naturalmente non debbono risolversi nella mera riserva di legge), il che si ottiene facendoli venire meno quando, anche se regolari nella forma, vi contravvengano. Ciò presuppone il possesso da parte delle medesime di una propria validità, dell’autonoma loro funzione di offrire i criteri necessari ad accertare il vizio conseguente alla loro violazione, funzione che non viene meno pel fatto che il limite posto dalle medesime possa venire rimosso (e sarà da vedere fino a qual punto) con il ricorso alle procedure aggravate. Da quanto si è detto si deduce che destinatario delle norme costituzionali materiali non è solo il legislatore. Infatti, a parte la considerazione che anche le norme costituzionali, considerate, come devono essere, non già isolatamente ma nel complesso del sistema di cui fanno parte, si rivolgono a tutti i possibili soggetti che rivestano le qualità e si trovino nelle posizioni che esse prevedono, è da osservare che, almeno quando sia consentito il sindacato giudiziario della costituzionalità delle leggi, le norme stesse non potranno non rivolgersi anche al giudice. E neppure vale invocare la genericità che caratterizzerebbe i precetti materiali della costituzione. Il fatto che questi rilevato: che cioè tale circostanza può a volte rispondere al fine opposto, di conferire alle dichiarazioni una dignità maggiore, attribuendosi alla loro formulazione valore solo dichiarativo di una vigenza già propria delle medesime. Il BURDEAU (Traité, cit., III, 119 ss.) critica la prassi ottocentesca ed afferma la superiorità delle costituzioni più recenti, successive alle due guerre, che di norma inseriscono nel testo i princìpi direttivi. 135 siano destinati a permanere nel tempo non toglie che possano assumere una sufficiente concretezza, e l’osservazione mostra come ciò accada di norma per quelli che esprimano valori e soddisfino interessi considerati basilari per il tipo di Stato a cui si riferiscono (85). Ma anche quegli altri che danno vita a ‘norme di scopo’ perché si limitano a prescrivere indirizzi di azione da svolgere in futuro, o procedono ad astratte proclamazioni di diritti senza determinarne il contenuto o i mezzi per la loro soddisfazione, lungi dal potersi ritenere sforniti di valore normativo, entrano a costituire l’ordine giuridico, dando vita anche a pretese azionabili rivolte a richiedere la loro osservanza da parte del legislatore. Se è vero che non sono pensabili pretese del genere quando richiedessero che questi segua determinati comportamenti positivi, è vero tuttavia che esse possono farsi validamente valere per impedire che nell’esercizio delle varie specie di attività discrezionale, compresa quella propria del legislatore, si contraddica comunque al principio costituzionale. Deve quindi escludersi che vi siano norme ‘direttive’ o meramente ‘programmatiche’ sfornite di valore giuridico per il fatto che non se ne possa enucleare alcun precetto concreto (86), e ciò perché ogni statui- (85) Nel senso della giuridicità dei princìpi materiali BURDEAU, Traité, cit., III, 125; DUGUIT, op. cit., II, 599; JÈZE, Valeur juridique des Déclarations des droits, in Rev. fr. dr. publ., 1913, 688; MORANGE, Valeur juridique des principes contenus dans les déclarations des droits, in Rev. fr. dr. publ., 1945, 229. Cfr. anche VOIGT, Ungeschriebenes Verfassungsrecht, in Veröffentlichungen der Vereinigung der deutschen Staatsrechtslehrer, Heft 10, Berlin, 1952, 39, che li assimila al principio della buona fede richiamato dal codice civile, ma tuttavia nega loro valore normativo: il che non sembra esatto essendo da considerare normativa anche la regola che integra il precetto ai fini interpretativi, come del resto lo stesso Voigt ammette. La vigente costituzione della Germania occidentale dispone espressamente che i diritti fondamentali in essa elencati vincolano come norme giuridiche immediate il legislatore, l’amministrazione, il giudice. (86) V. in questo senso CRISAFULLI, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano, 1952, 19. Contra, nel senso qui criticato, AZZARITI, Efficacia delle norme costituzionali, in Problemi attuali di diritto costituzionale, Milano, 1951, 101. 136 zione inserita nel testo costituzionale entra a comporre il sistema positivo e non può non influenzarlo, almeno in quanto concorre a fornire criteri per la sua interpretazione. Tanto meno esatto sarebbe poi contestare l’efficacia vincolante di norme le quali, pur riconoscendo in modo esplicito e preciso un determinato diritto, rinviano ad una legge futura la determinazione dei limiti al loro esercizio, o di una loro disciplina meglio specificata (come per esempio, fanno gli art. 36 e 40 cost. it.). Sembra chiaro che prima dell’intervento di tale legge la loro efficacia non rimarrà sospesa, ma spetterà ricavare dal sistema i limiti e le modalità dell’esercizio del diritto. Può accadere che lo stesso costituente intenda limitare l’efficacia delle norme di principio, come per esempio ha fatto quello della IV Repubblica francese, che all’art. 39 ha sottratto al controllo di costituzionalità delle leggi i princìpi contenuti nel Preambolo: ma proprio tale circostanza, mentre dimostra l’esattezza dell’opinione qui sostenuta (poiché fa argomentare che, senza quel divieto, i princìpi avrebbero assunto la funzione di limite sostanziale pieno del potere del legislatore; funzione che del resto non viene interamente meno, rimanendone possibile l’esercizio da parte di organi non vincolati al divieto dell’art. 93, e così per esempio del Presidente della Repubblica in sede di promulgazione), mette in rilievo d’altra parte il sottinteso politico, celato negli assunti teorici che si sono confutati. Infatti, poiché la positivizzazione di prescrizioni generali a contenuto non precisamente determinato è sempre resa possibile all’interprete, e si giunge a dar vita, attraverso la prassi giurisdizionale, a norme secondarie integrative, gli ostacoli che siano posti a tale opera dell’interprete, o le limitazioni che quest’ultimo ponga di fatto alla propria attività, sono da considerare espressione, i primi, dei fini politici ai quali si vuole indirizzare la struttura statale, considerati tali da esigere per la loro soddisfazione la preminenza del legislatore e, con essa, l’instaurazione di uno ‘Stato di legislazione’ anziché di uno ‘di amministrazione’ o ‘di giurisdizione’; gli altri, delle convinzioni da cui gli interpreti sono ispirati, e che conducono di volta in vol137 ta, a far dichiarare determinati princìpi applicabili o no a fattispecie concrete, allegandone o la normatività, o al contrario la programmaticità, secondo che si ritengano consentanei o no con le convinzioni stesse (87). Poiché il grado di vincolo delle dichiarazioni di principio si trae, come si è detto, dal sistema, appare chiaro che debba differire secondo che le dichiarazioni stesse siano consacrazione di un equilibrio sociale già conseguito che trova il suo armonico riflesso nelle varie parti della costituzione, o invece siano espressione (secondo suole avvenire nelle costituzioni di compromesso, poggianti sul temporaneo accordo di forze sociali portatrici di interessi non omogenei) di orientamenti politici non in tutto convergenti, o addirittura in certa misura contrapposti, e perciò non fusi ma giustapposti fra loro, e soggetti nella loro applicazione alle fluttuazioni delle forze da cui traggono alimento. Opinioni che considerano costituzionali solo le norme di azione, e loro critica. - Contrapposto all’orientamento di pensiero finora considerato è quello che, vedendo in ogni costituzione l’incarnazione di una filosofia politica, considera essenziali solo quelle norme materiali che traducono e svolgono l’ideologia di base, mentre tende a considerare le altre, aventi carattere (87) Cfr. SCHMITT, Inhalt, cit., 599 ss.; CRISAFULLI, La Costituzione, cit., 51 ss. e 101 ss. e passim; ESPOSITO, La giusta retribuzione femminile, in Mass. giur. lav., 1958, 15. Un’eloquente riprova di quanto si afferma può ricavarsi dalla giurisprudenza nel periodo antecedente all’entrata in funzione della Corte costituzionale. A volte anche precetti completi in tutte le loro parti, come quelli degli art. 21 e 113, sono stati disapplicati sotto il pretesto della loro ‘programmaticità’. Ed eguale sorte è toccata per un certo tempo al principio, di cui all’art. 25, della irretroattività della legge penale: v. una rassegna di questa giurisprudenza in MAZZIOTTI, Il diritto al lavoro, Milano, 1956, 39 ss. A riprova dell’ampiezza dei criteri assunti per identificare la materia costituzionale può ricordarsi anche che la Cass., sez. un., 16 marzo 1953, n. 631 ha ritenuto estraneo ad essa l’ordinamento giudiziario (in un caso di istituzione di una giurisdizione speciale effettuata nel 1947). 138 organizzativo (se non proprio prive di giuridicità, come le considera chi muove dalla erronea opinione della mancanza, nei confronti degli organi di una stessa persona, della alterità dei soggetti necessaria a dar vita a rapporti giuridici) rivolte ad una funzione strumentale e quindi poste in una posizione subordinata (88). In realtà nessuna costituzione può dispensarsi dal porre princìpi organizzativi, se non altro per la funzione che ad essi compete di garantire la positività dell’ordinamento. Sicché il problema che si prospetta è quello di accertare il rapporto da ritenere sussistente nei singoli ordinamenti positivi fra determinate norme « di azione », relative all’organizzazione, e le altre « di relazione », d’indole materiale, che appaiono espressione degli interessi fondamentali incorporati nei medesimi; determinare, cioè, se ed in quale misura sussista una reciproca condizionalità fra le une e le altre, o, come potrebbe anche dirsi quando fosse chiaro il rispettivo significato dei due termini, tra forme di governo e forme di Stato (89). Può ritenersi in generale che, mentre vi è un certo grado di fungibilità delle prime, tale da consentire l’assunzione da parte di ordinamenti ispirati a differenti fini politici di strutture organizzative analoghe, sussiste tuttavia un limite alla detta capacità di adattamento, dato che alcune di tali strutture appaiono così essenziali, in quanto poste in un rapporto di reciproca impli- (88) V. per esempio JACOBI, in Veröff. der Verein. der deut. Staatsrechtslehrer, Heft I, Berlin u. Leipzig, 1921, 63; VEDEL, Conceptions sociales et organisations politiques, in Droit social, 1947; BURDEAU, Traité, I, cit., 113. Corrisponde al concetto di cui al testo quello formulato dallo SMEND di Sachgehalt der Verfassung, comprensivo dei supremi valori politici positivizzati nella costituzione. (89) V. nel senso della connessione fra i due aspetti. HENRICH, Die Verfassung, cit., 201; HSU DAU LIN, op. cit., 29 e 51; SCHMITT, Inhalt, cit., 578 ss.; THOMA, Die juristische Bedeutung, cit., 18; LAUN, in Veröff. der Verein. der deutschen Staatsrechtsleher, Heft I, Berlin u. Leipzig, 1921, 88; JAHRREIS, System des deutschen Verfassungsrechts, Tübingen, 1930, 52. Lo SMEND nel distinguere i tre tipi di integrazione (personale, funzionale e reale) li fa convergere nello stesso compito di dar vita e capacità di svolgimento alla costituzione (op. cit., 88). 139 cazione con il senso politico della costituzione, da non potere venir meno senza che venga a cadere quest’ultimo o risulti compromessa la sua attuazione, senza cioè che si determini la scomparsa del tipo di ordinamento che era caratterizzato da quel senso politico e la sua trasformazione in un altro non più ricollegabile al precedente. Appare chiaro come quando si risalga ad una forma essenziale, quae dat esse rei, nel senso ora accennato, viene meno la distinzione fra parte formale e parte sostanziale della costituzione. La materia costituzionale e la graduazione di valore delle norme della costituzione. - Con riserva di esaminare in seguito più specificamente il rilievo che i valori contenuti nella costituzione assumono in ordine ai mutamenti taciti del testo costituzionale, quali si effettuano attraverso l’attività interpretativa ad esso rivolta, è qui da considerare l’influenza che sull’attività stessa esercitano le valutazioni di contenuto nei casi in cui: a) sia da circoscrivere l’àmbito di applicazione di determinati istituti, genericamente indicati; b) oppure si tratti di decidere circa la diversità delle conseguenze che sono da fare derivare dalla violazione dell’una o dell’altra delle statuizioni inserite nel testo; c) o infine si proponga il problema della possibilità di apportare deroghe al sistema dei procedimenti prescritti per i vari gradi di normazione, sia nel senso di consentire mutamenti di disposizioni inserite nel testo (in ragione del minore rilievo loro attribuito), senza il ricorso alla procedura prescritta per la modifica; sia nell’ipotesi, contraria alla precedente, della sottoposizione a tali procedure (o comunque a procedimenti diversi e più aggravati rispetto a quelli propri delle leggi ordinarie) di altre disposizioni non facenti parte del testo ma tuttavia ritenute di maggiore importanza. Il che può verificarsi o per il riferimento più o meno generico che la costituzione faccia ad una ‘materia costituzionale’, o, anche all’infuori di tale ipotesi, in considerazione della natura degli istituti o rapporti dalle medesime regolati. Mentre per i punti prima ricordati il problema cui si accenna si presenta negli stessi termini sia per le costituzioni flessibili che per quelle rigide, l’ultimo presuppone la rigidezza. 140 Si tratta in ogni caso di procedere a graduazioni di norme, ben differenti però sia da quelle deducibili solo in via logico-formale, come vuole la concezione gerarchica dell’ordine giuridico, che ne ordina le manifestazioni sulla base del rapporto in cui ciascuna di esse si trova rispetto alle altre per il fatto di condizionarle o viceversa di esserne condizionata, e che conduce a disporle in una serie di gradi diversi (possibili a rinvenirsi anche nell’àmbito di una stessa fonte, come avviene per esempio nei confronti delle norme costituzionali che, pel fatto di regolare i procedimenti di revisione, si differenziano dalle altre), in un ordine determinato dal passaggio progressivo dal più generale al più particolare, secondo lo schema kelseniano; sia dalle altre effettuate in ragione del carattere e della posizione rivestita dagli organi da cui le manifestazioni stesse emanano, secondo il diverso orientamento della dottrina francese (90). La graduazione della quale qui si parla sarebbe invece da argomentare in base a considerazioni meramente materiali, attinenti al contenuto delle norme e derivabili dalla diversa loro importanza, oppure dal rapporto in cui esse rispettivamente si trovano di fine e di mezzo, e simili. L’impossibilità di attribuire uguale valore ad ogni specie di norma inserita nella costituzione è stata rilevata con riferimento a diverse ipotesi (91). Così si è osservato dalla dottrina penalistica e da quella costituzionalistica che i « reati di alto tradimento » o di « attentato alla costituzione » non potrebbero essere identificati se ci si riferisse alla costituzione for- (90) Cfr. MAUNZ, Starke u. Schwache Normen in der Verfassung, in Festschrift für Laforet, München, 1952, 141; CARRÉ DE MALBERG, Confrontation, cit., 34 e passim; BURDEAU, Traité, cit., I, 152. Lo SMEND (op. cit., 133) fa osservare che la diversità di rango delle varie disposizioni di un testo, comune ad altri campi giuridici, acquista particolare importanza in quello costituzionale. (91) Per ampie esemplificazioni del diverso rilievo di norme costituzionali sotto l’aspetto della materia cui esse si riferiscono, cfr. ESPOSITO, La validità, cit., 199 e 244 ss. 141 male, occorrendo invece risalire ai supremi princìpi istituzionali (92). Non diversamente dovrebbe procedersi quando si ritenesse di dover circoscrivere secondo criteri di rilievo politico i reati ministeriali. Considerazioni di uguale natura sono da far valere per il caso del giuramento di fedeltà alla costituzione. Ai princìpi istituzionali si dovrebbe avere altresì riguardo per la determinazione dell’àmbito consentito all’esercizio del diritto di resistenza che fosse riconosciuto al popolo, oppure al fine di precisare quali siano le parti abilitate a stare in un giudizio di costituzionalità, quando manchi una espressa e precisa loro individuazione (dubbio in tal senso potrebbe sorgere per i partiti, per le minoranze etniche ecc.), o infine per la stessa determinazione del concetto di ‘lite costituzionale’ (93). Si è ricordato altresì il caso di riserva dei princìpi costituzionali che sia apposta in trattati internazionali (come in quelli di arbitrato) e che può importare la necessità di risalire ad un’obiettiva determinazione del contenuto di questi ultimi, sulla base appunto di una valutazione contenutistica. Può rendersi altresì necessario, in ordine al punto richiamato sub b), risalire alla diversa importanza attribuibile all’una o all’altra delle prescrizioni del testo costituzionale onde decidere circa le conseguenze da far derivare dalla loro violazione, in confronto sia ai soggetti che se ne sono resi responsabili sia agli atti posti in essere, che potrebbero, secondo i casi, venire colpiti da nullità, da annullabilità, o da semplice inefficacia (94). (92) V. al riguardo JELLINEK, La dottrina generale dello Stato, Milano, 1949, 113 e nota 114; HENRICH, Die Verfassung, cit., 211; KÄGI, Die Verfassung, cit., 62. (93) V. per quest’ultimo punto SCHMITT, Verfassungslehre, cit., 112 ss. (94) Cfr. ESPOSITO, Il controllo giurisdizionale di costituzionalità delle leggi in Italia, in La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, 278, secondo cui leggi che fossero in assoluto e totale contrasto con i fondamenti della costituzione (come, per esempio, se avessero a contenuto la soppressione del Parlamento) mancherebbero di ogni efficacia fin dalla loro emanazione, indipendentemente da ogni pronuncia del giudice della costituzionalità. 142 Applicazioni di tale graduazione alla revisione delle norme della costituzione. - Per quanto riguarda l’ultima delle questioni accennate, è da osservare come, pur dovendosi ritenere, da un punto di vista astratto, corrispondente ai princìpi della costituzione rigida attribuire ad ogni regola inserita nel testo costituzionale un ugual grado di resistenza di fronte alla legge ordinaria, tuttavia non possa escludersi una conclusione diversa quando dal complesso del sistema positivo sia dato desumere dei criteri valutativi delle singole regole, sotto l’aspetto della materia regolata dalle medesime, i quali autorizzino ad assegnare ad alcune di esse indole non già cogente ma solo dispositiva, con la conseguente possibilità di sottrarle, pur nel silenzio della costituzione, alla disciplina prescritta per i mutamenti costituzionali (95). Il quesito così posto può poi rovesciarsi, e chiedersi se le leggi ordinarie, sempre in base alla considerazione del loro contenuto, siano suscettibili di assumere rilievo superiore a quello del grado cui appartengono, sottraendole così alla cedevolezza che sarebbe loro propria di fronte a successive manifestazioni di volontà dello stesso legislatore dal quale ebbero origine. È da richiamare, in ordine alle questioni prospettate, l’esigenza fatta prima presente di tenere distinta la trattazione di tale punto da quella relativa ai mutamenti taciti della costituzione, sembrando che i fenomeni qui considerati siano, a differenza di questi ultimi, il risultato di interpretazioni non già difformi dal testo, ma ricavabili dal sistema delle norme in esso consacrate sulla base di quella graduazione di valore cui si è accennato. (95) In questo senso per la tesi in astratto, ESPOSITO, La validità, cit., 297 ss., e dello stesso, per quanto riguarda il vigente diritto italiano, La Costituzione italiana, cit., 287. Cfr. in particolare per una applicazione relativa al diverso rilievo delle norme costituzionali regolanti il procedimento di formazione della legge, lo stesso autore, La Corte costituzionale in Parlamento, in Giur. cost., 1959, 626, e le citazioni ivi. 143 Diverso è il caso che si presenta allorché la considerazione della materia debba condurre a richiedere forme di modifica del testo diverse da quella prescritta in via ordinaria, e ciò o nel senso della sua attenuazione o in quello contrario di un maggiore aggravamento (prescindendosi anche per questo punto dal considerare le ipotesi in cui tali deviazioni risultino espressamente prescritte, come avviene da noi in virtù dell’art. 54 st. Sa. che prevede per le sue modifiche procedure superaggravate, o dell’art. 50 ultimo comma st. V. d’A. che viceversa ne consente altre attenuate). Così, secondo alcuni, una fattispecie riconducibile a quella del superaggravamento si avrebbe per la modifica dell’art. 139 cost. it., che esigerebbe la sottoposizione in ogni caso a referendum popolare, ed invece rigidità attenuata rivestirebbero le norme dei patti lateranensi (sempreché si acceda alla opinione, inesatta, della loro costituzionalizzazione) dato che per la modifica delle stesse sarebbe sufficiente un accordo fra Stato e Chiesa. La possibilità di distinguere fra parte e parte della costituzione formale sulla base del diverso rilievo della materia è stata formulata più volte (96), specie tenendo presente la tendenza rilevabile in varie fasi storiche (97), e più particolarmente in quella contemporanea, di inserire nel testo disposizioni le più varie. Sulla base di tale criterio si è creduto di giustificare il mutamento dell’art. 77 Statuto albertino avvenuto con semplice proclama del re, anziché con legge (98). L’esempio può sembrare non probante della tesi voluta affer- (96) Cfr. LÖWENSTEIN, Erscheinungsformen der Verfassungsänderung, Tübingen, 1931; cfr. FRIEDRICH, La démocratie constitutionnelle, cit., 124. (97) V. esempi in JELLINEK, Dottrina, cit., 114 e nota ivi. (98) Così ORIGONE, Sulle leggi costituzionali, Roma, 1933, 77. Pur con riferimento ad una costituzione flessibile come lo statuto, la distinzione del diverso rilievo sostanziale da attribuire alle sue disposizioni viene in considerazione sotto il differente riguardo dei limiti al mutamento. Cfr. MARCHI, Lo Statuto albertino ed il suo sviluppo storico, in Riv. dir. pubbl., 1926, I, 203, sulle modifiche del testo statutario che costituirono svolgimento di princìpi impliciti in esso. 144 mare e il fenomeno rilevato dovrebbe essere diversamente spiegato quando si attribuisca alla bandiera la funzione di simbolizzare non solo un singolo Stato, ma più specificamente la particolare forma che esso assume (99). Si è pure negato carattere sostanzialmente costituzionale ad altri articoli dello Statuto, come all’art. 80 e altresì all’art. 78, relativo agli ordini cavallereschi ed alle onorificenze. In realtà la materia considerata per ultimo, e più specialmente quella relativa ai titoli nobiliari, può assumere valore diverso secondo che la disciplina pel loro conferimento, o eventualmente il divieto che di esse si faccia, sia da: ritenere espressione di princìpi coessenziali alla costituzione in cui l’una o l’altro siano inseriti, come rispettivamente il principio aristocratico o quello democratico della parità di dignità sociale. Ad una distinzione di materia può anche risalirsi quando si tratti di decidere della possibilità di affermare la sopravvivenza, pur dopo la cessazione di un testo costituzionale, di singole norme in esso inserite, nella considerazione del loro carattere sostanzialmente non costituzionale. Così sotto il vigore delle costituzioni francesi del 1814 e del 1830, per dare ragione del mantenimento in vita dell’art. 75 della costituzione dell’anno VIII (relativa ad una forma di ‘garanzia amministrativa’) si fece valere la distinzione fra ‘materie fondamentali’ e ‘materie regolamentari’. È infine da mettere in rilievo come la differenza di importanza attribuita alle varie norme può esercitare un’influenza indiretta, quale quella che sì verifica in via di interpretazione facilitando le deroghe tacite delle disposizioni ritenute meno rilevanti. (99) Lo Smend la fa rientrare infatti fra le materie che entrano a formare il Sachgehalt della costituzione. Ed analogamente lo Schmitt. La riprova dell’esattezza di tale opinione è fornita dalle discussioni cui dà luogo l’adozione del tipo di bandiera in occasione del mutamento della forma di Stato, come per esempio avvenne nell’assemblea costituente di Weimar. 145 Altri casi di riferimento alla materia costituzionale. - Un’ipotesi diversa da quella prima considerata, nel senso cioè della sopravvivenza di norme anteriori alla entrata in vigore di una costituzione in considerazione della loro natura di leggi sostanzialmente costituzionali, si riscontra nella vigente Costituzione italiana, che nella sua XVI disposizione transitoria fa riferimento ad esse allo scopo di disporne il coordinamento con le proprie norme. Il criterio per giudicare della costituzionalità sostanziale delle disposizioni anteriori non può desumersi che dalla Costituzione sopravvenuta, sicché l’ipotesi potrebbe realizzarsi solo nell’eventualità in cui una di tali disposizioni in materia riservata alla costituzione debba ritenersi non assorbita e non derogata dalla medesima, e quindi destinata a sopravvivere con il rango costituzionale che le proviene esclusivamente sulla base del proprio contenuto, mentre la legge ordinaria prevista dalla XVI disposizione, ove emessa a scopo di coordinamento, sarebbe meramente dichiarativa del carattere proprio di tale contenuto (100). Un’altra categoria di norme, che, pur consacrate in leggi ordinarie, si ritengono fornite, per la intrinseca natura della materia regolata, di un’efficacia che trascende quella che loro deriverebbe dalla forma rivestita perché condizionano la pratica applicazione delle statuizioni sia materialmente che formalmente costituzionali, è stata rinvenuta nelle norme (contenute in Italia nelle Disposizioni sulla legge in generale) dedicate alla interpretazione ed applicazione delle leggi, nonché in quelle sul diritto internazionale privato (101). L’esigenza di risalire alla materia si fa sentire anche per de- (100) Cfr. GUARINO, Materia costituzionale, costituzione materiale, leggi costituzionali, in Dir. giur., 1948, 7 estr. (che fa rientrare nella ipotesi della XVI disp. le leggi penali retroattive emesse nel periodo della Costituente contro i responsabili del regime fascista), e CRISAFULLI, Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti, in Riv. trim. dir. pubbl., 1960, 794 e nota 34. (101) Cfr. PIERANDREI, L’interpretazione della costituzione, in Studi di diritto costituzionale in memoria di Luigi Rossi, Milano, 1952, 470. 146 terminare l’àmbito della competenza di un’apposita istanza costituzionale, quando si dia vita a questa senza possibilità di delimitarla altrimenti che con il riferimento appunto alla materia. Tale ipotesi si è verificata in virtù del d.l.lt. 16 marzo 1946, n. 98, che affidava all’Assemblea costituente la disciplina dei rapporti di carattere costituzionale, senza alcuna altra precisazione. Analogo quesito faceva sorgere la l. 9 dicembre 1928, n. 2663, per chi la interpretava nel senso che l’elenco delle materie considerate costituzionali dell’art. 12 non fosse tassativo (102). Meno facile a verificarsi è il caso che una costituzione rigida, specie se ‘lunga’ come quella vigente in Italia, disponga un generico conferimento di carattere costituzionale ad una materia e la assoggetti alla stessa disciplina di quella inserita nel testo, senza tuttavia procedere ad alcuna sua specificazione, che viene pertanto lasciata alla discrezionalita dell’interprete. Tale ipotesi si sarebbe realizzata, secondo alcuni, in virtù dell’art. 72 (che esclude dal procedimento in commissione la formazione delle leggi in materia costituzionale), nonché dell’art. 138 (che sottopone agli stessi aggravamenti di procedura previsti per la modifica della Costituzione la modifica delle altre leggi costituzionali). I tentativi fatti dai sostenitori dell’opinione orientata in questo senso (103) sono da considerare non riusciti. (102) In questo senso LIUZZI, Sulle leggi costituzionali di cui all’art. 12 della legge sul Gran Consiglio, in Ann. Camerino, 1929, 121; ORIGONE, op. cit., 114. (103) A parte coloro che restringono l’ipotesi di cui all’art. 138 solo alle leggi costituzionali anteriori da considerare sopravvissute, ove si volesse operare un loro mutamento, è da ricordare l’opinione del NUVOLONE (Le leggi penali e la costituzione, Milano, 1953, 11), secondo cui a criterio identificatore di norme costituzionali al di fuori della costituzione deve assumersi l’analogia, deducibile in virtù di un duplice rapporto di somiglianza: e cioè la somiglianza della materia trattata, e l’identità del grado di astrazione (considerandosi intrinsecamente costituzionali solo le statuizioni di principio). Ciò che fa incorrere nella difficoltà di distinguere i princìpi dalle norme, operabile con il criterio elastico del grado d’astrazione. Il DE SIMONE, Materia e norma costituzionale, Milano, 1953, 51, ritiene che la speciale procedura dell’art. 138 si debba richiedere per le materie di ‘importanza costituzionale’, che sarebbero quelle che l’autore chiama di «incidenza revisiva» (non bene specificata) fra cui fa rientrare le norme 147 Sembra pertanto doversi ritenere, in primo luogo, che l’art. 138 ha oggetto diverso dall’art. 72 e che le « altre leggi costituzionali », cui ivi si fa cenno, riguardano o le leggi costituzionali alla cui emanazione fanno obbligo alcuni articoli del testo (come l’art. 137 comma 1, o l’art. 116 o la XI disposizione finale), oppure quelle che risultano dalla costituzionalizzazione, effettuata con l’adozione del procedimento di cui al detto art. 138, di materie prima affidate alla legge ordinaria e tale da non importare alcuna modifica delle preesistenti norme inserite nel testo, neppure sotto la specie della loro sussunzione a princìpi anche in parte divergenti da quelli in esso consacrati. Tale costituzionalizzazione rimane affidata alla piena discrezionalità del legislatore costituzionale, per il conseguimento delle finalità politiche di sottrarre la loro disciplina a maggioranze occasionali, e di sottoporre il controllo della loro osservanza alle speciali garanzie del giudice costituzionale (104). Quanto all’art. 72 è da chiedersi se, escluso per quanto si è detto che esso possa offrire argomento alcuno a sostegno della tesi estensiva dell’àmbito assegnato alla legislazione costituzionale, la formula adoperata consenta di includere nella categoria dei disegni di legge per i quali è fatto divieto del previste dalle disp. fin. VI, XI, XII, XVI, XVIII: opinione che sembra fra l’altro contraddetta dal fatto che queste norme in alcuni casi fanno esplicito riferimento a leggi ordinarie ed in altri a leggi costituzionali. Il VIRGA, Revisione costituzionale, cit., 17, ritiene debba sempre farsi ricorso alle leggi costituzionali per tutto ciò che concerne la parte organizzativa della costituzione, salvo espressa deroga, come quella dell’art. 95 che deferisce alla legge ordinaria l’organizzazione dei ministeri: distinzione questa che si riannoda ad una concezione della materia costituzionale che si è rigettata. Contra, BARILE, La revisione della Costituzione, in Commentario sistematico alla Costituzione italiana a cura di CALAMANDREI e LEVI, II, Firenze, 1950, 480; LEISNER, Die Verfassungsgesetzgebung in der italienische staatsrechtliche Tradition, in Zeitschr. öff. Recht, 1960, 243; MARTINES, La natura giuridica dei regolamenti parlamentari, Pavia, 1951, 101. (104) Pienamente valida pertanto è da ritenere l’estensione operata dalla l. cost. n. 1 del 1953 dell’àmbito della materia costituzionale quale era stata delimitata dall’art. 137. In tal senso ELIA, Commissioni parlamentari, in Enciclopedia del Diritto, VII, Milano, 1960, 903. 148 procedimento di approvazione in commissione, anche quelli appartenenti a materie non comprese nell’art. 138. Si sostiene che la formula stessa (originariamente inserita per comprendervi le leggi per le quali si era proposto di richiedere una maggioranza più elevata di quella relativa di cui all’art. 64) riguarda le leggi ordinarie di contenuto costituzionale (105). Effettivamente si dovrebbe addivenire a tale conclusione pensando che essa rimarrebbe priva di ogni significato se si fosse voluta riferire a norme formalmente costituzionali (106); senonché si incontra la solita difficoltà di rintracciare un criterio di discriminazione, cosa tanto più difficile quando si pensi all’espressa menzione fatta delle leggi elettorali, che non sembra effettuata a scopo meramente esemplificativo (107). Forse più aderente al testo dell’art. 72 potrebbe risultare un criterio, informato alla più stretta analogia con i casi espressa- (105) Il LAVAGNA, Il sistema elettorale nella costituzione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, 851 ritiene che le leggi ordinarie di rilevanza costituzionale debbano adeguarsi ai princìpi, anche impliciti, della costituzione in modo più rigoroso che non le altre leggi. (106) BALLADORE-PALLIERI, Diritto costituzionale6, Milano, 1959, 221, senza peraltro compiere alcun tentativo di determinazione della categoria; BIANCHI D’ESPINOSA, in Commentario sistematico, cit., II, 54; PERGOLESI, Diritto costituzionale, Padova, 1960, 123. Il DE SIMONE, op. cit., vi fa rientrare le leggi di interesse costituzionale: formula alquanto inconcludente che dovrebbe comprendere ogni specie di norme di attuazione dei precetti costituzionali. V. in senso analogo VIESTI, Gli aspetti incostituzionali della legge sul Consiglio superiore della magistratura, in Rass. dir. pubbl., 1958, 519. È stato osservato dall’ESPOSITO, in nota a Documentazione e cronaca costituzionale, in Giur. cost., 1958, 822, nota 1, che il fatto stesso che la costituzione rinvia alla legge ordinaria la sua esecuzione fa escludere il carattere materialmente costituzionale di tale disciplina. È tuttavia non contestabile che il richiamo alla materia esiste ed ha per oggetto il conferimento alle leggi, cui l’art. 72 ha riguardo, di una posizione che, pur non assumendo indole costituzionale dato che rimangono leggi ordinarie, le assoggetta però ad un trattamento speciale, che fa loro acquistare un carattere che potrebbe chiamarsi para-costituzionale. (107) La più chiara dimostrazione della difficoltà rilevata è fornita dalla questione sorta da noi per l’avvenuta approvazione della legge sul Consiglio superiore della magistratura da parte della Commissione della Camera in sede deliberante. Non è stato chiarito se l’allegata illegittimità sia da argomentare dal fatto che detto organo riveste carattere costituzionale, oppure dal suo far parte dell’ordinamento giudiziario, in quanto questo nel suo complesso sia da ritenere materia costituzionale. 149 mente in esso considerati, che condurrebbe a far rientrare nella categoria: a) le leggi di indirizzo politico assimilabili alle altre ivi menzionate, come sono quelle relative ai rapporti con altri ordinamenti (deliberazione dello stato di guerra – ove si ritenga che per esse sia da adottare tale forma di deliberazione –; leggi di esecuzione di trattati internazionali di natura politica o importanti variazioni del territorio nazionale, e di ratifica di concordati, ecc.); b) le leggi relative ai rapporti fra legislativo ed esecutivo che importino spostamenti delle sfere della rispettiva competenza, o controllo dell’uno sull’altro, come sarebbero quelle che mutino la disciplina delle inchieste a carico del Governo o dell’amministrazione; c) le leggi richiedenti l’osservanza di norme di altri ordinamenti, o modalità speciali per la loro emanazione, ciò che in genere è disposto a tutela di autonomie costituzionalmente garantite (per esempio dagli art. 8, 10 comma 2, 132, 133); d) le leggi relative agli elementi costitutivi dello Stato, come quelle sulla cittadinanza, oppure rivolte a condizionare l’intera attività d’applicazione del diritto, come sono le norme sull’interpretazione. Le leggi ‘con riserva d’assemblea’ non costituiscono però un vero grado distinto da tutte le altre di fatto approvate dal Parlamento con la procedura ordinaria, e pertanto, sotto questo riguardo, non potrebbero assimilarsi alle ‘leggi organiche’, note alla tradizione costituzionale francese, la cui emanazione, a tenore della costituzione del 1848, doveva avvenire ad opera della stessa assemblea costituente (art. 115), e che quella vigente affida ad una procedura speciale (art. 46). La questione prospettata riveste notevole importanza ove si ammetta il sindacato della Corte costituzionale sul procedimento di formazione della legge (108) e si ritenga che l’ultimo (108) In conformità a quanto ritenuto dalla Corte costituzionale, specie con le sue sentenze 26 gennaio 1957, n. 3 e 9 marzo 1959, n. 9, non sembrano utilizzabili le definizioni della ‘materia costituzionale’ quale quella data dalla sentenza della Cass. 15 marzo 1948, n. 141, che vi comprendeva « ogni disposizione che attenga all’es- 150 comma dell’art. 72 ha avuto proprio lo scopo di sottrarre all’autonomia delle Camere la disciplina della materia considerata, ciò che porta ad escludere che la determinazione dell’àmbito della materia possa effettuarsi sulla base di apprezzamenti assolutamente discrezionali di carattere politico. L’interpretazione della costituzione Il problema costituzionale dell’interpretazione. - Le considerazioni fatte sulla funzione che alla costituzione compete, di riunire in un’unità, quanto più possibile coerente ed armonica, la complessa serie degli innumerevoli rapporti che si svolgono nell’àmbito dell’ordinamento da essa sorto, sono sufficienti a fare intendere il rilievo che assume il problema dell’interpretazione delle norme in essa racchiuse, essendo chiaro che l’unità di cui si parla può risultare effettivamente conseguita, e con essa assicurata la positività della costituzione, solo nel caso che i vari atti di esecuzione delle norme stesse, affidati ad una molteplicità di organi diversi, confluiscano, almeno in via di media, verso soluzioni coordinabili fra loro in quanto siano promosse da una comune ispirazione. Poiché la difficoltà di realizzare tale armonia si accentua quanto più varie ed estese siano le istanze chiamate ad interpretare la costituzione, si ricorre a mezzi diversi secondo i tipi organizzativi cui si informa lo Stato, data la stretta correlazione che vi è fra gli uni e gli altri. Così in epoche storiche nelle quali è prevalente la tendenza a preservare da ogni deviazione senza e funzioni dei poteri fondamentali, alla loro disciplina giuridica, alla reciproca posizione ed ai loro rapporti ». Infatti essa o si identifica con il contenuto della costituzione formale (ed allora è inutile), oppure lascia campo libero ad apprezzamenti assolutamente discrezionali. 151 gli indirizzi voluti affermare nella legislazione rivolta a stabilizzare un ordine nuovo, l’unità è ricercata accentrando nello stesso organo della produzione legislativa primaria il potere di decidere sull’interpretazione delle leggi in caso di contestazione. L’istituto del référé législatif è un esempio tipico dell’accentramento rilevato. Quando invece si conferisce maggior peso al principio della separazione dei poteri il principio stesso si interpreta, onde non compromettere l’esigenza messa in rilievo, proprio nel senso di farne discendere il divieto per i giudici di procedere al controllo di costituzionalità degli atti legislativi, come pure all’altro rivolto a sindacare la legittimità degli atti dell’amministrazione, mentre si tende ad assicurare la conformità di questi ultimi agli indirizzi di cui il legislatore è artefice con il ricorso a mezzi indiretti di collegamento fra i due poteri, com’è quello che consiste nel preporre ai vari rami della amministrazione uomini di fiducia della maggioranza parlamentare, e collegando in unità tutti gli uffici di ciascun grado mediante il vincolo della subordinazione gerarchica. L’istituto della cassazione provvede poi alla unità dell’interpretazione delle leggi, ed in prevalenza di quelle attinenti a rapporti d’indole non pubblicistica (109), mentre nei Paesi di Common Law lo stesso fine è raggiunto con il ricorso alla regola del precedente, nonché ad una gerarchia delle istanze giudiziarie rivolta ad assicurare l’osservanza del principio stesso. La qualificazione che il Montesquieu dava alla funzione giudiziaria, di potere en quelque façon nulle, rifletteva appunto la concezione della medesima quale attività strettamente esecutiva, ciò che sembrava corrispondere all’esigenza ritenuta fondamentale, per il tipo di Stato cui si aveva riguardo, della più ampia garanzia di certezza e prevedibilità nel campo dei rapporti giuridici. In altri momenti storici, caratterizzati da una situazione in (109) È da rilevare in proposito come la stessa distinzione fra diritto privato e pubblico, e la determinazione dei rispettivi confini è in stretta dipendenza con i princìpi costituzionali circa la posizione del cittadino nello Stato. 