CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA AZIENDALE Metodi Statistici

CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA AZIENDALE
Metodi Statistici per le decisioni d’impresa (Note didattiche)
Bruno Chiandotto
3. TEORIA DELLE DECISIONI
Nello studio dei fenomeni* di qualunque natura essi siano (economici, aziendali,
fisici, biologici, ecc.) e qualunque sia la finalità (puramente conoscitiva o operativa) che
s’intende perseguire, sorge sovente la necessità di rappresentare le manifestazioni dei
fenomeni stessi attraverso tabelle e grafici per recepire più immediatamente particolari
caratteristiche del fenomeno oggetto di analisi, altre volte può interessare cogliere nella
multiforme variabilità o mutabilità (**)delle loro manifestazioni, quello che in esse c'è di
tipico o di costante, o magari interessa fornire una qualche misura della diversità stessa
e/o di voler evidenziare in qualche modo l’eventuale relazione che lega fenomeni
diversi ma logicamente collegati; infine, si può avere interesse a rappresentare il
fenomeno o la relazione tra fenomeni mediante specifici modelli analitici che,
schematizzando e semplificando la realtà, ne rendono più facile la comprensione.
L’interesse può riguardare quindi:
a)
l’esecuzione di rappresentazioni tabellari e grafiche che mettano in evidenza certi
aspetti generali del fenomeno o dei fenomeni oggetto di analisi;
b)
il calcolo di indici che mettano in evidenza quello che c'è di tipico nelle
manifestazioni dei fenomeni;
c)
il calcolo di indici che mettano in evidenza quello che c'è di mutabile e/o variabile
nelle manifestazioni di fenomeni;
d)
la misura della relazione tra fenomeni mediante appropriati indici;
e)
l’introduzione di funzioni (modelli) che esprimano analiticamente l'insieme delle
manifestazioni del fenomeno e/o la relazione tra fenomeni.
* In questa nota tutte le volte che si usa il termine fenomeno si fa riferimento al così detto fenomeno
collettivo, cioè ad un fenomeno la cui misura e conoscenza richiede l’osservazione di una pluralità di
sue manifestazioni.
** Si dice variabile il fenomeno collettivo le cui manifestazioni si diversificano per grandezze numeriche
enumerabili o misurabili (caratteri quantitativi), si dice mutabile il fenomeno collettivo le cui
manifestazioni si diversificano per attributi non numerici (caratteri qualitativi) che possiedono, o
meno, un ordine naturale di successione. Come si avrà modo di specificare nelle pagine seguenti, la
natura, quantitativa o qualitativa, delle modalità classificatorie condiziona interamente il processo di
analisi statistica delle informazioni: dalla fase di raccolta dei dati a quella dell’elaborazione finale.
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Versione 00 – Cap. 3
In particolare, se si è interessati alla conoscenza di un certo fenomeno (definito da
uno o più caratteri d’interesse) F si possono rappresentare le sue possibili
manifestazioni (modalità del o dei caratteri considerati) come punti di un insieme P.
Ovviamente non tutti i punti hanno lo stesso peso, e cioè può accadere che una
determinata manifestazione (specifica modalità del carattere considerato) si realizza più
frequentemente di una seconda e questa più frequentemente di una terza e così via, in tal
caso, a ciascun punto resta associato un peso che, a seconda del contesto di riferimento,
descrittivo o modellistico, prende il nome di frequenza (relativa) o di probabilità
All'insieme P (popolazione) può essere associato un secondo insieme R che può
essere chiamato caratteristico, cioè l'insieme di tutti gli oggetti e gli indici di sintesi
che in modo compatto caratterizzano il fenomeno e che possono essere derivati
applicando le funzioni (da intendersi in senso lato come gruppo di operazioni logiche o
algebriche di qualunque natura) f 1 (P ), f 2 (P ),..., f h (P ), all'insieme P in modo tale che
ciascun elemento di R consenta una più facile ed immediata comprensione del fenomeno F.
