dono, simbolo e reciprocità

annuncio pubblicitario
DONO, SIMBOLO E RECIPROCITÀ
Sommario: Introduzione - 1. La filosofia del dono - 2. La sociologia del dono - 3. Tre modelli di
solidarietà - 4. Io e gli altri.
INTRODUZIONE
Fatta astrazione dalle loro realtà storiche, il più delle volte tragiche e violente, gli atti fondatori
delle nostre società sono abitualmente intesi in modo simbolico, come fonti sempre attive nel presente.
Si sa che il simbolo ha come funzione di unire ciò che è separato; il termine indicava nell’antichità una
procedura commerciale specifica, la cui struttura si ritrova in molte attività umane. Quando spediva
lontano la sua merce, un venditore la faceva accompagnare nel suo viaggio da un pezzo di tessera
stracciata, affidando l’altro pezzo a un uomo di fiducia che, giunto il momento, avrebbe ricevuto dal
compratore la somma pattuita solo dopo aver dimostrato la veridicità del suo mandato grazie a quel
pezzo di tessera combaciante con l’altro consegnato con la mercanzia al compratore. Il simbolo è
costituito quindi da cocci differenti, per esempio di una brocca, suscettibili di ricongiungersi
perfettamente per ricordare e far riconoscere in questo modo un evento iniziale: il patto commerciale
concordato all’inizio dell’operazione prima di inviare la merce.
Le nostre società vivono di simboli, che le congiungono alle loro origini come se queste fossero
ancora e sempre viventi nell’attualità che fondano. Il simbolo ha in ciò un aspetto storico ambiguo. Da
una parte, manifesta per noi una potenza essenziale, quella dell’origine che trascende il passare dei tempi
come se questo passare non fosse importante; il vantaggio di una tale situazione sarà di rendere
possibile, grazie al simbolo, la costruzione della storia umana come se il presente fosse significativo in
quanto sgorgante da una fonte passata ma sempre attuale, capace perciò di appoggiare il progetto di un
futuro lungo e tranquillo, per non dire ripetitivo, immobile. Da un’altra parte però, ovviamente, il
simbolo rischia di ingannare la realtà della nostra vita quotidiana, che non ha mai un criterio sufficiente
per dare chiaramente un senso alla complessa totalità degli elementi vissuti, anche presenti; il nostro
futuro, non facciamoci illusioni, è da un punto di vista ragionevolmente umano sempre ignoto e dunque
minaccioso1.
La forma originaria del simbolo sembra commerciale. Si potrebbe dire che certe visioni sulle
relazioni commerciali non fanno che ripetere l’ambiguità stessa del simbolo quanto alla dimensione
temporale, sincronica, degli scambi, soprattutto quando la struttura fondamentale di tale relazioni si
articola grazie a rappresentazioni che si impongono al momento della firma del contratto commerciale
in cui vengono omogeneizzati i dati. Il commercio contemporaneo non si può però rappresentare con
una tale semplificazione. Si dovrebbe mettere infatti in evidenza un punto che la pratica antica del
simbolo nega, o mostra in maniera molto imperfetta: una differenziazione temporale o una diacronia
nell’operazione del cambio. Il ‘simbolo’ faceva sì che la differenza temporale tra l’avvio della merce e il
pagamento venisse annullato; l’assenza di immediatezza tra i due momenti dell’operazione commerciale
veniva infatti negata o scartata dalle considerazioni. Ma la pratica finanziaria odierna, la sua continua
chiamata al prestito o al credito, fa sì che la differenziazione temporale costituisca una dimensione
essenziale dell’operare commerciale; il commercio moderno, con il suo apporto in creatività di prodotti
vari, è possibile in ragione del fatto che non c’è immediatezza tra le sue operazioni. In ciò, la situazione
contemporanea è molto diversa da quella antica e deve essere interpretata in modo originale. Il do ut des
e la sincronia non si reggono più univocamente; il rischio e la diacronia appartengono ormai alla
Nella sua analisi intitolata Dono e simbolismo in Il Terzo Paradigma. Antropologia filosofia del dono, Bollati Boringhieri (Saggi.
Storia, filosofia e scienze sociali), Torino 1998, pp. 206-236, Alain Caillé sottolinea l’importanza data da Mauss al simbolo
come condizione dell’elaborazione delle alleanze che rendono possibile la vita sociale («Al termine del nostro breve periplo
esplorativo abbiamo visto […] nel simbolismo il registro dell’alleanza fra i segni che realizza, affiancandovisi, l’alleanza fra gli
uomini. Che il simbolo sia in origine un marcatore dell’alleanza, è quel che risulta evidente dall’etimologia e dalla storia del
termine», p. 224). In questo articolo, vorrei evidenziare un altro aspetto del dono e del simbolo, quello della sua
strutturazione della temporalità umana.