152 certo modo inversa alla precedente, perché di rapida trasformazione del complessivo assetto dell’ordinamento, quando ancora non si è consolidato un corpo organico di leggi, si è portati a dare prevalenza alle decisioni concrete rispetto alle norme astratte, lasciandosi all’interprete di derogare a queste ultime quando la loro applicazione letterale verrebbe a contraddire al fine cui sono rivolte, o più generalmente allo spirito o ai valori fondamentali dell’ordinamento. L’adozione di tale tipo non realizzerebbe le finalità politiche perseguite se la scelta dei titolari degli uffici cui sono demandate le decisioni concrete non fosse tale da assicurare la loro fedeltà ai valori predetti, o se altrimenti non fosse operante sui titolari stessi la pressione di forze (come quelle del partito predominante quando si ricorra all’elezione popolare dei medesimi, o del partito unico in altri casi) ritenute meglio in grado di interpretare i valori stessi. Il problema costituzionale relativo alla determinazione del potere cui compete una influenza predominante nella dichiarazione del diritto in confronto ai rapporti concreti, si riproduce, assumendo aspetti analoghi a quelli che caratterizzano le soluzioni estreme prima ricordate, quando, come suole avvenire nell’epoca contemporanea nei Paesi di civiltà occidentale, si ritenga che la separazione dei poteri non solo non escluda, ma anzi richieda l’accertamento della effettiva osservanza delle norme che vincolano l’attività dello Stato di fronte ai cittadini, ma nello stesso tempo si esiga che tale accertamento sia sottratto alle valutazioni soggettive dell’interprete ed invece ancorato ad una volontà resa obiettiva. In apparenza il problema si trasforma in quello, anch’esso di carattere costituzionale (110), del come si deve in- (110) Sul carattere costituzionale dei princìpi dell’interpretazione cfr. DONATI, Il problema delle lacune, Milano, 1910, 14; CRISAFULLI, I princìpi costituzionali dell’interpretazione, in Scritti Romano, I, Padova, 1939, 678 ss. e spec. 694 in ordine alla posizione complessiva fatta all’interprete dall’ordinamento. 153 terpretare, e si risolve nel senso di circoscrivere il potere dell’interprete, vincolando la sua attività all’osservanza di canoni legali di interpretazione, a conferma o in aggiunta a regole logiche o di esperienza o consuetudinarie riguardanti l’esercizio dell’attività stessa. Si ritiene che l’esistenza di queste regole giovi a comprovare il carattere meramente esecutivo dell’interpretazione, ciò che in pratica seconda la tendenza ad estendere il sindacato del giudice ad ogni atto statale di attuazione di norme astratte, e perciò anche di quelli che lo stesso legislatore compie in ottemperanza ai precetti della costituzione. Senonché la fissazione di tali canoni non si palesa sufficiente in pratica a contenere le divergenze, poiché esse stesse si palesano, a loro volta, bisognevoli di interpretazione e nella disputa sul loro valore e sul modo di intenderle riaffiora l’antagonismo fra le due correnti: l’una oggettiva orientata verso la assegnazione di preminenza alla formula normativa, quale risulta dal suo tenore letterale e dall’intenzione del legislatore che le ha dato vita (111), l’altra soggettiva tendente invece ad accentuare il carattere creativo assunto dall’interpretazione, cui si attribuisce una « funzione normativa » (112), nell’opinione che essa non possa esimersi dal considerare le finalità cui le singole formule legislative sono rivolte rispetto alle esigenze concrete cui vogliono provvedere ed all’intero sistema di cui fanno parte, e che da tali elementi debba ricavarsi il loro vero significato, anche se divergente da quello voluto conferire da chi ebbe ad emanarle. (111) V. per una recente testimonianza di questa tendenza (che ebbe in passato notevoli affermazioni, come quella della scuola francese dell’esegesi), LEONE G., Gli aspetti costituzionali dell’interpretazione, in Rass. dir. pubbl., 1958, I, 493, il quale attribuisce valore determinante per l’interpretazione perfino agli ordini del giorno votati in Parlamento con l’intento di chiarire il significato di singole disposizioni. (112) Così BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, II, Milano, 1955, 790. 154 L’interpretazione delle norme costituzionali: influenza sulla medesima dei valori politici. - È ben noto come, per quanto si voglia essere fedeli al precetto che vincola l’interpretazione al significato proprio delle parole della legge secondo la loro connessione, la sua osservanza diviene tanto più difficile quanto più vago e indeterminato ne sia il dettato, e quanto più ampio sia il grado di discrezionalità che essa lascia all’attività dell’organo deputato ad attuarla. Le norme costituzionali sono quelle per le quali, in ragione anzitutto del loro oggetto che è il generale ordine politico dello Stato, nonché della maggiore stabilità e più lunga durata, rese necessarie dalla stessa funzione cui adempiono, si manifesta assai spesso necessario assumere formulazioni dotate di un carattere di più accentuata elasticità. La peculiarità del problema della loro interpretazione deriva appunto dalla maggiore difficoltà di giovarsi dello strumento letterale e dalla esigenza di trascenderlo per giovarsi soprattutto del metodo logico. Potrebbe sembrare che nell’uso di tale metodo il ricorso all’elemento subiettivo derivabile dall’intenzione del costituente dovesse sfuggire ad alcune delle obiezioni che contro di esso si sogliono muovere, e ciò in considerazione della maggior autorità dell’organo straordinario che ha dato vita alla costituzione, delle minori difficoltà di coglierne i propositi che ebbero ad ispirarlo, specie quando l’organo stesso rivesta carattere individuale (113). Ma che così non sia si deduce dal fatto che le difficoltà che si presentano quando ci si voglia giovare della ricerca storiografica per la determinazione del significato attribuito ad una norma dal suo autore non possono non accrescersi ove la norma sia formulata in termini generici proprio al fine di renderla adattabile a situazioni nuove, lasciando aperto l’àdito all’accoglimento di significati non previsti né prevedibili al momento della sua emanazione. È inoltre da osservare come lo stes- (113) Cfr. ULE, Über die Auslegung der Grundrechte, in Arch. öff. Rechts, 193132, 106. 155 so elemento sistematico che deve necessariamente sussidiare l’interpretazione, affinché attraverso essa si operi l’unificazione delle varie manifestazioni concrete dell’ordinamento, sminuisce il rilievo della volontà che ha dettato le singole norme (114). Naturalmente in modo ben diverso è da valutare l’elemento storico quando sia utilizzato per individuare l’insieme della situazione politico-sociale dalla quale la costituzione è emersa, ponendosi quale espressione e garanzia degli interessi fondamentali in essa radicati, e, come tali, destinati ad alimentare in ogni sua fase la vita della medesima, fissandone la linea direttiva e nello stesso tempo il limite del suo svolgimento nel tempo. L’elasticità delle norme costituzionali nelle costituzioni criptoliberali dell’800 era fatta servire all’intento di riservare all’autorità il massimo potere di compressione delle libertà che venivano pertanto riconosciute in modo generico. Il processo che ha portato a dare alle norme stesse, in epoca più recente, una più precisa formulazione (secondo si è realizzata per esempio con la sostituzione alla pura e semplice riserva di legge, che rendeva il legislatore arbitro del se e del modo della concreta disciplina degli istituti, di riserve specializzate e rinforzate, che viceversa accrescono il potere dell’interprete) ha dovuto poi cedere alle nuove tendenze, le quali hanno fatto assumere allo Stato compiti di intervento più o meno penetrante nei rapporti sociali, meno suscettibili che non quelli rivolti alla semplice garanzia negativa delle libertà di venire disciplinati in modo analitico e preciso. Se l’essenza della costituzione è da riporre, come si è visto, nei valori coessenziali alla forma di Stato, da essi anzitutto l’interpretazione dovrà attingere l’ispirazione necessaria a determi- (114) V. nel recente scritto di LEISNER, Betrachtungen zur Verfassungsauslegung (in Die öffentliche Verwaltung, 1961, 643 e 652) l’osservazione in ordine all’antinomia che la costituzione presenta pel fatto di essere, fra tutte le norme, quella più bisognevole di interpretazione e tuttavia la meno adatta ad essere assoggettata alle regole dell’interpretazione intesa in senso proprio, rendendosi per essa più necessario sostituire alla ricerca della volontà del legislatore quella rivolta all’integrazione del significato delle norme. 156 nare l’esatto significato dei princìpi consacrati nel testo, a graduarli secondo il diverso rilievo da assegnare a ciascuno, ad individuare quelli che, se pure non formulati espressamente, sono tuttavia impliciti perché presupposti da singoli gruppi di norme o ricavabili dal sistema, che appunto deve essere ricostruito muovendo dalla considerazione dei valori predetti (115). La pretesa di esaurire nella costituzione scritta l’intero sistema si è rivelata sempre più illusoria, e sempre più manifesto è apparso il bisogno di attingere da fonti extratestuali gli elementi necessari a fare abbracciare la totalità di vita sociale unificata dalla costituzione nel senso materiale che si è illustrato. Si è fatta valere la necessità di distinguere i princìpi costituzionali veri e propri da quelli meramente ideologici o politici, che l’ordinamento positivo storicamente presuppone, ma che ne rimangono al di fuori, con valore di semplice tendenza, tale da potere influenzare oggettivamente l’interprete senza vincolarlo, almeno fino a quando la tendenza non abbia preso corpo in norme concrete (116). Riaffiora in questa distinzione l’opinione relativa alla non giuridicità delle enunciazioni programmatiche, che si è confutata e che risulta in certo modo smentita dall’ammissione che gli stessi sostenitori della distinzione fanno della sindacabilità delle norme che contraddicano (115) Sulla maggiore considerazione dei fini nell’interpretazione della costituzione vi è notevole concordanza. Cfr. PIERANDREI, L’interpretazione, cit., 495 ed ivi riferimenti bibliografici. V., nella più recente letteratura tedesca, l’affermazione della necessità di risalire al fondamento storico-ideologico nell’interpretazione dei diritti fondamentali, in MANGOLDT-KLEIN, Das Bonner Grundgesetz, Berlin u. Frankfurt, 1957, I, 57 ss. Sui poteri impliciti nell’ordinamento nord-americano, LEVI, La teoria hamiltoniana degli « implied powers » della costituzione, in Rendiconti Lincei, 1951, VI, 492. Per una considerazione più generale del fenomeno, TRIEPEL, Kompetenzen des Bundesstaats und die geschriebene Verfassung, in Festgabe für Laband, II, Tübingen, 1908, 240 ss. (116) Così fra gli altri CRISAFULLI, I princìpi costituzionali, cit., 687. Anche per CROSA (Il fattore politico e le costituzioni, in Studi Ranelletti, II, Padova, 1931, 164) quelli che egli chiama «complesso dommatico» e «fine politico» rappresentano uno stadio pregiuridico di presupposto, ma tuttavia sono condizione essenziale per lo studio del sistema. Il Crosa si richiama così al pensiero di JELLINEK, La dottrina generale, cit., 180, nota 2. 157 a quei princìpi: ciò infatti non potrebbe accadere se essi non avessero efficacia limitativa della discrezionalità del legislatore, efficacia che appunto attesta il loro carattere giuridico. La polemica contro l’interpretazione che prende a base i valori informativi del nucleo fondamentale della costituzione è, come si è visto, giustificata dall’esigenza di conferire certezza e prevedibilità all’ordine giuridico. Ma, a parte la considerazione che la certezza, più ancora che dalle singole norme, è da ricavare dal sistema e quindi rimane condizionata al consolidamento delle varie istituzioni ed al grado di armonizzazione che esse sono riuscite a conseguire fra loro e con il tutto, è da osservare che per quanto riguarda le norme costituzionali l’insufficienza dell’interpretazione meramente letterale appare ancora più palese che non per le altre categorie di norme, in ragione della più elevata carica di politicità in esse racchiusa, rivolte come esse sono a dare immediata espressione alla concezione che presiede al complessivo sistema dei rapporti sociali e che non sempre né facilmente può trovare nelle singole norme svolgimenti adeguati, tali da farne cogliere gli aspetti ed i significati essenziali. Ciò richiede all’interprete un’attività ricostruttiva ed interpretativa dei princìpi che, caratterizzando l’intero ordinamento, devono essere presenti in ogni sua manifestazione (117). Attività che non è da confondere con quella integrativa, rivolta ad enucleare dall’esame di singole norme o di gruppi del- (117) Nel senso della prevalenza dei princìpi politici nell’interpretazione della costituzione è la più parte degli scrittori americani. V. per tutti HAINES, The Role of the Supreme Court in American Government a. Politics, Berckeley, 1944. Sul rilievo dato dai giudici nord-americani ai « processi », enunciativi di scopi generali cfr. BON VALSASSINA, Le rotture della costituzione nell’ordinamento statunitense, Padova, 1961, 57. Sulla politicità di cui la costituzione è permeata v. anche ESPOSITO, La validità, cit., 242; CARBONE, L’interpretazione delle norme costituzionali, Padova, 1951, 28. Il FORSTHOFF, Die Umbildung der Verfassungsgesetzes, in Festschrift Schmitt, Berlin, 1959, 61, muovendo da una concezione formale dell’ordine giuridico, (in contrasto con lo Smend, al quale si deve una delle più efficaci affermazioni della ineliminabilità dei valori per la determinazione del rango spettante a norme e istituti) afferma che la durata e la stabilità sono assicurate dalla rigidezza, dalla distribuzione delle competenze, dalla generalità ed astrattezza della legge, e, negan- 158 le medesime, attraverso successive generalizzazioni, i princìpi in esse racchiusi, poiché tende invece a ricercare princìpi di diversa natura, quali sono quelli che precedono e condizionano tutti gli altri, (dovendo fornire il criterio per la scelta e l’impiego dei mezzi necessari a colmare le lacune della legge, ad inserire ogni norma al posto che le compete, conferendole il significato meglio corrispondente all’interesse cui è rivolta) e consentono così di raccogliere in un’unità quanto più possibile armonica ogni specie di manifestazione rilevante per l’ordinamento, da quelle del legislatore alle altre dei minori operatori del diritto (118). La ricostruzione dei princìpi fondamentali, nel senso am- do che le determinazioni di contenuto nella costituzione assumano significato istituzionale, osserva che l’assunzione del metodo finalistico- sociologico di interpretazione della costituzione fa sì che questa divenga ‘aperta’. È significativo come il Forsthoff condizioni la realizzazione di questa sua concezione alla distinzione fra società e Stato, quale appunto si sarebbe verificato nello Stato di diritto borghese dell’800. Quanto siffatta raffigurazione di tale forma di Stato sia irreale, e quanto invece essa fosse permeata dagli interessi della società (o più esattamente della piccola parte della società politicamente attiva) è ben noto ed è stato già rilevato. Anche il LEISNER (op. cit., 650), dopo avere messo in rilievo il carattere proprio dei valori, di meri schemi, destinati ad essere riempiti con norme dall’interprete che deve ricostruire l’ordine gerarchico secondo cui essi sono disposti, segnala il pericolo derivante dai medesimi di intorbidare la precisione del concetto di norma, conclude per l’inammissibilità dommatica di tale tipo di interpretazione e nega che per cogliere lo ‘spirito’ della costituzione si debba risalire ai valori predetti, giovando a tale scopo risalire da norma a norma non già da valori a norme. Può osservarsi in contrario, da una parte, che il procedimento suggerito presuppone già raggiunto un certo grado di sviluppo dell’ordinamento, mentre i valori, in quanto condizionano e guidano il detto iviluppo, non possono non precederlo, e, dall’altra, che ove i valori si deducano dalle norme rimane ostacolata l’adozione dell’interpretazione evolutiva. È proprio il riferimento a valori, secondo sono da desumere e graduare nel sistema, che consente di rintracciare il preciso significato delle singole norme e la loro idoneità ad entrare a comporre questo o quel principio. La difficoltà di desumere i valori dal complesso delle norme positive derivate si accentua, come è ovvio, tanto più quanto maggiore sia la mole delle leggi sopravvissute alla caduta della costituzione sotto il cui vigore erano state emanate. Sul punto in esame v. anche la successiva nota 178. (118) V. per la funzione unificante adempiuta dai princìpi supremi dell’ordinamento ENGISCH, op. cit., spec. 35 ss. Si richiama alla «natura dell’istituzione» il ROMANO, Princìpi, cit., 134; e analogamente CRISAFULLI, Per la determinazione del concetto dei princìpi generali del diritto, in Riv. intern. fil. dir., 1941, 64 ss. ESPOSITO, Consuetudine costituzionale, in Enciclopedia del Diritto, IX, Milano, 1961, 456 ss., dà ai princìpi in parola 159 pio precisato, quale si ottiene, da una parte, con la elaborazione degli elementi risultanti in modo esplicito, o implicitamente argomentabili dalle statuizioni della costituzione (e specie di quelle delle quali la dottrina positivista, come si è notato, tende a contestare la giuridicità, muovendo dalla considerazione del loro contenuto solo programmatico) e, dall’altra, con la scoperta delle esigenze istituzionali latenti, appare quindi strumento necessario per la funzione della quale si è parlato di coordinamento e di unificazione, in ogni singolo momento della vita dello Stato e nella successione delle fasi attraverso cui essa si evolve e si adatta alle situazioni nuove, senza che tuttavia ne riesca alterato l’intimo spirito che l’anima (119). Funzione dei princìpi generali dell’ordinamento. - La funzione di cui si parla si esplica anzitutto nel dirigere l’esercizio dell’attività discrezionale, non solo di quella affidata agli organi dell’esecuzione, ma altresì dell’altra che compete ai soggetti abilitati ai compiti di decisione politica, anch’essi (contrariamente a quanto si ritiene da alcuni) vincolati all’osservanza dei fini fondamentali di carattere costituzionale. L’esistenza di tale vincolo deve indurre l’interprete, in caso di imprecisa formulazione della legge, ad attribuirle il significato più conforme ai princìpi; e ciò sulla base di una presunzione generale di fedeltà alla costituzione. Allo stesso modo, ogni contrasto della legge rispetto ai princìpi impone la sua disapplicazione (o, secondo i casi, il suo annullamento), così come giustifica la pretesa dei soggetti i cui interessi riescano da esso fondamento consuetudinario. Il VIRGA, Libertà, cit., 244, distingue princìpi istituzionali e princìpi generali del diritto, ma, muovendo dall’opinione già confutata che caratterizza i primi in ragione del loro contenuto meramente organizzativo, ritiene che loro destinatari siano solo gli organi costituzionali. (119) V. sulla funzione della costruzione giuridica, nella duplice forma costitutiva e interpretativa, al servizio dell’unità dell’ordine giuridico, soprattutto, ENGISCH, op. cit., 80 ss. Cfr. anche CAPITANT R., Le droit constitutionnel non écrit, in Recueil d’Etudes Gény, III, Paris, 1934, 1. 160 lesi ad ottenere una pronuncia in tale senso (120). Sono altresì i princìpi quelli che colorano diversamente le norme sociali a contenuto solo genericamente determinato, come quelle di giustizia, equità, buona fede, ordine pubblico cui la costituzione o le leggi facciano rinvio. Inoltre, se non si risalga ai princìpi, non si rende possibile affrontare problemi quale quello (in parte già accennato nel trattare del diverso rilievo che le norme inserite nella costituzione rivestono quando siano considerate sotto l’aspetto del loro contenuto) cui dà luogo la coesistenza di più norme inserite nel testo della costituzione o in leggi costituzionali che siano in contrasto fra loro o con i princìpi, trattandosi di decidere circa la prevalenza da accordare all’una o all’altra statuizione. Analogo quesito sorge in presenza di disposizioni che si presentano con carattere di eccezione rispetto ad altre più generali, dovendosi accertare l’ambito entro cui sia da contenere la deroga (121). Alla interpretazione dei princìpi si deve poi risalire per determinare l’estensione da dare loro, individuare cioè i rapporti ai quali essi possono essere applicati (122). Via non diversa è da segui- (120) Cfr. CRISAFULLI, La Costituzione, cit., 72, 79 ss. e ivi le precisazioni relative alle diverse ipotesi di violazione. Contra, muovendo da un opposto punto di vista, MAZZIOTTI, op. cit., 52, per cui il principio, in quanto sia ritenuto programmatico, dispensa l’interprete dalla sua osservanza. (121) Caratteristici gli esempi che possono trarsi dalla interpretazione di alcuni princìpi della vigente Costituzione italiana; come, per esempio, quello relativo alla proprietà privata dei mezzi di produzione, dipendendo dalle diverse premesse dalle quali si parta decidere se prevalga l’aspetto della libertà o quello della funzione sociale. Analoga situazione si verifica quando si tratta di conciliare il rispetto del principio fondamentale dell’art. 3, relativo alla uguaglianza senza distinzione di religione, e dell’altro consacrato nell’art. 7 del rispetto delle norme concordatarie, alcune delle quali contrastanti con il precedente. Per il vigente diritto tedesco occidentale cfr. BACHOF, Verfassungswidrige Verfassungsnormen?, cit., 21, 38. (122) Appartiene a tale ordine di questione lo stabilire se i diritti fondamentali di libertà debbano valere solo nei rapporti fra Stato e cittadini o anche in quelli fra soggetti privati. L’estensione della loro efficacia a questi ultimi è designata dai tedeschi con l’espressione Drittwirkung. Cfr. sul punto la monografia del LEISNER, Grundrechte u. Privatrecht, München, 1960. 161 re onde potere determinare l’estensione del campo in cui opera l’ordinamento, nel senso del numero e della natura dei rapporti da ritenere per esso rilevanti, e correlativamente stabilire se un rapporto non disciplinato dal diritto positivo debba o no farsi rientrare fra quelli forniti di interesse per lo Stato; se, in altri termini, si debba o no postulare l’esistenza di una lacuna, e, nell’ipotesi affermativa, in quale modo debba venire regolata in concreto (123). È stata già ripetutamente dimostrata l’impossibilità di risolvere le difficoltà accennate in via meramente logica, secondo risulta comprovato anche dalla stessa contraddittorietà dei risultati ai quali giungono coloro che per tale via arrivano a far valere come esigenza di ragione il ricorso o all’analogia, o viceversa all’argomento a contrario per colmare le lacune. Il problema delle lacune, se non è esclusivo, come pure è stato sostenuto, della materia regolata dal diritto costituzionale, assume tuttavia per la medesima un particolare rilievo, in ragione dei caratteri già messi in rilievo, propri della normazione che la riguarda, i quali conducono ad accentuare l’influenza dei fattori politici sul procedimento rivolto ad accertare la sussistenza della lacuna ed a determinare l’adozione del criterio per poterla colmare. Sono infatti tali fattori che (agendo a volte anche incon- (123) Lacune si verificano: 1) nel caso di norme incomplete, pel rinvio effettuato dalla costituzione a leggi successive rivolte ad integrare le norme da essa poste. L’interpretazione può condurre o a fare argomentare dal rinvio il carattere di ‘norma ad applicazione differita’ e perciò non applicabile ai casi concreti, oppure alla soluzione contraria, operandosi la sua integrazione con decisioni pei casi concreti, com’è avvenuto per la disciplina del diritto di sciopero sancito dall’art. 40 cost. it. effettuata per opera della giurisprudenza, benché non sia mai intervenuta la legge che avrebbe dovuto stabilirne i limiti; 2) nel caso di omissione di ogni statuizione in ordine a qualche requisito da richiedere per l’assunzione o l’esercizio di date cariche o poteri. Così la costituzione nord-americana non conteneva alcuna disposizione riguardo alla rieleggibilità del presidente in carica, lasciando in dubbio la soluzione più conforme al sistema, dubbio risolto diversamente secondo le diverse epoche storiche; 3) nel caso di lacune che si sogliono chiamare ‘tecniche’, pel fatto dell’intenzionale o involontaria omissione da parte del costituente delle norme procedurali necessarie allo svolgimento delle attività relative ad istituti da esso regolati. Un esempio caratteristico è quello of- 162 sapevolmente) ispirano il ricorso all’uno o all’altro dei procedimenti integrativi menzionati, con risultati tanto più apprezzabili quanto più approfonditamente l’interprete ricerchi le loro connessioni con l’intero sistema e con il fine fondamentale che lo informa. Oltre che nella scelta del mezzo di completamento, i fattori in discorso intervengono anche nella sua pratica applicazione ai singoli casi, essendo chiaro che il giudizio circa la somiglianza o la divergenza delle fattispecie concrete rispetto a quelle normative implica apprezzamenti rivolti a decidere della prevalenza di uno o di un altro dei caratteri presentati dalle medesime: apprezzamenti da effettuare alla stregua dei valori tenuti presenti dall’interprete al momento dell’applicazione. Fattori che ostacolano lo svolgimento unitario del sistema. - La soddisfazione dell’esigenza unitaria, da raggiungere attraverso l’interpretazione del testo sulla base degli orientamenti ora ricordati, non può ottenersi se non in misura media ed in via di larga approssimazione, o in altri termini come risultato di un processo sempre rinnovantesi che si svolge percorrendo una linea tortuosa di sviluppo. Ciò trova facile spiegazione quando si pensi alla molteplicità degli organi che cooperano ferto dall’art. 86 cost. it., che nel prevedere la sostituzione del Capo dello Stato in caso di un suo impedimento permanente non ha curato di stabilire le modalità necessarie ad accertarlo; 4) nel caso in cui, pur ricavandosi dal sistema criteri sufficientemente univoci per la qualificazione di singole fattispecie, si alleghi da parte dei detentori del potere, interessati ad escludere per esse l’applicazione dei poteri stessi, l’esistenza di una lacuna. Tipica l’allegazione fatta dell’esistenza di una lacuna durante il conflitto costituzionale verificatosi in Prussia nel 1862, pel caso di rifiuto di approvazione del bilancio da parte del Parlamento. Diversi sono poi i casi di disposizioni costituzionali che risultano non coordinate fra loro, perché espressione del compromesso intervenuto fra i vari e contrastanti interessi rappresentati nell’organo costituente, poiché per essi sono le decisioni politiche che riescono a prevalere secondo il diverso rapporto che viene a determinarsi fra le forze politiche attive nel Paese a determinare la soluzione da adottare. Sulle varie specie che tali compromessi possono assumere cfr. SCHMITT, Verfassungslehre, cit., 28 ss. 163 alla funzione interpretativa, alla diversità dei procedimenti di scelta dei loro titolari, a volte forniti di particolari garanzie di indipendenza che rendono meno facile il coordinamento della loro attività con quella di altri organi (124). Il conseguimento dell’unità diviene tanto più arduo quanto più la costituzione contenga princìpi o norme non in tutto concordanti o che addirittura esprimano valori contrastanti fra loro o designino fini cui non corrispondano i mezzi di attuazione, oppure prevedano mezzi che non trovano riscontro nei fini (125). In tali evenienze, quali si producono nelle costituzioni che emanano dal concorso di forze divise fra loro da in- (124) Il problema accennato presenta aspetti particolarmente complessi nei confronti degli organi addetti alla funzione giurisdizionale, allorché questa si consideri meramente interpretativa dell’astratta volontà della legge, e perciò così congegnata da sottrarla ad ogni fattore subiettivo. Poiché siffatto ideale rimane in pratica irraggiungibile, non potendosi eliminare l’influenza di detti fattori legati alla sensibilità ed alla formazione spirituale del giudice (influenza tanto più ampia quanto più largo sia il margine di discrezionalità offerto dalle leggi da interpretare) l’indipendenza che a lui si assicuri di fronte agli organi chiamati a riflettere in modo immediato e diretto le correnti politiche che via via emergono nel seno della società può operare quale elemento di disarmonia nel sistema. L’evenienza prospettata si presenta con maggiore gravità nei confronti delle giurisdizioni competenti al controllo della costituzionalità degli atti legislativi o amministrativi. Si è messo in rilievo come il primo di tali controlli si concreti in sostanza nell’esercizio di potere legislativo, ed il KELSEN ha appunto raffigurato il giudice che lo pratica come «legislatore negativo» (in Veröff. der Verein. der deut. Staatsrechtslehrer, Heft 5, Berlin u. Leipzig, 1929, 53). Altri riferimenti bibliografici in CAPPELLETTI, L’attività ed i poteri del giudice costituzionale, in Scritti giuridici in memoria di P. Calamandrei, III, Padova, 1958, 22 estr. e in PIERANDREI, L’interpretazione, cit., 510). La resistenza sempre opposta in Francia alla introduzione del controllo giudiziario di costituzionalità della legge trova il suo fondamento nelle considerazioni che precedono. In pratica, quando non si affidi la scelta dei giudici alla elezione popolare oppure alla designazione di organi politici, intervengono nel senso di temperare i pericoli di disarmonia nel sistema, mezzi indiretti, quale quello degli ostacoli operanti in via di fatto per precludere l’ingresso nell’ordine giudiziario agli appartenenti a classi diverse da quelle dominanti. (125) Su questa ipotesi ENGISCH, op. cit., 41 ss. Sulla funzione della consuetudine intepretativa nella stabilizzazione dei princìpi dell’ordinamento cfr. ESPOSITO, Consuetudine costituzionale, cit., § 9. 164 teressi divergenti, la stabilizzazione si ottiene quando qualcuna di tali forze riesca a far prevalere, attraverso il consolidamento raggiunto dalla prassi, le interpretazioni meglio conformi alle esigenze che essa esprime. Si è già osservato come ciò si ottenga assumendo criteri di graduazione delle norme che conducono a far dichiarare eccezionali quelle che tali non sarebbero, o a negare efficacia a princìpi, anche quando siano proclamati fondamentali dalla costituzione, sotto il pretesto del loro carattere non vincolante, o a far ritenere inesistenti termini finali, pure se essi siano stati solennemente statuiti proprio allo scopo contrario di precludere ogni arbitrio nell’esercizio del potere di dare attuazione ai precetti costituzionali (126). Ai fattori che si sono rilevati e che conducono ad ampliare il potere dell’interprete di fronte alle norme costituzionali, se ne aggiunge uno derivante dal carattere degli organi chiamati ad effettuarne l’interpretazione, che loro deriva dall’essere situati in posizione di sovranità, con conseguente insindacabilità dei loro pronunciati. Quando sia consentito che tali pronunciati assumano efficacia erga omnes può derivarne la conseguenza che l’interpretazione fatta valere dai medesimi esplichi in pratica effetti analoghi a quelli propri dell’interpretazione autentica; con la differenza che, mentre quest’ultima, ove venga effettuata dal solo organo a ciò giuridicamente competente, e cioè da quello designato per la revisione costituzionale, assume carattere assolutamente vincolante e condizionante ogni altra volontà, l’altro tipo di interpreta- (126) V. per i contrasti di principio nella costituzione di Weimar, SCHMITT, Verfassungslehre, cit., 31. Nell’applicazione della vigente Costituzione italiana il conflitto fra le tendenze rivolte a far valere la preminenza dell’uno o dell’altro degli orientamenti che sono o si affermano presenti nella Costituzione si è manifestato soprattutto nel campo dei rapporti economico-sociali, delle autonomie locali, dell’uguaglianza dei sessi, dell’influenza del concordato con la Chiesa cattolica in senso limitativo della generale applicabilità dei princìpi costituzionali, della conciliabilità con questi ultimi delle vecchie leggi ancora in vigore limitative delle libertà dei cittadini. V. su alcuni di tali punti CRISAFULLI, La Costituzione, cit., 87-204. 165 zione, che impropriamente si denomina autentica, deve cedere alla contraria manifestazione di volontà che si effettui con il procedimento della revisione (127). Le osservazioni che precedono consentono di intendere la differenza sussistente fra l’interpretazione evolutiva, quale opera in un ordinamento che presenta carattere di intrinseca coerenza e quella che invece si fa valere nei casi in cui esso contenga nel suo seno elementi di contrasto. È opinione comune che tale procedimento interpretativo assuma particolare rilievo allorché si applica alle norme costituzionali, e ciò per effetto del più rapido ritmo dello svolgimento delle parti dell’ordinamento riguardanti i rapporti permeati di elementi politici, ed in correlazione con la particolare struttura delle norme stesse (128). Non può però essere ricondotta alla progressiva adeguazione di queste al naturale evolversi delle esigenze sociali (quale si effettua allorché si utilizzi la forza di espansione delle norme stesse giovandosi degli strumenti tecnici propri dell’interpretazione, ma sempre mantenendosi nell’alveo segnato dai princìpi istituzionali e dalla fedeltà ad essi), quella diversa prassi che invece emerge dalla vittoria di una fra le varie tendenze in contrasto, e che solo impropriamente si può ricondurre all’interpretazione perché è sostanzialmente innovativa rispetto a singoli princìpi o a norme consacrate nel testo, o addirittura sovvertitrice di interi settori dell’ordinamento o del complesso degli orientamenti fondamentali su cui esso poggia. (127) Esempio di interpretazione pseudo-autentica può considerarsi quella emanante dall’organo di giurisdizione costituzionale nei casi in cui essa abbia efficacia vincolante al di là del caso deciso. In senso più ristretto può ricondursi alla stessa figura l’interpretazione di precetti costituzionali risultante da norme dei regolamenti parlamentari rivolti a dare loro attuazione, quando l’interpretazione medesima sia coperta dal principio dell’insindacabilità degli interna corporis. Cfr. sul punto ROMANO Santi, Sulla natura dei regolamenti delle Camere, in Scritti minori, cit., I, 251. Per un caso particolare di interpretazione, e per gli equivoci sorti in ordine ad esso, cfr. OLIVIERI-SANGIACOMO, Regolamento parlamentare e leggi interpretative della costituzione, in Foro it., 1952, IV, 101. (128) Cfr. ROMANO Santi, Interpretazione evolutiva, in Frammenti, cit., 124. 166 La serie di fenomeni indicati per ultimo (per quanto a volte possa riuscire in pratica difficile distinguerli dagli altri per ciò che riguarda i loro effetti) deve essere oggetto di distinto esame, qual è quello che sarà dedicato al problema delle modifiche della costituzione. Il problema delle modifiche della costituzione Rapporto fra stabilità e mutabilità della costituzione. - Si è visto come la costituzione dia vita ad un sistema che, da una parte, non si realizza e non può mai realizzarsi interamente nelle norme, perché non è in nessun caso ordine compiuto, e che, dall’altra, pur caratterizzato com’è dall’esigenza di durare onde dirigere l’ordinamento in tutto il corso della sua esistenza, deve poter adeguarsi agli eventi sempre nuovi che sopravvengono durante tale corso, senza quindi che possa assumere carattere di immodificabilità. Non ha senso pertanto porre il problema dell’astratta possibilità di apportare modifiche alla costituzione, poiché anche nell’ipotesi che questa non contenga alcuna disposizione sul proprio mutamento o addirittura inibisca espressamente ogni modifica, non sarebbe lecito né desumere dal silenzio una clausola di assoluta immodificabilità, né ritenere assolutamente vincolante il divieto (129). (129) V. invece nel senso della presunzione di immodificabilità nel caso di silenzio o di dubbio MOKRE, op. cit., 234 e ivi richiamo alla nota tesi del Merkl e del Verdross. Nel senso della validità dell’espresso divieto HILDESHEIMER, Über die Revision modernen Staatsverfassungen, Tübingen, 1918, 30. Contra, per la invalidità di tale clausola WEYR, in Juristische Blätter, 1916, 387, sulla base però di una considerazione equivoca, come quella del contrasto della clausola di non modificabilità con la volontà sovrana dello Stato, che riecheggia il motivo fatto valere contro la medesima da Rousseau, e dalla Convenzione francese. Contesta l’opinione della irrazionalità delle clausole che escludono il mutamento l’ESPOSITO, Validità, cit., 203. 167 Tale affermazione non contrasta con l’esigenza già messa in rilievo, e che troverà in seguito i necessari svolgimenti, di contenere il mutamento entro quei limiti assoluti che valgono a salvaguardare la funzione propria della costituzione di identificare per tutta la sua vita il particolare tipo di ordinamento cui essa si riferisce, e ciò perché mentre siffatti limiti corrispondono alla natura dell’istituzione e sono garantiti dalle forze in essa operanti (almeno fino a quando queste rimangono efficienti), gli altri, appunto perché non coessenziali all’intima struttura della medesima, anche se ritenuti tali al momento dell’instaurazione, e pur esercitando una funzione politicamente rilevante, non possono prevalere sugli eventi sopravvenuti, quando questi siano tali da richiedere interventi non previsti, o non congruamente previsti dalla costituzione. Sicché in pratica i divieti assoluti producono il solo effetto di indurre ad una più ampia adozione di comportamenti che sono rivolti ad eluderli in via di fatto e che raggiungono effettivamente detto risultato. Il rapporto fra stabilità e mutamento, fra statica e dinamica, nel senso che risulta dai termini ora indicati, è comune a qualsiasi tipo di ordinamento costituzionale positivo. La tendenza contemporanea all’irrigidimento della costituzione che si realizza con il dar vita ad un grado a sé stante nella gerarchia delle fonti, immediatamente subordinato alla costituzione ma superiore alla legge ordinaria, costituisce il mezzo più diffuso di garanzia del rispetto del testo, onde ottenere che le sue modifiche siano, almeno in certi limiti, non impedite, bensì circondate da speciali garanzie, onde far presumere che esse risultino da una più approfondita ponderazione e poggino su un consenso sufficientemente diffuso. La legittimità e l’opportunità della rigidezza sono contestate da quegli orientamenti che si sono ricordati, comuni tanto alle concezioni legittimiste (secondo cui ogni concessione limitativa del potere del monarca non può essere invocata per ostacolare la sua revocabilità in ogni momento da parte di costui) quanto a quelle della sovranità nazionale, o della democrazia radicale che escludono ogni remora alla immediata espressione della volontà della nazione o del popolo sovrano. Facendo rinvio a quanto si 168 è prima detto sugli equivoci che alimentano tali opinioni, basterà qui osservare come illusorio sia il concepire la rigidezza quale garanzia di assoluta integrità del testo scritto, poiché anche le procedure di aggravamento richieste per le revisioni costituzionali, alla pari degli altri impedimenti all’attività degli organi costituiti, non possono assumere valore pienamente vincolante tale da precludere l’attuarsi di modifiche per vie diverse da quella prescritta: possibilità quest’ultima tanto più facile a verificarsi quanto più complicate siano le procedure predisposte per effettuarle. Visto che l’adozione di sistemi di irrigidimento dev’essere valutata in base a considerazioni di opportunità politica, si può chiedere se tale opportunità ricorra nei confronti delle costituzioni dette di compromesso, perché risultanti dall’accordo di forze eterogenee e pertanto espressione di princìpi non fusi tra loro in unità. Si è sostenuto che in tali contingenze il richiedere maggioranze qualificate, rendendo difficile o impossibile la revisione, conduce ad accentuare il contrasto fra le forze politiche, compromettendo il rispetto e l’efficienza del sistema costituzionale. Si può opporre che se i valori così configurati si considerino legati all’esigenza di assicurare un ordinato sviluppo delle istituzioni, tale da condurre all’attuazione di quelli fra gli orientamenti costituzionali che abbiano raggiunto una sufficiente maturazione nello spirito collettivo, così da far presumere una loro sufficiente stabilizzazione, dovrebbe apparire giustificata l’esclusione di revisioni affidate a maggioranze semplici, e, perché tali, legate a situazioni contingenti e mutevoli (130). Nozioni generali sulle varie specie di modifiche. Ordine della trattazione. - Poiché, come si è rilevato, la predisposizione di ap- (130) L’osservazione del KELSEN (Natura e valore della democrazia (tr. it.), in Lineamenti di una teoria generale dello Stato, Roma, 1933, 76), secondo cui la richiesta di maggioranze qualificate per la modifica della costituzione è difforme dal principio democratico poiché dà alla minoranza il potere di arrestare la volontà della maggioranza, non tiene conto delle esigenze collegate all’ordine costituzionale quali si sono prospettate nel testo. 