Coscienza ecologica e pastorale
Guido Gatti
(NPG 92-09-04)
Nessun'altra forma di educazione è così costitutivamente aperta al futuro (nel duplice senso di
essere sollecita per il futuro e rilevante nei suoi confronti) quanto l'educazione della fede.
Essa aspira a fare dell'uomo un cittadino del futuro: di quello escatologico anzitutto, in quanto
abitazione definitiva e destino decisivo dell'uomo, ma anche di quello storico, in quanto
mediazione necessaria del futuro escatologico, che si pone nei confronti del futuro storico come
suo trascendimento, ma insieme come sua trasfigurazione e compimento.
CHE COSA SIGNIFICA EDUCARE PER IL FUTURO
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Questa rilevanza del futuro nei confronti della fede travalica l'ambito puramente cognitivo o
emotivo per assumere una valenza progettuale e operativa: il futuro promesso dalla parola di
Dio non viene a noi senza di noi; non è solo oggetto di fede e di speranza, ma anche di
progettazione e di attiva preparazione.
Per questo tale apertura ha una precisa dimensione etica: il futuro rappresenta una dimensione
essenziale dell'impegno morale cristiano e quindi anche una sfida e un problema per quelle
forme di educazione morale che si ispirano alla fede e che, attuandosi all'interno di una esplicita
educazione della fede, hanno come obiettivo l'integrazione tra la fede e la vita.
Ma ogni forma di educazione alle virtù sociali è sempre largamente influenzata dalla speranza e
dal progetto di futuro nel quale l'educatore crede e di cui egli si fa testimone.
Per molto tempo l'educazione morale non ha avuto bisogno di affrontare il problema del futuro
come problema morale: il futuro era solo un'entità cronologica, una ripetizione del passato, un
orizzonte immobile e insignificante dell'azione morale tutta prigioniera del presente: l'unico
futuro veramente diverso, quello escatologico, era talmente separato dal tempo storico da
essere del tutto ininfluente sulla progettazione etica.
Solo dall'illuminismo in poi si è cominciato a vedere nel futuro intrastorico qualcosa che l'uomo
può plasmare in modo consapevole, facendolo diverso da una pura ripetizione del passato; da
allora il futuro è stato sentito e vissuto come un compito morale: l'educazione è stata costretta a
porsi consapevolmente il problema del futuro come qualcosa su cui essa può influire,
plasmando i suoi costruttori e i suoi protagonisti: le nuove generazioni che lo formeranno e ci
vivranno.
L'accelerazione crescente delle trasformazioni sociali e dei ritmi della storia, e la rapidità con cui
un futuro sempre meno prevedibile ci viene incontro rendono ogni giorno più serie le
responsabilità che l'educazione ha nei confronti dei futuro.
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IL FUTURO COME TEMPO DELLO SVILUPPO
Dei diversi aspetti della realtà sociale in continua e sempre più rapida trasformazione, la realtà
economica è certamente una di quelle che più attirano l'attenzione e la preoccupazione degli
uomini del nostro tempo.
Dalla rivoluzione industriale in poi, la realtà economica ha avuto una crescita cumulativa così
intensa e accelerata che il termine sviluppo serve abitualmente a designare, nel linguaggio degli
uomini del nostro tempo, soprattutto lo sviluppo economico, considerato come il principio
dinamico e il motore di ogni altra forma di sviluppo.
In un simile contesto le domande: educare per quale società? educare per quale futuro?
includono sempre più un riferimento alla domanda solo di recente emersa in modo esplicito
nella coscienza degli educatori: educare per quale tipo di sviluppo?
Per molto tempo la ricchezza economica è stata ritenuta un premio accordato a certe virtù,
come la solerzia nel lavoro, la parsimonia, la previdenza e il risparmio; col sorgere del
capitalismo si aggiunsero all'elenco tradizionale le virtù dell'iniziativa, la capacità di affrontare il
rischio, l'inventività e perfino l'aggressività e una certa insensibilità nei confronti degli altri, cioè
le cosiddette «qualità imprenditoriali».
Quando, negli ultimi decenni, lo sviluppo divenne un problema di dimensioni mondiali, legato
alle crescenti sperequazioni economiche a livello planetario, il rapporto tra l'educazione, il futuro
del mondo e lo sviluppo economico divenne cruciale.