1
1
mentalità imprenditoriale. Ma non è riscontrabile qui, nel commercio contemporaneo, e in un modo al
quanto sorprendente, la presenza di una aspetto proprio del dono?
1. LA FILOSOFIA DEL DONO
La filosofia contemporanea, che insiste sulla dinamica del dono, potrebbe presentare una forma
razionale che completerebbe e correggerebbe ciò che nel simbolo ci sarebbe di troppo unilaterale e
riduttivo. Il dono ha qualcosa a che vedere in comune con il simbolo: stabilisce delle relazioni,
ovviamente, e la dinamica del contro-dono che sembra esservi essenziale annullerebbe la differenza tra
il donatore e il donatario, portando le relazioni sociali animate dal dono nella pura sincronia. Però
un’analisi più serrata del fenomeno del dono invita a tralasciare una simile interpretazione, decisamente
troppo povera. Vedremo che Marcel Mauss stesso aveva una idea più ricca del dono, integrando la
necessaria affermazione delle differenze tra i donanti.
L’idea fondamentale e apparentemente anti-commerciale è che il dono implica la gratuità,
garanzia di diacronia. «Il nesso tra dono e gratuità è, anche secondo l’attitudine comune (ancorché non
rozza), indissolubile. Se c’è dono, esso è gratuito; se il dono non è gratuito, non c’è dono. Non è un
caso che nella letteratura filosofica sul dono i due termini siano usati quasi come sinonimi»2. La lingua
italiana stessa mette in evidenza lo specifico del dono, quando distingue ‘dare’ e ‘donare’. «Non sempre
il ‘dare’ è un ‘donare’, e spesso ciò che si definisce ‘donare’ è in realtà solo un ‘dare’. Nello scambio
economico, […] senza dubbio si ‘dà’, ed anzi si ‘dà’ con estrema frequenza, ma un tale ‘dare’ è sempre
‘in-attesa-di’ ed è come finalizzato ad un ‘ricevere’; da questo punto di vista bisogna riconoscere che è
proprio su questa mutua implicazione tra ‘dare’ e ‘ricevere’ che si fonda la forza della relazione
economica. Rispetto ad una tale reciprocità si potrebbe già affermare […] che il ‘donare’, se è possibile,
deve poter essere considerato come quel ‘dare’ che non è in alcun rapporto, che è ‘senza relazione’ con
il ‘ricevere’»3. Il tema del dono invita quindi a contemplare le relazione sociale senza sottometterci
unilateralmente alle strutture sincroniche del cambio mercantile. Ma vediamo previamente perché il
tema del dono è divenuto tanto importante nella filosofia contemporanea: la sua essenza di gratuità vi
importa decisamente. L’accento contemporaneo sul dono farà vedere l’originalità dell’evento che vi si
produce.
Non sbaglierà chi intende la ‘moda’ filosofica del dono dei nostri tempi,in cui si è imparato a
sfidare i sistemi pretestuosamente razionali delle scienze (ma con criteri più passionali che razionali) che
proclamano di esercitare l’unica razionalità legittima. Le guerre del XX secolo hanno profondamente
marcato la coscienza europea, e quella dei filosofi in particolare. Certo, il «Mai più la guerra» del Papa
appare in questi anni di guerre, combattute con metodi nuovi e antichi, poco credibile, per non dire
ingenuo. Ma l’impossibilità non è una norma per il filosofo, uomo attento a ciò che ‘deve essere’
assolutamente, senza mezzi termini, anche se non lo è ancora. Ora, ciò che rende il pensiero
contemporaneo insoddisfatto dei sistemi moderni e delle affermazioni troppo sicure di se è, per
l’appunto, il sentimento che niente è sicuro, perché niente può pretendere di fondarsi su se stesso
definitivamente. La stessa idea si esprime in una maniera contraria quando si dice che tutto si verifica
oggi fragile, o se si vuole debole, comunque cosciente di dipendere, di essere fondato fuori di sé, quindi
S. Labate, La verità buona. Senso e figure del dono nel pensiero contemporaneo, Cittadella Editrice (Orizzonte Filosofico), Assisi
2004, p. 99. La gratuità del dono è ovviamente contestata dagli ‘utilitaristi’ per i quali chi dona, lo fa per ricevere in cambio
qualcosa. Jacques Godbout , Il linguaggio del dono, Bollati Boringhieri (Temi), Torino 1998, nel capitolo “Le buone ragioni per
donare”, contesta una tale visione riduttiva, interpretazione che ha verosimilmente a che fare con l’etica dell’interprete più
che con la realtà analizzata dal sociologo: «La buona ragione di numerosi comportamenti sociali che accompagnano il dono
consiste nel preservare la libertà di colui che riceve, di liberarlo nello stesso tempo in cui si fa un gesto che tende
naturalmente a obbligarlo. È uno dei comportamenti sociali più complessi, le cui ragioni si manifestano simultaneamente su
più registri. Ciò non esclude altre forme di dono, dove l’obbligo è più presente, dove l’interesse è più evidente. Il dono
convenzionale, il dono utilitario esistono e sono più o meno presenti a seconda dei contesti e a seconda delle società. Ma in
tutte queste forme c’è almeno la non garanzia della restituzione, e dunque la libertà, e dunque la fiducia al cuore del gesto del
dono» (pp. 81-82).