Quella riportata nella Fig.1 è una schematizzazione estremamente semplificata dei
problemi propri della cosiddetta statistica descrittiva cui si è riferito ai punti a) - d) in
precedenza e che verrà trattata nel Cap. 4 di queste Note.
f 1 (⋅)
F
f i (⋅)
P
R
f h (⋅)
Fig. 1 - Rappresentazione schematica della struttura del processo di
“compattazione” delle informazioni (Statistica descrittiva)
Era implicito nelle argomentazioni svolte, che si presupponeva di poter disporre di
tutte le manifestazioni del fenomeno o dei fenomeni oggetto di analisi, e che si voleva
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Versione 00 – Cap. 3
in qualche modo, attraverso tabelle, grafici o computo di indici caratteristici,
compattare le informazioni, raccogliere, cioè, molteplici aspetti in un solo aspetto,
individuare il costante nel variabile, accentuare quella particolarità del fenomeno che
più interessava oscurandone altre ecc.. Riflettendo un momento ci si rende
immediatamente conto di come quella prospettata non sia usualmente la realtà in cui si
opera: nella generalità dei casi si deve procedere nell’analisi di un fenomeno, avendo a
disposizione soltanto una parte delle manifestazioni dello stesso. In altri termini si
dispone di un sottoinsieme
C (campione) di manifestazioni del fenomeno F pur
restando inalterato il problema di comprensione del fenomeno attraverso l'utilizzo di
tabelle, grafici e appropriati indici sintetici. Si ammetta dunque di essere interessati ad
un particolare indice sintetico θ e che questo possa essere determinato applicando la
funzione f (⋅) a P, ma, che sia impossibile effettuare una tale operazione potendo
disporre soltanto di un sottoinsieme C (campione) delle manifestazioni del fenomeno F.
Il problema da risolvere a questo punto, è quello della individuazione della
funzione t (⋅) che applicata a C fornisca un punto θ̂ nello spazio caratteristico Rc che sia
il meno dissimile possibile da θ (si veda Fig. 2). Ad esempio, se interessano, indici
sintetici che siano rappresentativi non di particolari aspetti del fenomeno, così come
risulta dall'insieme parziale C delle sue manifestazioni, ma come risulterebbe se si
disponesse dell'insieme P di tutte le sue manifestazioni. In proposito si deve sottolineare
che C è un sottoinsieme di P (C ⊆ P) ma è anche elemento dello spazio o universo dei
campioni Ω (C ∈ Ω), cioè, dell’insieme di tutti i possibili campioni (sottoinsiemi)
“estraibili” dalla popolazione P.
Per denotare l’universo o spazio dei campioni è stato utilizzato lo stesso simbolo
algebrico Ω impiegato nel capitolo precedente per rappresentare lo spazio campionario.
Il motivo di una tale operazione risiede nella completa analogia tra la situazione qui
prospettata e quella discussa in precedenza; infatti, anche in questo caso si sta trattando
di una prova o esperimento casuale (come verrà chiarito nel Cap. 5 quando si parla di
campioni si fa riferimento, in modo esclusivo, a campioni casuali) il cui risultato (punto
campionario) assume una particolare connotazione che è quella di campione come
sottoinsieme (casuale) dell’insieme P che include tutte le possibili manifestazioni del
fenomeno oggetto di studio F.
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f 1 (⋅)
F
f i (⋅)
P
R
f h (⋅)
DEDUZIONE
(Calcolo delle Probabilità)
INDUZIONE
( Infererenza statistica)
classica
SPAZIO o UNIVERSO
dei Campioni
t 1 (⋅)
C
t i (⋅)
t k (⋅)
Rc
Fig. 2 - Rappresentazione grafica del processo di induzione statistica (Inferenza statistica
classica)
Nella Fig. 2 si riporta una schematizzazione del processo di induzione statistica, si
osservi che le frecce che connettono l’insieme P (popolazione) all’insieme delle
rappresentazioni statistiche R, sono tratteggiate in quanto, non disponendo di tutte le
possibili manifestazioni del fenomeno F, non è possibile procedere all’applicazione di
funzioni all’insieme P non noto.