169 positi procedimenti per la revisione costituzionale non è sufficiente a precludere in concreto modifiche poste in essere diversamente, si rende necessario, ove si vogliano abbracciare in una visione di insieme le varie specie di mutamento della costituzione, esaminare distintamente quelle conformi alle predisposizioni costituzionali e le altre che invece se ne distaccano. Saranno pertanto esaminati, in primo luogo, i procedimenti di revisione, quali risultano dal diritto comparato degli Stati moderni, ordinandoli in tipi e sottotipi, sulla base di criteri vari di classificazione, relativi o al procedimento (come quelli che hanno riferimento all’organo abilitato ad effettuare gli emendamenti o alla natura ed alle modalità dell’aggravamento stesso), oppure all’indole della deliberazione di modifica, secondo che questa sia espressa o tacita, permanente o temporanea, generale o singolare. La trattazione sarà, in secondo luogo, dedicata alle modifiche che hanno luogo senza l’impiego delle forme legali per esse previste, e cioè per opera di fonti diverse da quella abilitata alla formazione delle leggi di revisione (quali possono essere la legge ordinaria, i regolamenti parlamentari, le pronunce giudiziarie; fonti queste che possono venire in considerazione o come tali, oppure essere assorbite in una comune fonte consuetudinaria, ove le modifiche si considerino operanti solo in quanto si siano consolidate in una prassi, più o meno ben definita). Requisiti necessari alla rigidezza della costituzione. - Prima di esporre la tipologia delle procedure di revisione è da chiedersi se siano da esigere per esse requisiti minimi, in mancanza dei quali non potrebbe ritenersi realizzato un sistema costituzionale fornito di rigidezza. La questione si è presentata per quegli ordinamenti i quali richiedono modalità riferentisi non già al momento deliberativo ma alla fase ad esso preliminare, come sono quelle che si concretano in semplici pareri non vincolanti. Si è sostenuto che non le particolarità meramente procedimentali bensì solo le altre inerenti alla deliberazione, se ne operino una differenziazione secondo che sia rivolta alle leggi costituzionali o alle ordinarie, sono idonee a far conse170 guire l’effetto di cui si parla, e si è aggiunto che, altrimenti, non si riuscirebbe a distinguere le prime da quelle ordinarie ‘rinforzate’. In contrario si è obiettato che la distinzione fra costituzioni rigide e flessibili diverrebbe empirica ed arbitraria ove si assumesse il criterio così proposto della diversità del modo di manifestazione della volontà cui si demanda la deliberazione sulle modifiche costituzionali, dovendosi invece ritenere che ogni specifica modalità del procedimento in qualunque delle sue fasi, ed anche se in sé considerata appaia sfornita di rilievo sostanziale (purché sia imposta in modo obbligatorio e non si esaurisca in atti o attività di carattere puramente interno), è sufficiente a irrigidire la costituzione, mentre poi la differenziazione fra le leggi di revisione e quelle ‘rinforzate’ deve farsi discendere dal diverso oggetto cui le une e le altre si riferiscono (131). Non è contestabile il rigore logico dell’argomentazione ricordata per ultimo. È tuttavia da osservare come proprio la stessa valutazione che si richiede in ordine alla natura delle formalità prescritte per la formazione della legge costituzionale, allo scopo di poterle qualificare quali requisiti immediati dell’atto o invece elementi del procedimento interno all’organo, risulta influenzata dalla considerazione dei suoi caratteri sostanziali, quali sono da valutare in loro stessi e nel sistema di cui fanno parte (132). Sicché non (131) V., in favore della tesi esposta per ultima, KELSEN, Teoria, cit., 264, e specie ESPOSITO, La validità, cit., 189. Per la prima è invece il LIUZZI, op. cit., 132, che in certo modo si ricollega al BRYCE, La repubblica americana, in Bibl. Brunialti, III serie, I, 2, Torino, 1916, 481, secondo cui la rigidezza è legata all'esistenza di un'autorità superiore a quella del legislatore ordinario. (132) Così, per esempio, il ROMANO (Corso di diritto costituzionale, Padova, 1943, 403) ebbe a ritenere che il parere del Gran Consiglio del fascismo, richiesto per le leggi costituzionali dall'art. 12 legge 9 dicembre 1928, n. 2693, non dovesse considerarsi requisito essenziale (anche se la menzione del parere doveva essere inserita nella formula di promulgazione), nella considerazione che il parere stesso era rivolto al capo del Governo, non già al Parlamento. In realtà era la posizione politica attribuita a detto organo nel regime a conferire al parere da esso emanante valore sostanziale di deliberazione. 171 potrebbe non far sorgere dubbi sulla effettiva rigidezza l’imposizione per esempio di aggravamenti per le leggi costituzionali che risultassero meno rilevanti di quelli previsti per leggi semplici « rinforzate ». In realtà la funzione dell’aggravamento non si adempie per il semplice fatto di rendere più difficile la formazione della legge costituzionale, risultando essa piuttosto dal ricorso a certe particolari difficoltà idonee a conferirle un’impronta di maggiore autorità o a raccogliere intorno ad essa un consenso più vasto, o ad attestare l’esistenza di una volontà meglio consolidata. I vari tipi dei procedimenti di revisione. - L’esattezza delle osservazioni che precedono risulta confermata dall’esperienza che mostra come il potere di revisione si soglia concentrare negli organi di suprema decisione politica e la sua disciplina venga effettuata in modo da assicurare il conseguimento delle finalità indicate. Pertanto il criterio generale che appare più idoneo a differenziare fra loro i vari tipi storici del procedimento di revisione è quello che si collega alla distinzione delle forme di reggimento: autocratici, aristocratici, democratici, mentre i numerosi sottotipi risultano dalle varie combinazioni possibili ad attuarsi fra gli elementi propri di un tipo con alcuni degli altri (133). Appartengono al primo tipo i procedimenti che affidano la deliberazione al principe, nel quale si riassume il potere sovrano. Nel secondo tipo sono da far rientrare i casi in cui la revisione si accentra negli organi rappresentativi, con esclusione di ogni in- (133) V. sui procedimenti di revisione: HILDESHEIMER, op. cit.; FREYTAG-LOSchutzgesetz und Verfassungsänderung, in Deutsche Juristen-Zeitung, 1922, 557; BREDT, Der Weg der Verfassungsänderung, in Zeitschr. Staatsw., 1927, 437; JACOBI, Reichsverfassungsänderung, in Festgabe für das Reichsgericht, I, 1929; THOMA, Grundbegriffe und Grundsätze, in Handbuch der deutschen Staatsrechts, II, Tübingen, 1932, 153 ss.; JELLINEK W., Das verfassungsändernde Reichsgesetz, ivi, II, 182; LÖWENSTEIN, Erscheinungsformen der Verfassungsänderung, cit., 7 ss.; JESELSOHN, Begriff, Arten u. Grenzen der Verfassungsänderung, Heidelberg, 1931, 48 ss.; BURDEAU, Essai d’une théorie de la révision des lois constitutionnelles (thèse), Paris, 1930; DUPEYROUX, Du système français de révision const., in RINGHOVEN, 172 tervento diretto o indiretto del popolo, mentre il terzo comprende quelli che richiedono come essenziale l’intervento di quest’ultimo. Trascurando, per il loro scarso rilievo, le forme proprie del potere individualizzato, sono da esaminare anzitutto le altre che fanno valere in modo integrale il principio rappresentativo, concentrando la competenza alla revisione in organi elettivi, con esclusione di ogni specifico mandato popolare. Nell’àmbito di tale categoria sono da distinguere gli ordinamenti che attribuiscono la competenza in parola allo stesso organo della legislazione ordinaria. In tal caso la differenziazione fra questa ed il procedimento di revisione può risultare: 1) dalla imposizione di modalità attinenti alla fase preliminare alla presentazione o discussione del progetto (come nel caso che si richieda l’iniziativa da parte di altri organi, o la previa audizione di pareri obbligatori); 2) dalla richiesta di maggioranze speciali (ad esempio art. 146 cost. russa, che esige il voto favorevole di almeno 2/3 dei membri di ciascuna delle due Camere del Soviet supremo; art. 79 cost. Germania occidentale); 3) dall’aggiunta al requisito della maggioranza speciale anche di uno speciale quorum (l’art. 76 cost. Weimar esigeva la presenza dei 2/3 dei membri del Reichstag, ed il voto favorevole dei 2/3 dei presenti); 4) dall’esigenza della ripetizione del voto favorevole all’emendamento, da effettuarsi ad intervalli di tempo determinati (art. 90 cost. francese 1946) oppure nel corso di successive sessioni (art. 112 cost. norvegese). Sistemi misti sono quelli che richiedono, insieme a vo- Rev. fr. dr. publ., 1931, 457; MENZEL, Rechtsformen der formalen Verfassungsänderung, in Festschrift für Giese, Frankfurt a. Main, 1953, 153. Cfr. anche lo schema dei vari tipi nel citato scritto del Liuzzi. Pel nuovo diritto della Germania occidentale cfr. MAUNZ, Die verfassungsgebende Gewalt in Grundgesetz, in Die öffentliche Verwaltung, 1953, 655; MEYER-ARNDT, Rechtsfragen der Grundgesetzänderung, in Arch. öff. Rechts, 1956, 275. Per il diritto francese BERLIA, La révision constitutionnelle, in Rev. jr. dr. publ., 1955, 164. Per il diritto italiano BARILE, La revisione della Costituzione, in Commentario sistematico alla Costituzione, cit., II, 445; VIRGA, La revisione, cit., 17 ss.; LEISNER, Die Verfassungsgesetzgebung, cit., 225 173 tazioni ripetute, anche maggioranze speciali, per tutte le deliberazioni o solo per quella conclusiva (art. 136 ultimo comma cost. italiana). Altre sottodistinzioni possono poi ricavarsi facendo riferimento ad elementi diversi: e così per esempio per il fatto che le successive approvazioni richieste abbiano lo stesso oggetto; o invece uno diverso, come nel caso che una di esse si limiti a statuire che la modifica di una determinata parte della costituzione debba aver luogo, mentre l’altra contenga la concreta deliberazione sul tenore della modifica stessa; oppure la prima determini il contenuto dell’emendamento da apportare mentre la seconda si limiti ad approvarlo o rigettarlo senza potervi apportare modifiche. Una seconda ipotesi è che l’organo speciale della revisione sia diverso da quello legislativo. Ciò si verifica quando tale funzione sia attribuita: a) ad un’assemblea costituita dalle due Camere insieme riunite (richiedendosi o non una precedente deliberazione di ciascuna camera rivolta alla convocazione dell’assemblea - esempio della prima ipotesi offre l’art. 8 cost. francese del 25 febbraio 1875); b) ad un’assemblea speciale formata dalle stesse Camere con l’aggiunta di altri membri estranei; c) ad un’assemblea formata ad hoc (come avviene negli Stati Uniti d’America, quando, adottandosi uno dei due procedimenti colà sperimentabili in via alternativa si proceda alla formazione di apposita ‘convenzione’). Passando ora all’altro tipo, caratterizzato dall’intervento popolare nel corso della procedura di revisione, è da mettere in rilievo come esso presenti una grande varietà di forme, potendosi l’intervento stesso richiedere: o in ogni caso, come condizione necessaria alla perfezione del procedimento revisivo, o invece come condizione solo eventuale. Rientrano in quest’ultimo tipo i casi in cui la pronuncia popolare sia prescritta solo in sostituzione di altro procedimento che ne prescinde, e solo nel caso che quest’ultimo non riesca a perfezionarsi. Ciò può verificarsi: a) per risolvere il dissenso sorto fra le due Camere in ordine alla proposta di revisione, e ciò in modo automatico (ad esempio art. 120 e 121 cost. svizzera) oppure su richiesta della Camera dissenziente (art. 76 174 ultimo comma cost. Weimar); b) in sostituzione di altro organo competente a decidere da solo, purché si verifichino certe condizioni, come quella del raggiungimento di apposite maggioranze, ove queste non si realizzino: tale ipotesi è prevista dall’art. 138 cost. italiana che richiede l’obbligo della sottoposizione a referendum popolare solo di quegli emendamenti approvati dal Parlamento con maggioranza inferiore a quella dei 2/3. Analogamente disponeva l’art. 90 cost. francese del 1946. Anche la vigente Costituzione francese del 1958 congegna il responso popolare in forma alternativa, ma statuisce che si possa prescinderne non già in considerazione dell’entità della maggioranza raggiunta in Parlamento, bensì per decisione del Capo dello Stato, in base alla quale l’approvazione definitiva viene deferita al Parlamento convocato in congresso, che però deve darla con la maggioranza dei 3/5 dei voti validi (art. 89). Invece l’ipotesi di responso popolare imposto quale condizione necessaria, in ogni caso, per sanzionare l’emendamento approvato dal Parlamento si realizza nella Costituzione svizzera (art. 120 commi 5 e 6) (134). Un posto a parte deve essere assegnato a quei sistemi risultanti dalla contaminazione di elementi sia del tipo rappresentativo che di quello democratico. Essi trovano il loro modello nell’art. 131 cost. belga, che prevede una prima fase, costituita dalla deliberazione da parte del potere legislativo sulla necessità della revisione di una o più disposizioni costituzionali, tassativamente indicate. Ad essa segue l’automatico scioglimento delle due Camere, e l’inizio, dopo l’espletamento delle elezioni, di una seconda fase nella quale ha luogo la concreta decisione sulla modifica per opera delle nuove Camere. (È da avvertire che il quorum e la maggioranza speciale richieste dalla Costituzione belga, non sono (134) Si omette, perché esorbitante dal fine qui assunto di sommaria schematizzazione, ogni menzione delle ulteriori modalità rese necessarie negli Stati federali, com’è appunto la Svizzera, dal carattere composito dell'ordinamento. 175 contrassegno necessario del sistema in esame). In questo tipo il giudizio del corpo elettorale sulla revisione progettata è solo indiretto, e la sua influenza eventuale, subordinata com’è, pel fatto del divieto di mandato imperativo, al grado di organizzazione politica che il popolo riesce a conseguire attraverso l’opera dei partiti. Per esaurire l’esposizione relativa ai tipi delle revisioni effettuate in via formale, è da mettere in rilievo come, nel silenzio della costituzione, nessun peso sia da attribuire al cosiddetto principio del ‘parallelismo delle forme’, secondo il quale ogni modifica delle norme costituzionali dovrebbe avvenire nelle stesse forme adottate per la loro formazione originaria e per opera delle stesse autorità da cui sono emerse. È stato esattamente osservato come non sia possibile perpetuare nel tempo procedimenti ed organi che hanno esaurito la loro funzione con l’emanazione della costituzione (135). Le modifiche tacite. - Sempre con riguardo alle modifiche costituzionali effettuate con l’impiego degli appositi procedimenti si discute se sia consentito che esse vengano effettuate in modo tacito, ossia con l’emissione di leggi costituzionali che contrastano con princìpi o norme consacrate nel testo senza che venga dichiarata in modo esplicito la volontà di modificare gli uni o le altre (136). In altri termini si tratta di stabilire se il principio dell’abrogazione tacita (che vale per le leggi ordinarie fino a quando non sia diversamente disposto) trovi applicazione anche nei confronti delle leggi costituzionali, sempreché non sia sancito un apposito divieto, come per esempio per l’art. 203 cost. Paesi Bassi o l’art. 79 cost. Germania occidentale, (135) Cfr. ESPOSITO, La validità, cit., 224; BURDEAU, Traité, cit., III, 268. (136) A tale fenomeno la dottrina tedesca dà il nome, improprio, di modifica « materiale », per differenziarla da quella «formale», qual è quella che opera la sostituzione di un testo ad un altro. 176 che consentono solo leggi le quali modifichino o completino il testo ‘espressamente’ (137). Il dubbio così formulato trae origine dalla considerazione dell’incertezza che consegue alle modifiche tacite per la difficoltà che da esse deriva di accertare la portata delle medesime, il valore voluto loro conferire di temporaneità o di permanenza: incertezza che si afferma sia da evitare pel danno che produce, che, se è grave in ogni campo del diritto, in modo particolare lo diviene in quello del supremo ordine costituzionale. Si aggiunge che la redazione per iscritto delle norme da cui esso risulta tende appunto ad eliminare tale incertezza, rivolta com’è a farne intendere con precisione il contenuto: fine che sarebbe frustrato se non si rendesse possibile ai cittadini, con la piena consapevolezza delle innovazioni apportate al testo, di possedere un quadro esatto dei fondamenti giuridici dello Stato. Una più specifica ragione di opposizione alle modifiche tacite è poi addotta da coloro che fanno discendere dalle medesime un particolare effetto: quello cioè di alterare l’efficacia propria delle norme sulle quali incidono operandone una decostituzionalizzazione e perciò sottraendo gli ulteriori mutamenti che fossero loro apportati all’adozione dell’apposito procedimento di revisione. Si deve senz’altro respingere quest’ultima opinione, pur autorevolmente sostenuta (138), perché trascura di considerare che l’accertamento del valore da assegnare ad una legge approvata con lo speciale procedimento di revisione è da compiere sulla base non già di presunzioni, bensì del- (137) V. su tale norma, oltre al Commento di MAUNZ e DÜRIG, München u. Berlin, 1960, all'art. 79, ZEIDLER, Die Unverbrüchlichkeit der Grundrechte, in Deutsches Verwaltungsblätt, 1950, 598; EMKE, Verfassungsänderung u. Verfassungsdürchbrechung, in Arch. öff. Rechts, 1953, 394, e più di recente VON LÜDER MEYER-ARNDT, Rechtsfragen der Grundgesetzänderung, ivi, 1957, 275 ss. (138) Basta citare per tutti, il LABAND, Das Staatsrecht, cit., II, 41 e già prima, ID., Die Wandlungen der deut. Reichsverfassung, Dresden, 1895. Per il carattere ‘tedesco’ del problema in esame, cfr. HSU DAU LIN, Die Verfassungswandlung, Berlin u. Leipzig, 177 l’oggettivo contenuto della medesima. Pertanto ogni mutamento comunque apportato alla disciplina della materia formalmente costituzionale non può mai sottrarsi all’obbligo di assumere la veste prescritta per questa, rimanendo così sempre coperta dalle garanzie ad essa inerenti (e ciò tanto più quando sia disposto, come fa l’art. 138 cost. italiana che le « leggi costituzionali » subiscono lo stesso trattamento della Costituzione). Se mai un dubbio potrebbe essere formulato nell’ipotesi contraria, di approvazione con la procedura della revisione di norme estranee al contenuto della Costituzione, sembrando più esatto ritenere che la loro costituzionalizzazione debba risultare da una volontà espressa in tal senso. In realtà, a prescindere dal punto per ultimo accennato, non vi è nessun serio motivo che possa indurre a trattare le leggi di revisione diversamente dalle altre in ordine al loro assoggettamento ai princìpi generali sulla abrogazione. Ciò appare tanto più vero quando si tenga presente che la delimitazione dell’effettivo valore e del concreto àmbito di una norma, quando non sia ricavabile in modo testuale dalla sua formulazione, spetta all’interprete, che dalla ‘formula’ deve ricavare la ‘norma’. La questione, del resto, riveste scarsa importanza pratica, per lo meno in quei procedimenti in cui è richiesta l’indicazione testuale degli articoli che sono oggetto della modifica. Ma anche quando la legge di revisione in null’altro differisce da quella ordinaria se non per l’esigenza che gli organi competenti per quest’ultima deliberino con una maggioranza speciale, basta che essa si formi in ordine ad una materia inserita nella Costituzione perché il mutamento si effettui, anche all’infuori di ogni consapevolezza di tale effetto, o per mero errore da parte del legislatore, sempreché, natu- 1932, 67, ed ivi anche la storia del problema stesso, nonché la citazione della più antica produzione monografica dello Spier, del Seulen, del Wiese e del Kauchhaupt. Cfr. poi VAN DER HEYDTE, Stiller Verfassungswandel u. Verfassungsinterpretation, in Archiv für Rechts und Sozialphilosophie, 1950-51, 461. 178 ralmente, sia prescritto che la particolarità della procedura seguita debba risultare dalla formula di promulgazione (139). Una volta accolto il punto di vista qui sostenuto nessuno specifico problema si presenta sul punto se la modifica apportata in modo tacito assuma valore di eccezione o di regola, abbia carattere temporaneo o permanente, dovendo la soluzione di tali quesiti affidarsi alle norme generali sull’interpretazione. Le rotture della costituzione. - Ad un differente ordine di fenomeni si riferisce la cosiddetta ‘rottura’ della costituzione, espressione adoperata per designare le modifiche apportate ad essa, nelle forme a ciò prescritte, ma rivolte a derogare solo per singole fattispecie a determinate norme, le quali pertanto rimangono in vigore continuando a regolare tutte le altre (140). Le obiezioni rivolte a contestare il potere del legislatore costituzionale di disporre deroghe singolari sono, analogamente a quelle formulate contro le leggi ordinarie dello stesso contenuto, desunte dal carattere della generalità che si ritiene coessenziale ad ogni normazione e più specialmente a quella costituzionale, in ragione della funzione che le è propria di porre i princìpi ispiratori, comuni a tutti i comportamenti particolari, e, perché tali, non derogabili per singoli casi. Chi considera la generalità quale carattere ‘naturale’ della legge è condotto a negare l’inclusione delle disposizioni sin- (139) Per una più particolareggiata dimostrazione della tesi accolta e confutazione di quelle contrarie, cfr. ESPOSITO, La validità, cit., 208 ss. e bibliografia e per il punto accennato per ultimo 336 ss. V. anche nello stesso senso HSU DAU LIN, Die Verfassungswandlung, cit., 67 ss. (140) La letteratura è principalmente di lingua tedesca. Giustamente il VON LÜDER, op. cit., 290, ha messo in rilievo come alla comprensione del fenomeno considerato nuoccia l’equivocità del termine ‘rottura’. Oltre alle opere citate retro, v. anche SCHLÜTER, Das Verfassungsdurchbrechende Gesetz, Göttinger Dissert. 1931; LEIBHOLZ, Die Verfassungsdurchbrechung, in Arch. öff. Rechts, 1932, 1-26. Nella recente letteratura italiana cfr. (oltre alla op. ult. cit. di ESPOSITO) BON VALSASSINA, Le rotture della costituzione nell'ordinamento statunitense, Padova, 1961. 179 golari in tale categoria di atti ed a considerarle quali ‘misure’ (Massnahmen), rispetto alle quali lo Stato agisce non già in veste di legislatore, bensì nella pienezza della sovranità, nella sua ‘essenziale’ supremazia di fronte alla legge (141). Non sembra però che al principio della generalità debba assegnarsi siffatto valore universale ed assoluto, né sembra che le norme per il fatto di essere singolari perdano la loro natura di leggi, nel senso proprio del termine di statuizioni di grado primario, innovative dell’ordine preesistente; a prescindere poi dalla considerazione che possono esservi deroghe anche di carattere generale, valide per una serie indeterminata di casi, dovendosi considerare determinante per caratterizzare la « rottura » non tanto la singolarità della statuizione in deroga quanto la sua eccezionalità rispetto ad una regola (142). La soluzione della questione deve essere desunta non da presupposti aprioristici bensì dai princìpi dell’ordinamento positivo. Si tratta anzitutto di distinguere l’ipotesi dell’espressa inibizione da parte della costituzione di ogni deroga particolare (come per esempio avviene in virtù dell’art. 19 n. 1 cost. fed. tedesca, secondo cui un diritto fondamentale coperto da riserva di legge non può essere limitato per casi singoli; oppure per effetto degli art. 3, 13, 16, 21 della cost. it. che sanciscono uguale riserva di legge generale) dall’altra di man- (141) Così SCHMITT, Verfassungslehre, cit., 107 ss., e ivi l’interpretazione storica che lo conduce ad affermare come, volendo la concezione dello Stato di diritto concentrare nella legge ogni espressione dalla sovranità, essa giunga a giustificare la rottura, considerando manifestazione del potere del legislatore ciò che è invece «atto apocrifo di sovranità». Cfr. anche FORSTHOFF, Über Massnahmegesetze, in Gedachtnisschrift für W. Jellinek, München, 1955, 221. Per la generalità è nella dottrina francese, fra gli altri, il DUGUIT, op. cit., II, 1928, 174. Contra THOMA, Handbuch, cit., II, 148. (142) V. contro la distinzione di SCHMITT, LEIBHOLZ, op. cit., 13. Anche JACOBI, Reichsverfassungsänderung, in Die Reichsgerichtspraxis in deutsch. Rechtsleben, 1929, I, 264, ritiene che Verfassungsdurchbrechung si abbia solo nel caso di norme eccezionali emesse per casi singoli. V. ciò che sarà detto a proposito dell’utilizzabilità della figura di ‘misura’ per i casi di ‘sospensione’. 180 canza di ogni disposizione al riguardo. Non sembra che la inibizione possa, almeno in via generale, farsi rientrare in quei princìpi fondamentali che, caratterizzando il regime, sono da ritenere assolutamente intangibili e perciò sottratti anche alla potestà dell’organo di revisione. Infatti non è ammissibile un’assoluta preclusione a far fronte a quelle fra le esigenze di svolgimento della vita dello Stato (imprevedibili nei particolari aspetti che il corso del tempo può loro conferire) alle quali non si rende possibile provvedere se non con l’emanazione di norme in deroga di quelle previste in forma generale dalla costituzione (143). Si è chiesto se eguale influenza sulla soluzione della questione in esame sia da attribuire alla presenza nello stesso testo costituzionale di norme in deroga ad altre in esso sancite, cui si dà il nome di ‘autorotture’ (come avviene per esempio nella vigente Costituzione italiana che con le disp. (143) Invece una notevole parte della dottrina tedesca esprime opinione contraria. V. più di recente in questo senso EMKE, op. cit., 385, il quale osserva che se si ammettessero le rotture si dovrebbe concludere che arbitra della vita costituzionale sarebbe la maggioranza speciale richiesta per la revisione. Argomento, questo, troppo generico per riuscire probante a risolvere il punto in esame. Il detto autore crede di poter desumere dal divieto di mutamenti taciti sancito dall’art. 79 costituzione di Bonn anche l’inibizione di ‘rotture’, a meno che queste non siano ‘oggettivamente giustificate’. A tale tesi è da opporre anzitutto che, una volta rispettato l’obbligo di procedere in modo espresso, nulla può impedire che esse abbiano un contenuto derogatorio; in secondo luogo che la deroga in un solo modo potrebbe apparire oggettivamente giustificabile, e cioè assumendo il criterio indicato nel testo, che si richiama ai valori fondamentali. Né potrebbe invocarsi, a sostegno dell’opinione confutata, che la deroga per la sua stessa natura si pone sempre in contrasto con il principio di uguaglianza, poiché tale principio (nei casi nei quali può venire in considerazione), non esclude trattamenti differenziati, allorché questi, valutati alla stregua di criteri di « ragionevolezza », corrispondano alle particolarità delle situazioni cui il trattamento differenziato si riferisce. Contro le tesi di EMKE cfr. LEIBHOLZ, op. cit., 17; SCHLUETER, op. cit., 105; VON LÜDER, op. cit., 191. Per la letteratura italiana cfr. ESPOSITO, La validità, cit., 217, nel senso qui accolto. V. anche dello stesso Eguaglianza e giustizia nell’art. 3 cost., in La costituzione italiana, cit. 55 nota 3 e ivi il rilievo che in regime di costituzione rigida le leggi costituzionali restano sottratte al divieto delle leggi personali. 181 finali XII e XIII limita il godimento di diritti costituzionalmente garantiti nei riguardi degli appartenenti alla famiglia prima regnante, o al disciolto partito fascista). Non sembra che da tale circostanza possa trarsi alcuna deduzione sia nel senso dell’assoluto divieto di estensione delle deroghe previste, sia nel senso contrario dell’implicito consenso a tale estensione. In realtà la soluzione deve farsi discendere dall’interpretazione sistematica, e non già del solo testo, bensì del complessivo ordine costituzionale, e più precisamente degli interessi e valori fondamentali che, come si è visto, ne formano l’elemento vitale. Alla stregua di tale criterio le disposizioni finali della Costituzione italiana che si sono ricordate non dovrebbero considerarsi eccezioni, apparendo piuttosto espressione della posizione assunta dal nuovo ordinamento di antitesi rispetto ai princìpi che ispiravano il precedente ed alle forze che ne erano il sostegno, e della conseguente volontà di distacco da ogni elemento del passato regime. In conclusione sono da ritenere ammissibili tutte quelle deroghe le quali non contrastano con i fini della costituzione, ma anzi tendono a salvaguardarli di fronte ad eventi sopravvenuti, che senza una disciplina in deroga ne comprometterebbero la soddisfazione. Così di fronte ad una legge di revisione rivolta ad aggiungere altri casi di proroga della legislatura oltre quella prevista dall’art. 60 cost. italiana, il giudizio sulla sua costituzionalità dovrebbe formularsi in senso positivo quando si accertasse che la deroga si proponga non già di attentare al principio democratico rappresentativo, che esige la rinnovazione della composizione delle assemblee elettive a brevi intervalli, ma di preservarlo da pericoli che possano recargli pregiudizio. Alla stregua del criterio medesimo è da decidere se la deroga trovi nella norma della costituzione cui si riferisce solo un ostacolo formale, superabile mediante la sua previa rimozione, da operare mediante la generica modifica della medesima, o invece anche un impedimento sostanziale non rimovibile, e altresì se, ammessa la derogabilità di norme generali 182 di organizzazione, essa possa effettuarsi solo nel senso dello spostamento dell’ordine delle competenze dall’uno all’altro organo costituito, o anche con l’esercizio diretto della competenza mediante la legge di revisione (144). È quindi il criterio predetto che può di volta in volta far decidere se la deroga alla costituzione sia da considerare ‘rottura’ o invece ‘colpo di Stato’; figura quest’ultima che si ha appunto quando la modifica apportata opera la sovversione di un elemento che contrassegna il tipo di Stato (145). Le sospensioni della costituzione. - Figura distinta dalla ‘rottura’ è l’altra della ‘sospensione’ della costituzione che ne differisce non solo perché non dà necessariamente vita ad atti con contenuto singolare, ma anche e soprattutto perché presenta sempre un carattere di provvisorietà, rivolta com’è a provvedere a situazioni transitorie di emergenza, ed opera pertanto solo sull’efficacia della norma costituzionale cui si riferisce, senza incidere sulla sua validità che rimane integra, consentendole perciò di riprendere il suo vigore appena sia cessato il periodo della sospensione. La dottrina di solito tratta promiscuamente le due figure: ciò che può spiegarsi pel fatto che comune è il loro fondamento più generale e che in pratica può riuscire a volte non facile il distinguerle, per le ragioni che si sono considerate parlando delle modifiche tacite. Così, per esempio, ove una legge costituzionale disponga, in un sistema bicamerale, il prolungamento della durata di una sola camera rimane incerto se si sia voluto dare (144) V. nel citato scritto di THOMA (156) l’indicazione di esempi dedotti dalla costituzione di Weimar, per i quali si riteneva escluso l’intervento della legge costituzionale, perché considerata sovvertitrice del sistema dei poteri (come l’autodissoluzione del Reichstag, in deroga all’art. 25; la deposizione del Presidente senza ricorso al referendum, in deroga all’art. 43, la sottrazione di una legge al voto popolare di cui all’art. 73; ecc.). (145) Sulla distinzione cfr. GUELI, Colpo di Stato, in Enciclopedia del Diritto, VII, Milano, 1960, 671. 183 alla disposizione validità solo provvisoria o invece permanente (146). L’opportunità della distinzione si deduce, oltre che dalla precedente osservazione sulla diversità degli effetti, anche dal rilievo che mentre per le deroghe viene in considerazione, quale procedimento valido ad effettuarle in via legale, la legge di revisione, e si pongono i problemi già visti relativi all’esigenza della previa eliminazione dell’impedimento ad effettuarle, quando esso sia espressamente stabilito; viceversa le sospensioni difficilmente possono venire disposte in via di legislazione costituzionale, né per esse dovrebbe presentarsi l’obbligo della modifica del testo. Ciò si desume facilmente dalla stessa finalità delle sospensioni medesime che è, come si è detto, di provvedere ad eventi pregiudizievoli per lo Stato che si producono di improvviso con carattere di straordinarietà e rivestono tale gravità da non potere essere fronteggiati con l’esercizio dei poteri ordinari, richiedendo invece misure eccezionali, extra ordinem. Subordinare l’adozione di tali misure all’impiego della procedura di revisione, per sua stessa natura lenta e complessa, potrebbe significare di fatto l’impossibilità di intervenire in modo tempestivo ed efficace. A questa considerazione di carattere pratico se ne accompagna un’altra dedotta dalla natura e funzione della revisione, di provvedere ai mutamenti della costituzione, mutamenti che le sospensioni non sono rivolte ad effettuare. Che se invece si ritenga che anche la temporanea interruzione del vigore delle norme costituzionali sia (146) Trattazione promiscua dei due fenomeni è quella dell’ESPOSITO, loco ult. cit. Esame differenziato ne fa invece lo SCHMITT, Verfassungslehre, cit., 106, 109, pur riconducendo le manifestazioni di entrambi in una stessa categoria di atti sovrani, non normativi. Mostra di assimilare i due casi anche il BISCARETTI, Diritto costituzionale, Napoli, 1958, 207, quando reca come esempio di rottura l’art. 2 l. cost. n. 2 del 1948 relativo alla revisione con legge ordinaria dello statuto Si., che invece sembra dar luogo alla temporanea sospensione, per un caso singolo, della norma dell’art. 138. Nel senso qui accolto JACOBI, in Veröff. der Verein., cit., 271. 184 da assimilare ai mutamenti del testo, e che gli aggravamenti di procedura non siano di ostacolo, in determinati casi, all’adozione di misure di difesa adeguate al pericolo insorto, non dovrebbe sorgere dubbio sulla possibilità di utilizzare a tale scopo l’organo di revisione. Le considerazioni fatte valere a fondamento del potere di operare delle ‘rotture’ sono a più forte ragione da invocare nel caso delle sospensioni. Né per giungere a conclusione contraria potrebbe farsi appello al ‘principio di legalità’ che dovrebbe operare nel senso di inibire ogni arresto dell’efficacia delle norme consacrate nel testo, e ciò per il carattere strumentale che queste assumono in confronto ai fini della conservazione dell’ordinamento (147). Conservazione che può assumere due aspetti, secondo che riguardi l’integrità materiale di esso di fronte ad eventi capaci di pregiudicarla (epidemie, terremoti, invasione da parte di altri Stati), o invece quella istituzionale, quando si manifestino tentativi di sovversione avverso le strutture del regime. Anche a proposito delle sospensioni si è chiesto, come per le rotture, se ed in che misura le soluzioni in ordine alla loro ammissibilità, o all’organo competente a disporle, o ai li- (147) Della vastissima letteratura dedicata alle situazioni di necessità dello Stato, v., oltre alle opere che saranno ricordate in seguito ed alle raccolte collettive, Das Staatsnotrecht, Köln u. Berlin, 1955, e Das Recht des Ausnahmezustand in Ausland, Berlin u. Leipzig, 1928; WATKINS, The Problem of Constitutional Dictatorship, estr. da Policy, Harvard, s.d.; ROSSITER C. L., Constitutional Dictatorship, crisis government in the modern democracies, Princeton, 1948; SCHWARTZ, Law and Executive in Britain, Cambridge, 1948 (per la prassi inglese delle situazioni di necessità); BARTHÉLEMY, L’état de siège, in Rev. fr. dr. publ., 1938; DRAGO, L’état d’urgence et les libertés publiques, ivi, 1935, 670; MATHIOT, La théorie des circonstances exceptionnelles, in Études Mestre, cit., 413; ROSSI, Stato d’assedio, in Nuovo dig. it., XII, 1, Torino, 1940, 852 ss.; HECKEL, Notverordnungsrecht, Verfassungsnotstand, in Arch. öff. Rechts, 1932, 269; HEYDTE, Staatsnotstand u. Gesetzgebungsnotstand, in Festschrift für Laforet, cit., 59; REBER, Das Notrecht des Staates, Zürich, 1938; e soprattutto gli scritti dello SCHMITT, Politische Theologie, München, 1922, Legalität u. Legitimität, München u. Leipzig, 1932; Die Diktatur, München, 1928. 185 miti entro cui sono da contenere siano influenzate da disposizioni consacrate nel testo. Occorre notare (per meglio chiarire il vario contenuto racchiuso nella figura delle sospensioni) che le disposizioni cui si fa cenno possono avere ad oggetto o solo la temporanea sostituzione di un legislatore straordinario a quello ordinario per l’emanazione di vere e proprie norme, destinate, a volte previo sindacato dell’organo ordinario, a disciplinare stabilmente i rapporti cui si riferiscono (legislazione di urgenza – Gesetzsgebungsnotstand), oppure la sottrazione alla disciplina costituzionale di interi settori dell’attività statale, e perciò anche di quella affidata ad organi diversi dal legislativo (differentemente qualificata con i termini di stato di pericolo, di assedio, di guerra, o più comprensivamente designata come situazione di necessità dello Stato – Staatsnotstand). Le figure ora così distinte poggiano tutte su uno stesso fondamento: tuttavia la varietà del loro contenuto fa sorgere questioni di interpretazione quando, come nel nostro diritto, la costituzione preveda formalmente solo la prima (art. 77), tacendo delle altre, o accennando solo allo stato di guerra esterna (art. 78). Può verificarsi il caso che venga espressamente inibita ogni sospensione totale o parziale della costituzione, come fa per esempio l’art. 130 cost. belga. Non sembra però che la volontà così formulata dal costituente valga effettivamente a preservare da quelle evenienze che impongono di trascendere l’ordine formale. Sicché nessuna sostanziale differenza (neanche sotto l’aspetto della previa rimozione dell’ostacolo costituito dal divieto) viene in pratica a sussistere fra l’ipotesi prospettata e quella opposta di testuale previsione della potestà di sospendere l’impero della costituzione (ad esempio art. 93 cost. franc. anno VIII). L’esigenza di evitare per quanto possibile l’arbitrio e mantenere anche nei casi di emergenza alcune garanzie formali proprie dello Stato di diritto (o, in altri termini, di attenuare al massimo il distacco fra costituzione formale e costituzione reale) ha condotto ad includere nelle costituzioni 186 contemporanee una qualche disciplina delle sospensioni stesse per quanto riguarda sia l’organo competente a dichiarare la sussistenza degli eventi straordinari e ad assumere i poteri dai medesimi richiesti, sia le modalità di emissione e le specie delle misure destinate a fronteggiarli, sia i controlli sulle medesime. È tuttavia da osservare come le dette predisposizioni non possono vantare la pretesa ad una rigida osservanza, e ciò per la natura stessa delle situazioni di emergenza tale da far loro assumere gli aspetti più imprevedibili. Esse rivestono un valore di semplice indizio delle valutazioni compiute dal costituente circa la maggiore idoneità di certi organi a meglio interpretare, in relazione alla struttura dell’ordinamento, la natura e l’entità degli eventi richiedenti misure di eccezione, nonché la congruenza a tale scopo di determinati procedimenti. Indizio utilizzabile allo scopo sia di far identificare gli altri organi che meglio siano in grado di prendere il posto di quelli designati dalla costituzione, allorché essi vengano a mancare, sia di indirizzare alla scelta di quelle procedure esperibili eventualmente quando, una volta cessato lo stato di emergenza e reintegrata la normalità, si avverta l’esigenza di sottoporre a sindacato l’attività svolta durante il medesimo. Dall’esame comparativo delle costituzioni moderne si desume una grande varietà di disposizioni riguardo alla designazione degli organi cui compete dichiarare lo stato di necessità ed assumere i relativi poteri. Così alcune affidano allo stesso legislatore di disporre le sospensioni, consentendo che solo nel caso di vacanza di detto organo si sostituisca provvisoriamente ad esso il Governo (art. 92 cost. francese anno VIII), altre invece investono il Capo dello Stato di tale potere (art. 48 cost. Weimar; art. 16 cost. francese 1958; art. 202, 203 cost. olandese); altre ancora ne affidano la titolarità al Governo (art. 86 cost. turca; art. 28 cost. irlandese), o prevedono distinte competenze del Governo e del Capo dello Stato secondo la natura degli eventi e delle misure correlative (art. 77 e 78 cost. italiana; art. 16 e 36 cost. francese), oppure richiedono il concorso di entrambi detti organi (art. 18 cost. au187 striaca 1929). In presenza di siffatta varietà vi è motivo di dubitare della possibilità di enucleare princìpi generali suscettibili di farsi valere per interi tipi di Stato, nel caso di silenzio della costituzione (148). È piuttosto da risalire alle strutture organizzative di base dei singoli ordinamenti onde enuclearne i princìpi impliciti che conducano ad individuare il titolare dei poteri di emergenza (così negli USA la posizione di guida politica del Presidente conduce a conferire a lui le potestà straordinarie per i casi di insurrezione e di guerra civile). Analoga varietà si riscontra nelle norme relative alla natura dei provvedimenti adottabili. In alcuni casi il costituente ha avuto cura di elencare in modo tassativo le norme costituzionali suscettibili di sospensione (ad esempio art. 48 cost. Weimar; art. 18 cost. austriaca), in altri nessun limite del genere è stato posto (art. 16 cost. francese), in altri ancora la sospensione di norme costituzionali non è prevista, ed anzi potrebbe sembrare esclusa (art. 77 cost. italiana). Inoltre in alcune la predisposizione normativa è limitata solo agli eventi derivanti dalla guerra avverso nemici esterni, altre la estendono ai casi di rivolta o torbidi interni. Secondo si è osservato, i limiti posti dalla costituzione in ordine all’indole dei provvedimenti da adottare o alle loro forme non possono assumere valore assolutamente vincolante. Tuttavia la medesima esigenza messa in rilievo di utilizzare nella misura massima possibile le prescrizioni della costitu- (148) Un tentativo in questo senso è quello dell’ESPOSITO, Capo dello Stato, in Enciclopedia del Diritto, VI, Milano, 1960, 237 ss., secondo cui nei regimi parlamentari è al Capo dello Stato che deve competere la funzione di reggitore supremo durante le crisi del sistema. Potrebbe obiettarsi che non esiste in realtà un tipo di regime parlamentare, sicché si rende difficile operare delle generalizzazioni. Sembra poi che l’Esposito distingua fra le comuni necessità, cui dovrebbe provvedere il Governo, e l’interruzione del normale funzionamento dei poteri costituzionali, che richiede l’intervento del Capo dello Stato. Potrebbe invece ritenersi che anche per quest’ultima ipotesi sia da fare riferimento all’organo fornito della competenza di assumere le decisioni di indirizzo politico. 