ISTRUZIONI PER CURARE IL DOLORE DELL’ANIMA NUOVE TERAPIE «Una volta dimesso il paziente psichiatrico non può essere lasciato solo». Con questa filosofia è nata Redancia, galassia che raccoglie 18 comunità e appartamenti protetti. E dove si mette al centro la persona, non la malattia Lo psichiatra Michele Solari, fondatore di Redancia, con un paziente della comunità Crogiuolo Villa Caterina. di Bettina Bush Foto Giuliano Koren D 158 3 MARZO 2012 D 159 atteo vedeva le persone attraverso uno spazio che non era fatto di aria trasparente, ma di un muro d’acqua che rendeva le immagini lontane, poco definite, e soprattutto poco presenti. Si sentiva in fondo a una piscina, senza nessuno che potesse entrare in contatto con lui. Cercava una mano che lo tirasse fuori, che rompesse quella barriera di densa trasparenza. Solo dopo Matteo ha saputo che quella sensazione di distacco e di assenza aveva un nome, e che la derealizzazione era uno dei tanti sintomi del suo malessere. Tutto era cominciato qualche anno prima: un piccolo fastidio agli occhi, qualche macchia che girava rendendo difficile qualsiasi attività. Ma la risposta dei medici era sempre la stessa: nessun problema fisiologico, gli occhi di Matteo erano perfettamente sani. Dopo è arrivata una delusione sentimentale: per alcuni sarebbe stato un piccolo incidente di percorso, per lui il crollo totale. Le macchie sono diventate ingestibili, ma finalmen- M «No al rientro in famiglia, il luogo delle dinamiche negative. Meglio puntare su una controllata autonomia» te avevano un nome, scotomi. Intanto la derealizzazione cresceva: quella maledetta piscina lo stava inghiottendo come un buco nero. Poi, finalmente, è arrivata la mano che lo ha stretto, ed è cominciato il suo percorso salvifico. Una strada non facile, ma almeno Matteo non si sentiva più solo, aveva trovato un posto in una comunità dove il suo dolore ha ricevuto un ascolto. Il suo mondo nuovo, dove l’odore della sofferenza è intriso nell’ambiente, è abitato da persone che hanno disturbi di personalità, depressione, schizofrenia, bipolarismo, disturbi psicotici, tutte etichette che descrivono emozioni alterate del rapporto tra il mondo esterno e quello interno. La sua comunità è un universo dove gli ospiti come lui sono seguiti da psicologi, psichiatri, educatori, infermieri, un modello che usa l’etica come filo conduttore per l’intervento psichiatrico: «La prima comunità Redancia è nata negli anni 90», spiega Giovanni Giusto, fondatore di questa piccola galassia di strutture, «e l’idea è nata quando, lavorando nei servizi di salute mentale della Asl ligure, mi sono reso conto che mancavano strutture intermedie tra l’ospedale e la casa. Quando poi sono passato all’ospedale di Cogoleto (Genova) ho ulteriormente realizzato In alto, lo psicopedagogista Mauro Siri. In questa foto, pazienti di Crogiuolo. che neppure quel tipo di struttura bastava per curare la malattia, e infatti i ricoveri di pazienti gravi si ripetevano. Per questo ho deciso di fondare le comunità. Il progetto man mano è cresciuto, attualmente abbiamo 18 strutture, molte in Liguria. Si parte dalle quelle contenitive, per i casi più difficili, e si arriva agli appartamenti protetti, soluzioni per dare una maggiore indipendenza. Abbiamo circa 500 pazienti, ogni ospite costa mediamente 135 euro al giorno, molto meno del posto letto in ospedale, e la Asl ligure, dalla quale bisogna passare per arrivare da noi, in lista d’attesa ha 200 persone». Ricovero in ospedale e comunità sono due esperienze completamente diverse, e diversi sono anche i risultati. In cosa differiscono? «Il primo è una struttura statica dove gli aspetti vitali, emotivi, passionali vengono sopiti e non utilizzati per i cambiamenti. Nella comunità Redancia invece si mette al centro la persona e non la malattia. Per noi la diagnosi è poco importante, quasi irrilevante. Siamo noi che ci adattiamo al paziente, e non viceversa. Il nostro approccio è di estremo rispetto per l’ecologia mentale del soggetto che ci viene affidato, per le sue abitudini, la sua storia, la sua sensibilità, il suo modo di essere nel mondo, un mondo che per il paziente psichiatrico è pieno di fantasmi e di disperazione. Grazie alla