Il gabbiano di Ä echov vola ancora grazie all

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Il gabbiano di ÄŒechov vola ancora grazie all'adattamento di
Carmelo Rifici
Giovedì 11 Febbraio 2016
Recensione dello spettacolo “Gabbiano”, adattamento e regia di Carmelo Rifici, prodotto
da LuganoInScena e LAC, Piccolo Teatro di Milano, Teatro Sociale di Bellinzona, andato in
scena al Teatro Alighieri per la stagione di prosa
Nella foto, Anahì Traversi in un momento di "Gabbiano"
Esistono dei temi, nella storia dell'arte e del pensiero, che emergono quasi per caso, all'improvviso, come delle venature
d'argento in una cava. Vengono scoperti, seguiti e sfruttati finché è possibile, e spesso finiscono per esaurirsi o cambiare
forma. Il tema del conflitto tra la vita del borghese e la vita dell'artista è soltanto uno di questi filoni ed ebbe un successo
straordinario: segnò di fatto il carattere dell'Ottocento letterario europeo.
Difficile – e forse inutile – rintracciare la prima apparizione di questa venatura. Accadde forse in terra francese, a metà secolo,
durante l'inizio di quell'avanguardia artistica che durò fino alla prima guerra mondiale. Accadde con lo spleen de I fiori del
male di Baudelaire, con quell'albatros catturato e deriso dagli uomini dell'equipaggio. Un pennuto che, come il gabbiano di
ÄŒechov, è la metafora di un mondo incompreso e inarrivabile per il borghese “comune”.
Accadde con Madame Bovary, il canto dell'insoddisfazione borghese per antonomasia, un monito – o forse la prefigurazione –
dei pericoli che si corrono scambiando le due forme di vita. E si potrebbe andare avanti ancora, passare per Dostoevskij e per
il suo ridicolo Stepan Trofimoviĕ Verchovenskij, o per Mann e il suo indimenticabile Christian Buddenbrook.
Nel Gabbiano ÄŒechov (e certamente la biografia qui c'entra qualcosa), s'appropria di questo tema e lo esaspera, fino a
mostrarne le ricadute psicologiche più segrete, fin quasi a farne una parodia, grazie ai suoi personaggi meschini e, a loro
modo, ridicoli.
La noia piccolo borghese di una tenuta agricola russa, sonnecchiante sulle rive di un lago, viene rotta dal ritorno di un'attrice
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di successo, l'egocentrica e fredda Irina Nikoaevna Arkadina (una perfetta Giorgia Senesi). Come un magnete Irina attrae le
invidie e le speranze di tutti gli altri personaggi; c'è suo figlio, Konstantin GavriloviÄ• Treplëv (Emiliano Masala, una parte
molto complessa e ben riuscita), che si macera d'invidia per la celebrità di sua madre, con un rancore che può derivare solo
da una grande mancanza di affetto; c'è la giovanissima Nina Michajlovna ZareÄ•naja (una bellissima e convincente Anahì
Traversi) che sogna di diventare attrice e recita in una commedia scritta da Treplëv, scatenando a sua volta le invidie della
stagionata Irina.
C'è il vecchio e malato Pëter NikolaevniÄ• Sorin (un simpatico Ruggero Dondi), fratello di Irina, che sogna di accompagnarla
in città per “vivere” e sfuggire alla noia della campagna; c'è lo scrittore famoso Boris AlekseeviÄ• Trigorin, compagno di Irina,
venuto per riposarsi sulle rive del lago, che finirà per perdere la testa per la giovane Nina, personaggio affidato alla recitazione
di Fausto Russo Alesi, che ha perfettamente equilibrato l'ossessività del personaggio all'apparente calma di superficie, il più
alto capolavoro di ÄŒechov in questa pièce.
C'è infine una ridda di altri personaggi la cui psicologia viene esposta impietosamente e magistralmente dalla penna di
ÄŒechov, come il bisturi durante l'autopsia (l'anziano Šamraev trombonesco, Antonio Ballerio; la sconsolata Polina
Andreevna, Marìa Pilar Pérez Aspa; la deprimente Maša, Mariangela Granelli, e l'insignificante maestro Medvedenko, suo
compagno, Igor Hovart).