188 zione formale deve indurre ad interpretare estensivamente la normazione in materia, allo scopo appunto di circondare i provvedimenti emessi, anche se diversi da quelli previsti, dei requisiti formali richiesti per questi ultimi. Così, mentre sembra che l’art. 77 cost. italiana limiti la deroga all’ordine dei poteri costituzionali solo nel senso di conferire in via provvisoria al Governo la potestà di emettere atti legislativi di competenza del Parlamento, tuttavia è da includere in essa anche quella di derogare ad altre norme, sia pure sostanziali, della Costituzione (intendendo perciò la ‘forza di legge’ conferita ai provvedimenti provvisori altresì nel senso di ‘forza di legge costituzionale’) tutte le volte che ricorra il presupposto richiesto dei casi straordinari di necessità e di urgenza (149). Siffatta estensione trova i suoi limiti, oltre che nella eccezionalità degli eventi che potrebbero rendere impossibile il rispetto dei termini cui l’art. 77 condiziona la validità dei provvedimenti provvisori, anche nella natura di questi ultimi i quali, pel fatto di violare precetti della costituzione, non sarebbero suscettibili di venire ‘convertiti’ in legge ordinaria. Sicché l’intervento del Parlamento non potrebbe essere rivolto a novare la fonte dell’atto promanante dal Governo, venendo invece ad assumere valore solo di controllo politico e di sanatoria della responsabilità assunta da questo per la violazione operata della Costituzione. Si è chiesto, in ordine all’àmbito consentito alla sospensione, se questa possa estendersi all’intero assetto costituzionale, anche all’infuori dei casi nei quali sia prevista (come avveniva nella costituzione romana con l’istituto della dittatura cosiddetta ‘commissariale’) la presenza di un organo straordi- (149) V. in argomento MOTZO, Assedio (stato di), in Enciclopedia del Diritto, III, Milano, 1958, 265, 267. Quest’autore però ritiene che per lo stato di guerra interno l’art. 77 è utilizzabile solo in via provvisoria, quale « atto anomalo di necessità », mentre dovrebbe poi intervenire la procedura prevista dall’art. 78 per la guerra esterna. V. anche GRASSO, I problemi giuridici dello stato d’assedio, Pavia, 1959, 141. 189 nario nel quale si riassuma la pienezza dei poteri. È da ritenere che pure tale evenienza sia da ammettere quando se ne palesi la necessità al fine della conservazione dell’ordinamento. Si possono quindi raffigurare gradi diversi di sospensioni, potendo queste riguardare o singole norme della costituzione o un complesso di istituti, con la sostituzione di alcuni organi costituzionali a quelli ordinari (come nel caso dello « stato di assedio »), o la totalità dell’ordine costituzionale. In ogni caso si ha la sostituzione temporanea di alcune regole ad altre, o addirittura dell’intero ordinamento positivo o di parte di esso con altro di carattere provvisorio. Le osservazioni fatte riguardo alle ‘rotture’, che conducevano ad escludere l’esattezza della distinzione fra ‘norme’ e ‘misure’ trovano applicazione anche per le sospensioni (150). Si potrebbe eccepire che sussiste per queste ultime un particolare motivo che dovrebbe suffragare l’esclusione del carattere normativo degli atti in cui si concretano: e cioè la inidoneità di questi (quando assumano il contenuto loro più proprio, che non è quello delle ‘ordinanze’ generali soggette a conversione, e destinate a durare) a produrre l’abrogazione delle disposizioni alle quali contraddicono. La risposta a tale eccezione importa che si richiamino i princìpi relativi al fondamento giuridico delle attività extra ordinem, che come è noto è oggetto di vive discussioni. Sono da escludere quelle fra le soluzioni del problema che pervengono al risultato di contestare in sostanza la giuridicità delle sospensioni: ciò sembra accadere allorché esse vengano considerate quali mere situazioni di fatto, suscettibili di una legittimazione solo ex post, cioè se e nella misura in cui riescano in concreto (150) V. in questo senso ROMANO, Sui decreti legge, in Scritti minori, cit., II, 302. Si può osservare come l’art. 77 cost. it. nel qualificare (con formula adottata in sede di coordinamento finale) « provvedimenti » gli atti consentiti al Governo fuori della sfera della propria competenza, non ha inteso prendere posizione sul problema accennato, ma solo accentuare il carattere di assoluta provvisorietà dei medesimi. 190 ad essere attuate ed accettate come valide; in nulla così distinguendosi dalle altre (alle quali è invece da riconoscere natura e fondamento del tutto diversi) che tendono a sovvertire l’ordinamento nel quale operano ed a porsi come instaurative di uno nuovo e differente (151). Neppure sembra che riesca soddisfacente il richiamo che si fa alla necessità intesa come fonte che opera con immediata efficacia, come forza originaria e creatrice di ogni specie di diritto (152). Per rendere utilizzabile tale concetto ci si deve invece richiamare ad una necessità ‘istituzionale’, che resti cioè nell’orbita di un ordinamento in atto, e sia promossa dal bisogno della sua conservazione, la quale, riuscendo pregiudicata dall’osservanza dell’ordine legale, richiede si dia vita ad un ordine diverso, destinato a sostituirglisi temporaneamente, in tutto o in parte. Ma se è così, se l’elemento che promuove tale sostituzione, ne circoscrive l’àmbito ed individua l’organo o gli organi da ritenere abilitati ad effettuarla deve ritrovarsi nei fini istituzionali (o detto in altri termini nella costituzione materiale), sembra allora chiaro che la fonte del potere straordinario sia da riporre in questi, mentre alla necessità è da attribuire piuttosto la funzione di condizione di fatto, tale da rendere immediatamente operanti i fini stessi, in sostitu- (151) Per le tesi che si riannodano al fatto v. di recente ESPOSITO, Consuetudine costituzionale, cit., § 5, che però considera tali consuetudini solo confermative della validità degli atti emanati (dei quali quindi rimarrebbe da indagare il fondamento). Contro le opinioni della consuetudine costitutiva dei poteri extra ordinem v. le esatte osservazioni del ROMANO, op. ult. cit., 297. (152) V. le esatte osservazioni su questo punto del PERASSI, Necessità e stato di necessità, ora in Scritti giuridici, cit., I, 198. Il Perassi però, ponendosi da un punto di vista strettamente dogmatico, nega che anche la ‘necessità istituzionale’ possa valere come fonte di diritto ove l’ordinamento positivo non ne faccia espresso richiamo, osservando che l’accertamento della necessità è suscettibile di vario apprezzamento per cui si richiedono canoni di valutazione estranei all’ordinamento giuridico. Se quest’ultimo rilievo fosse esatto dovrebbe valere ad escludere la fonte costituita dalla necessità, anche se richiamata, ed a questa conclusione sembra giunga lo stesso Perassi in altro luogo dello scritto. 191 zione delle norme predisposte per realizzarli in via ordinaria. La duplicità degli ordinamenti che viene così a determinarsi, quando a quello legale, che rimane allo stato quiescente, se ne aggiunge uno effettivamente operante (contra legem ma secundum constitutionem), dà ragione del come lo spiegarsi della normatività di quest’ultimo non esplichi effetti sulla validità delle statuizioni cui essa contrasta; ed inoltre di come la duplicità stessa, appunto perché poggia su uno stesso sostrato ed è espressione delle stesse esigenze, che si manifestano sotto specie diverse secondo i particolari momenti, non solo non rompa la sostanziale unità del sistema, ma invece si presenti quale risultante della composizione delle varie forme di manifestazione di cui è potenzialmente capace (153). Le modifiche consuetudinarie e convenzionali. - L’esame compiuto del fenomeno delle sospensioni di singole disposizioni o di parti più o meno ampie della costituzione per opera di fonti diverse da quella abilitata alle modifiche costituzionali e ad essa subordinate comprova la fallacia dell’opinione che vede nel procedimento di revisione il grado più alto della volontà statale e nella sua disciplina il contenuto più speci- (153) Sostanzialmente concordante con il pensiero espresso nel testo deve ritenersi quello del Romano, sebbene formulato in termini non sempre chiari, che risentono dell’incertezza già rilevata circa il modo di intendere l’ordine istituzionale ed i suoi rapporti con quello normativo. Anche il MIELE (Le situazioni di necessità dello Stato, in Arch. dir. pubbl., 1935, 58) considera la necessità solo quale circostanza di fatto che rende concreto ed attuale l’obbligo giuridico, implicitamente gravante sugli organi dell’istituzione, di perseguire gli scopi loro affidati con ogni mezzo: se i mezzi adoperati sono contrari al diritto essi saranno illegittimi, mentre legittimi ne saranno gli effetti. È da rilevare anzitutto come l’obbligo di cui il Miele parla non possa riferirsi genericamente allo Stato, come sembra egli faccia, poiché altrimenti si giunge ad accomunare nella medesima figura le ipotesi più varie, (e fra esse anche quella dell’instaurazione di un nuovo ordinamento); inoltre che l’obbligo stesso presuppone esso stesso una fonte da cui farsi derivare, sicché occorre sempre risalire alla necessità istituzionale, la quale, se è da considerare fonte positiva, non può non legittimare fin dall’inizio i provvedimenti da 192 fico di ogni carta costituzionale. Ciò risulta ancor meglio riaffermato dalla osservazione degli ordinamenti statali la quale mostra come operino sempre fatalmente in essi, quali che siano le loro strutture, fattori produttivi non già solo di temporanee interruzioni del vigore delle norme costituzionali, del genere di quelle già viste, ma di mutamenti più o meno estesi che assumono carattere permanente. Le norme sulla revisione, alla pari delle altre, sono ‘costituite’ e, come tali, anch’esse subordinate alla soddisfazione degli interessi posti a base del tipo di consociazione, secondo sono valutati dalle forze in esso operanti. Sicché, come trovano negli interessi predetti i limiti che ne circoscrivono l’applicazione, così non sono suscettibili di impedire l’invasione di altre fonti nella sfera loro propria. Su queste modifiche tacite, diverse dalle altre prima considerate perché caratterizzate non già solo dal mancato mutamento del testo, ma dalla loro derivazione da soggetti diversi da quelli cui è affidato in via esclusiva il potere di effettuarle ed attraverso congegni anche diversi da quelli formali (e per le quali la dottrina tedesca usa il termine Verfassungswandlungen) è ora da fermare l’attenzione, prendendo in considerazione il vario oggetto che assumono, i soggetti per opera essa promossi. Non contrasta con tale affermazione la esistenza, in singoli ordinamenti, di procedure di ‘legittimazione’ dei provvedimenti stessi, poiché questi hanno il diverso scopo di fare intervenire gli organi ordinari di suprema decisione politica onde effettuare un controllo circa l’effettiva sussistenza delle condizioni di fatto cui l’emanazione dei provvedimenti stessi era subordinata. Non sembra possa assurgere ad autonomo fondamento delle sospensioni, diverso da quello qui assunto della necessità istituzionale, il farle derivare da una clausola rebus sic stantibus che dovrebbe sottintendersi in ogni costituzione positiva, in analogia a quella che si fa valere nel diritto internazionale onde temperare il rigore del principio pacta sunt servanda, e che, secondo alcuni, varrebbe a rendere ragione non delle sole sospensioni, bensì di ogni mutamento dell’ordine legale costituzionale. V. in questo senso lo studio del VAN DER HEYDTE (Völkerrecht, cit., 60) e quello del KÄGI (Die Verfassung, cit., 84), già ricordati. Quest’ultimo, pur notando come nella clausola si palesi il rapporto fra statica e dinamica costituzionale, nota il pericolo che ne rimanga svuotato il principio di legalità. 193 dei quali sono messi in essere, i procedimenti impiegati per effettuarli, il fondamento che li giustifica (154). Non è da accogliere l’opinione (enunciata, fra gli altri dal Hsu Dau Lin) secondo cui il problema preso in esame si presenta esclusivamente nelle costituzioni rigide, poiché esso, non riguardando solo le deroghe alla costituzione per opera del legislatore ordinario, interessa ogni tipo di ordinamento, e quindi anche quelli poggianti sulla consuetudine. La dottrina ha schematizzato in modi e secondo orientamenti differenti le manifestazioni del fenomeno in esame, ma spesso adottando criteri fra loro eterogenei (155). Poiché il fenomeno stesso risulta dal distacco che si determina fra il testo scritto e la realtà costituzionale, la classificazione dovrebbe muovere dalla considerazione della specie e del grado di tale distacco. Sotto questo riguardo sembra debba effettuarsi una bipartizione considerando, da una parte, i mutamenti che, (154) La letteratura sull’argomento è assai vasta. V., oltre allo scritto di LABAND, Wandlungen, cit. e alla monografia specifica sull’argomento di Hsu Dau Lin, nonché alle altre di carattere più generale anch’esse già ricordate, JELLINEK G., Verfassungsänderung u. Verfassungswandlung, cit.; BORNHAK, Wandlungen der Reichsverfassung, in Arch. öff. Rechts, 1910, 385; PREUSS, Verfassungsänderndes Gesetz u. Verfassungsurkunde, in Deutsche Juristen-Zeitung, 1924, 650. Cfr. anche nelle Verhändlungen d. 33 deuts Jur. Tag (1925), le relazioni di TRIEPEL (31 ss.) e del GRAF ZU DOHNA (45 ss.); GIACOMETTI, Verfassungsrecht u. Verfassungspraxis, in Festgabe für Fleiner, 1937, 45; il 10° quaderno (1954) delle Veröff. der Verein. der deut. Staatsrechtslehrer è in parte dedicato all’ungeschriebenes Verfassungsrecht. Per la letteratura americana cfr. AMIDON, The Nation and the Constitution, 1907; TIEDEMAN, The unwritten Constitution of the U.S., New York, 1890; MC BAIN, The living Constitution; a consideration of the Realities and Legends of Our Fondamental Law, New York, 1928. Per quella italiana, oltre gli scritti dedicati alla consuetudine costituzionale che saranno richiamati in seguito, cfr. PIERANDREI, La Corte costituzionale e le modificazioni tacite della costituzione, cit., 315 ss.; TOSI, Modificazioni tacite della costituzione attraverso il diritto parlamentare, Milano, 1959; PERGOLESI, Rigidità ed elasticità della costituzione italiana, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1959, 44 ss. (155) Così il Bryce distingueva tre vie di sviluppo della costituzione: gli emendamenti formali, le consuetudini, e l’interpretazione. Anche lo Smend seguiva una tripartizione, ma adottando criteri differenti. Hildesheimer distingueva solo due tipi. Lo Jellinek procede ad un’elencazione più complessa, mentre Hsu Dau Lin distingue quattro specie. 194 pur rispettando la lettera di una disposizione, contraddicono alla ratio che l’aveva ispirata, oppure, giovandosi della indeterminatezza della norma costituzionale, tale da poter ricevere più significati, o dell’assenza di specifiche disposizioni, sostituiscono al significato attribuito ad essa in un primo tempo, o al modo prima seguito nel colmare la lacuna, significati e modi differenti, e, dall’altra, quei mutamenti che invece si pongono in netto irriducibile contrasto con le formule consacrate nella costituzione (156). La storia delle costituzioni offre un’abbondantissima messe di esempi. Così fra i mutamenti che appaiono rispettosi della lettera ma in contrasto con lo spirito o con lo scopo cui le norme erano indirizzate, o che comunque innovano al diritto prima vigente, sono da ricordare la trasformazione operatasi nella forma di governo del Regno di Sardegna da costituzionale in parlamentare; la formazione negli USA di un Cabinet presidenziale in rapporto con le commissioni del Congress (che aveva avuto nel regime prussiano ‘a cancellierato’ un precedente in qualche modo analogo con l’istituzione dei rappresentanti del Cancelliere); ed ancora di maggior rilievo la preminenza assunta dal Presidente americano rispetto al Congress. Inoltre l’impiego dell’istituto inglese dell’impeachment all’infuori del caso di veri e propri reati ministeriali; l’uso di utilizzare la dichiarazione di urgenza di una legge da parte dell’assemblea federale svizzera al solo scopo di escludere la sottoposizione della medesima al referendum, anche fuori dei casi di effettiva necessità della sua immediata entrata in vigore. (156) Sembra che trovino corrispondenza nei due tipi indicati nel testo le espressioni suggerite da una parte della dottrina tedesca per distinguere l’elusione della costituzione (Verfassungsumgebung) dalla sua trasgressione (Verfassungsüberschreitung). La dottrina francese ha indicato con il termine faussement de la constitution il fenomeno della deroga, mentre ha designato come fraude à la constitution il mutamento dei suoi princìpi fondamentali effettuati attraverso le normali procedure della revisione. Cfr. HAURIOU, Précis de droit constitutionnel, cit., 260; BURDEAU, Traité, cit., III, 266. 195 Ugualmente, e forse più numerosi, gli esempi di vere e proprie deroghe a precise statuizioni. Fra quelli più rilevanti si possono ricordare: la sostanziale abrogazione del potere di scioglimento della Camera dei deputati che era conferito al Presidente della Repubblica francese dalla Costituzione del 1875; la sostituzione nell’URSS del Presidium al Soviet supremo nella formazione di molte leggi, ed anche di quelle costituzionali, limitandosi quest’ultimo a ratificare quanto già disposto dal primo; l’introduzione della delega legislativa negli USA sebbene non prevista dalla costituzione rigida. Nel recente diritto italiano si è derogato all’art. 79 cost. che prevede una ripartizione di compiti fra Parlamento e Capo dello Stato nella concessione dell’amnistia; all’art. 81 per quanto riguarda la predisposizione dei mezzi per far fronte a nuove spese, che si effettua sovente con legge non sostanziale, nonché l’annualità dell’approvazione del bilancio consuntivo; all’art. 64 relativo al quorum prescritto per la validità delle sedute delle Camere; all’art. 72 per la previsione fatta dal regolamento della Camera di un procedimento cosiddetto ‘di urgenza’, diverso da quelli ivi previsti, ecc. I procedimenti derogatori. La consuetudine. - Quanto ai mezzi attraverso cui le deroghe si effettuano, si sogliono distinguere quelle che si concretano in atti (leggi ordinarie (157), regolamenti delle Camere parlamentari o più generalmente di organi costituzionali, decisioni giudiziarie) dalle altre che invece si realizzano mediante fatti, cioè comportamenti, diversamente qualificabili, messi in opera da singoli organi o dal concorso di più fra essi. Deve però rilevarsi come l’applicazione della categoria degli atti giuridici alle attività di cui si parla, che sono (157) Sui mutamenti materiali della costituzione mediante leggi ordinarie cfr. KÄGI, Die Verfassung, cit., 112. Più facili, quando sussista il sindacato giudiziario sulle leggi, sono i mutamenti in conseguenza dei comportamenti omissivi del legislatore. Sul fenomeno v. di recente VON KOHLER, Kann der Gesetzgeber durch Schweigen die Verfassungswirklichkeit ändern?, in Neue Juristische Woche, 1955, 1089 ss. 196 quelle contrastanti con l’ordine dei poteri costituzionali, appare impropria; ciò perché un atto rimane privo dei contrassegni che consentono tale qualifica e viene retrocesso a fatto quando straripa dalla sfera che gli è assegnata e si consideri produttivo di effetti diversi da quelli che le predisposizioni normative ne fanno derivare. Inoltre affinché una deroga a precetti costituzionali possa prodursi non è, di solito, sufficiente l’emanazione di un atto singolo, occorrendo invece una sua ripetizione nel tempo, cioè l’intervento di un fattore estraneo all’atto stesso tale da trasformarne l’efficacia. Può essere anche osservato che considerare l’attività contra constitutionem come se si esplicasse attraverso atti (intesi in senso proprio) corrisponde anche all’intento pratico, spesso comune a coloro che la mettono in essere, di dare alla medesima un’apparenza di legalità. Con il ricondurre le manifestazioni del fenomeno in esame alla categoria dei fatti non si intende però aderire alle concezioni positivistiche, perché queste, rinunciando a ricercare una fonte di legittimazione che non si identifichi con la costituzione formale, sono condotte (contrastando con le risultanze dell’esperienza), a contestare in blocco ogni validità ai comportamenti contrari al testo (anche se siano uniformemente seguiti) e li considerano non suscettibili di garanzia istituzionale, perché giuridicamente non qualificabili (158). Per sfuggire a tale conclusione senza tuttavia rinunciare alle premesse da cui il positivismo muove, occorrerebbe rinvenire norme aventi rilievo costituzionale le quali operino un rinvio formale a fonti extrasistematiche, conferendo alle statuizioni che ne promanano o una posizione di prevalenza rispetto a quelle del legislatore costituzionale (come nel caso che si sancisca l’adattamento dell’ordinamento rinviante a norme del diritto naturale o del diritto internazionale generale o della consuetudine) o invece una fun- (158) Cfr., per le tesi richiamate, CRISAFULLI, Prime osservazioni sul sistema delle fonti nella nuova codificazione, in Stato dir., 1942, 126; PIERANDREI, Modifiche tacite, cit., 355. 197 zione subordinata, di integrazione delle lacune. Questa via ha in sostanza percorso la dottrina italiana che, con riferimento alla fonte consuetudinaria, si è rivolta all’interpretazione dell’art. 8 preleggi, per ricavarne un criterio idoneo a giustificare l’assunzione della medesima onde applicarla, in luogo dei comuni procedimenti analogici, nei casi in cui difetti la regolamentazione relativa a concrete fattispecie. Partendo dal presupposto del valore sostanzialmente costituzionale delle preleggi, si è ritenuto che la disposizione di cui all’articolo predetto, mentre per le materie espressamente regolate è da invocare allo scopo di poter escludere l’efficacia della consuetudine tutte le volte che la legge non ne faccia espresso richiamo, viceversa può essere assunta a fondamento del concreto valore normativo della consuetudine medesima o quando (secondo alcuni) manchi ogni statuizione positiva, oppure (secondo altri) allorché le statuizioni sussistano, ma non siano sufficientemente specifiche, precise e univoche (159). A parte ogni esame della possibilità di attribuire valore sostanzialmente costituzionale alle preleggi, e della applicabilità dell’art. 8 ai rapporti costituzionali (160), è da osservare come il presupposto da cui muove la tesi che accorda preferenza alla consuetudine quale mezzo di integrazione delle lacune rispetto al procedimento analogico di cui all’art. 12 è quello secondo cui, rivolgendosi quest’ultima disposizione al giudice (dato che la sua applicabilità è limitata solo alle sfere dell’ordinamento nelle quali possono sorgere controversie suscettibili di decisioni giudiziali) ed essendo da ritenere che ciò non si verifichi per i rapporti costituzionali, se ne deve dedur- (159) Cfr. KELSEN, Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, entwickelt aus der Lehre vom Rechtssatze2, Tübingen, 1923, 50; HILDESHEIMER, op. cit., 11, ed in genere, tutta la dottrina francese (vedila richiamata da BURDEAU, Traité, cit., III, 282). Contra, CAPITANT, op. cit., 1 ss.; DUVERGER, Manuel de droit constitutionnel5, Parigi, 1949, 201. In Italia, oltre agli autori che saranno ricordati in seguito, cfr. DONATI, Il problema delle lacune, cit., 142, che giustifica l’esclusione del ricorso alla consuetudine sulla base del concetto da lui assunto della completezza dell’ordinamento. (160) Contra GUARINO, Contributo allo studio delle fonti, in Dir. giur., 1946, 20. 198 re che questi rimangano sottratti al vigore della disposizione medesima. Anche ad ammettere l’esattezza di tale interpretazione, il presupposto è destinato a cadere quando un controllo giudiziario sia consentito anche per conflitti di carattere costituzionale. Né varrebbe invocare, a sostegno dell’opinione confutata, la discrezionalità consentita dalla costituzione per l’esercizio delle funzioni supreme dello Stato, poiché il vincolo al fine cui la discrezionalità deve essere rivolta, imposto anche per le funzioni di cui si parla, non può non limitare tale esercizio, ed il controllo sulla sua osservanza dovrebbe essere consentito anche al giudice della legittimità degli atti costituzionali, con la conseguenza di obbligare questi all’applicazione del criterio analogico di cui all’art. 12. Si può aggiungere che in ogni caso, anche a ritenere superabili le obiezioni mosse alla tesi che vuole dedurre l’efficacia delle consuetudini dalle preleggi, tale fonte sarebbe idonea a legittimare solo le consuetudini secundum o praeter legem, non già quelle contra legem, che vengono specialmente in considerazione nel campo dei rapporti costituzionali. Una soluzione della questione stessa si è creduto di trovare quando si è sostenuto che, essendo necessaria alla formazione della consuetudine costituzionale la partecipazione di organi statali, ed essendo sempre riferibile allo Stato il comportamento di costoro, è la volontà dello Stato stesso che si manifesta in ogni caso, anche tacitamente, attraverso quel comportamento (161). È facile rilevare l’inaccettabilità di tale spiegazione che lascia senza risposta il quesito del come possano imputarsi allo Stato comportamenti difformi, o sotto il rispetto del procedimento seguito o del contenuto dell’attività esplicata, dalle prescrizioni che regolano l’uno o l’altro, e del (161) Cfr. FERRACCIU, La consuetudine costituzionale, in Studi sen., 1919, 47; GIROLA, La consuetudine costituzionale, in Recueil Gény, cit., V, 20 ss. Contra ESPOSITO, Consuetudine costituzionale, cit., n. 2. 199 perché debbano prevalere su queste quelle formate in via consuetudinaria. Neppure soddisfacente sembra l’opinione che ricerca il fondamento delle consuetudini in parola risalendo ad una norma più generale, sorta anch’essa in via consuetudinaria che le richiama (162). Infatti, a parte la considerazione che questa tesi non dà ragione del come la norma presupposta si coordini in unità con il sistema delle leggi scritte, è da osservare come una tale norma, lungi dal potere assumere il valore di fondamento delle singole consuetudini presuppone che queste già sussistano con efficacia vincolante, e siano quindi fornite di una loro intrinseca giuridicità. Riguardo ad altre teorie che fanno derivare tale giuridicità dalla forza normativa del fatto (163), o dalla necessità valgono le osservazioni formulate in precedenza con le quali si è messa in rilievo la loro genericità, dato che tali fonti sono invocabili per ogni specie di produzione spontanea del diritto, e non rispondono all’esigenza che sorge di ricercare il valore idoneo a conferire al fatto quella particolare giuridicità che rende possibile il suo inserimento in un particolare sistema positivo (164). Osservazioni analoghe di genericità sono da fare nei confronti della tesi che si richiama al bisogno di certezza, che dovrebbe condurre a far prevalere sulla legge l’uso che riesca a formarsi in contrasto con la medesima (165), oppure delle altre (162) Così KELSEN, Teoria, cit., 128, che con il conferire carattere consuetudinario alla norma autorizzante, si distacca da quelle opinioni le quali attribuiscono tale funzione ad una norma implicita in ogni ordinamento e sorta con essa. Contra ESPOSITO, Consuetudine costituzionale, cit., § 5. (163) Per l’estensione anche al diritto consuetudinario di tale giustificazione cfr. JELLINEK, Allgemeine Staatslehre, cit., 337. (164) V. anche una recente riaffermazione di tale concetto in ZAMPETTI, Considerazioni metodologiche sul problema dei rapporti fra fatto e norma, cit., 225 ss. (165) Così MIELE, Profilo della consuetudine nel sistema delle fonti del diritto interno, in Stato dir., 1943, 27. 200 le quali invocano la forza creativa della coscienza popolare da cui la consuetudine rampolla, o si rifanno al potere costituente originario (166). Una più recente dottrina ha ricollegato il particolare significato che le consuetudini costituzionali rivestono ai caratteri che sono loro propri dell’effettività ed obiettività, che conducono ad escludere la necessità, onde renderle valide, di apposite norme sulla produzione, ed ha enunciato soluzioni in ordine tanto al problema della prevalenza di tali consuetudini sulla legge scritta, quanto a quello dell’inapplicabilità alle lacune della costituzione del principio di analogia (e in conseguenza della sostituibilità delle norme consuetudinarie al posto delle altre che discenderebbero da tale principio), facendo osservare: pel primo punto, che le norme sulla produzione, a differenza delle altre, posseggono un valore solo relativo, nel senso che la loro validità debba ritenersi in certo modo sospesa perché condizionata alla dimostrata capacità di venire osservate in concreto; e pel secondo che le consuetudini integrative desumono la loro ragione dalla « singolarità » delle disposizioni costituzionali, o anche dalla semplice opinione che di tale singolarità abbiano gli organi dai quali emanano i comportamenti consuetudinari (167). Può osservarsi, con riferimento alla prima questione, che i caratteri dell’effettività e dell’obiettività, se attestano la intrinseca giuridicità delle consuetudini, non spiegano ancora il perché del loro inserimento nell’ordine legale, né valgono a far determinare il limite di tollerabilità di tale inserimento. Il pericolo insito nella dottrina in esame di cadere in una raffigurazione meramente esistenziale del fenomeno giuridico appare più grave quando si tenga conto che essa dal carattere condizionato delle norme sulla produzione è condotta ad attribuire anche ad ogni singolo atto difforme dalle medesime, (166) V. in tal senso BURDEAU, Traité, cit., III, 286. (167) ESPOSITO, Consuetudine costituzionale, cit., §7, 8. 201 indipendentemente dalla formazione di consuetudini, valore creativo di diritto. In realtà, anche se è vero che l’unità di un ordinamento possa risultare da autonomi atti di produzione del diritto, è tuttavia da presupporre un supremo criterio che consenta di qualificare tali atti, sotto l’aspetto non necessariamente della loro corrispondenza a requisiti formali, bensì della loro aderenza obiettiva ai fini dell’ordinamento. Per quanto poi riguarda l’altro aspetto del problema, l’ammissione fatta dall’Esposito del carattere meramente soggettivo che può rivestire l’attribuzione del carattere della singolarità alle norme costituzionali, al solo scopo di potere invocare la consuetudine con funzione integrativa, anche se in contrasto con il chiaro dettato delle medesime, viene a svuotare la considerazione fatta valere di ogni vero valore esplicativo. Se infatti l’accordo fra gli organi costituzionali deve ritenersi decisivo per giungere a sottrarre le norme in parola all’interpretazione che se ne dovrebbe effettivamente dare, allora si torna alla tesi prima considerata, che fa dipendere dalla volontà degli organi stessi la validità delle consuetudini e la loro preminenza sulle altre fonti. È degno di nota come uno degli autori che più recisamente ha contestato la inseribilità nel sistema giuridico delle consuetudini contra costitutionem, messo di fronte ai dati dell’esperienza che attestano la estensione e persistenza del fenomeno, è giunto ad ammettere che una garanzia tali fatti derogativi devono pure ottenere per riuscire a farsi valere, e l’ha ritrovata nell’azione delle forze politiche e sociali (168). Il problema è però di stabilire il rapporto da porre fra tali forze e gli organi dello Stato che necessariamente partecipano, con la loro azione o omissione, all’affermarsi della prassi contra legem, (168) Così HILDESHEIMER, op. cit., 15. Non differente è la posizione dello JEL(Verfassungsänderung, cit., 182 ss.), quando osserva come le leggi siano impotenti a dominare gli effettivi rapporti delle forze politiche, le quali si muovono secondo proprie leggi. LINEK 202 e come possa quest’ultima sussistere senza dar vita ad un dualismo rispetto al complesso delle altre attività che si svolgono in senso conforme alla costituzione formale. Non è dubbio che nessuna consuetudine del genere di quelle di cui si tratta, anche se sia sorta in occasione di rapporti fra singoli o enti subordinati, potrebbe acquistare vigore nell’ordine statale se non con il concorso, o attivo o passivo, dei suoi organi, ed in ultima istanza di quelli costituzionali, sicché questi ultimi, mentre cooperano sia pure indirettamente all’inserimento nel sistema delle consuetudini in genere, sono poi gli autori immediati e diretti di quelle che hanno per oggetto rapporti di diritto costituzionale. Ora, per risolvere l’antinomia fra tale fatto e quanto prima si è rilevato sull’impossibilità di imputare allo Stato, considerando esplicazione della attività dei suoi organi i comportamenti di costoro difformi dalle prescrizioni che li regolano, non vi è altro modo se non quello di individuare le forze politiche, nonché le leggi che ne regolano l’azione, deducendo dai modi dell’inserimento delle forze stesse nella costituzione giuridica dello Stato il fondamento degli eventi risultanti dall’esperienza del concreto funzionamento della medesima, e nello stesso tempo il limite entro cui le manifestazioni di volontà difformi dalla costituzione formale sono da contenere affinché esse siano imputabili all’ordinamento senza che ne riesca compromessa l’unità alla quale qui si ha riguardo: un’unità cioè più vasta e coerente di quella che il sistema delle leggi di per sé solo è capace di assicurare. Risulta da quanto si è detto che la spiegazione del particolare rilievo assunto dalle consuetudini nel campo dei rapporti costituzionali non può desumersi dalla elasticità, genericità ed indeterminatezza delle norme che li disciplinano (poiché norme elastiche si riscontrano anche in altri campi, e d’altra parte la via agli interventi derogativi della consuetudine non è preclusa, come l’esperienza dimostra, dalla tassatività e rigidezza delle statuizioni), né dalla loro singolarità, in quanto, come si è ricordato, lo stesso autore il quale ha messo in rilievo tale carattere ha bene avvertito come essa venga spesso affermata sulla base non già di una logica astratta, bensì concreta e storica, 203 che pertanto fa valere come vere quelle che in realtà sono solo pseudo-lacune, onde eludere l’ostacolo posto dal documento costituzionale al raggiungimento del fine politico perseguito (169), ed infine neppure dalla loro sottrazione al sindacato giurisprudenziale, dato che, secondo anche qui i risultati dell’esperienza, l’esistenza del medesimo non ha precluso lo spiegarsi delle consuetudini contrastanti con la costituzione. Si tratta infatti di elementi i quali esercitano un’influenza solo marginale, e come tali non necessari né sufficienti a spiegare il fenomeno. Giova piuttosto fare riferimento alla posizione occupata dagli organi che a tale fenomeno danno vita perché è essa che determina una più stretta aderenza alle forze politiche le quali sono interpreti delle esigenze di vita e di sviluppo dell’ordine politico generale dello Stato, e che conferiscono effettiva garanzia ai mutamenti verificantisi in deroga alla legge, pur quando questa espressamente ne contesti la validità, e quale che sia la specie delle consuetudini che tali mutamenti producono: attive o omissive (nella forma della desuetudine) (170), innovative in senso formale, in quanto modificative della lettera di singole disposizioni, oppure solo in senso materiale, e cioè incidenti, anche se nel rispetto apparente del testo, sullo spirito e sul significato delle medesime. (169) V. le osservazioni in tal senso di ESPOSITO, loco ult. cit., integrate dagli esempi da lui recati di deroghe apportate a disposizioni di chiaro e preciso significato. (170) Per l’opinione che la mancata applicazione di norme costituzionali, anche se prolungata nel tempo, non sia produttiva di effetti, e che pertanto le medesime sono sempre suscettibili di riprendere vigore, cfr. HAURIOU, Précis de droit constitutionnel, cit., 260; RANELLETTI, La consuetudine come fonte del diritto, in Riv. dir. pubbl., 1913, 146; AKZIN, La désuétude en droit constitutionnel, in Rev. fr. dr. publ., 1928, 697. Sembrerebbe che tale opinione sia seguita anche dall’ESPOSITO (op. ult. cit., § 6) limitatamente alle regole giuridiche materiali (che proprio sotto il riguardo della diversa possibilità di subire delle deroghe in via di fatto egli distingue dalle regole sulla produzione). Però nella nota 45 l’autore chiarisce il proprio pensiero aderendo all’opinione che sembra la più esatta, secondo la quale la disapplicazione di norme, allorché sussistano le condizioni necessarie alla loro applicazione, può dar vita a desuetudine, con effetto estintivo delle medesime. 