3 S. Petrosino, Il figlio ovvero Del padre. Sul dono ricevuto in P. Gilbert e S. Petrosino, Il dono. Un’interpretazione filosofica, Il
melangolo (Opuscula), Genova 2001, p. 54.
2
2
in una passività fondamentale. I filosofi della modernità si concentravano sulla capacità creativa
dell’uomo; quelli della prima meta del XX secolo meditano piuttosto sulla morte; e oggi affrontano il
tema della nascita, essendo ovvio che nessuno è nato da se stesso, che tutti siamo in debito d’essere. La
vita di ciascuno di noi è quindi fragile, essenzialmente vulnerabile; perché non viene da sé, non può
pretendere di essere fieramente possessore di sé, della propria origine, della storia della crescita
personale. L’accento messo dalla filosofia contemporanea sulla ‘fatticità’ non rinchiude però l’uomo in
se stesso, nella sua piccolezza, anzi riconosce che questa piccolezza è comunque splendida, stranamente
meravigliosa perché in nessun modo fondata in se stessa, perché relazionale. Dipendere non danneggia
la libertà, ma la condiziona; sostenere il contrario non conduce lontano, porta a chiudere il piccolo
uomo su se stesso e sulle sue pretese immaginarie. Da ciò il sentimento di meraviglia che accompagna la
filosofia contemporanea: io, sono poco, ma decisamente sono perché ho ricevuto di essere.
Definire l’uomo quale essente che avrebbe la consapevolezza di essere in debito del proprio
essere, una definizione proposta già due secoli fa da Schelling, penetra sempre più la coscienza filosofica
contemporanea. Per portare al linguaggio una tale coscienza, si richiede l’adozione di termini suscettibili
di evidenza razionale da una parte, e dall’altra di convenienza con il fenomeno o l’evento che si intende
significare mediante quei termini. La parola ‘dono’ costituisce oggi uno di questi termini chiave. Certo,
l’influsso della sociologia di Mauss, sulla quale tornerò nel punto seguente della mia riflessione, è stato
molto importante; non lo è stato però da se stesso, ma perché veniva opportunamente accompagnato
da una riflessione nata nel mondo filosofico che, critico dello strapotere delle scienze legate alle forze
politiche, si faceva negli anni 1920, un po’ in tutta l’Europa, attenta all’esistenza più che all’essenza o
alla razionalità scientifica della vita umana. Ecco perché il termine ‘dono’ ha acquisito la dignità di una
categoria filosofica universalmente accettata (per quanto possa esserlo una categoria filosofica).
L’influsso di Martin Heidegger è stato ovviamente determinante a proposito, e particolarmente
il suo utilizzo del vocabolo es gibt, che traduce il banale ‘c’è’ o anche, e letteralmente, ‘qualcosa si dona’.
Non è importante sapere adesso in che misura tutte le caratteristiche di quel es gibt tratte da Heidegger
sono accettabili o meno. Evidenziamo solo un aspetto: ogni fenomeno, ogni evento rimanda ad ‘altro’,
nessuno si chiude in se stesso, ha senso per sé solo. Ogni esperienza rinvia infatti la mente attenta al suo
vissuto a una profondità da distinguere dal fenomeno immediatamente presente alla sua coscienza. In
altre parole, ci sono dei differenti livelli della realtà, di cui il primo, quello dell’evidenza sensibile, è in
realtà il più povero, anche se per nulla trascurabile. Ora questi livelli di profondità, che costituiscono le
fonti della razionalità dei fenomeni immediati e/o sensibili, sono rintracciabili in questi stessi fenomeni,
anche se non vi si confondono. La scienza medesima ne rende testimonianza: sono gli stessi fenomeni
che manifestano le regole razionali del mondo, di cui però nessun in modo esauriente perché le regole
non sono fenomeni.