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Una delle principali cause del sottosviluppo fu identificata nell'assenza di una specifica
educazione e cultura dello sviluppo.
Vennero quindi disegnati grandi progetti di intervento educativo a scala mondiale, volti alla
creazione di tali qualità umane: si pensò allora di programmare e di attuare a livello mondiale
una educazione capace di funzionare da capitale invisibile, di innescare i meccanismi dello
sviluppo e di creare perciò un futuro diverso: furono i tempi del cosiddetto
«Rapporto Faure».
I limiti dello sviluppo
L'allarme gridato dal «Club di Roma» e avallato dai suoi famosi rapporti (il più famoso di questi
rapporti fu
I limiti dello sviluppo, di D. Meadows e
collaboratori), ha però smentito rapidamente l'ottimismo con cui guardavano al futuro il
«Rapporto Faure»
e le altre espressioni dello sviluppismo degli anni Sessanta, e hanno posto l'umanità davanti al
problema del futuro in termini assolutamente inediti.
Ci si rese conto che il tipo di sviluppo, fino allora ipotizzato e programmato, non poteva
continuare all'infinito e che i limiti che ne minacciavano la prosecuzione erano più vicini e
incombenti di quanto si pensasse.
Tali limiti sono costituiti dalla finitezza insuperabile delle risorse non rinnovabili del pianeta,
dall'accumulo progressivo e cumulativo dell'inquinamento prodotto dall'attività industriale, che
minaccia di degradare in modo irreversibile i delicati ecosistemi della vita sulla terra, e infine
l'insieme di quei fenomeni di disgregazione sociale che sono come un sottoprodotto dello
sviluppo e dell'urbanizzazione selvaggia che lo accompagna e a cui si dà il nome di «entropia
sociale».
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Lo sviluppo economico mostrava già il fiato corto mentre milioni di uomini non ne erano ancora
stati toccati: il problema del sottosviluppo non poteva essere risolto semplicemente portando
avanti «quel» modello di sviluppo; il futuro dell'umanità andava ripensato in termini diversi.
IL PROBLEMA ECOLOGICO E LA PASTORALE
La consapevolezza acuta dell'urgenza di questi problemi, soprattutto di quelli legati alla
limitatezza delle risorse naturali non rinnovabili e ai pericoli dell'inquinamento e della distruzione
degli ecosistemi naturali che condizionano la stessa vita dell'uomo sulla terra, si è venuta
prepotentemente diffondendo in questi ultimi anni in tutto il mondo industriale.
Si è così assistito al sorgere di svariati movimenti informali o strutturati, a carattere culturale,
sociale e politico, volti a porre in primo piano la consapevolezza dell'esigenza di interventi
sempre più radicali di salvaguardia dell'ambiente naturale, come condizione di sopravvivenza
per l'umanità e come unica via per la preservazione o la restaurazione di una migliore qualità
della vita: è il movimento ecologista.
L'ecologia è così diventata, a livelli diversi ma complementari, una sensibilità indefinita ma
diffusa, un programma di interventi economici e politici, una vera e propria disciplina scientifica,
integrata a pieno titolo nell'organismo delle scienze della natura, ma anche una forma di
filosofia, una opzione etica e un obiettivo educativo di importanza primaria.
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Ambiguità e rischi
Naturale quindi che l'educazione della fede e l'azione pastorale non possano evitare un
confronto impegnativo con le istanze sottese a questo movimento, che permetta di assumerne i
valori e di neutralizzarne gli eccessi e le unilateralità, sensibilizzando alla reale consistenza dei
problemi che esso agita e mettendo nella condizione di esprimere un contributo specifico per
darvi una soluzione congruente con la visione cristiana dell'uomo e del mondo.
Il movimento ecologico non è infatti del tutto esente da pesanti ambiguità per quanto riguarda
l'educazione cristiana e la vita di fede.
Esso nasconde spesso forme surrettizie di cattiva sacralizzazione della natura, di chiaro stampo
prebiblico e precristiano: il culto di una natura intatta vista come misteriosa epifania del divino,
la ricerca, magari inconsapevole, di una qualche fusione o identificazione con il Grande Tutto
del cosmo, concepite nei termini confusivi di una mistica tendenzialmente panteistica,
rappresentano un cattivo surrogato della fede e del disincantato rapporto col mistero di Dio che
la caratterizza.