204 Le convenzioni della costituzione. - La consuetudine (ove si accolga l’opinione che considera essenziale a costituirla la ripetizione nel tempo dei comportamenti in cui si concreta) non può considerarsi strumento esclusivo di mutamenti costituzionali (171). È appunto la presenza di comportamenti derivanti da decisioni o da accordi fra organi costituzionali, i quali si fanno valere senza che possa invocarsi un loro consolidamento sulla base del decorso del tempo, che ha richiamato l’attenzione su un’altra possibile fonte di deroghe alle norme scritte, e precisamente quella che dà vita alle cosiddette ‘convenzioni della costituzione’. Le opinioni che negano ad esse valore giuridico, e quindi possibilità di contrastare alle norme del testo, sono spesso originate (oltre che dai falsi presupposti assunti circa il modo di intendere i fatti giuridici o dagli equivoci che derivano dal comprendere sotto la stessa denominazione cose diverse) dal fatto che, analogamente a quanto avviene per le consuetudini, anche le convenzioni si fanno valere sotto l’apparenza del rispetto delle formule costituzionali, ma piegandole ad un’interpretazione tale da includervi significati diversi da quelli che si vollero attribuire loro; sicché la dottrina solo perché si è fermata a quest’apparenza e non ha considerato il mutamento apportato allo spirito informatore delle norme ha potuto giungere a quella conclusione negativa (172). La ragione di distinguere le convenzioni dalle consuetudini deve trovarsi non solo nella circostanza, già rilevata, che il carattere obbligatorio è conferito loro dal solo fatto dell’accor- (171) V. contro il ricorso al diritto consuetudinario per l’interpretazione dei mutamenti costituzionali HATSCHEK, Konventionalregeln, in Jahrb. öff. Recht, 1909, 37; HSU DAU LIN, Die Verfassungswandlung, cit., 112; VOIGT, op. cit., 38. È stato giustamente osservato come la maggiore rapidità che di solito si verifica nello svolgimento dei rapporti fra organi supremi rende arduo stabilire il momento formativo di una consuetudine. (172) Nella rilevata incertezza di impostazione sembra che incorra il PIERANDREI (Modificazioni tacite, cit., 345 ss.) perché, dopo avere contestato la giuridicità delle convenzioni, finisce poi con l’ammettere (p. 349) che esse possono condurre a rego- 205 do, anche se inespresso, raggiunto per una singola fattispecie, quando abbia voluto risolvere il possibile contrasto di opinioni sul modo di intendere la norma cui esso si riferisce risalendo ad una ratio decidendi che trascenda il caso concreto; ma anche nella diversità del loro modo di operare perché gli accordi così raggiunti possono, sotto determinate circostanze, rimanere in singoli casi inosservati, non perché se ne disconosca il carattere vincolante, ma perché si conviene nel ritenere non sussistente in quelle particolari fattispecie la situazione di fatto che avrebbe imposto di uniformarsi al precedente; ciò che, com’è ovvio, non potrebbe verificarsi per le consuetudini, dato che queste, una volta sorte, assumono valore sempre obbligatorio (173). È pertanto da ritenere che le norme convenzionali posseggono una propria autonomia concettuale, e sono valide di per se stesse, non già come semplice elemento pregiuridico o fase del procedimento formativo di una consuetudine; e che inoltre la loro funzione non si esaurisce solo nella mera interpretazione del testo (anche se poi spesso esse si camuffino sotto tale veste per giungere ad una sostanziale alterazione della norma che dicono di interpretare), né si rivolge alla pura e semplice soluzione di questioni concrete, dato che, come si è osservato, tali soluzioni possono esser fatte derivare dalla formulazione di criteri destinati a durare oltre il caso concreto. Alle convenzioni deve dunque assegnarsi un compito più vasto, anche di in- lare i rapporti fra organi secondo criteri notevolmente diversi da quelli voluti dal testo scritto, e fa rilevare come di fatto, sulla base di norme scritte simili, si sono instaurati in Paesi diversi ordinamenti differenti, in conseguenza della diversità delle forze politiche e del sistema delle regole convenzionali venutesi a creare. Lo stesso autore aveva poco prima (p. 347) negato ogni valore giuridico a tali forze. (173) Senza volere approfondire la problematica che l’istituto in esame fa sorgere è da osservare come l’opinione, che si basa sulla constatazione del carattere cedevole delle norme convenzionali, per contestarne la giuridicità, trascura di considerare che l’essere le medesime accompagnate dalla clausola rebus sic stantibus non è sufficiente ad eliminare la loro efficacia vincolante, una volta che rimane fermo il fine cui è legato l’accordo che dà loro origine e sia affidato agli stessi organi fra cui esso è sorto l’accertamento della permanenza o no della situazione che lo rendeva vincolante. 206 novazione del testo scritto, ed appunto perché legate, alla pari delle consuetudini, alle forze politiche che sostengono il regime, compete loro la posizione di fonti istituzionali (174). Modifiche della costituzione e giurisdizione di costituzionalità. - L’opinione che la presenza di organi di giustizia costituzionale possa eliminare il fenomeno ora considerato deve ritenersi sostanzialmente infondata, come può argomentarsi anche dalla esperienza del funzionamento del più antico di tali organi, quello nord-americano (175). Non è qui da esaminare la convenienza dell’adozione del controllo di costituzionalità delle leggi o degli altri atti provenienti dagli organi costituzionali, ma solo da mettere in rilievo come l’attività che ogni giudice esplica per l’adeguazione delle formule normative alle mutevoli situazioni (174) La contraria opinione del ROMANO (Diritto e correttezza, in Scritti minori, cit., I, e Princìpi di diritto costituzionale generale, cit.), quando non ricalca il motivo preso in esame della mancanza di formulazione generale delle norme convenzionali e di un vero vincolo per l’avvenire, cade in contraddizioni, non sembrando conciliabili fra loro l’esclusione che egli afferma del carattere istituzionale delle norme con l’ammissione della possibilità di sanzioni giuridiche in conseguenza di una loro violazione, mentre, d’altra parte, non si sa come possano considerarsi estranei all’istituzione comportamenti di organi costituzionali rivolti a realizzare i fini imposti dalla costituzione. Che le argomentazioni addotte per contestare la giuridicità delle norme convenzionali siano fragili riconosce anche il PIERANDREI, che pure aderisce a tale conclusione (v. op. ult. cit., 347, con riferimento a quelle enunciate dagli scrittori inglesi). Nel senso della giuridicità, fra i più recenti sono l’ESPOSITO, Consuetudine costituzionale, cit., specie alle note 67 e 68, ed il BURDEAU, Traité, cit., III, 34. (175) Il PIERANDREI, dopo avere affermato che il giudice costituzionale può ostacolare l’affermarsi della consuetudine contra legem (op. ult. cit., 355), riconosce poi che egli non può impedire le modifiche tacite, essendo suo compito « guidare » l’evoluzione del sistema (ivi, 360). A parte la discutibile proprietà della funzione di « guida » attribuita al giudice, non sembra dubbio che l’esigenza di adeguare le norme alla mutata realtà politico-sociale possa condurre a interpretazioni in contrasto con il testo costituzionale (sempre nei limiti imposti dalla forma di Stato) anche se opportunamente ‘mimetizzate’, onde occultare la sostanza del contrasto. V. la recente illustrazione che della funzione esercitata dai giudici costituzionali nord-americani nei mutamenti apportati al testo ha fatto il BON VALSASSINA nel cit. scritto, Le rotture della costituzione nell’ordinamento statunitense, 55 ss. 207 dei rapporti sociali assume, quando si rivolga alle norme costituzionali, aspetti solo quantitativamente diversi da quelli che la caratterizzano nel suo esplicarsi negli altri campi del diritto, in correlazione ai ben noti caratteri propri delle medesime (176). Caratteri che conducono ad esigere nei giudici costituzionali il possesso di una particolare sensibilità, tale da rendere loro meno difficile intendere le finalità cui le singole norme sono indirizzate e cogliere le sintesi politiche che esse, considerate nella loro connessione e reciproca implicazione, esprimono, e che è necessario riflettere in qualche modo nelle concrete decisioni. Può essere vero che l’abito mentale del giudice, la sua attitudine a riferirsi a norme precostituite ostacolino l’acquisto in grado sufficiente di tale sensibilità e pertanto abbiano per effetto di far valere interpretazioni in senso tradizionalista e conservatrici della costituzione, in opposizione a quelle degli organi governanti (177); ma tale fenomeno, se è suscettibile di ritardare l’affermarsi dei mutamenti (e sotto questo aspetto l’instaurazione di controlli giurisdizionali di costituzionalità viene a conferire una specifica impronta al sistema che assuma nel suo seno tale particolare tipo di garanzia) non può già impedirli. Deve quindi ritenersi che il giudice costituzionale partecipi, esso stesso, al processo che ha come risultato la modifica tacita della costituzione, non solo quando interpreta le sue norme in modo da mutarne il significato sostanziale, ma anche attraverso il contributo che egli dà con le proprie pronunce alla formazione di consuetudini o di convenzioni sorte in diffor- (176) V. per una recente ricostruzione di tali caratteri, in relazione ai compiti del giudice costituzionale, CAPPELLETTI, op. cit., II. (177) L’esperienza americana ha mostrato che la Corte federale ha esercitata una funzione ritardatrice in una fase dell’evoluzione costituzionale, rivolta a modificare nel campo degli interventi economici dello Stato il rapporto fra questo ed i cittadini, ma non già invece nell’affermazione dell’ampliamento dei poteri dello Stato centrale rispetto a quelli degli Stati membri. Il che mostra come fattore determinante degli orientamenti giurisprudenziali non sia stato tanto l’abito mentale tradizionalista quanto piuttosto l’interesse dei ceti sociali danneggiati dal nuovo indirizzo politico, interesse avvertito come proprio dai giudici. 208 mità a precetti del testo; ciò ove si accolga la tesi che attribuisce alla pronuncia del giudice di fronte al quale si fa valere una consuetudine valore non meramente dichiarativo (178). Tesi che si presenta ancora meglio fondata se la si consideri con riguardo alle consuetudini costituzionali, dato il carattere più spiccatamente politico che queste rivestono e che vieppiù consente al giudice di far prevalere le proprie tendenze, sia pure in grado diverso secondo la natura degli orientamenti cui la costituzione si informa, oppure secondo che essa rifletta un ordine già composto in armonia in tutte le sue parti, o invece uno solo provvisorio di tipo compromissorio. (178) Vista sotto gli aspetti considerati non può accogliersi l’affermazione del Kelsen che considera il giudice costituzionale come legislatore solo negativo. Sul giudice costituzionale quale organo supremo di integrazione v. i rilievi critici di FORSTHOFF, Die Umbildung, cit., 57 e ivi ampi richiami alla giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht di Karlsruhe, cui imputa di svuotare le norme relative ai diritti del loro contenuto liberale. Lo stesso autore rileva come interpretazioni fondate sui valori conducono al mutamento della costituzione e scuotono dalle fondamenta lo « Stato di diritto ». Può replicarsi che l’adozione di uno o di altro metodo interpretativo non può non risentire della situazione storica in cui vive ogni costituzione, e che come è stato già rilevato in precedenza, lo stesso metodo legalistico ubbidiva ad un preciso fine politico, cioè era piegato proprio ad un sistema di valori. D’altra parte il timore che il distacco dalle formule legislative conduca ad un arbitrio incontrollato è smentito dalla esistenza di forze riequilibratrici e dalla stessa esigenza di durata, che non può non richiedere un ordine coerente. Sul saggio di FORSTHOFF cfr. la critica che ne fa HOLLERBACH, op. cit., 251 e 256 ss. In uno scritto successivo (Zur Problematik der Verfassungsauslegung, Stuttgart, 1961) il FORSTHOFF ribadisce, in polemica con i suoi contraddittori, la tesi sostenuta affermando che il giurista può contribuire alla stabilità dell’ordine costituzionale solo se si tiene alla lettera ed alla struttura concettuale della costituzione scritta, rinunciando ad ogni riferimento a valori ideologici, o a fini ultimi. Aggiunge che in epoche di transizione l’incertezza in ordine a tali valori o fini preclude all’interprete la possibilità di trarre dal riferimento ai medesimi elementi idonei al consolidamento degli istituti e dei rapporti costituzionali, e piuttosto apre la via all’esplicarsi dei suo pieno arbitrio. Secondo lo stesso autore dopo il 1945 ha cominciato a strutturarsi una società industriale-burocratica, con carattere di relativa stabilità, e la costituzione giuridica statale ha subito una normalizzazione che consente all’interprete di tornare al campo limitato suo proprio, e di realizzare i compiti pratici a lui affidati secondo i metodi tradizionali di interpretazione. Può replicarsi che, quando si nega all’interprete la capacità di collaborare alla stabilizzazione di un assetto in via di trasformazione, lo si concepisce avulso dalle forze at- 209 Da quanto si è detto sembra potersi desumere la conclusione che il giudice costituzionale, in presenza di consuetudini sia praeter che contra constitutionem, dovrebbe dichiarare non solo la validità delle leggi ad esse conformi, ma altresì la invalidità di quelle in contrasto con le medesime (179). I limiti alle modifiche della costituzione e la continuità dell’ordinamento Esame delle opinioni negatrici della esistenza di limiti. - La precedente trattazione ha offerto gli elementi necessari alla esatta valutazione del problema dei limiti entro i quali si rendono possibili i mutamenti costituzionali, sicché non rimane che riassumerne i risultati per procedere agli svolgimenti ed alle applicazioni necessarie a farne meglio intendere i termini e la portata. Si è già visto come il problema dei limiti sia sostan- tive che operano nell’ordinamento, mentre esso in realtà non può non essere inserito in esse. Quanto poi al nuovo assetto societario (a parte ogni apprezzamento in ordine al modo di intenderlo) è da rilevare come lo stesso Forsthoff contesta alla « materia sociale », a causa del difetto del carattere della costanza, la suscettibilità del suo inserimento nella costituzione, e nega che questa possa, oggi, abbracciare la totalità sociale. Ma, poiché l’interprete si trova di fronte alla necessità di disciplinare rapporti relativi alla materia predetta deve poter desumere i criteri del giudizio a lui richiesto fuori del testo costituzionale, e precisamente in valori. (179) L’affermazione del testo vuole avere carattere generale e quindi prescinde dalle particolarità dei singoli ordinamenti, rispetto alle quali dovrebbe esaminarsi il problema della sindacabilità degli atti di diritto costituzionale sotto il riguardo del rispetto delle consuetudini (su cui cfr. LA PERGOLA, Costituzione e adattamento dell’ordinamento interno al diritto internazionale, Milano, 1961, 375 ss.). La dottrina è divisa sull’estensione da dare ai poteri del giudice. Di recente l’ESPOSITO, Consuetudine costituzionale, cit., nota 70 e 79, ha distinto le ipotesi di leggi conformi a norme consuetudinarie derogatrici della Costituzione da quelle di leggi difformi da esse, ammettendo per le prime e non già 210 zialmente connesso all’altro della continuità dell’ordinamento, e ciò perché contenere il mutamento della costituzione entro certi argini null’altro può significare se non avvertire l’esigenza di sottrarre ad esso quelle sue parti considerate essenziali a contrassegnare l’ordinamento. È infatti la medesimezza della fonte suprema, quale può essere accertata prima e dopo il mutamento, che vale ad attestare la sua permanenza nel tempo. Sicché per giungere a negare l’esistenza di limiti relativi alle strutture costituzionali si renderebbe necessario risalire ad una fonte sempre uguale a se stessa, ad onta di ogni anche più radicale trasformazione, e questa non può essere altrimenti rinvenuta se non nell’inesauribile potere costituente del popolo come elemento personale dello Stato. Senza ripetere quanto si è detto sulla impossibilità di considerare il popolo inorganizzato quale centro di efficiente potere politico e sulla dissoluzione cui tale opinione conduce del concetto stesso di costituzione (che, come è stato osservato, verrebbe a risolversi in una dialettica senza oggetto), con la conseguente impossibilità di distinguere mutamento da rivoluzione, è da aggiungere come questo stesso richiamo per le seconde la possibilità di pronuncie di incostituzionalità: ciò per varie considerazioni, fra cui quella di indole generale (la sola che qui ha rilievo) secondo cui le consuetudini non hanno grado di fronte alla legge, e quindi sono sempre derogabili per opera sua. Sembra possa rilevarsi che, una volta ammessa la particolare efficacia della consuetudine sulle stesse norme costituzionali, non potrebbe tale loro efficacia venir meno di fronte a leggi ordinarie (a meno che queste non siano assunte ad indizio di un processo di desuetudine della precedente consuetudine). Nel senso della prevalenza della consuetudine sulla legge semplice si è espresso il ROMANO, Osservazioni preliminari per una teoria sui limiti della funzione legislativa nel diritto italiano, ora in Scritti minori, cit., 179 ss. che giustamente mette in rilievo l’incongruenza che vi sarebbe se, in regime statutario, si fosse consentito alla legge semplice il ritorno alla forma monarchico - costituzionale, in contrasto con la consuetudine introduttiva della forma di governo parlamentare. Si può aggiungere che, una volta ammesso tale orientamento, la supremazia della consuetudine sulla legge non dovrebbe arrestarsi a quelle attinenti ai supremi princìpi costituzionali (come pensa il PIERANDREI, op. ult. cit., 357) ma estendersi ad ogni specie di disposizioni della Costituzione. 211 al concetto di popolo non offre elementi sufficienti a spiegare in che modo esso possa assolvere la funzione di identificazione dell’ordinamento che gli si vuole fare assumere allorché siano intervenuti mutamenti nella sua composizione e struttura, sia in un senso quantitativo che qualitativo. La tesi negatrice di ogni limite al mutamento (che in sostanza deriva dalla duplice confusione da una parte fra fonte materiale e fonte giuridica della costituzione, e dall’altra fra potere costituente e potere di revisione) è stata anche prospettata in termini diversi, ma sostanzialmente convergenti quando si è sostenuto che le disposizioni le quali limitano i mutamenti costituzionali sono sfornite di ogni significato poiché lo Stato non si identifica con la costituzione, né si compone in unico ordine con questa, ma invece, in quanto unità corporativa sovrana, si pone quale sua fonte, e pertanto può sempre mutarla senza limiti (180). Si tratta di opinioni che non riescono ad apportare alcun elemento di giudizio nuovo rispetto a quelli posti a base delle altre precedentemente considerate, che appunto si richiamano ad entità che sfuggono a qualificazioni giuridiche (tale apparendo uno Stato che preesista alla costituzione). Secondo una diversa corrente di opinioni si sostiene che il problema dei limiti al mutamento della costituzione si deve considerare privo di base, e ciò perché, essendo ogni costituzione insuscettibile di modifiche effettuabili in forme giuridiche, in quanto essa opera quale limite assoluto a se stessa, (180) V. in questo senso HERNRITT, Die Staatsform als Gegenstand der Verfassungsgesetzgebung u. Verfassungsänderung, Tübingen u. Leipzig, 1901, 45 ss., il quale però osserva come la soluzione prospettata riveste carattere puramente razionalista, e che la forza dei rapporti di fatto può ridurre la teoria a vuota lettera! Alle tesi richiamate possono ricondursi tutte le altre che, con maggiore o minore consapevolezza dei motivi, affermano la impossibilità logica o irrazionalità di limiti posti alle leggi costituzionali, e finiscono con il confondere revisione e rivoluzione. Cfr. JELLINEK W., Grenzen der Verfassungsgesetzgebung, Berlin, 1931, 23 e altre citazioni in ESPOSITO, La validità, cit., 203, n. 2. 212 una questione relativa alla determinazione di limiti specifici ed ai modi attraverso cui siano da far valere non si pone. È il Burckhardt che con maggior rigore ha formulato tale opinione sostenendo che le norme sul mutamento per potersi configurare in termini giuridici dovrebbero dedursi da una fonte superiore secondo criteri normativi-logici. Non risultando ciò possibile, ogni attività rivolta alla revisione è da considerare mero fatto prodotto di forze sociali, e, conseguentemente, non potrebbe in nessun caso comunque si svolga, venire qualificata in termini giuridici, dato che le prescrizioni le quali la disciplinano non condizionano la validità delle norme che ne derivano (181). A parte i rilievi (che sono stati a suo tempo mossi) in ordine all’opinione che considera non costruibile giuridicamente la formazione di una nuova costituzione, è da osservare come non sia giustificato estendere alle norme sulla revisione lo stesso carattere che si attribuisce alla costituzione da cui derivano, identificando così potere costituente e potere di revisione. In realtà la disciplina di quest’ultimo è da considerare eteronoma non autonoma, ed è appunto tale posizione che spiega la sussistenza di un problema di limiti. Classificazione delle varie specie di limiti. - A smentire l’esattezza delle tesi negatrici dei limiti alla revisione può essere addotto (oltre a quanto è stato in precedenza osservato e che sarà più oltre svolto) il fatto, che non può considerarsi privo di significato, della frequente apposizione in numerose carte costituzionali di limiti di tal genere, variamente formulati e riguardanti o l’assoluto divieto di mutare determinate disposizioni, o di mutarle prima del decorso di un certo periodo di tempo, (181) Cfr. BURCKHARDT, Die Organisation der Rechtsgemeinschaft2, Zürich, 1944, 207. Esattamente l’HAUG, Die Schranken der Verfassungsänderung, Berlin, 1953, 161, nota la comunanza del presupposto storico da cui muove il Burckhardt con quello proprio delle correnti esistenzialiste. 213 o di mutarle senza il ricorso a procedure superaggravate (182). Sulla scorta delle norme positive e di ulteriori elaborazioni la dottrina ha proceduto ad una classificazione delle varie specie di limiti (183), distinguendoli: a) in formali o sostanziali, secondo che riguardino i procedimenti da seguire o i termini da osservare per la validità delle revisioni, o invece abbiano ad oggetto il contenuto delle statuizioni (distinzione che ha ragion d’essere tanto per le costituzioni flessibili – essendo da respingere l’opinione che ritiene possibili per esse solo i limiti formali – quanto per quelle rigide, dato che è errato ricondurre ai formali quelli attinenti al contenuto); b) espressi o impliciti, secondo che trovino la loro precisa formulazione nel testo o invece si desumano da particolari qualificazioni che accompagnano le normazioni relative a determinati rapporti (come nel caso di diritti proclamati « inviolabili ») oppure siano argomentabili dal sistema considerato nel suo complesso o da singole sue parti (184); c) assoluti o relativi secondo che, dalla volontà espressa del costituente o in modo implicito, risulti che i limiti siano da considerare insuperabili, o superabili solo per mezzo di procedimenti super-aggravati; d) eteronomi o autonomi, secondo che si ricolleghino ad altri ordinamenti (il dirit- (182) V. per le costituzioni anteriori alla seconda guerra mondiale gli esempi ricordati da ESPOSITO, op. ult. cit., 198-201. Fra quelle successive i più rilevanti si rinvengono nell’art. 79 comma 3 della costituzione della Germania occidentale, riguardante i poteri dei Länder ed i diritti di libertà; negli articoli 139 cost. it. e 89 cost. francese 1958, sul divieto di modifica della forma repubblicana; nelle norme sull’unione reale danese-islandese del 1918 che la dichiarano non revocabile prima dei 1940. V. anche i richiami di BURDEAU, Traité, cit., III, 25 ss. (183) Per tali classificazioni cfr. JELLINEK W., Grenzen, cit., 23 ss.; S IE GENTHALER, Die Idee der autonom-institutionellen Schranken der Verfassungsrevision, in Zeitschrift für schweizerisches Recht, 1958, 255 ss. (184) Di tale tipo sono i limiti che la dottrina tedesca fa rientrare nel divieto posto dall’ultimo comma dell’art. 79 B.G.B., argomentati dall’«inviolabilità» sancita per i diritti fondamentali dall’art. 1, e per i princìpi dello Stato di diritto e dello Stato sociale dall’art. 20 (cfr. MAUNZ-DÜRIG, op. cit. a nota 137 nel commento all’art. 79 cost. ). Uguale deduzione è da trarre pel diritto italiano dall’art. 2 cost. Vedi poi la letteratura e giurisprudenza nordamericana sugli implied powers, già citata. 214 to della Chiesa, quello internazionale, o delle unioni fra Stati) o anche a presupposti giusnaturalistici, o invece prescindano da siffatti riferimenti e trovino la loro fonte nel testo costituzionale. Quest’ultima distinzione può essere fonte di equivoci se non si chiarisca che anche i limiti qualificati eteronomi non possono non ricondursi allo Stato che fa ad essi richiamo, e che perciò può sempre disconoscerli. Ove si riscontri un limite veramente estrinseco allo Stato, nel senso che possa esser fatto valere da un potere da esso diverso (come nel caso di Stato membro d’una federazione) allora si è fuori dell’ipotesi in esame, per la mancanza nell’ordinamento della piena sovranità, che invece deve essere postulata affinché non riescano alterati i termini del problema considerato (185). Tanto meno poi potrebbe accogliersi una categoria di limiti eteronomi ove questi si facessero derivare o da princìpi di diritto naturale, o di astratta giustizia (186) (diversa perciò da quella giustizia relativa a singole situazioni storiche, secondo è valutata dalle forze dominanti, ineliminabile da qualsiasi disciplina di rapporti di diritto), o infine da postulati di sedicente logica giuridica, come sono quelli, prima considerati, dai quali si vorrebbe argomentare il divieto di modifiche tacite, o singolari, nonché quello di procedere a temporanee sospensioni. I limiti assoluti e il loro fondamento. - Interesse per la presente trattazione rivestono non già i limiti relativi, perché essi riguardano solo le modalità del procedimento di revisione, se- (185) V. esattamente ESPOSITO, Consuetudine costituzionale, cit., 206. Lo JELLINEK W., Grenzen, cit., 23, ed il BISCARETTI, Sull’«agganciamento» ad altri ordinamenti giuridici di taluni limiti della revisione costituzionale, in Studi Rossi, cit., 17, non tengono conto degli elementi differenziali messi in rilievo fra le varie ipotesi di limiti. (186) V. per recenti riaffermazioni di vincoli di tal genere, la lunga relazione del v. HIPPEL, sul tema (op. cit., 1-33) (e in senso critico la controrelazione del Voigt), nonché HAUG, op. cit., 190-236 e ivi i riferimenti al pensiero degli autori appartenenti alle correnti antipositivistiche. 215 condo si è fatto prima osservare, bensì quelli assoluti, detti anche essenziali perché riguardano parti costitutive dell’essenza della costituzione, e come tali del tutto sottratti ad ogni specie di mutamento. Si tratta di vedere se sia da ammettere tale categoria di limiti e, nell’affermativa, quale ne sia il fondamento e con quali criteri essi siano da determinare. Una delle correnti di opinioni manifestatesi in argomento, mentre afferma che nessun limite del genere di quelli considerati sia da ammettere se non in quanto esplicitamente statuito dal costituente, sostiene poi che questi ultimi non rivestono carattere di assolutezza, importando solo che la loro modifica avvenga attraverso un duplice procedimento di revisione: il primo rivolto ad eliminare la norma che sancisce il divieto del mutamento, il successivo avente ad oggetto la nuova disciplina della materia che era dichiarata intangibile (187). A sostegno di tali punti di vista si son fatti valere argomenti di logica giuridica, quale quello che si esprime nel principio della lex posterior, ed altri di carattere pratico dedotti dall’esigenza di escludere ogni eccessivo irrigidimento che comprometterebbe l’adeguazione della costituzione alle imprevedibili esigenze della realtà sociale (188). È da osservare in contrario come, a parte ogni indagine sulla validità del principio invocato della lex posterior, la sua applicabilità presuppone l’identità della fonte da cui emanano le leggi che si sono succedute nel tempo, ciò che sarebbe da dimostrare, e non è invece dimostrabile neanche nel caso in cui l’organo costituente e quello di revisione derivino la loro investi- (187) V. in questo senso JELLINEK W., Grenzen, cit., 12; HERNRITT, op. cit., 49; SIEGENTHALER, op. cit., 261; BISCARETTI, Sui limiti della revisione costituzionale, in Ann. sem. giur. Catania, 1949, 160 ss. (188) Gli argomenti riferiti sono quelli che si trovano riesposti dal BISCARETTI (Sui limiti, cit., 132 ss.), il quale ha creduto di trovare una conferma della opinione da lui accolta nell’esperienza costituzionale di alcuni Stati: conferma che invece, come sarà rilevato, non è ricavabile. Per una confutazione dell’opinione del Biscaretti, cfr. MORTATI, La costituzione materiale, cit., 84 ss. 216 tura da procedimenti che presentino elementi di affinità. Non si contesta l’esigenza che la costituzione si adegui alle nuove situazioni, quali si producano nell’ambiente in cui deve operare, ma si vogliono solo individuare i criteri idonei a differenziare gli emendamenti dell’ordine costituzionale in atto dal sovvertimento che ne segna la soppressione e la sua sostituzione con uno nuovo. Sicché è vano recare a sostegno dell’opinione confutata l’esperienza positiva dei mutamenti verificatisi in alcuni Stati, trattandosi appunto di valutarli onde poter stabilire quale qualifica sia da attribuire loro (189) (190). È poi da osservare come l’esigenza di stabilità che deve (189) Analoga osservazione può rivolgersi nei riguardi dell’argomento desunto dal Biscaretti dal fatto che a volte la stessa costituzione prevede una revisione totale, e dall’altro rilievo secondo cui, come uno Stato può porre un termine alla sua vita, deve essergli parimenti consentito di prevedere la trasformazione della propria forma in una diversa. La previsione di una revisione totale (quando non poggi sull’ideologia dell’inestinguibile potere costituente del popolo, della quale si è notata l’inconsistenza sotto l’aspetto giuridico) apparirebbe priva di ogni significato logico se dovesse essere intesa altrimenti che sotto riserva della conservazione della stessa idea di diritto da cui è ispirata la costituzione che la formula. Analoga interpretazione deve darsi dei casi di espressa previsione della fine dello Stato o della trasformazione della sua forma, potendo essi ritenersi ammissibili solo nei confronti di ordinamenti strumentali, di carattere provvisorio, preordinati proprio a scopi raggiungibili solo con la propria scomparsa (come nell’ipotesi della erezione in ordinamento autonomo della città di Fiume, che avrebbe dovuto estinguersi mediante fusione con lo Stato italiano). (190) Non probanti al fine perseguito dall’autore sono gli esempi che il Biscaretti indica a sostegno della sua tesi e che egli trae dagli ordinamenti degli USA e dell’Inghilterra. Contrariamente a quanto egli sostiene la pronuncia della Corte di giustizia federale nord-americana nella sentenza resa in ordine alla allegata incostituzionalità del XVII emendamento, non esclude ed anzi implicitamente presuppone la possibilità di emendamenti incostituzionali perché sorpassanti i limiti imposti dallo spirito della Costituzione. Quanto poi all’ordinamento inglese il divieto al giudice di disapplicare uno statuto per il suo contrasto con la Costituzione, e l’asserita onnipotenza del Parlamento, non possono far dimenticare su quali salde basi poggino i valori espressi e garantiti dalla Costituzione. Ritenere possibile che il Parlamento inglese abroghi la Magna Carta, come fa il Biscaretti, è prova di un astrattismo molto più falso e deteriore di quello che il detto autore rimprovera ai sostenitori dei limiti assoluti al mutamento costituzionale. 217 farsi valere come essenziale alla costituzione, non sarebbe in nessun modo assicurata pel fatto di subordinare il mutamento ad una doppia votazione. È infatti evidente che la decisione relativa al mutamento si esaurisce con l’approvazione dell’emendamento abrogativo, che nessun significato può avere se non quello di far venire meno, o alterare nella sua sostanza la norma che era oggetto della speciale garanzia di immodificabilità. La ricerca del fondamento necessario a dar ragione delle limitazioni imposte all’organo di revisione fa leva sulla differenza di grado sussistente fra la costituzione e la legge di revisione, fra organo costituente ed organo costituito, fra la fonte che crea il potere e l’attività che esercita il potere stesso e che non può esplicarsi altrimenti che nell’àmbito degli interessi e dei fini per i quali gli si è data vita, se non si vuole compromettere il mantenimento della funzione spettante alla predetta fonte originaria (191). La legge di revisione viene quindi ad assumere di fronte alla costituzione, sotto l’aspetto rilevato, una figura analoga a quella della legge delegata rispetto alla delegante, pur dovendosi escludere che sussista fra le prime due un rapporto assimilabile a quello delegatorio. L’avere riannodato l’intangibilità dei princìpi coessenziali ad un ordinamento positivo alla stessa funzione propria della costituzione che li consacra e li garantisce, conduce a respingere l’opinione la quale attribuisce alla intangibilità medesima un valore solo relativo, in quanto la ricollega alla eccezionalità delle forme e dei procedimenti dai quali la costituzione ha tratto la sua vita, e pertanto ritiene necessaria la (191) Su tale fondamento v., fra i tanti, MINGUZZI, Il limite delle attività avverse alla costituzione, Bologna, 1891, 105; MARCHI, Lo Statuto albertino, cit., 193 (sull’intima forza di resistenza di ogni costituzione) e dello stesso Sulla cosiddetta onnipotenza parlamentare, Cagliari, 1921 (in cui si pone in rilievo il carattere di «ordine chiuso» proprio della costituzione); ESMEIN, Eléments de droit constitutionnel, cit., I, 608; HAUG, op. 218 rinnovazione delle une e degli altri per potere procedere alle modifiche riguardanti i princìpi stessi. A parte le obiezioni che sono da muovere per contestare la sopravvivenza di situazioni per loro natura contingenti e straordinarie (192), è da osservare che l’esigenza del limite assoluto verrebbe ad essere compromessa se questo non rivestisse un’indole tale da imporsi allo stesso organo costituente, non fosse cioè insuperabile anche nei suoi confronti, oltreché sufficientemente concreto e specifico (senza perciò risolversi in generici richiami, per esempio al popolo sovrano), riuscendo altrimenti compromessa quella funzione identificatrice di un singolo ordinamento positivo su cui si è richiamata l’attenzione. È stato già chiarito che la garanzia del rispetto di tale limite non può trovarsi nel parallelismo fra le forme seguite nel momento dell’instaurazione dell’ordinamento e quelle della revisione e neppure nella perpetuazione del potere degli uomini che ebbero ad imporre la costituzione bensì nella permanenza della struttura sociale su cui essa poggia e dei valori fondamentali intorno a cui si ordina. Criteri per la determinazione di limiti assoluti. - Alla luce del criterio ora indicato è da considerare la questione relativa alla determinazione degli oggetti o della materia, che per loro intrinseca natura operano quale limite assoluto. Secondo alcuni tale carattere rivestono le norme sul procedimento richiesto per la revisione. Ciò viene argomentato dalla considerazione che le statuizioni apportanti modifiche alle norme predette stanno logicamente in un grado superiore ad esse (anche se cit., 160; BURDEAU, Traité, cit., III, 246; VIRGA, La revisione costituzionale, cit., 31; BRYCE, op. cit., 1, 482; HSU DAU LIN, Die Verfassungswandlung, cit., 174. Contra, di recente, nel senso dell’incomprensibilità di norme che pongano limiti alla revisione LÖWENSTEIN, Verfassungsrecht u. Verfassungsrealität, cit., 420. (192) Sulle quali cfr. ESPOSITO, La validità, cit., 224. 219 provengano dalla stessa istanza), avendo la funzione di porre le condizioni per la loro validità e di concludere il sistema, sicché la nuova norma, non essendo deduttivamente desumibile dalla vecchia, non potrebbe venire in vita se non per via di rivoluzione (193). La tesi riferita (che si richiama a quella già ricordata del Burckhardt, senza però giungere a negare la stessa giuridicità delle norme sulla revisione) ha il merito di affermare (in contrasto con quanto è sostenuto da coloro che, come il Kelsen, considerano possibile ricondurre alla stessa fonte originaria ogni mutamento della norma suprema, purché effettuato nel rispetto delle forme per esso prescritte), l’esigenza propria di ogni sistema costituzionale di un punto fermo, della permanenza delle situazioni di potere che condizionano le manifestazioni di volontà in esso operanti e che ne consentono la identificazione, pur nelle trasformazioni cui è sottoposto nel corso del tempo. Tuttavia deve osservarsi come tale tesi, fondata su un presupposto normativo-logico, esclude ogni discriminazione fra le varie specie di mutamento, quale che sia la loro portata, la loro incidenza sull’ordinamento nel suo complesso, e non può pertanto essere accolta perché contrastante con il criterio qui assunto. Criterio che sembra meglio aderente alla natura e funzione della costituzione (le quali richiedono che (193) Così ROSS, op. cit., 362 ss., 370, il quale, in contrasto con il Kelsen, che ritiene necessaria alla differenziazione della legge costituzionale da quella ordinaria la prescrizione di aggravamenti di procedura per la prima, esclude tale necessità e sostiene che la posizione di supremazia competa ad ogni specie di norma regolante la creazione di norme generali. In senso analogo GIACOMETTI, Das Staatsrecht der Kantone, Zürich, 1941, 449 (per cui le norme sulla revisione, assicurando l’identità fra chi dà la costituzione e chi la muta, devono essere eterne), e NEF, Materiellen Schranken der Verfassungsrevision, in Zeitschrift des Schweizerischen Rechts, 1942, 133 (che però restringe la tesi ancorandola all’esigenza di diritto naturale del rispetto del potere di revisione spettante al popolo). Per la dottrina nord-americana cfr. WARREN, The making of the Constitution, cit., 685 (che richiama il pensiero di Jefferson) e BURGESS, Political science and constitutional law, New York, 1890, 137. 220 ogni apprezzamento relativo al limite debba rifarsi al sistema, allo spirito che lo informa ed in cui trova l’elemento di stabilizzazione) e che quindi conduce ad escludere ogni generalizzazione, per affidare, invece, la decisione in ordine alla incidenza del mutamento apportato alle norme disciplinanti la revisione sulla conservazione del sistema, a valutazioni da effettuarsi di volta in volta, con riferimento ai valori ai quali esso è collegato. Analoga soluzione deve darsi alla questione pure prospettata relativa alla intangibilità della forma di governo o a quella delle proclamazioni dei diritti fondamentali. Occorre accertare, nei singoli casi, se e fino a che punto la forma di governo abbia funzione meramente strumentale rispetto ai fini coessenziali ad un ordinamento, o appaia invece parte integrante della forma di Stato, e, correlativamente, quale posizione rivesta nella totalità il sistema dei diritti, così come risulta dalle norme costituzionali (194). Da quanto si è detto si deduce un concetto materiale di limite, la cui determinazione deve rimanere affidata a fattori che sono da qualificare « istituzionali », nel senso già noto. È sotto questo riguardo che appare manifesta la insostenibilità di revisioni totali prima ricordate: esse (anche se previste espressamente, come (194) Cfr. HSU DAU LIN, Die Verfassungswandlung, cit., 175-179. Sull’impossibilità di considerare la forma di Stato solamente strumentale, e quindi sul suo carattere di limite assoluto BLUNTSCHLI, Politik, Stüttgart. 1875, 304 ss.; MEYER, Lehrbuch, cit., 58; ESMEIN, Éléments de droit constitutionnel, cit., II, 544; EMKE, op. cit. Lo SCHMITT, Verfassungslehre, cit., 103 ss., pone in rilievo l’impossibilità di far rientrare nella categoria dei mutamenti costituzionali le trasformazioni radicali del principio politico cui era informata la precedente costituzione (e che detto autore designa come Verfassungsvernichtungen). Cfr. anche SIEGENTHALER, op. cit., 262 ss. che, mentre nega che limiti autonomi meramente formali possano considerarsi invincibili, considera tali quelli di carattere «istituzionale». Allo stesso criterio indicato nel testo devono ricondursi i casi di limiti assoluti alla revisione che JELLINEK W. (Grenzen, cit., 20) designa come limiti per impossibilità. Tale impossibilità, quando non sia meramente fisica, è da valutare non astrattamente, bensì alla stregua delle concezioni dominanti e della capacità delle forze che le alimentano. 