La categoria filosofica del ‘dono’, di stampo sociale, accompagna le considerazioni ontologiche
sulla profondità della realtà che appare nei fenomeni e, ad un tempo, vi si nasconde e li trascende. La
struttura di ogni ente è dunque quella di un es gibt, di un dono. Lo si intende quale trasferimento di un
bene da un donatore a un destinatario, senza che la forma della reciprocità commerciale vi sia
fondamentale, o in tal maniera che l’atto del donatore si faccia il più discreto possibile, sparisca in
qualche modo nel dono dato stesso. Nel dono, una qualche gratuità viene così sempre esercitata. I
sociologi hanno riconosciuto che il dono è fuori norma, e in ciò pericoloso per le società che non
intendono uscire dalle loro norme. Accettare che ci siano dei doni significa che la struttura sociale può
non reggere sulla propria visibilità, che una forza interiore le è essenziale. Osserva con grande verità
Jacques Godbout che «il dono è uno stato eccedentario. Nelle situazioni più diverse, e più opposte, si
perviene sempre a questo risultato stupefacente […]. Si dona perché si è ricevuto; dunque si sta sempre
ricambiando; ma si riceve sempre di più di quel che si dà, checché si faccia e anche se non lo si vuole.
[…] Il dono genera sempre qualcos’altro, fa apparire un supplemento. Il modello del dono non
obbedisce alle leggi della fisica classica: nel dono qualcosa si crea, qualcosa appare»4. Ecco un evento
che direi letteralmente metafisico, di cui l’analisi sociologica di Marcel Mauss evidenzia le forme più
essenziali.
4
J. Godbout, Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri (Saggi), Torino 1993, p. 265.
3
2. LA SOCIOLOGIA DEL DONO
La sociologia si è occupata in particolare del dono a partire dalla pubblicazione a Parigi, nel
1925, del Saggio sul dono di Marcel Mauss. I pensatori contemporanei rileggono questo testo, ogni tanto
per criticarlo, ma più spesso per portare avanti le sue maggiori intuizioni. Ad una prima lettura, il
saggio di Mauss difende la tesi che, a ogni dono, deve corrispondere un contro-dono. Infatti, in una
società ben educata, dall’origine dell’umanità fino ad oggi, chi riceve deve rendere. Ovviamente, non si
tratta di rendere esattamente ciò che è stato dato, la cosa materialmente identica, ma qualcosa di
equivalente, di uguale valore. Certo, il calcolo di questa uguaglianza dipende da una cultura all’altra; per
una, tal dono conta molto, per un’altra poco; ma essendo questo punto accettato, l’esigenza di
uguaglianza del contro-dono non cambia. La sociologia evidenzia così una reciprocità tra l’offerta e la
riposta. Ora una perfetta reciprocità deve essere interpretata come un annullamento del dono; anzi, lo
scopo preciso del contro-dono sarebbe per l’appunto di annullare il debito venuto dall’accettazione del
dono, di ristabilire in questo modo l’equilibrio del mondo, della relazioni sociali che l’iniziativa del dono
avrebbe rotto manifestando che uno, il donatore, è più ricco o/e potente di un altro, il destinatario.
Mauss sfuma però questo schema di reciprocità, di ritorno del dono al donatore, di annullamento dello
squilibrio provocato dall’iniziativa del donatore. Infatti, osserva Mauss, il donatore, donando, non dà
solo qualcosa. Se donare fosse solo trasmettere qualcosa di misurabile e apprezzabile matematicamente,
il contro-dono potrebbe essere calcolato, valere lo stesso e reso in un modo semplice, come in uno
scambio commerciale, come se bastasse per annullare gli effetti squilibranti del dono. Ma, manifestata la
forma celebrativa del contro-dono, la realtà del dono è differente. Donare non è solo trasferire un bene.
È anche trasmettere una parte di sé, dare una parte di sé all’altro, alienarla. A questo punto di sensibilità
umana, una pura reciprocità diviene difficile, perché adesso entrano in considerazione delle dimensioni
di libertà e di storia umana, degli aspetti d’umanità irrepetibili. Il dono è necessariamente così radicale.
Se non lo fosse, il donatore non ‘donerebbe’ niente che corrisponda al significato esatto del termine; il
suo donare sarebbe un dare o un prestare provvisorio, come per esempio quando presto al mio vicino
la mia bicicletta – ed egli me la rende poi nello stesso stato d’uso. Il dono, invece, non è un prestito. Chi
dona vi perde realmente qualcosa di sé.