L'azione pastorale non ha nulla da guadagnare dalla valorizzazione di questi aspetti, magari
poetici e tentanti, ma in fondo ambigui e rischiosi, di un certo ecologismo di maniera: il fatto che
esso eserciti una comprensibile suggestione sul mondo giovanile, veicolata peraltro dall'influsso
manipolativo dei «media», deve solo ispirare un'azione decisa di demistificazione e di
disincantamento.
Naturalmente esiste anche il pericolo esattamente opposto: non raramente il linguaggio
religioso e le categorie interpretative che in esso si esprimono si sono prestati in passato e in
parte si prestano tuttora a un'ambigua idealizzazione sacrale del mito del progresso e della
tecnica.
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L'azione pastorale ha tutto da guadagnare da un atteggiamento più critico nei confronti delle
abusate figure retoriche della «umanizzazione del cosmo» o del «compimento umano della
creazione»: alla luce dei pericoli che una cattiva umanizzazione della natura fa incombere sul
futuro dell'umanità, questa retorica non è più soltanto inattuale, è decisamente sviante.
ECOLOGIA E «NUOVA RESPONSABILITÀ»
Ciò che l'educazione della fede è chiamata a ricuperare dei valori positivi della coscienza
ecologica ci sembra vada collocato invece sul piano, ben più serio ed esigente, della
responsabilità e dell'impegno etico.
I problemi aperti dall'ecologia e connessi con l'ecologia configurano infatti, secondo l'acuta
analisi di H. Jonas, un notissimo studioso di questi problemi, un nuovo modo di porsi e un
diverso livello di serietà e di urgenza, rispetto a tutto il passato, del concetto e della realtà della
«responsabilità morale».
Le conseguenze delle azioni umane, su cui si misurava in passato la responsabilità «oggettiva»
delle scelte umane, si esplicavano su una scala di prossimità estremamente ridotta, tanto nello
spazio quanto nel tempo: «Il campo effettivo dell'azione - dice Jonas - era ristretto, il lasso di
tempo per la previsione, la determinazione dei fini e l'imputazione di responsabilità era breve, il
controllo sulle circostanze limitato. Il comportamento giusto aveva i suoi criteri diretti e il suo
compimento quasi immediato» (H. Jonas, Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà
tecnologica.
Einaudi, Torino 1990, 8).
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Questa situazione si è quasi radicalmente rovesciata: la ristrettezza dell'orizzonte di prossimità
e di contemporaneità che circondava l'azione umana è stata sostituita da una espansione
enorme dell'influsso spazio-temporale delle scelte umane, soprattutto di quelle collegate
all'impresa collettiva dello sviluppo tecnologico.
Il progetto tecnologico ha incredibilmente allargato nel tempo e nello spazio il campo d'efficacia
dell'agire umano, e di conseguenza si è espanso in uguale misura l'orizzonte della
responsabilità oggettiva dell'uomo.
La scoperta della vulnerabilità dell'ambiente naturale, della non reversi bilità delle serie causali
attivate dai processi tecnologici, della cumulatività degli effetti di tale processo, mettono la
coscienza morale umana di fronte a un capitolo dell'etica finora inesplorato, ma di importanza e
decisività tali da assorbire in sé tutte le precedenti forme di consapevolezza delle responsabilità
morali dell'uomo.
Di fronte a questa situazione cosí radicalmente nuova, l'uomo ha anzitutto responsabilità nuove
nei confronti del conoscere: la sua conoscenza è chiamata ad affrontare difficoltà nuove e
imprevedibili: «L'autoriproduzione cumulativa del mutamento tecnologico del mondo supera le
condizioni dei suoi singoli atti, passando attraverso situazioni senza precedenti, per le quali a
nulla valgono gli insegnamenti dell'esperienza» (H. Jonas, 11).
Per quanto riguarda le sue responsabilità verso il futuro, la tecnologia mette nelle mani
dell'uomo un massimo di potere insieme con un minimo di sapere intorno agli scopi e ai risultati
finali dei suoi interventi.
La tecnica non minaccia soltanto la natura infraumana, ma la stessa natura e costituzione
interna dell'uomo: «In tal modo, il trionfo dell'homo faber sul suo oggetto esterno significa nel
contempo il suo trionfo nella costituzione interna
dell'homo sapiens,
di cui un tempo non era altro che una parte ausiliaria.