S'è detto che θ̂ deve essere il meno dissimile da θ ; con linguaggio più tecnico si
dice che θ̂ deve essere una buona stima di θ .
Quello della stima, è il primo dei due problemi classici che costituiscono l'oggetto
di studio della c.d. inferenza statistica o statistica induttiva. Un tale problema
consiste, come già detto, nel cercare di estendere, ad esempio, le conclusioni relative
alla misura di un certo indice caratteristico, derivante da un insieme parziale di
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Versione 00 – Cap. 3
manifestazioni di un determinato fenomeno, all'insieme di tutte le sue manifestazioni,
effettive o potenziali che esse siano.
Se le conclusioni cui si vuol pervenire non riguardano direttamente la misura di
una entità incognita ma la validità di una specifica assunzione relativa a tale entità si ha
a che fare con il secondo problema di cui si occupa la statistica induttiva: “il test delle
ipotesi (statistiche)”.
Il problema della stima e quello del test delle ipotesi coinvolgono problematiche
logicamente diverse e devono, pertanto, essere tenuti distinti anche se i due problemi
risultano strettamente collegati e costituiscono, come già sottolineato, il corpo
dell’inferenza statistica.
Quella riportata nella Fig. 2 è una rappresentazione schematica dell’inferenza
statistica quando il processo di induzione prevede l’utilizzo delle sole informazioni
campionarie. Ma, in qualunque processo di induzione statistica si utilizzano,
implicitamente o esplicitamente, anche altre informazioni che costituiscono il bagaglio
conoscitivo (patrimonio informativo) riguardante lo specifico fenomeno oggetto
d’analisi di cui già si dispone. Se nell’analisi induttiva si procede, comunque all’utilizzo
di tale tipologia d’informazioni (informazioni a priori), risulta più che ragionevole la
richiesta di esplicitazione dell’utilizzo stesso.
L’inferenza statistica basata sull’impiego esplicito delle sole informazioni
campionarie viene detta inferenza statistica classica. Si parla invece di inferenza
statistica bayesiana (dalla formula di Bayes introdotta nel capitolo precedente) quando
l’impiego delle informazioni a priori viene esplicitato. Nella Fig. 3 viene proposta la
schematizzazione del processo d’induzione statistica bayesiana.
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Inferenza statistica
Bayesiana
F
R
P
UNIVERSO o SPAZIO
Dei campioni
C
DEDUZIONE
Calcolo delle
Probabilità
C
Inferenza statistica
Classica
Rc
Informazioni a priori
INDUZIONE
Fig. 3 – Rappresentazione grafica del processo di induzione statistica (inferenza
statistica classica e inferenza statistica bayesiana)
Nei capitoli 6,7 e 8 di queste note si tratterà in modo esclusivo dei metodi propri
dell’inferenza statistica classica, mentre nel Cap. 9 si tratterà dei metodi che rientrano
nell’ambito della logica bayesiana; si parlerà, in particolare della teoria statistica delle
decisioni in ottica bayesiana.
La complessa natura dei fenomeni economici, biologici, fisici, ecc. oltre a giustificare l'esistenza di metodi statistici sempre più raffinati, esige spesso l'introduzione di
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modelli rappresentativi che, semplificando e schematizzando la realtà, ne rendono più
facile la comprensione.
Poichè una serie innumerevole di fenomeni nelle varie scienze, è governata da
leggi aventi natura aleatoria, ne consegue immediatamente che i modelli probabilistici
risultano essere i più appropriati per descrivere le loro manifestazioni.
Anche se fra i criteri logici od empirici che possono guidare nella individuazione
del modello rappresentativo più opportuno alcuni hanno validità generale, usualmente,
essi sono strettamente connessi alla natura e al tipo del fenomeno che si intende
analizzare. La stima e la verifica della bontà rappresentativa dei modelli sono, in un
contesto lievemente differente, gli stessi due problemi di stima e di verifica delle ipotesi
sopra considerati.