Nella sua analisi sociologica, Mauss sottolinea infatti due aspetti del dono che lo distinguono dal
rapporto commerciale: la festa5 durante la quale viene dato il contro-dono, e il tempo. Nelle società
antiche, il contro-dono veniva reso in circostanze festose. Perché la festa? Precisamente perché, nel
dono, il donatore dà più di una cosa; dona una parte di sé, della sua vita, della sua spiritualità, si
potrebbe dire, insomma qualcosa di più, di unicamente materiale o sensibile; nel contro-dono, quindi, il
donatario deve rendere qualcosa di simile, che valga più del sensibile, una parte cioè della propria
personalità, della sua anima. Ma un tale contro-dono rimarrà diacronico, senza una misura comune
calcolabile. L’idea che gestisce l’operazione resta certo quella di un ritorno del contro-dono al donatore
che sia equivalente, ma di una equivalenza impossibile materialmente, da portare quindi su un piano
trascendente. Un tale ritorno non può accontentarsi di un pagamento neutro; costituisce un evento che
deve corrispondere all’atto del dono, alla costruzione di una relazione umana; la festa del contro-dono
esige il coinvolgimento delle relazioni umane, sociali, del donatario. La festa del contro-dono celebra
così il riconoscimento dell’eccellenza spirituale del donatore e del donatario. Lo scambio del controdono continua in questo senso l’evento essenziale del dono, la costruzione di un mondo di relazioni
umane che sia vita, incrocio di forze creative e non solamente trasferimento di un bene materiale. Il
donare manifesta inizialmente questa vita generosa dalla sola parte del donatore; appartiene al donatario
di fare tutto per corrispondere a una tale generosità vitale.
C’è una lettura insoddisfacente di questa problematica, che abbiamo già incontrato. Si dice che il
dono sia di per sé pericoloso; toglie infatti alla personalità del donatore qualcosa che gli appartiene,
rompendo così l’equilibrio di un universo sociale stabile; il dono provoca così il disequilibrio dell’ordine,
o un disordine, e quindi si deve fare tutto il possibile perché sia ristabilito quell’ordine fisso essenziale
Nel suo ultimo libro, Parcours de la reconnaissance. Trois études, Stock (Les Essais), Paris 2004, p. 341, Paul Ricoeur sottolinea
la giusta importanza messa da Marcel Henaff, Le prix de la vérité. Le don, l’argent, la philosophie, Seuil (La couleur des idées),
Paris 2002, sul carattere ceremoniale del contro-dono.
5
4
per la vita tranquilla delle società che Henri Bergson chiamava «chiuse». Ma in realtà, un puro ritorno
all’ordine non fa sì che quell’ordine non sia stato infranto, e perciò la soluzione al problema non può
consistere nel colmare l’abisso sociale così aperto; si tratterà piuttosto di dargli un senso umano. In
realtà, un dono rimette la società in movimento; Émile Durkheim ha messo in evidenza quanto le
società hanno bisogno dell’anomia per evolvere e crescere. Forse non ci sono società radicalmente
chiuse. Le feste sono ‘anomiche’. Si capisce allora perché solamente una festa può corrispondere
degnamente al progetto del contro-dono. Questo deve essere celebrato; costituisce l’evento in cui il
mondo lascia esplodere la sua vita, celebra la sua energia interna. Per rendere il dono in maniera degna,
conveniente, è necessario che il cosmo intero sia chiamato festosamente a testimonianza: nel dono si
mostra ben più della potenza del più ricco che si fa vedere dal più povero.
Un secondo aspetto del dono è la sua funzione temporale. Rendere immediatamente un dono
significa che questo non è veramente importante, che lo si può considerare come un prestito di cui
sarebbe lecito sbarazzarsi più o meno immediatamente. Ora, ciò che una simile fretta fa ignorare è l’atto
libero del donatore, il suo atto personale, la sua volontà di allearsi con il donatario, come se
quest’ultimo non ci tenesse per niente a questa alleanza, volendo in realtà annullare la volontà libera e
personalizzante del donatore che gli dà qualcosa di sé, considerando cioè il donatore come un
‘nessuno’. La distanza temporale tra il dono e il contro-dono evidenzia un aspetto essenziale della
faccenda: il contro-dono costituisce un procedimento che mira al riconoscimento; la sua pratica di
reciprocità non può perciò prendere una forma neutrale, commerciale. La festa in cui il contro-dono
viene reso un pò di tempo dopo il dono (anzi, forse, molto tempo dopo) sottolinea l’aspetto libero,
personalizzante e quindi trascendente l’evento che costituisce l’apparente reciprocità (ma in fondo una
reale non reciprocità) del dono e del contro-dono. Prendere un proprio tempo per rispondere al dono e
poi celebrare con il donatore quel ritorno, onora il donatore stesso, manifestando che il donatario è
stato capace di un autentico riconoscimento del dono della sua persona interiormente al dono materiale
fatto.
Si potrebbe riprendere qui il discorso sul simbolo cominciato all’inizio della riflessione presente.
Abbiamo detto che il simbolo, nel suo significato antico, faceva sì che il tempo trascorso tra l’inizio
dell’operazione commerciale e la sua conclusione veniva annullato. Riprendendo questo concetto,
possiamo comunque trasferirlo su quanto la sociologia ha mostrato. Il simbolo può mantenere qui la
sua struttura sincronica, ma i dati posti insieme adesso sono nuovi. La festa del contro-dono è
chiaramente simbolica e possiamo interpretarla quale attuazione della dimensione più umana e
trascendente delle nostre vite. Il simbolo non funziona più, qui, tra il pagamento del dovuto e il
contratto pattuito all’origine dell’operazione commerciale, ma tra una pratica sociale effettiva e il
significato trascendente di una tale pratica. La festa del contro-dono è simbolo di una trascendenza,
introduce in una dimensione sociale che non dipende né dal donatore né dal donatario, ma che fa vivere
tutti in società.