psicoterapia residenziale cerchiamo di disintossicare il paziente dalle angosce che lo assillano con diverse tecniche, passando per la psicoanalisi e l’intervento cognitivo comportamentale». Utilizzate anche farmaci? «Il farmaco è fondamentale: quando è ben utilizzato permette che la relazione tra medico e paziente si sviluppi più rapidamente». Qual è l’obiettivo delle comunità 3 MARZO 2012 Un momento d’incontro tra i pazienti e gli operatori. Ogni ospite costa 135 euro al giorno, molto meno del posto in ospedale. UNA MAMMA RACCONTA di Erica Baldi Paura, amore incondizionato, sorprese (belle e brutte), sensi di colpa, fatica e infine la decisione di entrare nella comunità Redancia. Una mamma racconta la sua convivenza con un figlio affetto da disturbi della personalità. Qual è il problema di suo figlio? «Le diagnosi sono difficili. Si parla genericamente di disturbi della personalità, comportamento narcisistico, sindrome bipolare. Luca ha un modo di ragionare particolare e tutto suo. È un ragazzo intelligentissimo, brillante, perspicace e molto sensibile. Forse troppo. Alle elementari riusciva benissimo in alcune materie, come matematica e scienze, mentre andava malissimo in italiano e storia. Pensavamo che fosse una sorta di piccolo genio». Quando è entrato in comunità? «Appena diciottenne. Un problema da superare, per gli altri normale, per lui è stato il tracollo. E a quel punto la convivenza in famiglia è diventata difficilissima, quasi insostenibile. A livello pratico, Luca non sa organizzarsi nelle D 162 Redancia? «Teniamo conto degli aspetti biologici e psicologici, e di un possibile reinserimento sociale e lavorativo dei pazienti. Abbiamo anche una cooperativa, la Bitta, che dà lavoro a una quarantina di pazienti nel campo della ristorazione, della pulizia e del guardianaggio». Come lavorate, nella pratica? «Prendendo spunto da Marc Augé partiamo dal nonluogo, un posto dove il paziente è libero di essere quello che è. Il nonluogo è come la sala d’attesa, dove puoi intrecciare o meno rapporti con altri. I pazienti sono molto sensibili e indifesi, si sentono oggetto di richieste pressanti: qui possono scegliere. Questo è un guscio, dà protezione, è la pelle, che fa da tramite con l’esterno e permette la relazione con l’altro, attivata dagli operatori». Quanti pazienti dimettete? «Chi entra deve già avere il suo progetto per uscire. La nostra psichiatria termina con un’apertura verso l’esterno, creando “la pelle”, appunto. Abbiamo una percentuale di dimissioni intorno al 60 per cento». UNA BUONA ALLEANZA La comunità è una strada lunga. Punto di partenza è l’alleanza tra il paziente e il suo medico, che permette di rendere le relazioni impazzite qualcosa di possibile e sostenibile, di leggere nella vita del soggetto le pagine più significative e di cercare insieme una soluzione a «In questo posto il paziente è libero di essere quello che è. Il nonluogo è come la sala d’attesa, dove puoi intrecciare o meno rapporti con gli altri» traumi, frustrazioni e desideri: «Nel mio lavoro, parto dal presupposto che il paziente è il nostro primo maestro», afferma Michele Solari, psichiatra e direttore sanitario di Redancia 1. «In comunità avevamo un grave schizofrenico, che aveva passato un periodo in Opg, l’ospedale psichiatrico giudiziario. Ci siamo resi conto, con sorpresa, che il suo periodo di vita meno doloroso era proprio quello passato laggiù, in virtù di una relazione che aveva stabilito con un importante boss mafioso. Nel ruolo di “servitore del capo” aveva trovato protezione e identità. Sulla base di questa ipotesi abbiamo organizzato un setting di cura che riproducesse questa situazione, ovviamente a livello simbolico, e il paziente ha cominciato a migliorare. Per alcuni soggetti molto gravi, il primo obiettivo è anche l’ul- 3 MARZO 2012 Due immagini della comunità terapeutica Redancia 1. cose quotidiane, come prepararsi da mangiare, usare i mezzi pubblici. Può capitare che prenda il taxi per fare due fermate di autobus. Non pensa in prospettiva, e non considera le conseguenze delle azioni. Soprattutto, è un ragazzo sofferente. Ha sempre riversato su di me una violenza non fisica, ma psicologica. Nell’ultimo periodo in casa era