In altri termini, anche prescindendo dalle sue opere oggettive, la tecnologia assume una
rilevanza etica in virtù della centralità occupata nella finalità soggettiva» (H. Jonas, 13).
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Proprio i limiti insuperabili del sapere umano nei riguardi del futuro messo in atto dalle sue
stesse scelte impongono all'uomo quella che potremmo considerare come un'etica della cautela
o della paura.
I rischi e le minacce della tecnologia sono più decisivi delle sue promesse, e la responsabilità
umana non può che tenerne conto.
In una situazione in cui non soltanto la qualità del futuro umano, ma la stessa possibilità di un
tale futuro è realmente in gioco, l'uomo può rendersi conto del carattere di radicale novità della
responsabilità che pesa su di lui. Le persone di cui egli mette in gioco gli interessi più
fondamentali e perfino l'esistenza non sono una sua controparte paritaria: proprio perché non
ancora realmente esistenti, non hanno nulla da dare in cambio, neppure voce per avanzare
pretese o rivendicare diritti: egli non sperimenta nei loro confronto alcuna forma di vera
reciprocità: «Ogni vita solleva la sua pretesa alla vita... Il non esistente però non solleva
nessuna pretesa e perciò non può neppure subire una violazione dei suoi diritti... Ma proprio
con il non ancora esistente ha a che fare l'etica di cui siamo alla ricerca: il suo principio di
responsabilità deve essere indipendente sia da ogni idea di diritto sia da quella di reciprocità»
(H. Jonas, 16).
Ma proprio in questo suo carattere di caso-limite la «nuova responsabilità» trova una analogia e
una conferma in un altro caso di responsabilità non reciproca e di comportamento del tutto
altruistico, ugualmente doveroso, riconosciuto già dall'etica tradizionale e sorretto da potenti
impulsi istintivi naturali: le responsabilità dei genitori nei confronti dei figli.
Una rivoluzione etica
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Ma nessuna tendenza naturale e nessuna istanza culturale (tanto più in una cultura devota
all'efficientismo tecnologico e ai consumi, quale è appunto la nostra) sostiene nell'uomo l'agire
responsabile verso il futuro dell'umanità.
Per questo, la «nuova responsabilità» richiede una vera e propria rivoluzione morale carica di
conseguenze anche sul piano educativo e pastorale. Benché i problemi connessi con l'ecologia
fossero inizialmente affrontati quasi unicamente dal punto di vista tecnologico, cercando una
soluzione nell'ambito di quella stessa tecnica che creava il problema, i dati medesimi del
problema costringono oggi a sorpassare questa prospettiva e a riconoscere nella dimensione
etica il vero punto cruciale della questione.
Le menti più avvertite che si misurano senza preconcetti col problema ecologico sono oggi
consapevoli che esso crea una vera e propria crisi di civiltà.
La soluzione del problema ecologico sembra imporre di «mettere in dubbio i presupposti di una
civiltà che sembra destinata a conquistare il mondo» (E. F. Schumacher). Ma questo comporta
inevitabilmente «una nuova concezione normativa» (A. Peccei), un «cambiamento radicale dei
principi fondamentali che ispirano e determinano l'agire degli uomini» (L. D. Meadows).
Nella stessa linea, altri parlano di una «revisione dei fini» (E. F. Schumacher) o di una
«revisione fondamentale delle concezioni filosofiche, etiche, antropologiche e perfino biologiche
dell'uomo» (A. Peccei).
D'altra parte una trasformazione morale cosí profonda non potrà essere realizzata unicamente
sotto lo stimolo puramente negativo della paura. Soltanto la libera adesione a valori positivi
potrà sorreggerla fino in fondo: «La forza necessaria può provenire solo da convinzioni
profonde. Se derivasse solo da paura per il futuro, avrebbe molte probabilità di scomparire al
momento decisivo» (E. F. Schumacher).
A. Peccei parla addirittura di una trasformazione della «qualità umana»: «Se in questa
congiuntura la qualità umana resta quella che è, non sarà mai possibile dare soluzione alcuna a
nessuno dei problemi di maggior momento; se invece essa viene migliorata, sarà messa alla
nostra portata una vasta gamma di obiettivi finora neppure considerati».
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L'uomo «sente che deve trasformarsi individualmente e collettivamente o essere condannato a
scomparire».