Il significato più rigoroso del dono quale simbolo non è quindi economico, ma etico6. Si
potrebbe anzi pensare che l’economia di mercato, in cui nessuno intende fare un regalo all’altro, non
prenda minimamente in considerazione l’evento propriamente umano e libero del dono che si compie
nella festa del contro-dono; sarebbe senza etica nella misura in cui ci si riferisce all’ethos, cioè al modo di
vivere nella società degli uomini liberi e responsabili. Una economia di mercato puramente sottomessa
alle sue leggi, pretestuosamente destinali, danneggia l’etica e quindi l’uomo stesso; è incapace di
inventare da sé delle strutture che manifestano il suo carattere propriamente umano. Non le importa la
libertà e la dignità delle persone, la profondità dei rapporti umani. Non sarà per questa ragione che dei
doni si fanno comunque tra gli imprenditori? L’economia del mondo contemporaneo sarebbe ancora
più dura e maligna senza questa scappatoia, che non serve però all’intero demos.
All’eticità può essere connesso la forma stessa del simbolo. Dice Roberto Mancini: «Ogni dono è un messaggio che
configura o rigenera simbolicamente la relazione e le esistenze. Questo va inteso anzitutto nel senso che esso esprime il valore
di legame: donando dico all’altro quanto vale per me, quanto sia importante la relazione con lui o con lei. Inoltre, il dono ha
profondità simbolica perché allude all’identità ulteriore e originale di ognuno, senza ridurla a parti, frammenti, maschere, ruoli o
predicati di un giudizio che noi diamo sull’altro» (“Il dono dell’origine” in Giovanni Ferretti (a cura di), Il codice del dono.
Verità e gratuità nelle ontologie del novecento, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali (Università degli Studi di Macerata), Pisa
– Roma 2003, p. 202).
6
5
Per correggere e rinnovare la riflessione economica secondo la verità umana del dono si
potrebbe presentare adesso, però, un’altra idea di economia: quella della solidarietà.
3. TRE MODELLI DI SOLIDARIETÀ
Il significato del termine ‘solidarietà’ dipende dalle differenti teorie sociali in cui viene utilizzato.
Un primo concetto di solidarietà viene utilizzato e illustrato dalla mentalità liberale per la quale
l’individuo è più importante della comunità sociale. La solidarietà serve qui da strumento per l’individuo
stesso, in vista della propria felicità. Secondo questa prospettiva, gli individui si preoccupano prima di
tutto della propria libertà; la vita sociale viene poi ad incrociare questi atomi di preoccupazione in modo
tale che si equilibrino a vicenda, ciascuno essendo invitato a rinunciare a un bene che si immagina
superiore per la propria felicità ma che sarebbe controproducente e quindi infelice nel contesto sociale
dato. Conviene quindi che l’individuo cerchi anche la relativa felicità degli altri per assicurare la propria.
Aiutare i poveri, rinunciare a una più grande ricchezza condividendo con loro la propria sostanza,
potrebbe rivelarsi proficuo per ciascuno, e quindi per ‘me’. Tuttavia, un simile modello di solidarietà
sarebbe a senso unico; non attuerà una vera alleanza con gli altri; non rispetterà e non amerà la loro
dignità per se stessa, la loro capacità di entrare nella vita sociale a titolo di uguali; tutti cercheranno
invece di calibrare gli altri in vista della propria felicità. Quando la preoccupazione per gli altri si misura
prima di tutto sulla preoccupazione per il proprio bene, non ci si aspetterà niente da colui che riceverà
l’eventuale aiuto; questi dovrà rimanere solo passivo, ‘cliente’, e un pericoloso potenziale concorrente.
Un’altra forma di solidarietà appartiene al comunitarismo. Nel liberalismo, la persona si
definisce quale libertà slegata da ogni relazione intrinseca con gli altri; nel comunitarismo, invece, la
persona è intrinsecamente membro di una società; la sua libertà è perciò sempre situata, fedele alla sua
essenza se vive condividendo la vita degli altri. Secondo questo modello, appartiene allo Stato il dovere
di intervenire nella vita dei concittadini, membri che appartengono al suo insieme, da gestire come in un
sistema; organizzando gli interscambi democratici, limiterà ed eventualmente negherà, le sfere del
‘privato’; la solidarietà, pensata quale aspetto essenziale della struttura sociale, sarà similmente limitata.