221 dalla costituzione francese del 1848 e da quelle americana e svizzera) non possono che riguardare il rifacimento formale o di dettaglio della costituzione, non mai toccarne il nucleo sostanziale. Assunto tale punto di vista, si attenua fino a perdere sostanziale rilievo il valore della distinzione fra limiti espliciti e impliciti, formali e sostanziali. Ciò perché da una parte, il carattere di assolutezza del limite non può risultare solo dalla testuale statuizione in tal senso fatta dal costituente bensì dalla interpretazione che di essa deve compiersi alla luce del sistema; e, dall’altra, la trasgressione delle forme prestabilite per la revisione può, in determinate circostanze, non fare venire meno la conformità della medesima ai princìpi dell’ordinamento, mentre viceversa il rispetto delle prescrizioni formali non è di per sé sufficiente a far giudicare della conformità di questa ai princìpi predetti, e quindi a ricondurre le norme che ne sono oggetto sotto il vigore della stessa fonte. Ciò che del resto risulta comprovato da una recente esperienza offerta dai radicali mutamenti di regime verificatisi in alcuni Paesi europei in forme legali (195). Il punto di vista qui assunto non si distacca in definitiva dalla considerazione di logica normativa che conduce a far ritenere immodificabile la norma che dichiara la inviolabilità di determinati pre- (195) Si tratta del fenomeno che la dottrina tedesca ha designato con il nome di Verfassungsbeseitigung (cfr. SCHMITT, Verfassungslehre, cit., 104) e quella francese come fraude à la constitution (cfr. LIET-VEAUX, La fraude à la constitution, in Rev. fr. dr. publ., 1943, 116). La spiegazione delle ipotesi considerate è stata rinvenuta nella natura delle norme costituzionali, che importa la loro soggezione non solo al diritto ma anche al fatto, cioè alla concreta efficacia conseguita in via di fatto dalle medesime. Così ESPOSITO, La validità delle leggi, cit., 237 ss. ed ora Consuetudine costituzionale, cit., § 6. Cfr. anche JELLINEK W., Grenzen, cit., 15, che pone la vigenza come requisito di esistenza del diritto, presupponendo l’esistenza di una norma supercostituzionale che impone di considerare diritto ciò che di fatto si afferma come tale. Senza ripetere quanto è stato detto in precedenza, è da osservare che la differenziazione posta dall’esposito sulla diversa funzione del fatto (una volta di mera condizione negativa, di 222 cetti; solo che per identificare l’una e gli altri risale dalla costituzione formale a quella sostanziale ed identifica i soggetti capaci di far concretamente valere il limite assoluto nelle forze che presidiano ogni singolo regime positivo. Il problema dell’influenza dei mutamenti costituzionali sulla permanenza dello Stato. Le tesi negative. - L’esame compiuto dei limiti assoluti posti alla revisione consente di prendere posizione sul problema dell’influenza che il rispetto o l’infrazione di questi ultimi ha sulla continuità dello Stato in cui tali eventi intervengono. L’opinione ancora dominante, consacrata da una lunga tradizione di pensiero, è nel senso della irrilevanza dei mutamenti delle strutture costituzionali, quali che esse siano, sulla durata in vita dello Stato: opinione che ha trovato la sua epressione nella ben nota formula, secondo cui forma regiminis mutata, non mutatur ipsa civitas. Quando però si proceda all’indagine (resa necessaria dall’esigenza di interpretare il significato di tale formula) rivolta ad accertare quale sia l’elemento costitutivo della civitas che rimane fermo ed immutato ad onta delle trasformazioni dei regimi, si scorge la fragilità delle basi su cui l’opinione riferita si regge. È evidente infatti che questa, in tanto può giungere a negare l’esistenza di limiti suscettibili di frenare conferma della presunzione di validità che accompagna gli atti conformi al precetto costituzionale, un’altra volta di condizione positiva, fondamento e prova concreta del costituirsi di dati rapporti) non giova alla esatta interpretazione degli eventi che si producono nello svolgimento delle costituzioni. Infatti se presunzione di validità sussiste in ogni caso di mutamento per legge, nessuna differenza si rende possibile secondo che esso abbia per oggetto la conservazione o la sovversione del regime, e l’opposizione al medesimo dovrehbe valutarsi allo stesso modo in entrambi i casi, mentre sembra che il contrario dica l’ESPOSITO (Validità, cit., 245). Il fatto dell’osservanza di un mutamento sovversivo avvenuto nel rispetto delle forme non elimina per nulla il contrasto del medesimo con il vecchio ordinamento e la sua irriducibilità a questo: ciò perché, come si è detto, il fatto è in sé neutro. 223 il libero espandersi dell’attività creatrice dell’ordinamento in quanto presuppone esistente in questo un’entità, per così dire, noumenica, nella quale operi un limite ad essa intrinseco che le consente di permanere sempre uguale a se stessa, non solo non toccata dalle mutazioni fenomeniche che si svolgono nel suo seno ma capace di dirigerle; depositaria in altri termini di un potere, giuridicamente ordinato, che si pone quale fonte unitaria dei regimi che si succedono nel tempo. Secondo alcuni l’entità che si deve postulare esistente con i caratteri ora detti sarebbe costituita dalla personalità dello Stato (196). Ma se la personalità si intenda in termini giuridici, si presenta quale creazione del diritto, che di essa si giova come di uno dei possibili strumenti attraverso cui si unificano atti provenienti da soggetti diversi, o si perpetuano nel tempo gli effetti di manifestazioni di volontà di soggetti venuti a cessare. Essa presuppone quindi la preesistenza di un ordine giuridico che conferisca e disciplini tale personalità, sicché il fare ad essa riferimento (quando si pre- (196) V. in questo senso JELLINEK G., Allgemeine Staatslehre, cit., I, 243-46, che si richiama alla distinzione fra esistenza e forma, evidentemente inaccettabile, non essendo possibile esistere senza una forma; CARRÉ DE MALBERG, Contribution, cit., I, 48. Anche il PIERANDREI, La rivoluzione e il diritto, cit., 17 estr. si richiama al concetto di personalità, ed ammette che la frattura fra un ordinamento ed un altro si verifica quando il nuovo neghi la preesistente personalità dello Stato. A questo concetto mistico di uno Stato che sussiste anche se privo degli strumenti che ne ordinano le manifestazioni di potere (distinto quindi dal diritto) si riferiscono quelle dottrine che considerano possibile uno Stato senza organi. Così per esempio ESPOSITO, Organo, ufficio e soggettività dell’ufficio, in Ann. Camerino, 1932, 19; BISCARETTI, Contributo alla teoria giuridica della formazione degli Stati, Milano, 1938, 159 (per cui lo Stato, superiore ai suoi elementi, ha un’esistenza a sé che si perpetua nonostante il mutare di questi); e già prima BELING, Revolution u. Recht, cit., 29. Meno inesattamente Sieyès riferiva alla nazione il potere di manifestarsi in qualsiasi forma. A concetti privatistici si richiamavano dottrine più antiche, come avveniva per quella che spiegava la continuità con la figura della translatio imperii. Gli scrittori anglosassoni avevano riguardo invece alla permanenza delle vecchie consuetudini (così Fortescue J., cit. da SCHEUNER, Die Funktionsnachfolge und das Problem der staatsrechtlichen Kontinuität, in Festschrift für Nawiasky, München, 1956, 9). 224 scinda dalle strutture che compongono il regime e che vengono meno con il mutare di questo) lascia insoluto il problema della determinazione degli elementi necessari a rendere lo Stato capace di agire. Se si risale al sostrato che dovrebbe alimentare il potere dello Stato sempre uguale a se stesso non si riesce a trovarne altro di diverso all’infuori dell’identità del popolo localizzato su un dato territorio (197), cioè di un elemento che, come si è visto, si presenta privo di ogni capacità d’azione giuridica. Analogo riferimento a concetti già prima svolti deve compiersi per quanto riguarda la possibilità di far capo ad una comunità reale, contrassegnata non solo da consonanze spirituali e da interessi convergenti (quali quelle che si esprimono nel sentimento nazionale), ma anche dal conseguimento dell’unità politica, poiché tale unità non si concreta altrimenti che attraverso una determinata forma di Stato, e pertanto rimane da decidere che cosa sopravviva alla continuità storica dello stesso popolo, come fattore autonomo di attività giuridica primaria a sé stante, nel caso del totale mutamento della forma stessa (198). Un tentativo di maggiore precisazione è stato compiuto quando si è avuto riguardo al popolo come titolare del potere costituente, in virtù di un principio non già di mero diritto naturale (o tanto meno della acquiescenza popolare al fatto compiuto) bensì di diritto positivo. Si è detto che il muta- (197) Così GROTIUS, nel 1625, De jure belli ac pacis, libro II, cap. IX, § 8. (198) Alla ‘comunità reale’ si richiama il BALLADORE-PALLIERI, Dottrina, cit., 298, ma con le contraddizioni che sono state già rilevate, risultanti dalla ammissione che egli fa di ‘fenomeni’ capaci di produrre fratture nell’ordine costituzionale, pur rimanendo immutata la popolazione ed il territorio. Lo stesso autore in passato aveva indicato anche, come possibile fondamento del principio di continuità, la necessità intesa come fonte superiore alla costituzione e legittimante i mutamenti (in L’estinzione di fatto degli Stati secondo il diritto internazionale, in Ann. Messina, 1930-31, 320). Ma se il principio di necessità deve riferirsi ad un’istituzione si è ricondotti al quesito del come tale istituzione sia da intendere. 225 mento rivoluzionario, anche il più radicale, apportato non solo alla costituzione scritta ma anche alla decisione politica che la ispirava, non compromette la continuità quando continui a sussistere la potestà costituente del popolo, nella quale rimane presente « un minimo di costituzione » (199). È chiaro che nessun superamento delle difficoltà prospettate si riesce a conseguire se la potestà costituente di cui si parla venga intesa astrattamente all’infuori di un ordinamento positivo che la disciplini, potendo il popolo assumere aspetti diversissimi fra loro secondo le modalità qualitative e quantitative attraverso cui è chiamato ad operare. A riprova della debolezza della tesi esposta può riuscire utile ricordare (199) Il pensiero riferito è dello SCHMITT, Verfassungslehre, cit., 92. La debolezza di questa tesi risulta comprovata dalla stessa esemplificazione che dovrebbe attestarne l’esattezza; come quella desunta dalle costituzioni napoleoniche, le quali avrebbero continuato la costituzione giacobina (che proclamava il diritto del popolo di mutare in ogni momento la costituzione) perché furono accompagnate dalla prassi dei plebisciti. Analogamente la costituzione di Weimar non avrebbe sovvertito quella del 1871, perché anche questa (benché monarchica) doveva considerarsi fondata sulla « volontà nazionale del popolo », dato che lo stesso aveva acclamato alla guerra del 1870 e non si era opposto alla fondazione del Reich. È degno di nota come il medesimo Schmitt affermi che sarebbe assurdo che l’Inghilterra possa, in base a decisione della maggioranza del Parlamento, trasformarsi in repubblica sovietica. Non si capisce però come nel regime democratico, che fa del Parlamento un’emanazione del popolo, non debba ritenersi che la decisione predetta sia tale da non incidere sul potere costituente popolare. È noto che la necessità del mantenimento di una medesima potestà di impero per la continuità dello Stato era stata affermata dai teorici dell’assolutismo (v. anche su ciò SCHEUNER, op. cit., 10). Che la cessazione della persona fisica del monarca facesse interrompere tale continuità era argomentato dal Bodin muovendo dalla considerazione della mancanza di una comunità sottostante al monarca, permanente oltre al mutare delle persone fisiche dei suoi componenti, come quelle che sono a fondamento della monarchia e dell’aristocrazia. Considerazione inesatta, sia perché, da una parte, non esiste monarchia senza un seguito di forze che si accentrano in essa e che permangono immutate nel tempo, così da dare una base sociale alla serie dei monarchi (formanti, anche di per sé considerati, una corporation sole), sia perché, dall’altra, aristocrazia e democrazia, come si è detto, si articolano in modo diverso nei vari ordinamenti, ed è a tali specifiche articolazioni e non già all’astratto principio che bisogna guardare per decidere della continuità. 226 il pensiero del Beling (200), che nel farsi sostenitore della medesima (sia pure con qualche incertezza), è risalito alla radice del contrasto fra essa e quella opposta (che dal mutamento della forma fondamentale fa discendere la frattura fra un tipo di Stato e un altro), individuandola nel diverso modo di intendere la connessione concettuale fra diritto e Stato. Infatti solo con l’identificazione dei due termini si può giungere alla conseguenza di far discendere dal mutamento la fine dello Stato, mentre secondo il Beling il soggetto stato è il dato sociale primitivo, che, come tale, forma il prius del diritto, mentre questo è solo un posterius, una funzione del soggetto o un suo predicato, e pertanto l’individualizzazione dell’ordine giuridico non può esser data dal contenuto delle norme che lo costituiscono e neppure dalla loro forma (che potrebbero le une e l’altra essere in tutte le loro parti uguali a quelli di altri stati) bensì dalla formazione sociale che ne sta (200) BELING, Revolution u. Recht, cit., 24 ss. L’affermazione di quest’autore, secondo cui lo Stato non ‘è’ ma ‘ha’ un ordinamento, si radica nella concezione organicista, com’è riprovato dal confronto che egli fa con gli individui singoli i quali non subiscono alterazioni nella loro identità pel fatto di abbandonare fini e concezioni prima perseguite. Si dimentica, così dicendo, che mentre i singoli hanno una loro individualità fisiopsichica che li rende capaci di operare ed è sufficiente a far imputare ad essi le proprie azioni, viceversa lo Stato non acquista tale capacità che attraverso un assetto giuridico, sicché è dal momento in cui questo si costituisce che lo Stato ha esistenza ed acquista la possibilità di distinguersi da altri ordinamenti, anche se in tutto uguali, proprio perché si riconosce come soggetto che in modo autonomo crea un proprio sistema di imputazioni. Che, cessando un particolare sistema di poteri, lo Stato non si dilegui nel nulla, come obietta il Beling, discende non dal fatto della sopravvivenza della stessa formazione sociale, ma dalla circostanza che il nuovo diritto emerge senza soluzione di continuità dalle rovine del vecchio, per l’orror vacui che opera nel mondo del diritto come in quello della natura. Può notarsi che il ROMANO, pur postulando l’identità fra ordinamento ed entità sovrana (quando afferma, rovesciando la formula del Beling, che quest’ultima non ‘ha’, ma ‘è’ ordinamento), tuttavia ritiene di poter distinguere l’ordinamento dall’imputazione ad un soggetto del medesimo; come se tale soggetto non dovesse considerarsi parte integrante dell’entità sovrana (v. Ordinamento giuridico, cit., 146 e nota 120). 227 a base e che, finché rimane immutata, fa rimanere lo Stato uguale a se stesso. Si può sottoscrivere a quanto il Beling afferma sulla necessità di risalire ad un dato sociale, a patto però di precisare che tale dato interessa il giurista solo in quanto presenti un ordine cosiffatto da consentire l’esplicarsi di un’azione efficiente rispetto ai fini ad esso specifici, ed ascrivibile quindi alla sfera del diritto. Non accettabile sembra poi la tesi che, pur riconoscendo che lo Stato sorge con la costituzione e si rinnova con il mutamento di questa, ritiene tuttavia che il legame fra le varie costituzioni capaci di raccoglierle in unità proviene dal diritto internazionale che, con il riconoscimento da esso fatto di ogni singolo Stato, imputa al medesimo tutti gli eventi svolgentisi nel suo seno riguardo all’ordinamento dei poteri (201). Il presupposto monistico dal quale tale tesi parte, della dipendenza dell’ordinamento statale da quello internazionale, appare tutt’altro che accettabile, ed in ogni caso possibile ad attuarsi solo assumendo criteri di qualificazione contingenti o di incerta portata (202), così da non potere offrire una soluzione adeguata ad un problema di carattere generale. La sopravvivenza di norme dell’ordinamento cessato. - Un argomento che fa molta presa ed è invocato per consolidare l’opinione che qui si confuta è desunto dalla constatazione che la trasformazione, anche se rivoluzionaria, dell’assetto costitu- (201) Cfr. SANDER, Das Faktum der Revolution u. die Kontinuität der Rechtsordnung, in Zeitschr. öff. Recht, 1919-20, 135; BALLADORE-PALLIERI, L’estinzione, cit., 322. (202) Un esempio di tale incertezza è offerto dalla tendenza dominante nella dottrina internazionalistica a disconoscere la continuità quando fra l’ordinamento cessato e quello subentrante si interponga un periodo più o meno lungo di anarchia. Oltre alla difficoltà di determinare il concetto stesso d’anarchia e il periodo della sua durata, vi è quella di intendere come, rimanendo immutati gli elementi del popolo e del territorio, che vengono considerati determinanti, debba influire sulla continuità l’interruzione verificatasi tra un regime e un altro. 228 zionale non pretende mai di « cominciare tutto daccapo » ma rispetta settori più o meno estesi del precedente sistema. Si riscontra così il mantenimento di norme attinenti ai rapporti tanto dello Stato con i cittadini (ad esempio leggi sulla cittadinanza), quanto dei cittadini fra di loro, sia di carattere sostanziale che organizzativo (come nel caso del mantenimento di organi e dei loro titolari) e perfino di alcune appartenenti al diritto costituzionale (203). Non sembra che da tale fenomeno (che si verifica, sia pure in diversa misura, nel caso di estinzione dello Stato in conseguenza della sua annessione ad un altro, pel quale non è certo possibile parlare di persistenza dell’ordinamento) (204) possa argomentarsi alcunché di incompatibile con l’opinione della discontinuità. Infatti di assolutamente nuovo, e pertanto non trasmissibile da altro ordinamento quando ne sia mutata la forma, è solo la potestà suprema (intesa nel senso che si è detto di forze sociali e di fini ad esse coessenziali), mentre nulla impedisce che altre disposizioni dell’ordinamento precedente continuino ad essere applicate. Il fatto che sia estinta la fonte da cui esse traevano la loro validità non ostacola tale permanenza, dovendosi ciò attribuire alla volontà del nuovo Stato; volontà che non opera nel senso di far risorgere dalle loro ceneri le disposizioni ormai caducate (205), bensì in quello ben diverso di disporre un rinvio materiale (possibile (203) Così, fra gli altri, WALZ, Ursprungsnorm im System des Staats, in Arch. öff. Rechts, 1930, 30, che, proprio muovendo da siffatta constatazione, desume la sua critica alla tesi contraria del MERKL esposta in Rechtseinheit des öst. Staats, ivi, 1918, 20 ss. Nello stesso senso Esposito, su cui vedi la successiva nota 205. (204) V. sui ‘conflitti di annessione’ verificabili in tali ipotesi, DE NOVA, Il richiamo di ordinamenti plurilegislativi, in Studi Pavia, 1940, 74, e citazioni ivi. (205) Così ESPOSITO, Consuetudine costituzionale, cit., 14 e nota, il quale, per qualificare aberrante l’opinione contraria alla sua, muove dal presupposto che in uno stesso sistema possano coesistere disposizioni create con autonomi atti di produzione del diritto, quando esse, in sé e secondo le intenzioni di chi li abbia poste in essere, siano dirette a cooperare alla disciplina di una stessa comunità. Non è contestabile tale 229 anche se effettuato con riguardo a norme di ordinamenti estinti, o privi di ogni carattere giuridico) al testo che conteneva le medesime, in quanto non incompatibili con il nuovo ordine. Con l’ovvia conseguenza di conferire loro significati e delimitare sfere di applicazione ben diversi da quelli che possedevano nell’ordinamento da cui ebbero a trarre vita, secondo appare richiesto dalla loro inserzione in un sistema informato a princìpi irriducibili a quelli del precedente. L’opinione confutata potrebbe assumere un’apparenza di esattezza ove si ritenesse necessaria un’espressa manifestazione del legislatore costituzionale rivolta alla recezione. Di solito i documenti da cui ha origine il nuovo ordine contengono statuizioni di tale genere (sia pure in forma negativa, come l’art. 81 cost. di Weimar che manteneva vigore alle leggi anteriori non contrastanti); ma anche in loro assenza è la stessa esigenza di completezza, intrinseca ad ogni ordinamento, che conduce l’interprete a ricercare nell’assetto giuridico preesistente la disciplina di rapporti non ancora regolati (206). La medesimezza del popolo e del territorio sono elementi che conducono a far ritenere mantenuti i caratteri coesistenza (bastando pensare ai casi di vigenza delle consuetudini, e di operatività di norme di ordinamenti stranieri); si tratta però di stabilire se tali fatti (non atti) di produzione vigano per virtù propria, per la volontà e con la protezione dell’ordinamento originario o invece di quello che li recepisce, in base ad un giudizio di convenienza e di compatibilità con le esigenze del proprio sistema, anche se tale giudizio sia più o meno intensamente sollecitato dalle istanze della coscienza comune. In senso conforme a ESPOSITO, THOMA, Handbuch, cit., I, 169 e nota ivi; VIRGA, Origine, contenuto e valore delle dichiarazioni costituzionali, cit., 243 ss. Per l’opinione che si richiama alla figura della recezione cfr. KELSEN, Teoria, cit., 118. (206) Una recezione implicita si desume dalla XVI disp. trans. cost. it., valida a dimostrare l’assunto del testo, quando si ritenga, come sembra esatto ritenere, che questa costituzione sia sorta da una frattura con la precedente. Sui casi di mantenimento di norme di ordinamenti cessati cfr. ESMEIN, Éléments de droit constitutionnel, cit., che distingue fra i mutamenti avvenuti in forme legali e quelli senza il rispetto di queste ed ivi le applicazioni alle varie costituzioni francesi dall’epoca rivoluzionaria in poi. 230 materiali dei rapporti sociali che avevano motivata la loro disciplina, e quindi offre una ragione pratica della conservazione di quest’ultima, ma non può mai porsi a fondamento giuridico di tale conservazione; fondamento di tal genere potendo essere costituito solo dalla volontà degli organi del nuovo ordinamento (207). A conferma delle difficoltà che la soluzione del problema della continuità incontra, quando lo si voglia risolvere muovendo dalla considerazione del mantenimento di una stessa base personale e territoriale, si possono ricordare i casi nei quali, essendosi verificate variazioni in ordine a tali elementi, si presenta dubbio il giudizio circa la persistenza o no della base stessa, dovendosi ricercare un criterio che consenta di poterlo emettere, e risultando arbitrario il desumerlo dalla considerazione puramente quantitativa delle variazioni stesse. Anche in tali casi sembra necessario risalire ai princìpi istituzionali onde potere accertare quanta e quale parte di (207) Il WELZEL (Juristische Grundprobleme, I, Der Begriff des Gesetzes, Berlin, 1920, 14) (riferendosi all’analoga ipotesi della coesistenza di norme di ordinamenti eterogenei) osservava che l’unità postula che la validità di tutti gli imperativi di un sistema dipenda dalla volontà di una stessa istanza, sicché essa si raggiunge quando l’istanza, che non ha prodotto il diritto e che potrebbe togliergli validità, non lo fa o lo mantiene in vita. L’ENGISCH, op. cit., 24-25, pur accettando tale impostazione, trova che essa va incontro alla stessa obiezione che può opporsi alla tesi della recezione espressa, perché implicherehbe un’interruzione del vigore delle norme, ed afferma che è la permanenza della medesima comunità giuridica, qual’era a base del precedente ordinamento, a rendere possibile, da una parte, la parziale validità di quest’ultimo, dall’altra il sorgere di una nuova istanza avente facoltà di procedere alla sua eliminazione. È facile replicare che si torna così alla comunità indifferenziata, che rimane sì immutata pur nelle trasformazioni dell’ordine giuridico, ma che è sfornita di capacità di volere (fino a quando non riesca ad enucleare dal suo seno quelle articolazioni che la rendono idonea ad agire, ma con indirizzi e fini che si differenziano o contrappongono fra loro): cioè ci si chiude in quel circolo messo in rilievo dallo stesso ENGISCH quando osserva (p. 22 ss.) che ciò che consente al popolo di porsi quale fattore dell’unità dell’ordinamento giuridico è proprio questo medesimo ordinamento. 231 questi sia da ritenere sopravvissuta, così da collegare in unità passato e presente (208). Influenza della volontà dello Stato sulla continuità. - Neanche soddisfacente è da ritenere l’opinione secondo la quale decisiva per la questione in esame deve ritenersi la volontà dello Stato che subentra e che ha piena libertà di riconoscersi o no continuatore dell’altro (209). Ciò non solo perché tale volontà può mancare ma altresì pel fatto che, anche quando questa sia espressa, si rende necessario procedere alla sua interpretazione, potendo una manifestazione essere stata imposta da forze esterne allo Stato, o essere il risultato di un calcolo politico e palesarsi perciò non corrispondente con la situazione reale, quale emerge dalla considerazione obiettiva delle istituzioni e del loro spirito. Se ad una volontà ci si deve riferire essa non è quella dichiarata dalle formule normative bensì l’altra che effettivamente emerge ed è fatta valere dal ceto dirigente che indirizza l’azione dello Stato verso gli interessi e le concezioni di cui è portatore (210). Quando siffatti interessi e concezioni risultino irriducibili a quelli che orientavano l’assetto prima vigente deve (208) V. al riguardo ROMANO, I caratteri giuridici della formazione del Regno d’Italia, ora in Scritti minori, cit., I, 327 (che mette in rilievo l’insufficienza del riferimento all’àmbito territoriale). Su questo punto cfr. FRICKER, Vom Staatsgebiet, Tübingen, 1867, 27; DONATI, Stato e territorio, Roma, 1924, 32. Nel caso particolare del frazionamento, si tratta di decidere se e quale dei nuovi stati continui quello precedente. Sulla questione sorta in conseguenza della dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, cfr. BISCARETTI, Sui limiti, cit., 274 ss. Sulla diversa questione della continuità giuridica dell’ordinamento della Germania dopo la seconda guerra mondiale, cfr. SCHEUNER, op. cit., 23 ss. V. di recente nel senso della continuità, argomentata dalla persistenza della vecchia codificazione di diritto privato (considerata essa stessa parte della costituzione materiale): LEISNER, Betrachtungen zur Verfassungsauslegung, cit., 651. (209) V. fra gli altri, in questo senso NAWIASKY, Der Bundesstaat als Rechtsbegriff, Tübingen, 1920, 155. (210) Così anche BELING, Revolution u. Recht, cit., 26, non in tutto in coerenza però con quanto sostenuto in altro luogo del suo scritto sul distacco dello Stato dal suo ordine giuridico. 232 ritenersi verificata una rivoluzione, che non cesserebbe di essere tale anche se attuata con mezzi pacifici e con il rispetto delle forme ch’erano prescritte per i mutamenti legali, operando cioè una ‘frode alla costituzione’, secondo la formula prima ricordata (211). Il rispetto del limite della forma dello stato, intesa nel senso qui assunto di costituzione materiale, è quindi la condizione che consente di ritenere la continuità fra costituzioni le quali si succedono in uno stesso stato (212). (211) Senza richiamare la vastissima letteratura sulla rivoluzione come fenomeno giuridico, sembra opportuno ricordare il pensiero aristotelico sul punto, in perfetta coerenza con la sua concezione della costituzione, basata sulla quadruplice considerazione: delle condizioni materiali risultanti dalla struttura economica, delle condizioni subiettive dei capi artefici delle iniziative, del quadro concettuale in antagonismo con quello ispiratore dell’ordine precedente, dei fini indirizzati alla presa completa del potere, onde attuare una sua nuova organizzazione. (212) In applicazione del criterio formulato si deve ritenere che le numerose costituzioni succedutesi in Francia dopo quella del 1791 (con la sola eccezione della effimera costituzione giacobina del 1793, che spinse il suo distacco dal regime preesistente fino a negare in campo internazionale il riconoscimento dei debiti da esso contratti) non hanno mai intaccato l’ordine politico-sociale istaurato da detta epoca. La costituzione del 1848 potrebbe presentarsi quale esempio di instaurazione rivoluzionaria, se si considera non già solo il carattere insurrezionale che la contrassegnò, bensì la composizione delle forze da cui fu sostenuta ed i princìpi sociali che la inspirarono. In realtà la frattura con il vecchio ordine fu solo apparente, poiché i ceti prima dominanti preclusero l’esercizio effettivo del potere agli altri, giungendo rapidamente alla eliminazione della costituzione. È stato giustamente osservato, fra gli altri dal BURDEAU, Traité, cit., III, 580, che i mutamenti costituzionali verificatisi nel corso del secolo XIX nei vecchi Stati dell’Europa occidentale sono espressione di successivi adattamenti delle istituzioni politiche alle esigenze della classe dominante, nel costante rispetto delle comuni concezioni di tipo liberale; mentre quelli del XX secolo riflettono una fase di superamento di quest’ideologia e di mutamento del rapporto delle forze politiche. Sicché questi ultimi, appunto perché differenziati nelle loro componenti politico-sociali, assumono sempre carattere rivoluzionario, tanto se attuati in forme legali (come nel caso dell’avvento del nazismo tedesco, su cui SCHMITT, Staat Bewegung Volk, Berlin, 1933, che esattamente considera la legge sui pieni poteri votata dal Reichstag il 24 marzo 1933 quale costituzione provvisoria) quanto se messi in opera in forma insurrezionale (come nel caso del regime bolscevico russo). Sui mutamenti costituzionali in forma legale v. anche DE FRANCISCI, Sintesi storica del diritto romano, Roma, 1948, 249. 233 “ L’idea-forza ... è quella personalistica, che addita nella tutela e nel potenziamento della persona umana la funzione fondamentale dello Stato ” (C. Mortati) Costantino Mortati La Costituzione italiana La Costituzione italiana di Costantino Mortati I princìpi fondamentali della Costituzione e loro significato giuridicopolitico. - La Costituzione, dettata dall’Assemblea che per la prima volta nella storia d’Italia ha riunito i rappresentanti di tutto il popolo, raccolto in una stessa ansia di civile rinnovamento, quale si era maturata nella tragica esperienza della dittatura e della sconfitta, si apre con una solenne dichiarazione di « princìpi fondamentali ». La volontà di considerare tali princìpi non solo quali parti integrative della costituzione ma di porli a base delle altre, conferendo loro diretta ed immediata efficacia normativa nei confronti sia del legislatore sia di ogni altro soggetto, ed anzi efficacia potenziata, di superlegalità costituzionale, è resa palese dal rigetto della proposta, che pure era stata formulata, di trasferirli in un ‘preambolo’, proprio nell’intento di eliminare la possibilità di dubbi sul carattere da attribuire loro, analoghi a quelli sorti in passato in Francia a proposito delle Dichiarazioni dei diritti formulate in documenti distinti da quelli della costituzione. Carattere che si ebbe cura di ben delineare mediante la qualifica loro attribuita di ‘fondamentali’, con la quale si volle esprimere la funzione ad essi assegnata di porre le linee direttive del disegno poi svolto nelle parti successive, di fornire il criterio generale di interpretazione, suscettibile di riunire in un insieme unitario le molteplici manifestazioni di vita dello Stato, segnando altresì i limiti invalicabili ad ogni mutamento costituzionale. La serie delle dichiarazioni si apre con quella consacrata nell’art. 1, la quale, qualificando l’Italia « repubblica democratica fondata sul lavoro », enuncia il motivo, o meglio l’idea-forza che ispira e nello stesso tempo riassume in efficace sintesi tut237 te le altre, cosicché da essa si rende possibile ricavare gli elementi essenziali tanto della forma di stato quanto di quella di governo. Infatti il richiamo al lavoro quale fondamento della forma di governo repubblicano, mentre serve a meglio individuare il tipo di reggimento voluto instaurare, pone il più generale criterio regolativo dell’intero sistema dei rapporti dei cittadini fra loro e con lo stato: il criterio cioè che, ponendosi al vertice della gerarchia delle norme, determina il grado da assegnare a ciascuna e ne consente la più esatta interpretazione. Collocando a base dello stato il lavoro, pertanto, non si è inteso solo riepilogare le molteplici disposizioni costituzionali che lo prendono ad oggetto, ma si è piuttosto ubbidito all’intento polemico di esprimere una volontà di netto distacco dalle costituzioni del passato (le quali riflettevano strutture sociali basate sulla proprietà privata dei beni di produzione, proclamata e tutelata come bene ‘sacro e inviolabile’) e così invertire il valore attribuito ai due termini del rapporto proprietà-lavoro, conferendo la preminenza a quest’ultimo sul primo (213). Non è necessario ricordare come lo stato liberale, mentre non era riuscito a conseguire il fine del massimo benessere collettivo invocato a giustificare la pienezza della libertà concessa alla proprietà ed all’iniziativa economica privata, aveva visto compromessa la propria saldezza dalla frattura determinatasi fra parte e parte della popolazione. Lo ‘Stato di diritto’, caratterizzato dal progressivo perfezionamento delle tecniche dirette a proteggere dagli arbitrari interventi del potere politico la sfera riservata all’autonomia del singolo, si era rivelato impotente a (213) Vedi per più ampi svolgimenti MORTATI, Il diritto al lavoro secondo la Costituzione della Repubblica, in Atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla disoccupazione, IV, Roma, 1953, 1, 75 ss.; ID., Il lavoro nella costituzione, in Il diritto del lavoro, 1954, 194 ss. Per l’ESPOSITO invece (Commento all’art. 1 della Costituzione, in La Costituzione italiana, Padova, 1954, 15) nella proclamazione « l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro » le ultime parole non hanno lo stesso valore determinativo della struttura dello stato delle altre. 238 mantenere un minimo di coesione sociale, perché l’abissale ineguaglianza delle posizioni di effettivo potere determinatasi fra i cittadini rendeva apparente la parità che la legge assicurava alle parti dei rapporti sociali, e privava la massa della popolazione del godimento delle libertà astrattamente riconosciute. Si rendeva quindi necessario promuovere condizioni di vita associata idonee a ricostituire quel minimo di omogeneità della società sottostante allo stato, cui è legata la vita di ogni regime democratico. È stato coniato il termine di ‘Stato sociale’ per designare la nuova dimensione assunta dalle strutture statali le quali si propongano di rimuovere i fattori di dissoluzione e di assicurare a tutti condizioni minime di vita e di sviluppo della persona. La costituzione francese del 1946 e quella che la Germania occidentale si è data nel 1949 hanno appunto assunto la denominazione ora richiamata a qualificazione degli ordinamenti cui davano vita. La costituzione italiana si differenzia dalle predette perché, mentre ha rinunziato ad adottare la formula ‘Stato sociale’, di significato assai equivoco, ha curato invece di enunciare con assai maggiore precisione e completezza di quanto non abbiano fatto le altre due i presupposti del sistema cui si dava vita, il valore assunto a qualificare il posto del cittadino nello stato, i fini proposti all’azione statale, i mezzi necessari a riequilibrare i rapporti fra le classi. Il passaggio dal tipo di ordinamento astensionista a quello interventista, se trasforma sostanzialmente la struttura statale, trae tuttavia la sua origine dagli stessi presupposti che erano alla base del primo dei detti tipi: e cioè il riconoscimento dei diritti naturali ed imprescrittibili propri di ogni uomo, la cui conservazione veniva posta a scopo di qualsiasi specie di consociazione politica. Infatti l’intervento richiesto allo stato rivolto a modificare le condizioni che influenzano i rapporti contratti dai singoli, a correggere i risultati derivanti dal giuoco delle forze sociali contrapposte, si propone di consentire a tutti, e non solo ad alcuni privilegiati, l’uso effettivo della libertà, la possibilità per ogni uomo di esplicare le capacità insite in lui, svolgendo pienamente la propria personalità. Si tratta in sostanza dell’attuarsi di 239 una nuova fase del processo di espansione del principio liberale che implica l’enucleazione, da un astratto concetto di libertà, di singole libertà, differenziate secondo il grado della loro connessione con le esigenze di sviluppo della persona, e delimitate dalla necessità di evitare il pregiudizio che la loro esplicazione da parte di ciascuno può recare all’eguale libertà degli altri. La derivazione dei due tipi di stato da un comune postulato ideologico dà ragione dell’esigenza avvertita che il nuovo corso da imprimere all’ordine politico si realizzi senza pregiudizio delle finalità di tutela dell’individuo di fronte ad interventi arbitrari della pubblica autorità, o, per dirla in altri termini, che lo ‘Stato sociale’, lungi dal contrastare, si coordini con lo ‘Stato di diritto’. Ma tale risultato non potrebbe raggiungersi se non si accogliesse un principio di differenziazione fra le libertà essenziali alla persona, e pertanto suscettibili di estendersi ad ogni soggetto senza danno per gli altri, e le libertà meno essenziali, o comunque tali, per il loro oggetto, da sottrarsi alla possibilità di un godimento illimitato (quelle, per dirla con Dante, « dove per compagnia parte si scema ») (214). Applicazione dei princìpi in ordine alle garanzie delle libertà civili. - La costituzione italiana ha proceduto nella direzione ora indicata in modo più deciso e coerente delle altre prima menzionate, secondo si è rilevato, e come apparirà chiaro dai cenni che seguono. Se si analizza l’art. 2 che dichiara la posizione del cittadino nello stato, ponendo così il presupposto (214) Per una visione complessiva cfr. TREVES G., Considerazioni sullo Stato di diritto, in Riv. trim. dir. pubbl., 1959, 401, che sottolinea come nell’esperienza pratica «molti sono necessariamente i punti di frizione fra le libertà tradizionali e i nuovi diritti sociali»; GRASSO P.G., Stato di diritto e Stato sociale nell’attuale ordinamento italiano, in Il Politico, 1961, 807, il quale afferma che nel sistema italiano «la forma politica democratica sembra più idonea a favorire lo sviluppo dello stato sociale che non il mantenimento dello stato di diritto»: affermazione suscettibile di revisione quando i due tipi si raffigurino con riferimento non alle strutture degli ordinamenti tradizionali, bensì ad altre nuove, più idonee alla realtà sociale sopravvenuta. 240 della forma di stato adottata, si rileva come alla riaffermazione dei diritti inviolabili dell’uomo si accompagnino due enunciazioni rivolte a integrarla e a delimitarla. La prima riguarda la estensione alle formazioni sociali (riconosciute, in contrasto con le costituzioni dell’800, necessarie allo svolgimento della personalità dei singoli) degli stessi diritti e delle stesse garanzie accordate a questi ultimi. La seconda (riecheggiante un motivo fondamentale del pensiero mazziniano, che trova riscontro nelle vigenti costituzioni socialiste) rivolta a sancire una stretta correlazione fra il godimento dei diritti e l’adempimento dei doveri « inderogabili », necessari a realizzare la solidarietà nel campo dei rapporti politici economici sociali: correlazione che viene poi riaffermata in modo più specifico nell’art. 4, con riferimento al diritto e al dovere dell’esplicazione della capacità lavorativa attraverso cui ognuno dà il suo contributo più significativo alla società di cui è parte. Analoghi caratteri di novità si riscontrano nell’art. 3, nella parte in cui alla proclamazione dell’uguaglianza di tutti i cittadini avanti alla legge, si aggiunge quella dell’uguale dignità sociale di tutti e si riconosce la pretesa di ciascuno al concreto godimento dei diritti (recependosi anche qui dalle costituzioni socialiste il requisito dell’effettività ritenuto necessario ad integrare l’astratto riconoscimento di situazioni soggettive di vantaggio). Nel quadro di questi due motivi, della libertà e della solidarietà, si spiega la complessa articolazione della prima parte della costituzione. Sono da menzionare anzitutto le disposizioni le quali non si limitano solo a riprodurre le norme di garanzia relative ai classici diritti di libertà civili e politici consacrati nelle vecchie costituzioni, ma si propongono di diffonderne il godimento e potenziare la tutela del loro esercizio. L’indirizzo in questo senso si è svolto in varie direzioni. In primo luogo conferendo dignità costituzionale a diritti che prima rimanevano affidati alla legge ordinaria. Così, mentre lo statuto albertino garantiva solo le libertà della persona, del domicilio, della stampa, delle riunioni, ora la disciplina è stata estesa a numerose altre (di corrispondenza, art. 16; di circolazione, soggiorno e 241 espatrio, art. 16; di associazione, art. 18; di fede e di confessione religiose, art. 19 e 8; di insegnamento, art. 33, del diritto a non essere privati della capacità, della cittadinanza, del nome, art. 22). La garanzia costituzionale non è stata solo estesa, bensì anche qualitativamente trasformata perché alla pura e semplice riserva della legge, che prima assicurava le libertà predette, si è in molti casi sostituita una riserva rinforzata, rivolta a circoscrivere in precisi limiti la discrezionalità del legislatore. Inoltre il costituente ha escluso di norma che l’esercizio delle libertà essenziali di cui si parla possa essere condizionato al consenso preventivo delle pubbliche autorità. Ancora si sono concentrate nel potere giudiziario le potestà necessarie alla repressione dei reati, e conferito rilievo costituzionale ai princìpi che garantiscono la persona dei violatori della legge penale da ogni eccesso della reazione sociale contro di essi (art. 25-26). Si è poi avuto cura di inibire ogni restrizione all’esercizio del diritto di azione giudiziaria (specie se rivolta contro la pubblica amministrazione) nonché di quello della difesa in giudizio, che è stata resa possibile anche ai non abbienti (art. 24, 111, 113), ed altresì ampliata la protezione del singolo che abbia subito pregiudizio per opera dei pubblici funzionari, associando la responsabilità dello stato a quella di costoro. L’insieme veramente imponente delle menzionate garanzie, così organicamente ordinate fra loro, deve essere apprezzato non solo per il suo valore diretto di protezione della persona, ma altresì per l’influenza indiretta che la maggior parte delle medesime esercita sul buon esercizio delle libertà politiche, [anch’esse oggetto di una disciplina che ne assicura il pieno godimento a tutti (art. 48)] e quindi sulla funzionalità del complessivo regime democratico. L’effettività del godimento dei diritti di libertà ed i mezzi per assicurarla. - Meno felice deve ritenersi la normazione relativa all’uso dei mezzi attraverso cui alcune delle libertà ricordate possono, o devono (in caso di mezzo unico) esercitarsi. La consapevolezza dell’importanza che la disponibilità di tali mezzi assume, specie nei confronti delle libertà, come quella 242 di manifestazione del pensiero, che più direttamente condizionano la partecipazione dei singoli alla vita sociale, e che è confermata dal richiamo fatto al principio di effettività, non ha suggerito formulazioni suscettibili di conferire garanzie efficaci, ma solo vaghe enunciazioni, come quella dell’art. 21 che fa un generico rinvio ai vari mezzi di diffusione del pensiero, il cui uso può risultare, e da noi risulta, di fatto sottratto alla generalità dei cittadini, rimanendo i mezzi stessi concentrati nelle mani dei detentori del potere economico, o delle maggioranze che detengono il potere politico (215). In questo come in altri casi il costituente ha ritenuto di doversi affidare all’azione degli strumenti indiretti di pressione, cui fa riferimento il già ricordato comma 2 dell’art. 3 quando impone allo Stato di rimuovere le situazioni di grave disparità sociale che, perdurando, danno vita da una parte a privilegi e dall’altra alla privazione dei beni pure riconosciuti necessari allo svolgimento della personalità. Si è esattamente fatto rilevare (216) come il carattere polemico, di valutazione negativa del sistema dei rapporti sociali in atto, rivestito dalla norma ora ricordata, costituisca l’aspetto più originale della nostra costituzione e le conferisca il suo significato più pregnante. Tuttavia scarsa importanza pratica essa rivestirebbe se non trovasse svolgimento in disposizioni, armonicamente coordinate fra loro, rivolte, per una parte, a darle immediata concretezza, e per l’altra a specificare le direzioni verso le quali lo Stato deve avviarsi onde assolvere all’obbligo impostogli, consentendo o imponendo i comportamenti attraverso (215) Cfr. al riguardo ESPOSITO, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, 1958, 26 ss., che affronta anche il grave problema dell’ammissibilità della nazionalizzazione delle imprese relative ai mezzi di diffusione del pensiero, su cui la dottrina è divisa. (216) Soprattutto dal CALAMANDREI, Significato costituzionale del diritto di sciopero, in Riv. giur. lav., 1952, 16 ss. dell’estr.; ID., La Costituzione e le leggi per attuarla, in Dieci anni dopo, Bari, 1955, 310 ss.; e dello stesso Questa nostra Repubblica, in Il Ponte, 1956, 1634. 