Uno degli aspetti più importanti di cui la statistica si occupa, è dunque quello
dell'estensione di conclusioni cui si può pervenire relativamente ad un campione di
osservazioni alla popolazione dal quale il campione è stato estratto. Se si fa riferimento
ai modelli, tale problema si risolverà nell'utilizzazione delle informazioni campionarie
(e di eventuali informazioni a priori) per la scelta, la modifica e la misura del grado di
rappresentatività dei modelli probabilistici, od anche, nella verifica di ipotesi statistiche
sulla forma e/o sul valore dei parametri che caratterizzano i modelli stessi (cfr. Fig. 4).
Inferenza statistica
bayesiana
MODELLO
DEDUZIONE
(Calcolo delle)
probabilità
Inferenza statistica
classica
SITUAZIONE
UNIVERSO
DEI
CAMPIONI
INDUZIONE STATITICA
EVIDENZA
EMPIRICA
REALE
(CAMPIONE)
Informazioni a priori
Fig. 4 – Rappresentazione schematica della relazione tra situazione reale, evidenza empirica,
probabilità, inferenza statistica e modello
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Se ci si domanda poi per quale ragione si è interessati alla comprensione dei
fenomeni, l’ovvia e semplicistica risposta è che si può voler soddisfare una mera
esigenza conoscitiva o che la conoscenza stessa è finalizzata alla risoluzione di uno
specifico problema decisionale.
La scelta può riguardare gli aspetti più diversificati che vanno da quelli quotidiani
più banali (dovendo raggiungere un luogo di lavoro, di studio, ..., distante dalla propria
abitazione ci si può servire di un mezzo pubblico di trasporto o utilizzare l’automobile
personale o chiamare un taxi; dovendo uscire di casa con tempo incerto si deve decidere
se prendere o meno l’ombrello), a quelli relativamente più complessi riguardanti, ad
esempio, il gestore di una piccola attività commerciale (procedere o meno alla
ristrutturazione, e in che modo, dei locali in cui si svolge l’attività commerciale,
effettuare, e in che forma e tramite quale veicolo, o meno attività promozionali, e fino a
che punto, e in che modo, ampliare la gamma di prodotti offerti, ecc.), fino ai problemi
decisamente più complessi ed articolati quali, ad esempio quelli propri delle imprese di
medie e grandi dimensioni qualunque sia il settore di attività (procedere alla produzione
di un nuovo modello, e quale, di automobile, conseguente scelta del processo produttivo
più adeguato, procedere, come, dove e con quali dimensioni o meno all’impianto di un
nuovo stabilimento, ecc.).
Qualunque problema decisionale da risolvere, dal più banale al più complesso,
richiede la chiara definizione del problema stesso e l’individuazione delle possibili
relazioni che connettono i vari elementi o aspetti che lo caratterizzano.
Se, ad esempio, si ipotizza l’interesse di una impresa riguardi la produzione e
commercializzazione di un nuovo prodotto, l’impresa stessa dovrà, quantomeno,
considerare ed analizzare approfonditamente i seguenti aspetti:
1. la domanda potenziale del nuovo prodotto;
2. la presenza sul mercato di prodotti competitivi;
3. i costi di produzione e di commercializzazione;
4. la disponibilità di materie prime, macchinari e personale;
5. la disponibilità ed il costo del denaro.
Ma, sono moltissimi altri gli aspetti non elencati che devono essere considerati per
la risoluzione del problema decisionale sopra adombrato; aspetti che devono essere tutti
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Versione 00 – Cap. 3
attentamente valutati e ricompresi in un adeguato quadro logico di riferimento se si
vuole procedere nella risoluzione del processo decisionale in modo ottimale. Ottimalità
che, in un modo molto semplicistico, può essere definita come il raggiungimento di un
obiettivo prefissato tramite il minimo impiego di risorse o anche il conseguimento
del massimo risultato (ad es. utile) per un prefissato ammontare di risorse.