La difficoltà che sorge da una tale idea è ovviamente che le persone singole spariscono; saranno
considerate solo come degli elementi atomici utili nel sistema. Ora: che tipo di società umana sarà un
gruppo umano in cui non si vede nessuna libertà, è quindi nessuna singolarità umana ? D’altronde,
nessuna società particolare è assolutamente indispensabile; lo dimostra la molteplicità e la varietà delle
loro forme. I gruppi umani sono molti perché nessuno è eternamente necessario; tutti si alleano
socialmente per la necessità delle libertà. Inoltre, alcune persone si impegnano facilmente in molti
gruppi, e altre si tengono ai margini. Il comunitarismo non permette di allargare la solidarietà a chi si
nasconde. Infine, si può indovinare nel comunitarismo la medesima tentazione che abbiamo già
incontrato nel liberalismo: qui, sarà il gruppo, quello di coloro che hanno il potere, e non un individuo
desideroso di mostrare la propria potenza, che imporrà le sue volontà. La solidarietà sarà così
organizzata secondo le opzioni di un gruppo d’interesse.
Un terzo modello di solidarietà caratterizza le democrazie sociali. È un modello che propone
una specie di sintesi dei due precedenti. Si considera qui, come nel comunitarismo, che la persona
umana è intrinsecamente sociale; lo Stato sarà perciò concepito come luogo normale della vita, ma uno
Stato attento alla libertà di ciascuno, come nel liberalismo, che integra realmente tutte le persone,
compresi gli emarginati. Le democrazie sociali vorrebbero quindi unire il meglio del liberalismo e del
comunitarismo. Lo Stato può e deve, in questo contesto, richiedere la partecipazione di tutti; in cambio,
assicurerà il benessere di ciascuno, senza eccezioni. Ma, in pratica, nelle democrazie sociali, la solidarietà
si istituzionalizza spontaneamente nelle amministrazioni, a meno che la politica faccia il suo mestiere –
ciò che è spesso problematico essendo tanti gli intrecci tra il politico e il commerciale o l’industriale.
Questo modello di solidarietà ha funzionato per decenni in Europa Occidentale. Oggi, nell’epoca della
globalizzazione, diviene più difficile perché i modelli di unificazione sociale sono più economici che
culturali, e quindi dipendenti dalla ricchezza che sarà sempre di alcuni privilegiati. Inoltre, le democrazie
sociali hanno prodotto, come nel comunitarismo, un clientelismo per cui molti dipendono dagli
amministratori dello Stato. Una solidarietà vera non può essere vissuta in quel contesto; gli esclusi
6
rimarranno molti malgrado i progetti iniziali. Tuttavia, le democrazie sociali lasciano spazio alle
coscienze civili, che le sono necessarie e che possono farsi carico del volontariato quando lo Stato
manca al suo dovere ideale. Viene evidenziato così che il volontariato corregge ciò che i sistemi sociali
non possono integrare, anche se l’ideale di tali sistema sarebbe ovviamente l’integrazione di tutti.
Sono quindi differenti i modelli che costruiscono l’idea di solidarietà, tutti modelli che hanno le
loro ragioni storiche e le loro circostanze politiche. Il terzo modello propone, però, una sintesi, benché
fragile, dei primi due. Il filosofo che fa riferimento a questi dati deve rimanere prudente: non è suo
compito fare politica nel concreto della storia dei popoli. Non gli compete decidere delle modalità della
vita comune, modalità che d’altronde si muovono da un sistema all’altro a seconda delle possibilità
storiche. La filosofia deve però indicare le dimensioni essenziali dell’uomo che la politica non può
tralasciare7.
4. IO E GLI ALTRI
La filosofia contemporanea si occupa prima di tutto di etica. Il fondamento filosofico dell’etica
sta nelle strutture antropologiche che fanno dell’uomo ciò che è. L’uomo, si asserisce abitualmente, è un
animale ragionevole. La ragionevolezza rimanda all’universalità della ragione, e dunque alla prudenza
pratica; infatti, la ragione è la funzione dell’universale concreto. L’universalità della ragione implica che
l’uomo non è una libertà che avrebbe significato per se stessa, isolatamente. Una libertà assoluta sarebbe
astratta: per natura sua, l’uomo tende verso gli altri, si unisce a loro che sono fatti della sua stessa
sostanza. Solitario, chiuso su di sé e sui suoi interessi, si dimenticherà della sua origine e perderà
qualcosa della propria natura ragionevole. L’uomo nella sua essenza concreta e razionale, è relazionale:
una ‘persona’. Ora, la ragionevolezza della persona non fa sì che la sua universalità sia immediatamente
vissuta. È piuttosto una vocazione. La persona è chiamata a universalizzarsi, ad uscire dalla sua
solitudine e dalle pretese angosciate del suo sé. Ecco perché l’universale che lo chiama non può essere
un genere omogeneo in cui l’originalità di ciascuna persona chiamata verrebbe a sparire. Da ciò segue
che la pratica retta dell’uomo si fa attenta alla differenza di ciascuno, si fa cioè prudente.