Raccontare nella sua complessità il pezzo di ÄŒechov sarebbe inutile; e impossibile è comprimere uno spettacolo di 2 ore e
50 minuti in un articolo striminzito. Basti accennare alla sua struttura portante. Da una parte abbiamo le relazioni insincere e
ciniche che legano questi personaggi tra loro, che li avvinghiano come ragnatele: si tratta delle piccinerie e delle grettezze
tipiche di un mondo materialista, incapace di idealismi (rappresentato da Evgenij Sergeeviĕ Dorn, il medico della tenuta
agricola, Giovanni Crippa); dall'altra abbiamo il lago, i gabbiani, il mondo naturale – che nell'intelligente gestione dello spazio
scenico, opera di Carmelo Rifici, coincide con la platea, e quindi col pubblico.
Un mondo silente, che non ha parti e che non può intervenire attivamente nel dramma, ma che ne decide in realtà le sorti in
modo indiretto: i personaggi sono attratti dal lago come narcisi, la sua umidità sembra disturbarli, come viene detto spesso
durante lo spettacolo. Ma sono in realtà disturbati da loro stessi: rispecchiarsi nell'acqua del lago significa riconoscere la
propria insignificanza, la mancanza di talento, il naufragare dei sogni.
Allo stesso modo, il gabbiano che viene ucciso da Treplëv e offerto in dono alla giovane Nina, l'animale che dà il nome alla
pièce, rappresenta col suo sacrificio il rifiuto borghese di una vita artistica che viene disprezzata, per il resistere inconscio
delle vecchie convenzioni, ma che segretamente attrae, portando alla frustrazione dei sogni di gloria.
Con la sua regia e il suo adattamento Rifici riesce nell'arduo tentativo di sostenere il testo di ÄŒechov: esalta le parti più ilari,
stempera quelle più drammatiche, non cede spazio alla noia e spesso lascia allo sguardo dello spettatore la libertà di vagare
per la scena, libero di registrare quei movimenti appena accennati, le occhiate e i silenzi che, almeno quanto le parole,
contribuiscono a delineare un personaggio.
La musica, eseguita dal vivo dal talentuoso Zeno Gabaglio, spesso affidata alle note malinconiche e borbottanti di un
violoncello, svolge egregiamente il suo ruolo di contrappunto al testo; l'impianto luci (Jean-Luc Chanonat) i costumi
(Margherita Baldoni) e soprattutto le scene (Margherita Palli), trasmettono bene l'atmosfera asfittica del testo di ÄŒechov.
Ci sono infine le licenze di questo adattamento, che aggiornano la semantica di un testo nato più di un secolo fa, facendolo
dialogare con fenomeni contemporanei. Grande intuizione, ad esempio, quella di tramutare l'originaria commedia ultrasimbolista di Treplëv, nata per “scardinare le convenzioni”, in una parodia esilarante del teatro cosiddetto “sperimentale” di
oggi; tra urla, piume sintetiche, occhiali fosforescenti, scritte al led, musiche elettroniche e gli immancabili, irrinunciabili,
insopportabili fumi di scena.
O ancora, particolarmente efficace la scelta finale di fare urlare all'unisono il verso del gabbiano a tutti gli attori; un altro modo,
forse ancora più potente, di raffigurare lo scherno borghese per un mondo incompreso, il disprezzo verso ciò che non si può
comprare.
Visto al Teatro Alighieri il 10 febbraio 2016
Iacopo Gardelli
Moderato Cantabile
Commenti
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Ho assistito ieri sera a questo spettacolo!!E ammetto la mia totale ignoranza su Cechov!!Leggendo la recensione di
Gardelli..mi sembra di aver assistito ad un altro spettacolo!! Mea culpa..mi sono annoiato ed è stata dura arrivare alla fine di
quasi 3 ore di spettacolo!!L'unica cosa positiva le scene della Palli!!!11/02/2016 - bilancia
Dopo un’ora e mezza mi sono arresa, non ce l’ho fatta e me ne sono andata. Nonostante fosse la prima sera a
Modena, il teatro era quasi vuoto (metà platea e tutti i palchi vuoti). Vado a teatro quasi tutte le settimane, sono aperta a ogni
novità . Ma quello spettacolo era sconnesso, sfilacciato, noioso, ripetitivo. Non ho percepito nulla dei personaggi, nessun
tratto psicologico, se non qualche elemento esplicitamente e forzatamente descritto. Nessuna relazione tra i personaggi,
insomma, la noia assoluta. Scenografia scarsa. Mi stavo letteralmente per addormentare. Ogni tanto mi risvegliavano le urla
stridula di un’attrice dalla voce piuttosto sgradevole. Belli i vestiti, nulla da dire. Belli anche gli attori, e in alcuni casi pure
bravi. Ma che spreco. 12/02/2016 - Emanuela
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