243 ai quali dovrà essere attuata la trasformazione dell’attuale assetto societario, onde giungere a tutelare in concreto l’uguale dignità dei cittadini e realizzare la sostanziale convergenza dei loro interessi nel « bene comune ». Applicazione dei princìpi ai diritti sociali ed alla loro attuazione per opera dello Stato. - Nella seconda parte, dedicata ai rapporti economici, e rivolta appunto a svolgere il principio ricordato, risiede l’elemento innovatore più significativo, che dà una propria fisionomia alla nostra costituzione. Il significato di insieme della disciplina dei rapporti predetti e così pure la congruenza della medesima rispetto al fine perseguito potrà meglio cogliersi dopo una succinta esposizione delle più importanti norme da cui essa risulta: norme che sono da distinguere secondo il loro contenuto, o più specificamente sostanziale o invece strumentale. Una volta rigettata l’adozione di un sistema economico di tipo collettivista e rispettata in via generale la proprietà privata dei mezzi di produzione, il costituente doveva preoccuparsi della pretesa della parte della popolazione, addetta alla produzione ma sfornita della disponibilità dei beni stessi, a ottenere un minimo di sicurezza, qual è data dalla possibilità di soddisfare ai bisogni inerenti alla qualità di persona. Anche pel raggiungimento di tale fine esso ha curato di perfezionare e di conferire dignità costituzionale al complesso di misure, in parte preesistenti, che, muovendo dalla constatazione della inferiorità della posizione dei lavoratori, tendono a correggerla mediante il conferimento a costoro di una serie di pretese rivolte alla protezione della loro integrità fisica, e che entrano a comporre la cosiddetta legislazione sociale (art. 36, 37, 38 e 41), ma ha poi innovato in modo radicale alla disciplina precedente in due direzioni: e cioè riconoscendo il diritto al lavoro (art. 4) e conferendo ai lavoratori la pretesa a collaborare alla gestione delle aziende cui siano addetti (art. 46). La critica fatta alla prima delle statuizioni richiamate, rivolta a contestarne il carattere giuridico, potrebbe ritenersi esatta solo a patto di astrarla dal complesso delle altre disposizioni che predispongono i mezzi sufficienti a rendere operante in con244 creto l’imperativo che l’art. 4 rivolge al legislatore, e che differenziano in modo sostanziale questo precetto da altri analoghi di costituzioni o del passato (come quella francese del 1848), o attuali (come per esempio il Fuero degli Spagnoli di cui alla legge fondamentale del 1945, a tacere del cenno contenuto nel Preambolo della cost. francese del 1946). Se è giusto ritenere inammissibile l’azione che fosse promossa dal disoccupato rivolta a ottenere un posto di lavoro, non può viceversa disconoscersi il suo diritto a far dichiarare l’illegittimità di quegli atti i quali facciano venir meno, senza nulla sostituire ad essi, i mezzi attualmente predisposti per favorire l’occupazione, o che comunque si palesino contrastanti con il precetto costituzionale, nonché l’altro diritto ad ottenere, in difetto dell’occupazione, le prestazioni assistenziali di cui al comma 2 dell’art. 38, che sono sempre dovute per tutto il periodo di disoccupazione. Queste infatti rivestono carattere di risarcimento pel mancato conferimento del posto di lavoro, realizzando così una conversione dell’obbligo di procurarlo, anche se poi non riescono a soddisfare in pieno l’esigenza posta dall’art. 4 perché, pur se giungessero a procurare il mezzo di sussistenza, non consentirebbero l’esplicazione delle capacità personali, che costituisce l’oggetto precipuo della norma in parola, e che è resa possibile solo con la prestazione del lavoro (217). L’attuazione dell’obbligo costituzionale richiede quindi allo stato una politica dell’occupazione, la quale non potrebbe in (217) Sono perciò da respingersi sia quelle interpretazioni dell’art. 4 che affermano che il disposto dell’art. 4 cost. si limita a garantire la libertà di lavorare (cfr. RICHARD, Il diritto al lavoro come fenomeno giuridico, in Riv. dir. lav., 1949, I, 70 ss.), sia quelle che attribuiscono a tale articolo mero carattere programmatico (cfr. PERGOLESI, Diritto costituzionale, Padova, 1959, 632; CROSA, Diritto costituzionale, Torino, 1955, 147); ed anche affermazioni sostanzialmente analoghe come quelle del BALLADOREPALLIERI (Diritto costituzionale, cit., 374), per il quale, « questa norma non produce di per sé alcun effetto, sino a quando non intervengano le leggi ordinarie a darvi esecuzione e ad emanare le necessarie disposizioni ». Più soddisfacente, pur senza giungere alla piena consapevolezza della forza del dettato costituzionale, è la conclusione al ri- 245 altro consistere (visto che il lavoro si paga con il ricavato della produzione) se non con il promovimento di un costante incremento della produttività: incremento che, una volta caduta la credenza in automatiche riequilibrazioni del mercato di lavoro capaci di contenere la disoccupazione nei limiti normali (stagionali, tecnologici ecc.), deve attendersi dagli interventi statali rivolti ad influenzare l’iniziativa economica dei privati. Il costituente ha ritenuto non più sufficienti a tal fine i mezzi indiretti, tradizionalmente affidati alla politica dei tributi, dei trattati commerciali, del credito, dei trasporti ecc. ed invece ha curato, con gli articoli da 41 a 44, di predisporne altri più diretti e ben più penetranti, i quali hanno a loro presupposto l’attribuzione di carattere funzionale alla proprietà ed all’iniziativa economica privata, e che si concretano nell’imposizione di limiti e di obblighi attinenti alle forme e modalità della gestione delle imprese. E poiché tali interventi non potrebbero riuscire adeguati ove non ubbidissero ad una veduta di insieme delle esigenze produttive da soddisfare e delle mete da raggiungere, sufficiente a coordinare le varie attività produttive fra loro e con quelle assunte dallo stato (sia nel campo dei lavori pubblici, sia in quello economico-industriale), l’art. 41 affida alla legge di ricorrere allo strumento a ciò più idoneo: la predisposizione di appositi programmi, cui è da attribuire carattere vincolante per i soggetti ai quali si rivolgono, secondo può desumersi dal riferimento fatto dall’articolo stesso ai controlli, evidentemente rivolti ad accertare l’adempimento di quanto il programma prescrive. Dallo guardo del Mazziotti (op. cit. 69) per cui «nei confronti dei soggetti privati il diritto al lavoro inteso in senso positivo esercita la sua efficacia esclusivamente come criterio d’interpretazione delle leggi e come norma per il buon uso del potere discrezionale». Per interpretazioni che, sia pure con svolgimenti in parte diversi, si inquadrano nella linea della soluzione esposta nel testo: cfr. GIANNINI M.S., La rilevanza costituzionale del lavoro, in Riv. giur. lav., 1949, I, 8 ss.; CRISAFULLI, La costituzione e le sue disposizioni di principio, cit., 145 ss.; NATOLI, Limiti costituzionali all’autonomia privata nel rapporto di lavoro, Milano, 1955, 53 ss. 246 stesso testo costituzionale si deduce inoltre come la legge possa, oltreché disporre programmazioni solo per singoli settori di produzione, estenderle ad un più vasto campo di attività produttiva, fino ad abbracciarla nel suo insieme quale si svolge in tutto il Paese, sempreché ciò sia richiesto dal fine di conseguire l’utilità sociale cui fa riferimento l’art. 41 suscettibile di realizzarsi attraverso quella più diffusa e più stabile occupazione che consegue all’incremento della produzione Non è possibile in questa sede esaminare in quale àmbito siano da contenere le prescrizioni dei programmi affinché riesca salvaguardato quel tanto di autonomia privata necessaria al mantenimento dell’economia di mercato (218). È piuttosto da mettere in rilievo come, nel caso l’esperienza rivelasse l’impossibilità, per determinati settori, di armonizzare le esigenze di pubblico interesse fatte valere dagli interventi statali con quelle di carattere privato rivolte al conseguimento del massimo profitto, deve ritenersi aperta la via ai provvedimenti espropriativi previsti dall’art. 43. È vero che questo li limita alle imprese di carattere monopolistico, o che abbiano ad oggetto fonti di energia, o servizi pubblici essenziali: ma l’elasticità di quest’ultima formula è tale da accostarla alquanto a quella dell’art. 156 della cost. di Weimar, che prevedeva il trasferimento in proprietà collettiva delle imprese suscettibili di socializzazione, e quindi da consentire l’estensione delle forme di gestione statale o collettiva a tutti i casi in cui queste dovessero palesarsi necessarie all’adempimento degli obblighi costituzionali (219). (218) Cfr. in proposito l’ampia indagine dello SPAGNUOLO-VIGORITA, L’iniziativa economica privata nel diritto pubblico, Napoli, 1959. (219) Nello stesso senso cfr. MOTZO e PIRAS, Espropriazione e «pubblica utilità», in Giur. cost., 1959, 209 ss.; FOIS, «Riserva originaria» e «riserva di legge» nei princìpi economici della Costituzione, in Giur. cost., 1960, 483 ss. Contra, attribuendo carattere tassativo all’elencazione data nell’art. 43 cost. SPAGNUOLO-VIGORITA, op. cit., 314; MAZZIOTTI, op. cit., 188; POTOTSCHING, I pubblici servizi, Padova, 1960, 47 ss.; CASSESE, Legge di riserva e articolo 43 della Costituzione, in Giur. cost., 1960, 1344. 247 L’interpretazione qui accolta di tali obblighi conduce a ritenere inesatta l’opinione che, muovendo dalla formulazione letterale dell’art. 41, è condotta a conferire valore preminente al suo primo comma, ed in conseguenza a considerare eccezionali i limiti ivi previsti, a negare carattere vincolante ai programmi, a circoscrivere nei termini più ristretti i casi di espropriazione (220). Sembra che tale opinione non tenga conto della gerarchia stabilita dalla costituzione fra i princìpi fondamentali e le norme particolari e trascuri di considerare il capovolgimento effettuatosi (come già si è messo in rilievo), nel rapporto lavoro-proprietà, la diversa posizione attribuita alle esigenze del lavoro, che sono appunto oggetto dei detti princìpi, rispetto a quelle della proprietà dei beni produttivi, la quale non è più compresa fra i diritti inviolabili della persona. Non potrebbe opporsi che il carattere di inviolabilità proviene alla proprietà privata dalla funzione ad essa inerente di garanzia dell’individuo rispetto all’onnipotenza che assumerebbe lo stato nel quale si concentrasse la gestione di tutta la produzione, poiché, anche se tale concentrazione fosse possibile – il che non è, dato che la costituzione prevede una molteplicità di forme di gestione – la garanzia che si ricerca dev’essere trovata nelle strutture organizzative dello stato, nelle forme democratiche che esse devono assumere. Ancora più importante è il rilevare come la garanzia che si vorrebbe derivare dalla proprietà privata sarebbe limitata solo ad una parte (e quella meno numerosa) della popolazione e come d’altra parte la stessa proprietà, quando assumesse proporzioni cospicue, sarebbe in grado di influenzare il potere politico in (220) V. in questo senso ESPOSITO, La costituzione italiana, cit., 184. Si potrebbe ritenere che il solo tipo di proprietà che sembra si sia voluta sottrarre alla eventualità della collettivizzazione è quella terriera, nei cui riguardi l’art. 44 prevede misure aventi ad oggetto una redistribuzione fra piccole e medie proprietà (ciò che in parte, e cioè limitatamente alla piccola proprietà trova riscontro anche nelle costituzioni socialiste, come in quella russa - art. 6 cost. 1936). 248 modo da deviarne l’azione a danno della parte della popolazione priva di beni (221). La costituzione non ha affidato ai soli mezzi che si sono finora menzionati [ed ai quali si deve aggiungere la riduzione delle grandi proprietà terriere (art. 44)] l’assolvimento del compito stabilito dal comma 2 dell’art. 3, poiché ha anche imposto (innovando pure per questo punto al sistema delle altre costituzioni occidentali del secondo dopoguerra che affidano la materia alla piena discrezionalità del legislatore) di effettuare redistribuzioni della ricchezza prodotta, non solo al fine di destinare la quota parte prelevata dallo stato a fini sociali, ma anche per limitare l’eccessivo accumulo di potere economico che, oltre ad accentuare le sperequazioni fra parte e parte della popolazione, tende come si è or ora accennato a trasferire il suo peso nella lotta politica alterando l’equilibrio delle forze che ad essa concorrono. Alla meta indicata sono rivolte le norme che prescrivono di informare il sistema tributario a criteri di progressività (art. 53), o di prelevare, sulle eredità, una quota destinata allo stato, secondo si desume dall’interpretazione sistematica dell’art. 42, che ha inteso fare di tale prelievo uno strumento, oltre che fiscale, più direttamente sociale, in applicazione del principio che conduce a considerare meno favorevolmente l’acquisizione di ricchezza non legata all’attività produttiva di chi ne beneficia. La riequilibrazione di posizioni sociali, oltre che alla riduzione del potere degli abbienti è poi affidata all’elevamento dei non abbienti forniti di naturali, cospicue capacità, perché ad essi debbono dischiudersi, a spese dello stato, gli alti gradi degli studi. Il disposto in questo senso dell’art. 34 comma 2 (221) Nel senso che la proprietà sia stata funzionalizzata e dinamizzata dalla costituzione, per cui essa ha un preciso valore strumentale in diretta correlazione con le esigenze fondamentali ed inviolabili del lavoro, cfr. PUGLIATTI, La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1954, 274 ss.; RODOTÀ, Note critiche in tema di proprietà, in Riv. dir. civ., 1960, 1252. Contra, MAZZIOTTI, op. cit., 180 ss. 249 cost. riveste straordinaria importanza, e se ne sarà data fedele attuazione, con l’impiego degli imponenti mezzi che questa richiede, varrà meglio di altre misure a realizzare l’imperativo sancito negli articoli 2 e 4 di assicurare lo sviluppo della personalità di ciascuno secondandone le naturali capacità, e potrà conferire una salda base al regime democratico, cui ripugna ogni incrostazione di potere, e che invece richiede una rapida circolazione delle élites, reclutate in tutte le classi sociali. Attuazione dei princìpi sociali per opera delle categorie economiche. Accanto ai mezzi affidati all’iniziativa dello stato, il costituente ha considerato quelli della contrattazione collettiva e dello sciopero che, consentiti alle associazioni operaie, rendono possibile l’autotutela di categoria necessaria a compensare la disparità di forze esistenti fra datori di lavoro e lavoratori. Senza indugiare sulla dimostrazione dell’impossibilità, nella situazione dei rapporti di forze quale si verifica nell’attuale organizzazione sociale, di fare intervenire al detto scopo uffici dello stato, né fermarsi sulle modalità predisposte dall’art. 39 per coordinare con il principio affermato della libertà sindacale l’altro dell’applicazione dei contratti collettivi a tutti gli appartenenti alle categorie, indispensabile per un’efficace difesa di costoro, è qui da porre in chiaro rilievo il travisamento che si opererebbe della volontà del costituente se si ritenesse consentito ai datori di lavoro l’uso degli stessi mezzi di lotta previsti per i lavoratori, come ha fatto la Corte costituzionale, quando ha interpretato l’art. 40 nel senso che esso conferisca al legislatore piena discrezionalità in ordine alla disciplina giuridica della serrata. Se non si sancisse l’illiceità penale di questo strumento di lotta si verrebbe a svuotare di efficenza l’art. 40, che invece deve considerarsi pietra angolare del sistema (222). (222) Vedi la sentenza 28 aprile 1960, n. 29 della Corte costituzionale in Giur. cost., 1960, 500 ed ivi le note diversamente orientate del Crisafulli, del Mazziotti, del Prosperetti. 250 Non è poi da tacere l’importanza che potrebbe assumere l’organizzazione sindacale ove all’opera di rivendicazione dei diritti dei salariati si affiancasse quella di formazione in costoro di una coscienza produttiva, allo scopo di facilitare l’attuazione del già ricordato istituto della cogestione operaia delle aziende produttive, che deve consentire l’apporto ad esse dello spirito di osservazione, delle attitudini critiche o creative che possono rinvenirsi in ogni lavoratore, e soprattutto realizzare una cooperazione fra i fattori della produzione tale da eliminare o attenuare il ricorso agli strumenti di lotta. Disciplina delle formazioni sociali. In particolare princìpi regolativi delle confessioni religiose. - Lo stesso spirito che informa di sé le norme sulle associazioni sindacali e vuole rivolgerle a promuovere, con l’ammissione del pluralismo sindacale e la prescrizione dell’ordinamento interno a base democratica, lo svolgimento della personalità dei singoli, si ritrova nella disciplina rivolta alle altre formazioni sociali: la famiglia, la scuola, le minoranze linguistiche, le confessioni religiose. In ordine a queste ultime è da porre in rilievo come l’uguaglianza giuridica ad esse garantita e la piena libertà loro conferita di costituzione e di funzionamento non deve ritenersi compromessa dalla posizione di privilegio di cui gode la Chiesa cattolica: posizione che trova la sua giustificazione (ma anche il suo limite), nel fatto dell’adesione al cattolicesimo di una gran parte dei cittadini, e che si concreta sia nel riconoscere validità per lo stato a determinati atti della Chiesa, sia nel consentire determinate esenzioni o prerogative a titolari dei suoi uffici, sia nel far concorrere in alcuni casi l’opera dello stato alla soddisfazione dei bisogni religiosi di gruppi di cattolici che si trovino in particolari situazioni (ad esempio, forze armate). Se quello indicato è il fondamento della condizione speciale fatta alla Chiesa di Roma, nulla se ne può dedurre che contrasti con il carattere laico da attribuire alla Repubblica italiana, la quale vuole rimanere aperta a tutte le correnti di opinioni e tutelare la libera espli251 cazione di ciascuna (223). La previsione contenuta nell’art. 8 cost. di leggi, da emettere sulla base di intese con singole confessioni diverse da quella cattolica, allo scopo di regolare i loro rapporti con lo Stato, fa ritenere che anche le attività di quelle fra tali confessioni, le quali, per i caratteri della loro organizzazione o per il numero dei fedeli, assumono di fatto una cospicua importanza, possono essere considerate suscettibili di venire utilizzate dallo stato per fini suoi propri, ed offre quindi la riprova del carattere di imparzialità in materia religiosa che si è inteso conferire all’ordinamento statale. Carattere che, come si è detto, dà anche ragione del limite entro il quale è da contenere la rilevanza attribuibile agli atti di autorità religiose, onde non ne riesca violato il principio dell’art. 3 che esclude ogni discriminazione fra cittadini nel godimento dei diritti fondamentali in ragione dell’appartenenza ad una o altra religione (224). Conclusioni sulla prima parte della Costituzione. - I lineamenti tracciati degli aspetti più caratteristici della prima parte della costituzione sembrano sufficienti a mostrare l’infondatezza delle tesi che, in tanto hanno potuto contestarne l’organicità raffigurandola quale mera giustapposizione di princìpi e di orientamenti diversi o addirittura confliggenti fra loro, in (223) Non si può non rilevare dall’esperienza di questi anni come da parte degli organi politici, amministrativi, giurisdizionali si sia troppo spesso forzato il dettato della costituzione, limitando la libertà e l’uguaglianza delle confessioni religiose diverse dalla cattolica ed alterando così la posizione di armonico equilibrio voluta creare dal Costituente. Ciò in parte legittima gli interventi polemici che si sono avuti in proposito e che coinvolgono, però inesattamente, nelle loro critiche lo stesso testo costituzionale. Vedi per tutti: BARILE, Concordato e costituzione, in Stato e Chiesa, Bari, 1957, 50 ss.; MAGNI, Concordato e Costituzione, in La libertà religiosa in Italia, Firenze, 1956, 30 ss.; CAPITINI e LACAITA, introduzione a Gli atti dell’Assemblea costituente sull’art. 7, Perugia, 1960, 15 ss. (224) V. per attenti svolgimenti al riguardo FINOCCHIARO, Uguaglianza religiosa e fattore religioso, Milano, 1958, 178. 252 quanto hanno trascurato le esigenze dell’interpretazione sistematica, e rigettato nel pregiuridico le enunciazioni poste dal costituente a base della sua costruzione (225). Si è visto invece come l’adozione di corretti canoni ermeneutici consenta di cogliere le linee direttive che riescono a collegare le varie parti in un sistema sufficientemente armonico, perché offrono i criteri necessari a graduare le norme secondo la loro diversa posizione gerarchica risolvendo così i dubbi che alcune norme, se isolatamente considerate, potrebbero far sorgere. Nulla in contrario sarebbe argomentabile dal rilievo (che fu fatto valere con riguardo alla costituzione di Weimar) della coesistenza nella costituzione di tre motivi ispiratori: il cristiano, il liberale, il socialista, poiché, se si prescinde dal fondamento dottrinale (o strettamente confessionale, o illuminista, o materialista) posto a sostegno rispettivamente di ciascuna delle ideologie, fatte apparire di volta in volta nel corso storico in polemica l’una rispetto all’altra, e si ha invece riguardo al nucleo dei valori più essenziali presupposti da ognuna, si scorge la loro sostanziale affinità, muovendo tutte dalla stessa esigenza della tutela e del potenziamento della persona, che trova la comune radice nel messaggio evangelico, nel quale persona e società sono collegati fra loro come due aspetti di una stessa realtà Intorno a questa ‘persona sociale’ si impernia il com- (225) È da osservare che tale valutazione negativa della costituzione quale coacervo di princìpi divergenti tra loro si è avuta non solo da parte di autori in posizione critica nei confronti dell’orientamento assunto dalla Costituente a tutela dei diritti sociali bensì anche da parte di scrittori profondamente sensibili alle esigenze di rinnovamento democratico di cui è portatrice la Carta del ‘48. Così MARANINI (Le istituzioni costituzionali, in Aspetti della vita italiana contemporanea, Bologna, 1957, 9) per il quale « il documento costituzionale non ebbe una sua organica coerenza, non contenne una scelta esplicita di fronte alle grandi alternative che i problemi della riorganizzazione costituzionale presentavano e previde anzi istituti che esprimevano idee contraddittorie e inconciliabili »; così il PIERANDREI e il BOBBIO (Introduzione alla Costituzione, Bari, 1959, 30) per i quali la vigente costituzione è « una costituzione liberale che ha ricevuto apporti vari e non sempre coerenti dalla dottrina sociale dei so- 253 plesso intreccio dei princìpi consacrati nella prima parte, i quali pertanto, lungi dal giustaporre fra loro individualismo e solidarismo, vogliono comporli nell’armonia richiesta da ciò che costituisce l’essenza di ciascuno dei due termini. Armonia che perciò trascende quella la quale viene fatta dipendere da provvidenze di carattere meramente assistenziale, o che viene ricercata solo con misure di redistribuzione della ricchezza prodotta, volendo essere invece costruita su un fondamento più saldo: qual è quello dato dalla possibilità garantita a ciascuno di una sua partecipazione ai vari settori di vita associata, in condizioni di libertà, di consapevolezza, di responsabilità. Vista in questo quadro, l’espansione dei poteri statali non solo non ripugna all’esigenza personalistica ma anzi può in determinate contingenze meglio soddisfarla, a patto che lo Stato sia costruito ‘a misura d’uomo’ rimanendo organicamente collegato con la società, onde trarre da essa, dai singoli e dai gruppi che la compongono, costante impulso alla sua azione. L’adeguazione delle strutture organizzative al sistema dei princìpi sostanziali. Difficoltà che essa presenta. - Si dovrà ora vedere se, e in che misura, sia riuscito al costituente di dar vita ad un’organizzazione corrispondente alla varietà di esigenze prospettata, e dotata altresì del dinamismo adeguato alle prospettive cialisti e dei cattolici ... una costituzione ispirata a ideali liberali, integrati da ideali socialisti, corretti da ideali cristiano-sociali »; così lo stesso CALAMANDREI (Cenni introduttivi sulla Costituente e sui suoi lavori, in Commentario sistematico alla costituzione italiana, I, Firenze, 1950, CXXIX ss.) per cui « il contenuto della Costituzione rappresenta in molte sue parti la risultante transattiva e forse provvisoria di concezioni contrastanti e di forze contrastanti ... la nuova costituzione sembra soprattutto ispirata a mantenere pur sotto la forma repubblicana, tutto quel che si poteva salvare delle vecchie istituzioni... Qua e là nella struttura politica di questa Repubblica si potrebbero rintracciare sparsi e commisti influssi risalenti al Cavour, al Cattaneo e perfino al Gioberti; ma nel campo sociale nulla di nuovo ». Ora tali atteggiamenti dottrinali, anche se spiegabili alla luce della grave situazione di inerzia politico-sociale che ha caratterizzato gli anni 254 di sviluppo da esso delineate, così da poter superare gli ostacoli opposti alla loro realizzazione dai rapporti di forza ancora esistenti e radicati nel vecchio assetto. Bisogna subito affermare che, se antinomie e contrasti sono da rilevare nel contesto della costituzione, esse attengono alla imperfetta adeguazione della parte organizzativa alle finalità cui dovrebbe informarsi. Ciò deve però considerarsi male che non si sarebbe potuto evitare, se si tiene conto, da una parte, del contrasto esistente fra le forze sociali, di cui il costituente dovè prendere atto, indicando le vie per superarlo senza poterlo però eliminare, e, dall’altra, dello scarso affidamento che nuovi congegni organizzativi avrebbero offerto ove ad essi si fosse dato vita senza alcuna esperienza della loro funzionalità e prima ancora della maturazione dei presupposti dai quali dovevano attingere validità. Le antinomie alle quali ci si è riferito si presentano sotto aspetti diversi, pur derivando da una stessa fonte. Uno di essi risulta dal contrasto che viene a verificarsi fra l’esigenza garantista (che conduce ad una integrale applicazione del principio della separazione dei poteri, al potenziamento dei freni e dei contrappesi, alla moltiplicazione dei controlli, e che, in una situazione di tensione fra le classi come quella attuale, appare sollecitata dal fine non già solo della tutela dei diritti dei singoli, bensì anche della prevenzione dal pericolo che le successivi all’entrata in vigore della Costituzione, appaiono però in una prospettiva storica negativi, giacché indirettamente ed involontariamente venivano quasi a legittimare l’azione di ritardo nell’attuazione costituzionale delle forze retrive, venivano ad annebbiare lo spirito di rivoluzione democratica, di polemica contro il passato ed impegno concreto per l’avvenire, che sorregge ed ispira tutta la Carta del ‘48 allorché la si consideri sistematicamente nella sua unità. Spirito che del resto il medesimo Calamandrei non ha mancato, in uno scritto successivo, di lumeggiare con tono incisivo: « disfattismo costituzionale e processo alla Resistenza sono due facce dello stesso fenomeno. La Costituzione infatti non è altro che lo spirito della Resistenza tradotto in formule giuridiche: il programma legalitario di rinnovamento democratico al quale si sono impegnati tutti gli uomini liberi ... ». 255 maggioranze detentrici del potere ne usino per rivolgerlo contro gli avversari, precludendo, con la possibilità dell’alternativa alla direzione dello stato, l’osservanza del metodo democratico), da una parte, e, dall’altra, quella che richiede per l’azione dello stato rivolta ai nuovi compiti assunti nel campo economico-sociale requisiti di tecnicismo, di rapidità, di stabilità, di concentrazione, quali non sono riscontrabili nelle istituzioni ereditate dagli ordinamenti di tipo liberale. Analogo contrasto deriva fra il bisogno di accentramento di una direzione unitaria che presieda alla manovra delle varie leve che sono nelle mani dello stato, e l’altro che invece esige il collegamento della direzione stessa con i gruppi o gli enti periferici, necessario non solo per impedire un accumulo di forza al centro suscettibile di volgersi verso forme dittatoriali, ma anche per dare concretezza all’azione del centro così da renderla aderente ai bisogni concreti e sottrarla al dominio della burocrazia. Altro aspetto dell’antinomia di cui si parla è quello che si presenta fra il potere giuridico attribuito agli organi statali dalla costituzione ed il potere reale, qual è assunto dai raggruppamenti germinati spontaneamente nel seno della società per l’impulso associativo promosso dalla convergenza degli interessi, e che sono condotti a far valere il peso di cui dispongono onde imporre la loro volontà allo stato. Così per esempio i partiti, sorti per dare un volto ed una voce alle masse degli elettori, sono venuti ad assorbire di fatto i poteri di decisione politica propri del Parlamento effettuando in sostanza una dislocazione delle competenze costituzionali, la quale si presenta particolarmente grave per la difficoltà di far valere nei confronti dei nuovi titolari delle competenze di direzione politica garanzie di rappresentatività, oppure di regolarità e di pubblicità nella formazione della loro volontà paragonabili a quelle realizzate per le assemblee parlamentari. Ancora più grave è la constatazione che le formazioni partitiche non riescono a far confluire in armonica unità gli interessi sociali che esse intendono rappresentare, poiché i più potenti fra tali interessi trovano in apposite organizzazioni au256 tonome il mezzo per premere o sui partiti stessi o direttamente sugli organi dello stato facendo prevalere sull’utilità generale quella di settore. La situazione risultante da siffatto pluralismo di centri di autorità, in nessun modo o malamente coordinati fra loro, è stata efficacemente rappresentata da chi l’ha designato con il termine di neo-feudalismo (226). Le costituzioni del primo dopoguerra intesero far fronte alla trasformazione avvenuta nell’ambiente sociale ed ai nuovi compiti che essa addossava allo stato, per un verso, conferendo rilievo costituzionale al principio della rappresentanza politica proporzionale, onde consentire che nelle assemblee legislative si riflettesse la varietà delle correnti e degli orientamenti derivata dall’eterogeneità prodottasi nel tessuto sociale, e per un altro, operando una « razionalizzazione » della disciplina tanto dei rapporti fra assemblea legislativa e governo, nell’intento di mettere quest’ultimo al riparo da crisi troppo frequenti (onde assicurare una qualche stabilità alla sua azione, secondo richiedeva la natura stessa dei nuovi compiti assunti), quanto di quelli fra i componenti del gabinetto onde conferire al suo capo una preminente funzione direttiva. Oltre i limiti della razionalizzazione, fino a deviare dallo schema tradizionale del regime parlamentare, si era poi spinta la costituzione di Weimar con l’accentrare nel Capo dello stato, che traeva un particolare prestigio dalla sua diretta derivazione dal suffragio popolare, una somma di poteri tali da farne un centro di autonoma azione politica. L’esperienza si è incaricata di mostrare la fragilità dei congegni escogitati nell’una e nell’altra direzione. Infatti i governi di coalizione, quali erano resi necessari dalla rappresen- (226) Sull'azione dei gruppi di pressione in Italia vedi le interessanti indicazioni di Onofri F. ed altri nella ampia ricerca svolta sul tema in Tempi moderni nel corso dell'annata 1960. Cfr. altresì LA PALOMBARA, I gruppi di interesse in Italia, in Studi politici, 1960, 11 ss.; e dello stesso La Confindustria e la politica in Italia, in Tempi moderni, 1961, n. 7. 