Essere con gli altri personalizza: sono ‘io’ a condizione di non essere solo, nella medesima
misura in cui gli altri sono riconosciuti amabili nella loro singolarità originale e differente da me. Non ci
può essere infatti un conflitto tra ‘io’ e ‘tu’, ‘lui’, ‘loro’, ma una collaborazione, una coazione. Le persone
che si chiamano naturalmente a vicenda si rendono tali, sono. L’io si conosce non tanto perché è capace
di agire, di fare molte cose, ma in quanto ascolta l’invito dell’altro e l’accoglie, soprattutto quando colui
che chiama è il povero che mi impone di essere aiutato, amato. Il povero è in questo senso
trascendente: mi ordina di mettermi al suo servizio. Ma da dove proviene questo suo diritto e questo
suo potere? Dalla semplice umanità sua e mia. L’essere umano non è una essenza generale ma un
esigenza o una chiamata di vita. Lo mostra il fatto che spesso il povero non si lascia fare prima che io lo
abbia ascoltato – anche se gli oppressi dalla vita non credono più alla loro dignità, disperando di essa;
uno dei primi compiti della solidarietà sarà dunque di far emergere di nuovo in essi il senso della dignità
umana, assicurando anche le possibilità concrete e politiche di rivendicarla, agendo quindi con un
rispetto infinito nei loro confronti.
Ecco perché il dono è essenziale per l’umanità. Mauss notava che, nel dono, il donatore cerca il
riconoscimento da parte del donatario8. Ma che tipo di riconoscimento si potrà sperare? Non solo
quello, auto-referenziale, della forza del donatore, di cui si saprebbe sprovvisto il donatario. Un simile
riconoscimento, se viene cercato dal donatore, sarebbe una contraddizione del suo dono;
In questo senso, la filosofia del dono, appoggiata dalla sociologia di Mauss, può presentare una riflessione essenziale.
Alcune osservazioni di A. Caillé, all’inizio del suo articolo “Dono e simbolismo”, lo indicano: «con il suo Essai sur le don,
Marcel Mauss [ha] gettato le basi di un paradigma alternativo e complementare nello stesso tempo ai due paradigmi
dominanti nelle scienze sociali – l’individualismo e l’olismo metodologici –, e che questo paradigma del resto non sia che il
paradigma specificamente sociologico [… che] potrebbe e dovrebbe essere qualificato anche come paradigma del dono, del
simbolismo e del politico. Formulazione che implica che fra dono, simbolismo e politico (nel senso del politico e non della
politica), esiste una specie d’identità, di analogia profonda, d’isomorfismo o, perlomeno, di coestensività» (p. 206).
8 Marcel Henaff ha insistito in modo originale su questo punto nel suo libro Le prix de la vérité. Le don, l’argent, la philosophie,
Seuil (La couleur des idées), Paris 2002, pp. 175-181.
7
7
significherebbe che vorrebbe essere pagato dalla sottomissione del donatario aiutato. Ciò che invece
spera in modo autentico il donatore, è che il suo dono sia di nuovo dato dal donatario, non a lui, ma al
di là del donatario, vale a dire che il donatario sia a sua volta donatore per un altro donatario. Un dono
non può essere veramente un dono se non viene donato a sua volta. La sua essenza si manifesta così
nella sua purezza, e costituisce ad un tempo la forma più ricca di una vita civile e sociale eccellente.
Potremmo indicare, per concludere, questa riflessione, che è propriamente quel dono donato
che Jean-Luc Marion leggeva nei testi dello Pseudo-Dionigi: «L’uomo […] riceve il dono come tale solo
accogliendo l’atto di donare, cioè ancora donando a sua volta. Ricevere il dono e donarlo si confondono
in una sola ed identica operazione, la ridondanza. Solo il dono del dono può ricevere il dono, senza
appropriarsene e distruggerlo, in un mero possesso»9.
Paul Gilbert sj
Ordinario di Metafisca
Università Gregoriana, Roma
J.-L. Marion, L’idolo e la distanza. Cinque studi, Jaca Book, Milano 1979. Con questa riflessione Marion mostra, in anticipo, di
non condividere le considerazione di Jacques Derrida sull’impossibilità del dono: «Affinché vi sia dono, bisogna che il
donatario non restituisca, non ammortizzi, non rimborsi, non si sdebiti, non entri nel contratto, non abbia mai contratto un
debito […]. Bisogna che, al limite, non riconosca il dono come dono» (J. Derrida, Donare il tempo. La falsa moneta, Raffaello
Cortina Editore, Milano 1996, p. 14).
9
8
Scarica