Il quadro logico di riferimento e le informazioni sono gli ingredienti essenziali di
ogni processo decisionale, la teoria delle decisioni, la teoria statistica ed i metodi e i
modelli sviluppati in questi ambiti disciplinari sono gli strumenti essenziali (e necessari)
per lo svolgimento ottimale di ogni processo decisionale, decisioni che, come già
sottolineato e come si avrà modo di verificare successivamente, devono essere nella
generalità dei casi prese in situazioni di conoscenza parziale della realtà in cui si opera.
Conoscenza parziale perché risulta impossibile o non conveniente acquisire tutte le
informazioni relative agli aspetti che interessano pur essendo, almeno teoricamente,
possibile una loro acquisizione totale; altro caso è quello della conoscenza parziale
perché le informazioni non sono neanche potenzialmente disponibili.
Se si fa riferimento al semplice esempio sopra introdotto la prima situazione di
informazione completa acquisibile potrebbe essere quella relativa alla presenza sul
mercato di prodotti competitivi, la loro copertura ecc., mentre è certamente non
acquisibile l’informazione sull’entità degli acquirenti il nuovo prodotto; in quest’ultimo
caso si potrà procedere soltanto ad una stima del numero dei potenziali clienti.
Si è già detto che la disciplina che si occupa della raccolta e del trattamento
scientifico delle informazioni è la Statistica, se poi le informazioni stesse devono essere
utilizzate per risolvere uno specifico problema decisionale, cioè in un problema che si
risolve nella scelta ottimale di una tra diverse alternative a disposizione, allora il
contesto di riferimento è la Teoria delle decisioni. Nella fusione delle due discipline si
sostanzia un’altra disciplina scientifica: “La Teoria statistica delle decisioni” che per
certi versi può essere intesa come generalizzazione ed estensione della Statistica che in
questo modo risulta anche meglio caratterizzata nelle sue diverse connotazioni e meglio
precisata nei contenuti. In altri termini si può anche definire la statistica come il
fondamento logico per la risoluzione dei problemi decisionali.
La teoria delle decisioni fissa principi razionali di comportamento che consentono
la derivazione di regole di scelta ottimale. Gli sviluppi più recenti di tale teoria
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consentono anche di valutare e correggere eventuali incoerenze e contraddizioni nel
comportamento dei decisori.
Oggetto di studio della teoria delle decisioni è il processo decisionale. Attraverso
l’analisi del comportamento degli attori (individui o gruppi) coinvolti nel processo si
procede, cioè, all’esame di come i decisori prendono o dovrebbero prendere delle
decisioni.
Allo sviluppo della teoria delle decisioni hanno contribuito cultori di discipline
diverse: filosofi e logici, matematici e statistici, psicologi e sociologi, economisti, ecc.
Le applicazioni della teoria spaziano dalle speculazioni astratte, relative ad agenti
idealmente razionali, ai suggerimenti pratici per la risoluzione di specifici problemi
decisionali. I teorici della decisione indagano sulle conseguenze logiche di differenti
regole decisionali o esplorano gli aspetti logico-matematici di diverse descrizioni di
comportamento razionale; gli applicati sono invece interessati all’esame dei processi
decisionali così come gli stessi si svolgono nella realtà.
In questa ottica si è soliti distinguere la teoria delle decisioni in due filoni
principali: teoria normativa e teoria descrittiva. Chi si occupa di teoria descrittiva
cerca di scoprire come le decisioni vengono prese nei diversi contesti operativi; chi si
occupa di teoria normativa analizza il modo con cui le decisioni dovrebbero essere prese
facendo riferimento ad agenti idealmente razionali. Questa distinzione è utile ma
alquanto artificiale, essendo l’informazione sul modo effettivo di prendere decisioni,
certamente rilevante ai fini della fissazione di regole su come le decisioni devono essere
prese; d’altro lato nessuno studio sul comportamento effettivo di agenti può consentire il
conseguimento di risultati soddisfacenti se lo stesso non viene, in qualche modo, posto a
confronto con una sorta di comportamento ideale.