IL CONTRIBUTO SPECIFICO DELLA FEDE
Naturalmente non si può a questo punto evadere la domanda: quale potrà essere, dentro
l'ambito sterminato di questa problematica, lo specifico campo di interesse e il contributo
originale della riflessione di fede e quindi dell'azione pastorale?
Di fronte all'ampiezza e complessità dei problemi, appare subito chiaro che la proposizione di
formule risolutive globali, già immediatamente operabili, supera del tutto le possibilità e le
competenze della riflessione di fede e della stessa Chiesa docente. L'educatore della fede non
può d'altra parte permettersi di considerare questa problematica come irrilevante ai fini della
sua azione educativa. Sull'esempio dello stesso magistero sociale della Chiesa e, sviluppando
le indicazioni che esso offre a tutti gli uomini di buona volontà, l'azione educativa dell'operatore
pastorale dovrà:
- mettere in luce le radici profonde, di natura morale, di tutta la problematica relativa allo
sviluppo, ai limiti dello sviluppo e all'ecologia;
- promuovere quegli atteggiamenti personali e collettivi di conversione morale che sono
richiesti, come premessa per ogni progettazione e azione politica ed economica adeguata alle
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responsabilità oggettive incombenti (rinuncia al primato dell'avere sull'essere, stile semplice e
parsimonioso di vita, senso di responsabilità nei confronti di tutti gli uomini, anche di chi non è
ancora nato, primato del qualitativo e dello spirituale sul quantitativo e sul materiale, ecc.);
- elaborare proposte più concrete e promuovere scelte e comportamenti di carattere profetico,
tali cioè che, pur senza avere la pretesa di costituire una formula precisa o un progetto
compiutamente risolutivo del problema (cosa che compete oggi all'umanità come tale e, in
modo privilegiato, ai professionisti della politica e dell'economia), abbiano il valore di una
testimonianza che contribuisca alla mobilitazione di tutte le energie morali richieste per
affrontarlo;
- fornire, attingendolo alla parola di Dio e alle consapevolezze specifiche della fede, quel «surpl
us»
di
motivazioni e di speranze che sorregga l'azione e renda operabili le inevitabili rinunce e i
sacrifici che la serietà della situazione e la difficoltà dell'impresa morale impongono.
Contare sulle convinzioni
Ci si può chiedere a questo punto se il contributo della fede e dell'educazione della fede alla
soluzione di questi problemi da cui dipende lo stesso avvenire dell'umanità non finisca per
ricalcare i sentieri già anche troppo battuti di una certa parenetica, tanto generica quanto sterile.
Effettivamente non compete alla fede in se stessa (né essa ne è capace) il proporre e tanto
meno l'attuare direttamente progetti specifici di intervento che abbiano, in questo campo come
in tutti gli altri settori della vita economica e sociale, nello stesso tempo quei caratteri di globalità
e di incidenza sulla realtà che assicurino la loro efficacia nel più breve tempo possibile.
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Non è questo il contributo specifico della fede alla soluzione di tali problemi. Suo compito è
invece quello di mettere in luce le cause profonde di natura etico-personale che stanno alla
base dei problemi e per lo meno ne condizionano l'emergenza, e di indicare cosi gli
atteggiamenti morali che permetteranno alle soluzioni di natura più propriamente tecnica di
avere quel consenso della gente che è assolutamente indispensabile per la loro efficacia, dato
che, qualunque soluzione tecnica venga adottata, la sua applicazione non risulterà comunque
indolore per nessuno.
Pensiamo che l'educazione della fede abbia qui l'opportunità di toccare il vero hard core del
problema e che questo sia il suo vero e specifico contributo alla sua soluzione. Per quanto
assolutamente necessarie, le soluzioni di natura tecnica non nasceranno sul tavolo di una
fredda e neutrale ingegneria sociale. Le strutture e la funzionalità della convivenza mondiale e
del sistema economico internazionale non possono essere programmate alla stregua delle
cèntine di un ponte in costruzione, che si possono montare e smontare a piacimento. Esse
nascono dalla libertà responsabile dell'uomo, sono un essudato della sua coscienza morale.
Effettivamente, se si pensa alle vicende dell'economia mondiale di questi ultimi vent'anni, è
facile constatare come le trasformazioni strutturali, che molti hanno suggerito e raccomandato
come extrema ratio per la salvezza del pianeta, di cui tutti hanno parlato, sono rimaste allo
stato di «sogni nel cassetto», non tanto per le difficoltà tecniche inerenti alla loro attuazione
(pure tutt'altro che indifferenti) quanto per l'assenza di una più diffusa e condivisa tensione
etica, adeguata alla vastità dei compiti da affrontare.