257 tanza proporzionale, non potevano trarre garanzie di durata dalla disciplina del voto di fiducia, rimasta perciò inapplicata e sostituita dalla prassi delle crisi extra-parlamentari, mentre la funzione di remora all’instabilità governativa che si era creduto di affidare al Capo dello Stato doveva invece esplicarsi in una ben diversa direzione e condurre all’eliminazione del regime democratico (227). L’adozione della forma parlamentare. Disciplina dei rapporti tra Parlamento e Governo. Struttura interna dell’organo governativo. - Le costituzioni del secondo dopoguerra, pur in presenza di tale esperienza fallimentare, non poterono discostarsi di molto dai modelli offerti dalle precedenti perché gli eventi intercorsi fra i due conflitti, lungi dal consentire un qualche miglioramento della situazione la quale aveva resa ardua la soluzione del problema organizzativo dello stato, ne avevano operato un’involuzione. Ciò deve dirsi in special modo per la costituzione italiana che dovette essere elaborata in un clima di disfacimento, in un paese sconvolto dalla dittatura e dalla sconfitta militare, profondamente diviso per effetto dell’esasperarsi delle gravi sperequazioni fra le classi e le regioni già prima esistenti. Rimasta senza eco un’isolata proposta di adozione di un regime di governo presidenziale, e confluiti gli orientamenti di tutti i gruppi verso la forma parlamentare, un contrasto si determinò fra l’estrema sinistra che l’avrebbe voluta di tipo assembleare e gli altri settori che invece propugnavano l’introduzione di un sistema di freni atti ad impedire l’onnipotenza parlamentare, ma non tale tuttavia da dar luogo al dualismo che si sarebbe determinato ove si fossero fatti coesistere (227) Vedi in proposito i rilievi negativi del medesimo MIRKINE-GUETZÉ(il quale nel periodo intercorso tra le due guerre aveva con particolare vigore sostenuto la validità di tali congegni correttivi del parlamentarismo, coniando l’espressione « razionalizzazione » per indicare il fenomeno) nel saggio L’échec du parlementarisme « rationalisé », in Revue d’histoire politique et constitutionnelle, 1954, 99 ss. VITCH 258 più centri di direzione politica non coordinati né coordinabili fra loro. Pel conseguimento di siffatto intento si pensò di adottare un bicameralismo pienamente paritario, con derivazione di ciascuna delle due camere dalla diretta investitura popolare, mentre la differenziazione fra le medesime venne ricercata non solo e non tanto nella diversa durata o nelle diverse età degli elettori o degli eleggibili, quanto e soprattutto nella diversa base, nazionale per l’una regionale per l’altra. Rivolte ad operare nello stesso senso sono, per un lato, l’istituto dello scioglimento di entrambe le Camere per opera del Capo dello Stato, la cui iniziativa non è legata al verificarsi di condizioni che ne irrigidiscano l’esercizio, nonché quello del referendum popolare di abrogazione delle leggi; per un altro lato, la disciplina effettuata dei rapporti fra parlamento e governo, la quale, se si ispira al principio, proprio della forma parlamentare, del costante mantenimento del rapporto fiduciario fra i due organi quale deriva dal consenso prestato dal parlamento alla formazione del governo, vuole altresì conformarsi all’evoluzione resa necessaria dagli eventi prima ricordati, che ha condotto a modificare in parte la distribuzione dei compiti fra i due organi, ed ha correlativamente richiesto, insieme ad una più ampia autonomia del governo di fronte al parlamento, una maggiore concentrazione nell’esercizio del potere suo proprio. Deve essere notato come il costituente (che intenzionalmente ha evitato ogni riferimento all’equivoco termine di ‘potere esecutivo’), nell’atto stesso di potenziare la funzionalità del governo, ha avuto cura di distinguerlo dalla pubblica amministrazione, e ciò ha fatto allo scopo di mettere in rilievo come la funzione a questa propria di strumento per il concreto attuarsi dell’indirizzo politico emanante dal primo si esplichi nel rispetto delle forme legali ed in modo imparziale, secondo giustizia, a tutela dell’eguale diritto di tutti i cittadini ed a protezione più specialmente delle minoranze ostili al governo in carica, le quali altrimenti potrebbero trovarsi esposte all’arbitrio delle autorità che ne dipendono. La costituzione ha voluto preservare da tale pericolo imponendo una orga259 nizzazione amministrativa tale da renderla anch’essa strumento dello stato di diritto (228). Passando ai mezzi ai quali è stato affidato il compito di sottrarre la vita dei Governi a troppo frequenti mutamenti, è da notare come essi riecheggino in parte quelli caratteristici dei procedimenti ‘razionalizzati’ già menzionati, ma forse, se confrontati con altri di ordinamenti stranieri, coordinati con maggiore organicità. Sono fra essi da ricordare: il conferimento al Capo dello Stato tanto del potere di nomina del governo quanto di quello di accettazione delle dimissioni da questo presentate in seguito a voto di sfiducia, con la possibilità da parte sua di non accettarle e di procedere invece allo scioglimento di una o entrambe le camere; il condizionare il voto di sfiducia all’adempimento di modalità rivolte a preservarlo da manovre avventate; il consentire il mantenimento in carica del governo anche dopo che singole sue proposte siano state respinte dalle camere (art. 94). Altre misure, che pur si sarebbero potute escogitare allo scopo perseguito (come per esempio il richiedere una maggioranza qualificata pel voto di sfiducia, o l’adozione del cosiddetto ‘voto costruttivo’, qual è previsto dalla costituzione della Germania occidentale) solo in apparenza si presentano dotate di maggiore efficacia, dovendosi tener presente che il vantaggio della stabilità governativa non può farsi consistere nella permanenza in carica delle stesse persone bensì nella continuità di un medesimo indirizzo politico, e tale continuità può riuscire compromessa quando le proposte di legge formulate dal governo per l’attuazione del proprio indirizzo vengano sistematicamente respinte dalla maggioranza del Parlamento, resa (228) La posizione e funzione costituzionale della pubblica amministrazione è stata illustrata per primo e nel modo più perspicuo dall’ESPOSITO, Riforma dell’amministrazione e diritti costituzionali del cittadino, in La Costituzione italiana, cit., 245. V. anche gli scritti di BISCARETTI e LESSONA nei volumi collettanei Problemi della pubblica amministrazione, Bologna, 1958, 138 ss. e 1960, 28 ss. 260 impotente a rovesciare il governo ma capace invece di arrestarne l’azione. Quanto poi alla redistribuzione dei poteri fra parlamento e governo l’esigenza prospettata di attribuire a quest’ultimo il primato nell’attività politica, onde costituirlo in ‘comitato direttivo’ del parlamento, si è realizzata conferendo al suo capo la responsabilità dell’indirizzo e dotandolo dei poteri necessari all’adempimento di tale funzione. Questa non potrebbe efficacemente effettuarsi se non si consentisse al predetto, oltre alla iniziativa vincolante nella nomina e revoca dei componenti il gabinetto da lui presieduto ed a lui necessariamente legati da un rapporto fiduciario (art. 92 ultimo comma), nonché alla potestà di promuovere e coordinare l’attività di costoro affinché essa s’informi costantemente all’indirizzo politico generale (art. 95), anche la possibilità di esigere dalla maggioranza parlamentare che la funzione legislativa si svolga secondo le linee da lui tracciate. Appare infatti chiaro che l’indirizzo rimarrebbe sterile se non si collegasse ad esso la totalità degli interventi statali, quale che sia il loro contenuto, e che d’altra parte il Parlamento, una volta che abbia approvato il programma del Governo, non può non rimanere vincolato almeno alle linee generali secondo cui questo ritiene debba essere realizzato. Sulla disciplina dei rapporti fra Parlamento e Governo ha influito dannosamente, nel senso di precludere anche un timido avviamento verso nuove direzioni, il peso della tradizione che induceva ad assegnare a quest’ultimo il rango di « comitato esecutivo » del primo, peso aggravato dalla preoccupazione di evitare ogni ritorno a forme riecheggianti l’ordinamento fascista del Governo. È tuttavia da rilevare che il nostro costituente si è sottratto alle suggestioni della costituzione della IV Repubblica francese ammettendo, a differenza di questa, tanto il potere del Governo della decretazione di urgenza, quanto di quella delegata. La prassi non ha però utilizzato adeguatamente quest’ultimo istituto, che potrebbe, se fosse bene attuato, corrispondere alle esigenze dell’ampliamento verificatosi nell’attività normativa, ed anzi ha dato 261 luogo ad una esagerata accentuazione degli interventi del Parlamento in questa. Ciò è potuto avvenire in virtù dell’introduzione delle commissioni parlamentari deliberanti (art. 72), – del tutto ignote alle costituzioni contemporanee democratiche – che, oltre a facilitare l’inflazione dell’iniziativa parlamentare rivolta a soddisfare interessi di settore o di clientela, e ad essere meno facilmente controllabili dal Governo, con risultati perciò pregiudizievoli all’unità dell’indirizzo politico e finanziario, conducono all’incremento della produzione legislativa ed alla estensione della normazione primaria anche ai minuti dettagli, senza peraltro far raggiungere il vantaggio di una più accurata redazione tecnica, né quello del coordinamento delle norme dei singoli testi fra loro e con la restante legislazione. Più vantaggioso sarebbe stato restringere gli interventi del Parlamento, almeno nelle materie che non siano coperte dalla riserva assoluta di legge, alla determinazione delle statuizioni di maggior rilievo, affidando poi al Governo la normazione più particolare, da emettere nella forma delegata piuttosto che in quella regolamentare, e curando di far controllare da organi del Parlamento la fedeltà dell’esecuzione del mandato conferito alle linee direttive prefissate da quest’ultimo. Altra critica potrebbe formularsi (pur dando atto della difficoltà di provvedere nel senso qui messo in rilievo) in ordine al mantenimento della pienezza dell’iniziativa legislativa dei membri del Parlamento nella materia finanziaria: iniziativa che la ben nota trasformazione operatasi nella posizione dei medesimi dovrebbe condurre a sopprimere, come è avvenuto nel regime parlamentare inglese che meglio di ogni altro ha saputo adeguare il suo funzionamento alla situazione sopravvenuta. La Presidenza della Repubblica. - Se si passa ora a considerare l’ordinamento dell’istituto presidenziale non si può negare che esso realizza un felice equilibrio di esigenze diverse, così da differenziarsi tanto dai sistemi (come quello della IV Repubblica francese) che riducono la funzione del Presidente della Re262 pubblica a mero simbolo dell’unità dello stato, quanto dagli altri (sul tipo della costituzione di Weimar) che ne fanno un centro autonomo di direzione politica (229). Fatto eleggere dal Parlamento con l’integrazione dei rappresentanti delle regioni, per un periodo di tempo più lungo della durata della legislatura, sottratto ad ogni possibilità di revoca dalla carica e reso irresponsabile (salvo che per i reati di tradimento e di attentato alla costituzione) (art. 8, 5, 85, 90), il Presidente della Repubblica italiana è fornito di un complesso di poteri assai ampio che gli consente, non già di sovrapporre la propria volontà a quella degli organi cui compete la responsabilità dell’indirizzo politico, bensì di influenzare in modo non vincolante la loro attività, e ciò o con l’opposizione del suo veto alla emanazione degli atti legislativi o di governo che devono essere a lui sottoposti, nei casi nei quali egli li ritenga illegittimi o semplicemente inopportuni, sospendendone così temporaneamente il corso (art. 73), oppure con l’invio di messaggi alle camere onde segnalare l’esigenza di dare soddisfazione ad interessi tutelati dalla costituzione (art. 87), o ancora con l’esercizio del potere, che riveste maggior rilievo degli altri, di richiedere sulle crisi di fiducia che si verifichino fra Parlamento e Governo il responso popolare. Il Presidente può pertanto bene configurarsi quale quarto potere dello stato, a patto però di non equivocare sull’esatta sua portata, che è da intendere quale « potere di (229) L’istituto del Presidente della Repubblica è stato perciò giustamente uno dei temi più trattati dalla dottrina in questi ultimi anni ed anzi il motivo conduttore dell’indagine rivolta ad approfondire i caratteri della forma di governo attuata in Italia. Cfr., per tutti, GUARINO, Il Presidente della Repubblica italiana, in Riv. trim. dir. pubbl., 1951, 912 ss.; BARILE, I poteri del Presidente della Repubblica, ivi, 1958, 295. Sono perciò da valutare negativamente quegli atteggiamenti rivolti a riproporre di fronte al vigente ordinamento schemi legati ad un’esperienza costituzionale superata (vedi CROSA, Diritto costituzionale, cit., 328 ss.; CARBONARO, La incidenza delle attribuzioni presidenziali in relazione alla funzione legislativa e giurisdizionale, in Scritti in memoria di Calamandrei, IV, Padova, 1958, 159 ss.). Per una particolare, suggestiva, anche se non in tutto convincente, interpretazione del ruolo del Capo dello Stato nella Costituzione italiana, vedi ESPOSITO, Capo dello Stato, cit., 232 ss. 263 influenza », indirizzato in via prevalente ad assicurare il rispetto del metodo democratico. Se è esatta l’affermazione secondo cui gli interventi presidenziali operano in senso limitativo dell’azione affidata al binomio maggioranza parlamentare-Governo (230), è tuttavia da mettere in rilievo che fino a quando i due soggetti non sono divisi da dissensi, e fino a quando i loro atti non assumano carattere di reati rivestenti la natura di quelli imputabili al Capo dello Stato, gli interventi stessi, ove l’influenza morale che se ne potrebbe attendere non susciti alcuna eco, sono destinati a rimanere privi di ogni efficacia pratica. Sicché non può considerarsi aderente al diritto positivo l’opinione di chi attribuisce al Capo dello Stato un potere di indirizzo politico costituzionale, distinto dall’indirizzo politico governativo, e che dovrebbe avere la funzione di piegare quest’ultimo ai precetti della costituzione (231). Essa infatti, in quanto intenda affermare la sussistenza di poteri presidenziali diversi da quelli che si sono richiamati, darebbe luogo, se accolta, ad una duplicazione di orientamenti circa la condotta da imprimere all’attività dello stato che il costituente volle evitare. Pertanto al Capo dello Stato non si può chiedere che predetermini una linea generale informatrice dei singoli suoi interventi, né attribuire una competenza specifica alla prevenzione o repressione delle varie specie di infrazioni della costituzione, essendo per tali compiti predisposti altri organi. L’ordinamento della comunità sociale. La rappresentanza partitica. Germi di rappresentanza degli interessi. - L’esame compiuto del sistema dei poteri centrali dello stato dev’essere integrato con la considerazione sia delle forze sociali prese in considerazione dal costituente per la loro funzione di collegamento (230) V. in questo senso CRISAFULLI, Aspetti problematici del sistema parlamentare vigente in Italia, in Jus, 1958, 38 ss. (231) Opinione sostenuta con particolare decisione dal BARILE, I poteri del presidente, cit., 30. 264 con il popolo, e sia degli istituti di decentramento che li integrano e nello stesso tempo ne limitano l’azione. La costituzione italiana ha, per prima, dato consacrazione formale alla posizione che i partiti erano venuti assumendo di fatto, quali tramiti necessari di comunicazione fra base sociale e organizzazione statale, provocando nel funzionamento delle istituzioni politiche un mutamento di tale entità da indurre ad una rielaborazione della teoria delle forme di governo, nel senso di suddistinguerle in sottotipi alla stregua di criteri desunti dal numero dei partiti ammessi o operanti di fatto nell’ordinamento, dalla loro composizione sociale e dalle ideologie propugnate, nonché dal loro grado di compattezza interna. L’art. 49 dedicato ai partiti è stato collocato nella parte relativa ai diritti dei cittadini, il che sembra da approvare poiché in tal modo è stato bene messo in rilievo la funzione loro propria di rendere operante il diritto dei cittadini di esercitare un’influenza sulla determinazione della politica nazionale, non essendo essa possibile se ai sentimenti ed alle aspirazioni di costoro non si desse il modo di riconoscersi e di ordinarsi in sintesi politiche idonee ad influenzare la volontà dello stato. Il compito così assunto dai partiti fa sorgere due ordini di problemi: il primo riguardante la loro organizzazione interna affinché essa sia tale da consentire la partecipazione degli iscritti alla funzione loro affidata, gli altri attinenti ai rapporti esterni con gli altri partiti e con lo stato. Quanto al primo, pur dovendosi riconoscere in via di massima l’esigenza che la struttura partitica si informi a princìpi democratici, è da escludere tuttavia che sulla base delle norme costituzionali possa la pubblica autorità sindacare il modo dello svolgimento dei rapporti interni fra l’associazione ed i propri soci, dovendosi ritenere limitati i suoi interventi solo nel senso di garantire la piena libertà dei singoli di dar vita ad ogni specie di formazioni politiche, di impedire ogni coazione anche indiretta rivolta ad indurre alla iscrizione o ad ostacolare l’esodo, o di sottoporre a critica il loro operato senza incorrere in alcuna sanzione. Inducono a tale opinione tanto argomenti esegetici, 265 desumibili dal silenzio serbato dall’art. 49 sul punto della democraticità interna (particolarmente significativo per il fatto del rigetto degli emendamenti che tendevano alla disciplina di tale punto), nonché dal confronto con l’art. 39 (che espressamente fa obbligo per i sindacati dell’osservanza di detto requisito), quanto considerazioni desunte dalla mancanza di qualsiasi disciplina relativa alle procedure da adottare per gli interventi repressivi di attività contrastanti con le esigenze della democraticità interna, nonché dalla difficoltà di provvedervi in modo da prevenire il pericolo che di essi si giovino i partiti detentori del potere per combattere ed eliminare quelli avversari. È stato poi giustamente osservato come, nell’attuale clima politico di grave tensione fra le classi ed i gruppi politici che ne sono esponenti, un certo grado di autocrazia si rende necessaria onde conferire ai partiti l’efficienza adeguata ai bisogni della competizione (232). Nessun dubbio sorge invece in ordine ai rapporti dei partiti fra loro, essendo l’esigenza del mutuo rispetto richiesta, prima ancora che dalla testuale disposizione dell’art. 49, dalla struttura stessa del regime che si svolge attraverso il ritmo dell’alternativa al potere delle forze di volta in volta ad esso pervenute in virtù del libero responso popolare. L’assunzione dei partiti all’esercizio di potestà statali che così si compie dà luogo ad una specie di unione personale, facendo assumere ai titolari dei medesimi che ne sono investiti la duplice qualità di esponenti di partito e di preposti a cariche pubbliche, e con essa, il vincolo ad una doppia fedeltà. Al problema che così sorge deve intendersi rivolta la statuizione del divieto di mandato imperativo contenuta nell’art. (232) Per più ampi svolgimenti cfr. MORTATI, Note introduttive ad uno studio sui partiti nell’ordinamento italiano, in Scritti per Orlando, Padova, 1957, 127. Cfr. anche l’approfondita trattazione (con conclusioni parzialmente contrarie a quelle esposte nel testo) di ESPOSITO, I partiti nella Costituzione italiana, in La Costituzione italiana, cit., 244 ss., nonché CRISAFULLI, MARANINI, RESCIGNO ed altri, Il controllo democratico dei partiti e dei sindacati, in Studi politici, 1960, 255 ss. 266 67, il quale pertanto non è da ritenere, come vorrebbe una opinione diffusa, mera sopravvivenza storica, conservando invece la funzione di salvaguardare la libertà dei titolari di cariche elettive, in quanto consente loro di sottrarsi alla disciplina di partito allorché richieda comportamenti che sono sentiti come ripugnanti alla loro coscienza civica, senza che ciò influisca sul mantenimento delle cariche stesse, secondo sarebbe richiesto dalla logica del sistema proporzionalistico. Il fenomeno già rilevato della progressiva espansione dell’impulso associativo nei gruppi portatori di interessi sociali ha fatto sorgere il problema della convenienza per lo stato di prenderne atto, di utilizzarlo al fine di arricchire l’attuale rappresentanza politica di tipo partitico, mettendole accanto una rappresentanza degli interessi organizzati attraverso i gruppi predetti. L’immaturità dei tempi ha però consigliato di rinunziare al tentativo di sperimentare siffatte forme di integrazione degli istituti rappresentativi con carattere deliberante ed ha indotto ad adottare una soluzione di ripiego, qual è quella che si è concretata con la formazione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (art. 99), organo questo composto di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura corrispondente alla importanza numerica e quantitativa delle medesime, ed abilitato a funzioni, per ora modeste, di iniziativa legislativa, di consulenza, di normazione secondaria; funzioni divenute in pratica ancor più limitate per effetto della legge che, nel regolarle, non ha fatto menzione dell’ultima. Ciò che ha contribuito, insieme al carattere non elettivo conferito all’organo, a depotenziarne la già debole posizione ad esso attribuita dal costituente, forse indotto a ciò dalla prova fallimentare che era stata data dal più pretenzioso ‘Consiglio economico del Reich’, previsto dalla costituzione di Weimar. La lezione dell’esperienza conferma la difficoltà di dar vita a efficienti istituti di rappresentanza degli interessi quando sussista un’organizzazione della produzione di tipo privatistico, e quando nel seno dei fattori che vi intervengono si agitino contrasti di fondo che sono espressione di un processo in corso di accentuata trasformazione sociale. 267 Il decentramento regionale. - L’innovazione che meglio di ogni altra avrebbe dovuto, nell’intento del costituente, condurre ad un sostanziale mutamento dell’intera struttura statale deve considerarsi il decentramento su base regionale. Tale risultato si sarebbe dovuto raggiungere in primo luogo con il conferimento alle regioni, formate sulla base del suffragio universale, di un’ampia competenza normativa ed esecutiva, esercitabile in piena indipendenza, assicurata da un’efficiente autonomia finanziaria e preservata da ogni tentativo di invasione da parte dello stato in virtù del ricorso contro di esso alla Corte costituzionale; secondariamente con l’attribuzione agli enti stessi di alcuni compiti influenti sull’organizzazione costituzionale dello stato (concorso nell’elezione del Capo dello Stato, iniziativa del referendum abrogativo, o di leggi del Parlamento), e ancora con l’utilizzazione delle circoscrizioni regionali per la formazione della seconda Camera: ciò che avrebbe potuto offrire (ove si fosse fatto ricorso ad adeguati congegni elettorali) l’elemento più rilevante di differenziazione fra le due Camere, e nello stesso tempo costituire un fattore efficace di migliore collegamento fra lo stato ed i grandi nuclei di vita locale. Il costituente, nell’attribuire alle regioni competenze più o meno estese secondo il tipo di autonomia consentita (più ampia per le isole o per le zone di frontiera mistilingui), mentre ha reso possibile l’adattamento alle esigenze locali, assai varie da parte a parte della penisola, dei princìpi dell’ordinamento o delle leggi statali, effettuabile sulla base degli orientamenti politici predominanti di volta in volta in ciascuna regione, non ha tuttavia trascurato di salvaguardare il bisogno di direzione unitaria, particolarmente avvertita negli stati moderni (e che ha visto negli stessi ordinamenti federali l’accrescimento dei poteri dello stato centrale), e ciò mediante la predisposizione di una serie di limiti suscettibili di arrestare l’attività della regione quando essa si ponga in contrasto con la direzione stessa. Pertanto la riforma regionale, ove se ne colga esattamente lo spirito da cui fu animata e venga attuata con idonei strumenti, lungi dal depotenziare l’azione statale, dovrebbe con268 durre a renderla più rapida ed efficiente, concentrandola nei compiti di portata più generale, e nello stesso tempo arricchendola dell’iniziativa e degli impulsi provenienti da una ricca ed intensa vita locale, quale è resa possibile dalla più diretta, informata, responsabile partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica. Contributo di particolare efficacia potrebbe poi provenire dall’istituto regionale allo svolgimento, in senso democratico, dell’attività di programmazione economica, onde renderla più aderente alle situazioni di fatto e meglio assicurandone il rendimento (233). Il sistema delle garanzie costituzionali. - Il vasto disegno organizzativo tracciato dalla costituzione, che l’esame compiuto ha fatto apparire bene armonizzato nelle sue grandi linee, trova la sua integrazione in un sistema di garanzie più ampie e meglio articolate di quelle che ebbero a caratterizzare in passato lo « Stato di diritto ». Così, in radicale contrapposizione alla flessibilità dello statuto albertino, si è conferito carattere rigido alla costituzione (art. 138), onde preservarla da facili mutamenti da parte di effimere maggioranze parlamentari, ma si è anche affermata in modo solenne l’esigenza di sottrarre alla revisione il nucleo di princìpi (come quelli riguardanti i diritti fondamentali o la forma repubblicana - art. 2 e 139) che, caratterizzando il tipo di stato, non potrebbero venir meno se non trascinando con loro nella rovina l’intero sistema costituzionale. Ancora più rilevante è l’innovazione recata con la sottrazione al giudice ordinario del potere di accertamento della co- (233) È da rilevare come una politica del piano possa assumere un’importanza che va al di là dei fini più strettamente economici perseguiti perché, ove venga effettuata con il concorso bene organizzato, oltreché dei nuclei regionali, anche di altri organismi rappresentativi di forze sociali (sindacati, enti cooperativistici ecc.), giova a limitare, coordinandole attraverso una diretta valutazione comparativistica, le spinte degli interessi frazionari e settoriali che, come si è visto, premono sullo stato onde captarne a proprio favore gli interventi. V. per un recente svolgimento di tale punto di vista GALLONI, Stato democratico e stato di diritto, in Questitalia, 1962, I, 22 ss. 269 stituzionalità delle leggi e la sua attribuzione ad un nuovo organo, la Corte costituzionale, posta in una posizione di assoluta indipendenza, formata in modo da far presumere il possesso nei suoi componenti, oltre che di idoneità tecnico-giuridica, di viva sensibilità costituzionale, e fornita della potestà di emettere sentenze di annullamento di leggi ritenute incostituzionali con efficacia erga omnes. Spettano poi alla Corte, oltre che la funzione di garantire il rispetto delle sfere di competenza assegnate rispettivamente allo stato ed alle regioni, anche altri compiti, come la decisione sulle accuse penali contro il Presidente della Repubblica ed i ministri, nonché la risoluzione dei conflitti di competenza fra i supremi poteri dello stato. Compiti questi ultimi d’indole più spiccatamente politica, dato il largo margine di discrezionalità lasciato dalle norme disciplinanti tali materie. L’influenza che deriva alla Corte dalla natura ed estensione delle sue competenze potrà riuscire benefica se varrà a suscitare nel Paese quella coscienza e sensibilità costituzionali di cui esso è scarsamente dotato, e che pure costituisce il primo e più saldo fondamento di ogni libero regime, e se, correlativamente, la sua giurisprudenza saprà non ostacolare, ed anzi, nella misura ad essa possibile, dare impulso alla progressiva attuazione dello spirito innovatore latente nella costituzione. Integra il sistema delle garanzie un altro organo di nuova istituzione, il Consiglio superiore della magistratura, competente a deliberare su tutti i provvedimenti riguardanti il reclutamento e la carriera dei giudici della giurisdizione ordinaria, indirizzato al fine di preservare costoro da ogni pericolo di interferenza da parte degli altri poteri, legislativo ed esecutivo, e di realizzare così più efficacemente il presupposto di una adeguata tutela dei diritti dei cittadini. Tale organo trae particolare prestigio, oltre che dalla sua assunzione a dignità costituzionale, dalla presenza del Capo dello Stato che lo presiede. I princìpi regolativi dei rapporti con l’ordinamento internazionale. - Il costituente infine non poteva rimanere insensibile al moto storico che conduce ad una progressiva attenuazione del principio della sovranità dello stato e ad attuare una più intima compe270 netrazione fra il suo ordinamento interno e quello internazionale. Essa si manifesta sotto due aspetti: il primo attiene all’accrescimento delle garanzie di inviolabilità dei diritti fondamentali della persona, quale si consegue rendendo possibile ai singoli (i quali vengono così progressivamente assumendo una posizione in certo senso assimilabile a quella di soggetti di diritto internazionale) di proporre innanzi ad istanze supernazionali le proprie doglianze contro le violazioni di tali diritti, quando i mezzi sperimentati nell’ordinamento interno non sono valsi a reprimerle. Il secondo aspetto riflette la tendenza che va diffondendosi negli stati moderni all’attuazione di un regime di solidarietà fra essi e si esprime con l’attribuzione di efficacia vincolante nel diritto interno alle norme generali di diritto internazionale ed ancora nel consentire altre limitazioni di sovranità, quali sono rese necessarie ad assicurare una pacifica convivenza fra gli stati su una base di giustizia (art. 10-11). Lo svolgimento per ultimo menzionato conferma la volontà di attuare il principio democratico in tutte le sue implicazioni, secondando la tendenza espansiva che lo contrassegna e che conduce, da una parte, a tutelare l’uomo più intensamente del cittadino, anche a costo della rinuncia a qualcuno degli attributi della sovranità statale, e, dall’altra, a riaffermare nei rapporti fra i popoli quegli stessi valori di reciproco rispetto e di solidarietà fatti valere nei confronti dei singoli. Conclusioni sulla forma di Stato. - Il quadro tracciato dei principali orientamenti costituzionali ha mostrato come essi, visti nelle loro linee più generali, siano espressione di una concezione unitaria. Se pure è vero che la Carta repubblicana è il risultato di un compromesso (come del resto avviene per ogni costituzione di regimi non totalitari), non è meno vero che essa non ha assunto solo il valore di patto di garanzia fra parti contrapposte rivolto a sottrarre ciascuna dal pericolo di sopraffazione per opera delle altre, poiché ha invece voluto esprimere con sufficiente chiarezza ed univocità un’esigenza di rinnovamento del sistema dei rapporti associativi, poggiante su un fondo di idee comuni ai gruppi più rappresentativi dell’assemblea. Sicché, se 271 si fa riferimento a tale piattaforma, lo stato cui la Carta ha dato vita deve definirsi, oltre che garantista e democratico per la sua derivazione dal suffragio universale, ‘popolare’, intesa tale espressione in un senso specifico che vuole indicare tanto l’omogeneità della base sociale (da conseguire in virtù della piena attuazione del principio personalistico) quanto la sua strutturazione pluralistica e decentrata rivolta a realizzare nei vari momenti della vita statale, la presenza attiva di ogni forza sociale. Vicende del procedimento di attuazione della Costituzione. - È però subito da aggiungere che, se l’assenso dato all’affermazione dei princìpi costituzionali messi in rilievo fosse da valutare alla stregua dell’esperienza maturata successivamente alla loro entrata in vigore, sarebbe da presumere che sussistevano in parecchi di coloro che ebbero a darlo molte riserve mentali e di conseguenza ritenere che i troppo frequenti rinvii alla legge da parte del costituente, più che significare il proposito di una loro attuazione graduale, corrispondessero al sottinteso di rinviarla sine die (234). Si spiega come, una volta fallito il tentativo di far deliberare dalla stessa Costituente alcune delle principali riforme di struttura da essa previste, e rimaste pertanto immutate le precedenti posizioni di potere, particolarmente efficienti in una società contraddistinta da accentuate sperequazioni fra le classi e le regioni, dovessero inevitabilmente prevalere le resistenze ad ogni mutamento dal quale fosse da temere un indebolimento delle posizioni medesime. È così avvenuto che, mentre le gravi disuguaglianze alimentavano nei ceti che le subivano movimenti di sovversione, l’esistenza di questi ultimi veniva invocata dagli altri a giustificazione del ritardo nell’attuazione degli imperativi costituzionali; mostrando così di obliare che proprio ad evitare tale circolo era stato dettato l’ultimo comma dell’art. 3. (234) cit., 216. 272 V. in particolare CALAMANDREI, La Costituzione e le leggi per attuarla, Il periodo nel quale più accentuata è stata la violazione dell’obbligo di osservanza della costituzione coincide con la durata della prima legislatura (1948-1953) nella quale si affermò il dominio del partito che aveva ottenuto nelle elezioni la maggioranza assoluta, e che lo esercitò senza incontrare alcun limite efficiente per opera dei piccoli partiti fiancheggiatori. Il proposito di perpetuare tale dominio suggerì la presentazione (d’accordo con questi ultimi) di una legge elettorale che prevedeva un elevatissimo premio di maggioranza a favore dei gruppi collegati i quali avessero ottenuto la metà più uno dei suffragi. Al fallimento di tale tentativo è connesso l’inizio di un nuovo corso, che, se pure in modo lento, incerto e tortuoso, ha rimosso la precedente situazione di inerzia ed ha consentito che alcuni degli istituti essenziali al funzionamento del nuovo stato venissero in vita. Ciò è avvenuto per la Corte costituzionale, che ha potuto tenere la sua prima memorabile udienza il 23 aprile del 1956; per il Consiglio superiore della magistratura, nonché per il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, sorti rispettivamente negli anni 1957 e 1958. Rimangono tuttavia inosservati altri obblighi, anch’essi inerenti a parti essenziali integranti il sistema di governo. La mancata formazione delle regioni a statuto ordinario crea una situazione di grave sperequazione rispetto alle altre già istituite; l’omissione della disciplina del referendum rende inapplicabile il procedimento di revisione che ne esige l’impiego, ed impedisce l’esercizio del potere popolare abrogativo di leggi, previsto come freno all’onnipotenza del Parlamento; ed altresì quella del riordinamento delle giurisdizioni speciali (fra le quali assume particolare rilievo il Tribunale supremo militare) perpetua assai dannosamente la situazione di carenza delle garanzie richieste dall’art. 102 di indipendenza e di idoneità delle medesime; mentre l’altra che riguarda l’ordinamento della Presidenza del Consiglio compromette l’efficienza e l’omogeneità tanto della funzione di direzione politica quanto di quella amministrativa (già pregiudicata quest’ultima dalla permanenza di strutture antiquate, del tutto inadatte ai nuovi tempi), nonché della stessa legislazione cui fa difetto il coordinamento di cui 273 abbisognerebbe, e che si svolge altresì con scarso rispetto per l’equilibrio del bilancio, in conseguenza della deficiente osservanza data in pratica all’art. 81 che avrebbe dovuto garantirlo. Non più soddisfacente si presenta poi il quadro che si offre quando si volga lo sguardo al modo come sono stati osservati i precetti rivolti a segnare nuove vie ai rapporti fra stato e cittadini. Mentre è rimasto in piedi (se si prescinde dalla legge sulla stampa votata dalla stessa costituente, da qualche modifica apportata al codice di rito penale, nonché dal rifacimento di alcuni articoli della legge di p.s. dopo che essi erano stati annullati dalla Corte costituzionale) tutto l’apparato restrittivo delle libertà civili ereditato dal vecchio regime, che appare sempre più pernicioso per lo sviluppo di una sana vita democratica, nessuna iniziativa si è presa nel senso di dare svolgimento ai princìpi relativi alla parità dei sessi, all’istruzione gratuita, alla estensione di questa, per i meritevoli, anche agli alti gradi degli studi, all’ordinamento sindacale, alla perequazione tributaria, all’incremento dell’occupazione. Passando poi ad esaminare il contributo dato dalla giurisdizione nel far valere i nuovi princìpi nella materia dei diritti, è da rilevare come quello dei giudici ordinari nel periodo anteriore alla entrata in funzione della Corte costituzionale sia stato molto oscillante; nelle linee generali, appare restrittivo in ordine all’esercizio delle libertà ed invece spesso più aderente allo spirito della costituzione per quanto riguarda i rapporti economici (235). L’avvento della Corte ha segnato una svolta importante nel processo di corrosione del vecchio ordine, avendo essa rivendicato pienezza di sindacato sulle leggi anteriori alla costituzione, e fatto in conseguenza decadere molte fra esse, mentre ha d’altra parte affermato il carattere precettivo vincolante dei principi fondamentali, sancendo, fra l’altro, la validità delle leggi di attuazione della riforma fondiaria. Un ostacolo al (235) BATTAGLIA, Processo alla giustizia, Bari, 1954 e dello stesso I giudici e la politica, Bari, 1962. 274 pieno spiegarsi del sindacato della Corte proviene dal sistema adottato, secondo cui rimane precluso ai singoli il potere di provocarlo in modo diretto, ed è invece affidato al giudice della controversia principale la pronuncia sulla fondatezza della questione di costituzionalità sollevata. Pronuncia che, mentre dalle magistrature di grado inferiore è formulata nel senso voluto dalla costituzione, di sommaria delibazione, è viceversa emessa da quelle più elevate previo approfondito esame del merito della questione stessa, e per giunta con criteri non sempre aderenti allo spirito delle norme costituzionali invocate a suo sostegno, ciò che conduce in pratica al risultato di limitare dannosamente gli interventi della Corte. Altra remora l’applicazione dei princìpi costituzionali, quali sono interpretati dalla Corte, incontra nell’inerzia che a volte il Parlamento oppone di fronte all’esigenza che vi sarebbe di colmare le lacune determinate dalle sentenze di annullamento, o comunque di coordinare con queste la restante legislazione (236). La constatazione di così numerose violazioni della Carta fondamentale, le carenze, i ritardi, le omissioni segnalate e tutte le altre che potrebbero aggiungersi non sono tuttavia sufficienti a far concludere per una involuzione dell’idea animatrice del movimento dal quale essa sorse. La vitalità della costituzione poggia sulla corrispondenza del nucleo fondamentale dei suoi princìpi allo spirito dei tempi, sulla sua consonanza con il moto suscitato in tutti i continenti da un irresistibile impulso di liberazione dai vincoli che tolgono all’uomo di essere pienamente se stesso; sicché non è a dubitare che forze sempre meglio agguerrite sapranno eliminare gli ostacoli sinora opposti al suo pieno svolgimento. (236) V. sulle prospettate difficoltà che la Corte incontra nel suo cammino l’efficace scritto di CRISAFULLI, La Corte costituzionale fra magistratura e Parlamento, in Scritti Calamandrei, cit., IV, 275 ss. 275 INDICE Anche l’allegoria di Guido Giuffrè . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 La giustizia, il lavoro, la pace (disegni) di Giuseppe Colombo Dalla Costituzione di Mortati alla Costituzione della Repubblica di Augusto Barbera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 La costituzione in generale di Costantino Mortati. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61 Il problema dell’origine e del fondamento della costituzione . . . . . . . . . . . Concetto generale di ‘costituzione’. . . . . . . . . . . . . . . . . . La costituzione dello Stato. Il concetto di costituzione nella sua prospettiva storica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Elementi costitutivi del concetto di costituzione . . . . . . . . . . . I vari significati attribuibili alla costituzione. . . . . . . . . . . . . . Fattori che promuovono lo studio della costituzione sotto l’aspetto giuridico. Determinazione dei problemi che ne sono oggetto . . Cenni sull’elemento primigenio dell’esperienza giuridica: norma o ordinamento?. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il problema della costituzione secondo il positivismo agnostico e quello critico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . In particolare, secondo il Kelsen . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Esame critico della concezione del Kelsen . . . . . . . . . . . . . . I fatti che operano in funzione di fonte dell’ordinamento . . . . . . Caratteri da attribuire a tali fatti. Vari modi di intendere il soggetto reale che dà vita alla costituzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . a) Le teorie della nazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . b) Le dottrine istituzionali francesi . . . . . . . . . . . . . . . . 61 61 63 69 71 78 82 85 87 89 91 97 100 103 279 c) Le dottrine istituzionali italiane . . . . d) Le dottrine istituzionali tedesche . . . Conclusioni dell’esame e ricostruzione . . . Esame delle obiezioni . . . . . . . . . . . . Rapporto fra le due costituzioni (sostanziale della costituzione normativa . . . . . . . . . . . e . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . normativa). Funzione . . . . . . . . . . . . 107 109 112 120 Costituzione formale e materiale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sulla possibilità di distinguere nel testo della costituzione fra norme costituzionali in senso materiale ed in senso solo formale . . . . . . . Opinioni che considerano sostanzialmente costituzionali solo le norme organizzative (di relazione). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Osservazioni critiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Opinioni che considerano costituzionali solo le norme di azione, e loro critica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La materia costituzionale e la graduazione di valore delle norme della costituzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Applicazioni di tale graduazione alla revisione delle norme della costituzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Altri casi di riferimento alla materia costituzionale . . . . . . . . . . 129 L’interpretazione della costituzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il problema costituzionale dell’interpretazione . . . . . . . . . . . . L’interpretazione delle norme costituzionali: influenza sulla medesima dei valori politici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Funzione dei princìpi generali dell’ordinamento . . . . . . . . . . . Fattori che ostacolano lo svolgimento unitario del sistema . . . . . 124 129 131 135 138 140 143 146 151 151 155 160 163 Il problema delle modifiche della costituzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . Rapporto fra stabilità e mutabilità della costituzione . . . . . . . . . Nozioni generali sulle varie specie di modifiche. Ordine della trattazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Requisiti necessari alla rigidezza della costituzione . . . . . . . . . . I vari tipi dei procedimenti di revisione . . . . . . . . . . . . . . . Le modifiche tacite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le rotture della costituzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le sospensioni della costituzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le modifiche consuetudinarie e convenzionali . . . . . . . . . . . . I procedimenti derogatori. La consuetudine . . . . . . . . . . . . . Le convenzioni della costituzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . Modifiche della costituzione e giurisdizione di costituzionalità. . . . 169 170 172 176 179 183 192 196 205 207 I limiti alle modifiche della costituzione e la continuità dell’ordinamento . . . . . Esame delle opinioni negatrici della esistenza di limiti . . . . . . . . 210 210 280 167 167 Classificazione delle varie specie di limiti . . . . . . . . . . . . . . I limiti assoluti e il loro fondamento . . . . . . . . . . . . . . . . . Criteri per la determinazione di limiti assoluti . . . . . . . . . . . . Il problema dell’influenza dei mutamenti costituzionali sulla permanenza dello Stato. Le tesi negative . . . . . . . . . . . . . . . La sopravvivenza di norme dell’ordinamento cessato . . . . . . . . Influenza della volontà dello Stato sulla continuità. . . . . . . . . . 213 215 219 223 228 232 La Costituzione italiana di Costantino Mortati. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I princìpi fondamentali della Costituzione e loro significato giuridico-politico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Applicazione dei princìpi in ordine alle garanzie delle libertà civili . L’effettività del godimento dei diritti di libertà ed i mezzi per assicurarla. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Applicazione dei princìpi ai diritti sociali ed alla loro attuazione per opera dello Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Attuazione dei princìpi sociali per opera delle categorie economiche Disciplina delle formazioni sociali. In particolare princìpi regolativi delle confessioni religiose . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Conclusioni sulla prima parte della Costituzione . . . . . . . . . . . L’adeguazione delle strutture organizzative al sistema dei princìpi sostanziali. Difficoltà che essa presenta . . . . . . . . . . . . . . . . L’adozione della forma parlamentare. Disciplina dei rapporti tra Parlamento e Governo. Struttura interna dell’organo governativo La Presidenza della Repubblica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’ordinamento della comunità sociale. La rappresentanza partitica. Germi di rappresentanza degli interessi . . . . . . . . . . . . . . Il decentramento regionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il sistema delle garanzie costituzionali . . . . . . . . . . . . . . . . I princìpi regolativi dei rapporti con l’ordinamento internazionale . Conclusioni sulla forma di Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Vicende del procedimento di attuazione della Costituzione . . . . . 237 237 240 242 244 250 251 252 254 258 262 264 268 269 270 271 272 281