La teoria descrittiva delle decisioni non interessa in questa sede essendo oggetto
di discipline specifiche quali la psicologia, la sociologia e, per alcuni aspetti,
l’economia. Qui verranno presentati gli elementi essenziali della teoria normativa delle
decisioni: ci si occuperà, cioè, di come le decisioni dovrebbero essere prese per
massimizzare il proprio benessere e non di come le decisioni sono effettivamente prese.
Ma, come già sottolineato, il riferimento alla teoria normativa non può essere
assoluto, si deve, infatti, tenera conto di tutta una serie di vincoli e di condizionamenti
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che emergono dall’analisi dei processi reali affinché le regole di comportamento
razionale possono tradursi in comportamenti effettivi.
Per caratterizzare e distinguere questo specifico sviluppo della teoria normativa
delle decisioni alcuni autori hanno suggerito la dizione teoria prescrittiva che si
caratterizza, appunto per il fatto che le regole ideali di comportamento razionale
analizzate devono poter essere tradotte in comportamenti reali.
Un’altra importante distinzione operata all’interno della teoria delle decisioni è
quella tra decisioni individuali e decisioni di gruppo. Da sottolineare che ai fini di
questa distinzione una decisione individuale non deve necessariamente riferirsi ad un
singolo individuo, anche le imprese, le associazioni, i partiti, le nazioni, le regioni, le
università, ecc., quando mirano al conseguimento di un obiettivo comune della
organizzazione prendono decisioni individuali. Si parla, invece, di decisioni di gruppo
quando gli individui che appartengono alla stessa organizzazione manifestano opinioni
diverse rispetto ai fini o alle priorità del gruppo.
La parte più rilevante della ricerca relativa alla teoria delle decisioni di gruppo è
stata rivolta allo sviluppo di strategie comuni per governare i vari componenti del
gruppo e alla distribuzione delle risorse all’interno del gruppo stesso ed in questo
ambito assumono, spesso, grande rilevanza aspetti etici e morali. All’opposto, nella
teoria delle decisioni individuali ci si concentra sul problema di come gli individui
possono favorire i propri interessi, qualunque sia la loro natura, non riconoscendo
alcuna rilevanza ad aspetti etici e/o morali; potrebbe essere pertanto possibile per un
agente idealmente razionale trovarsi in condizioni migliori violando la strategia comune
del gruppo di appartenenza.
Risulta chiaro ormai perché alcuni filosofi siano rimasti affascinati dalla teoria
delle decisioni; la teoria non si limita alle applicazioni in problemi filosofici tradizionali
ma è la teoria stessa che è intrisa di problemi filosofici. Comunque i filosofi sono più
interessati all’applicazione della teoria delle decisioni ai problemi filosofici piuttosto
che all’analisi dei problemi filosofici ad essa interni.
La nozione di agente razionale risulta di fondamentale importanza in filosofia. Le
azioni morali sono azioni razionali? Gli agenti razionali costruiscono società giuste? A
questi interrogativi, i filosofi non sono riusciti a fornire una risposta soddisfacente
finché, nell’ambito della moderna teoria delle decisioni, non sono stati sviluppati
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modelli specifici di razionalità e principi specifici di scelta sociale. E’ certamente vero
che le risposte fornite non sono ancora conclusive, ma è anche vero che le
argomentazioni avanzate sono oggi molto meno vaghe di quelle svolte in passato.
Dunque la teoria delle decisioni è di per se filosoficamente importante, ma gli
aspetti filosofici verranno trascurati in questa sede, così come verrà trascurata tutta la
problematica relativa alle decisioni di gruppo.
Qualunque decisione, sia essa individuale o di gruppo, comporta una scelta tra più
alternative, o azioni, o atti, ciascuna delle quali produrrà una tra più conseguenze che
dipenderà dalle condizioni del contesto, stato di natura, nel quale il processo
decisionale si svolge. Le decisioni, sono, pertanto, costituite da azioni, stati e
conseguenze, con le ultime che dipendono, nella generalità dei casi, dall’azione e dallo
stato in cui l’azione si verifica.