diventato la mia ombra. Dopo due ricoveri in psichiatria siamo riusciti a farlo entrare in questa comunità. Ora è lì da un anno. Tra nove mesi forse uscirà, e se tutto va bene avrà un appartamento dove vivere da solo, seguito dagli assistenti. Non è bello dirlo, ma da quando lui è via io posso respirare». Come ha affrontato la malattia? «La domanda che mi faccio più spesso è: perché è successo? Colpevolizzarsi è la cosa più facile, in questi casi. Colpa mia? Di mio marito? Di quella maestra? Del trasloco? Ora so che la malattia di mio figlio è un insieme di predisposizione genetica e fattori ambientali: le persone incontrate, i luoghi frequentati...». Chi o che cosa l’ha aiutata? «Quello che fa la differenza, in queste situazioni, è l’umanità delle persone. Nei reparti di psichiatria il dialogo è freddo, insopportabile. La risposta sono le medicine, pesanti e mal tollerate dai ragazzi. Nella comunità Redancia ci si sente meno soli, e i medici sono davvero motivati». Quali aspettative, per Luca, dopo il periodo in comunità? «Ogni tanto spero che possa guarire, ma so che non succederà. Quello che può accadere è una guarigione collettiva e familiare. Se noi diventiamo forti, lui in qualche modo guarisce. Il suo miglioramento è legato allo stile di vita che riuscirà ad avere, alla morbidezza che troverà sulla sua strada, al dolore che riusciremo a risparmiargli». D 164 timo: assicurare la sopravvivenza con una buona qualità della vita, in un contesto protettivo. Se la guarigione clinica non è possibile, cerchiamo almeno una forma di guarigione sociale». Quali sono le patologie maggiormente a rischio? «Ricordo un caso di suicidosi: più che una precisa patologia, una condotta caratterizzata dal cronico ripetersi del tentativo di uccidersi. Dopo 23 prove, ostentatamente aggressive, preparate con lucida determinazione, è arrivato la ventiquattresima, fatale e questa volta riuscita, incredibilmente, per errore. La paziente era figlia di una donna che aveva tentato più volte di abortirla, ed era come se, venendo al mondo, portasse già scritto il proprio destino. Un caso nel quale si potrebbe dire che il trauma patogeno era già in atto prima della nascita». Vite diverse, e casi complessi, ognuno con i suoi bisogni. Come si organizzano tempi e percorsi? «Attualmente in Liguria il limite temporale in comunità è di 36 mesi, una sfida per i medici che vogliono costruire progetti più a lungo termine. Ma se le strutture terapeutiche hanno il mandato di agire sempre più velocemente, bisogna potenziare le reti di sostegno extraistituzionale, perché la persona che ha acquistato indipendendenza poi non può essere abbandonata». Una costante, dopo il percorso comunitario, è quella di evitare il rientro a casa, in famiglia, il luogo dove spesso sono nate e si sono sviluppate le dinamiche negative. Meglio puntare su soluzioni abitative indipendenti, cosa non semplice per persone con disagio: «Il rientro a casa dopo un’esperienza comunitaria è un momento particolarmente delicato», spiega Mauro Siri, psicopedagogista di Redancia, «e non può esser lasciato al caso, c’è il rischio di rovinare il lavoro fatto. I servizi pubblici di igiene mentale, in seguito ai tagli di budget, non riescono a far fronte alle esigenze attuali. Basti pensare che, in alcuni casi, uno psichiatra deve occuparsi di centinaia di pazienti, in situazioni spesso gravi. Per loro, dedicarsi alla riabilitazione domiciliare di casi già passati anche per la comunità è un’utopia». Esiste una soluzione? «La riabilitazione domiciliare è un’esigenza. Sarebbe fondamentale poter creare un’équipe di professionisti sul territorio, capaci di valutare il soggetto non solamente dal punto di vista clinico, ma con una forte attenzione agli aspetti psicosociali, per restituirgli una piena autonomia. Gli ambiti dove il paziente ha bisogno di aiuto vanno dalle abilità di base al lavoro: in questi casi, sono utili le working experience, percorsi di riqualificazione professionale creati per le fasce più deboli. Una rete leggera per collegare professionisti, pazienti e strutture. Un progetto possibile». «Questo è un guscio, è la pelle che fa da tramite con l’esterno e permette la relazione con gli altri là fuori»