Si direbbe quasi che un'analisi spregiudicata delle cause dei disastri e dei pericoli ecologici
(così come, del resto, di quelle del sottosviluppo e della sperequazione economica a livello
mondiale) riesca di fatto ancora troppo poco colpevolizzante per tutti gli interessati, e i sacrifici
richiesti per la progettazione e la realizzazione delle riforme necessarie siano ancora troppo al
di là della attuale sensibilità etica di molte delle persone che hanno responsabilità al riguardo,
perché le soluzioni di natura tecnica possano trovare attuazione effettiva.
Alzare questo livello di tensione etica, migliorare il livello di consapevolezza e di buona volontà
delle persone singole e di gruppi di pressione particolari è la vera sfida e l'occasione storica
offerta oggi all'impegno educativo della Chiesa e alla sua azione pastorale.
Ci piace riportare qui, a riprova dell'efficacia, almeno nel periodo lungo (per quanto l'urgenza del
problema non ci conceda oggi periodi lunghi a piacere), delle idee in genere e delle convinzioni
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morali in specie, un brano di J. M. Keynes con cui egli chiude la sua storica opera, Occupazion
e, interesse e moneta:
«È speranza visionaria - si chiede l'autore - l'avverarsi di queste idee? Sono gli interessi che
esse frustreranno più forti e più ovvii di quelli che esse promuoveranno? Non tento di
rispondere in questo luogo. Ma se le idee sono corrette, predico che sarebbe un errore
contestare la loro potenza nel corso di un certo periodo di tempo. (...) Le idee degli economisti e
dei filosofi politici, quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente
si ritenga. In realtà il mondo è governato da poche cose all'infuori di quelle. (...) Sono sicuro che
il potere degli interessi costituiti è esagerato nei confronti della progressiva estensione delle
idee. (...) Presto o tardi sono le idee e non gli interessi costituiti che sono pericolose, sia in bene
che in male».
La forza delle idee è naturalmente mediata dalla serietà della loro elaborazione e dall'ampiezza
della loro diffusione, cioè dal convincimento collettivo che intorno ad esse si raggiunge. È a
questo compito di elaborazione e di diffusione che l'azione pastorale ha un contributo, limitato
ma insostituibile, da offrire.
Un supplemento di speranza
Ma il contributo più specifico e più vero della pastorale e dell'educazione della fede alla
soluzione dei problemi dello sviluppo, che sono poi i problemi attuali più seri della convivenza
umana a livello mondiale, consiste nell'annuncio di quel supplemento di speranza e di
motivazioni che è il contenuto proprio del Vangelo.
La pastorale trasmette un messaggio che è essenzialmente una promessa di Dio, già garantita
da quell'adempimento iniziale ma decisivo che si è realizzato nell'evento Cristo. Questa
promessa offre agli uomini, implicati in questo dramma e alle prese con questo problema,
l'unica forza capace di mobilitare quelle energie morali che sono necessarie alla sua soluzione.
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Come si è visto, non sarà sufficiente a questa mobilitazione la paura di una catastrofe totale
incombente sull'umanità. È necessario un supplemento di motivazioni che, indicando la vera
natura dei «nuovi fini dello sviluppo», renda possibile quella conversione che la gravità e
l'urgenza dei problemi richiede.
È necessario un avallo divino ai tentativi fragili dell'uomo, che assicuri a tutti la possibilità di una
salvezza, che stia al di là di ciò che è già possibile dentro i limiti insuperabili di questa storia, ma
che, proprio per questo, dia il coraggio di lottare per realizzare tutte queste possibilità, quali
esse siano. E questo nella certezza che le vittorie, fossero pure parziali e imperfette, conseguite
in questa lotta non andranno perdute, ma entreranno a costituire il tessuto umano di quel regno
divino, in cui sarà finalmente realizzata quella pienezza della giustizia e della fraternità umana
che restano inattingibili all'uomo dentro questa fase della storia.
Questa speranza è l'orizzonte ultimo di tutta l'azione pastorale.
(Articolo tratto dal «Dizionario di pastorale giovanile», Elle Di Ci, II edizione 1992)
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