Quando si analizza un problema di decisione, l’analista, che può essere lo stesso
soggetto che prende la decisione, deve individuare l’insieme rilevante delle azioni, degli
stati e delle conseguenze per caratterizzare in modo adeguato il problema stesso.
Attraverso l’individuazione di azioni, stati e conseguenze e costruendo, eventualmente,
una tavola o un albero di decisione, si procede alla specificazione del problema
decisionale.
Alcune interessanti questioni sono legate alla specificazione di un problema
decisionale. La prima riguarda la descrizione appropriata degli stati di natura. Ogni
problema decisionale implica delle conseguenze che il soggetto della decisione
considera migliori di altre, altrimenti non sussisterebbe un problema di scelta. In questo
ambito assume particolare rilevanza il principio della dominanza che dice di escludere
tutte le alternative che comportano conseguenze peggiori, qualunque sia lo stato di
natura, di una qualche specifica alternativa. Se c’è un’alternativa che domina tutte le
altre, il principio di dominanza porta a scegliere tale alternativa ed il problema
decisionale è risolto in modo ottimale. Sfortunatamente casi del genere si riscontrano
molto raramente nelle situazioni reali.
Una seconda interessante questione legata alla specificazione del problema
decisionale è quella relativa alla distinzione tra decisione giusta e decisione razionale.
La decisione di chi agisce è giusta se si risolve in esiti ottimali, se si disponesse di una
conoscenza completa del futuro basterebbe, pertanto, fare riferimento al solo: principio
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prendi la decisione giusta. Purtroppo la maggior parte delle decisioni è basata sul ciò
che si ritiene possa accadere e non su quello che accadrà realmente. Nella quasi totalità
dei casi risulta quindi impossibile prendere una decisione giusta, si dovrà allora
prendere una decisione razionale, valutando al meglio l’insieme parziale di informazioni
a disposizione riguardo al vero stato del mondo, e non è affatto scontata l’equivalenza:
decisione razionale = decisione giusta.
Da quanto sopra detto emerge implicitamente una diversificazione tra situazioni
decisionali.
Usualmente si distinguono le decisioni a seconda del contesto informativo in cui
l’agente opera in:
1.
decisioni in situazioni di certezza
2.
“
“
“
“ rischio
3.
“
“
“
“ incertezza
Se con A = {a1 , a 2 ,..., ai ,..., a m } si indica l’insieme delle decisioni (azioni)
alternative possibili, con Θ = {θ 1 ,θ 2 ,...,θ j ,...,θ n } l’insieme dei possibili stati di natura e
con C = {c11 ,c12 ,...,cij ,...,c mn } l’insieme delle conseguenze, dove le conseguenze cij
sono funzione dell’azione ai e dello stato θ j
cij = f ( a i ,θ j )
per i=1, 2, ..., m ; j=1, 2, ..., n
si può rappresentare il processo decisionale (dove è stato ipotizzato un numero discreto
di alternative ed un numero discreto di stati di natura) in modo appropriato facendo
ricorso alla tavola di decisione o all’albero di decisione:
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Stato di
natura
Azioni
a1
a2
¨1
¨2
¨
j
¨n
c11
c 21
c12
c 22
ai
ci 1
ci 2
c1 j
c2 j
cij
c1 n
c2 n
cin
am
cm 1
cm 2
c mj
c mn
Tab. 1 –Tavola di decisione
c11
θ1
θ2
c12
.
.
θj
.
c1j
.
θn
.
.
c1n
c21
a1
θ1
θ2
c22
.
.
θj
.
θn
a2
c2j
.
.
c2n
.
.
.
Nodo
decisionale
.
ci1
ai
.
.
.
θ1
θ2
ci2
.
.
θj
am
Azioni
.
θn
.
cij
.
.
cin
cm1
θ1
θ2
cm2
.
.
θj
Nodo
aleatorio
.
θn
Stati
.
cmj
.
.
cmn
Conseguenze
Fig. 5 - Albero di decisione
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Se l’agente, il decisore, conoscesse lo stato di natura, ad es.: θ j , il problema
di scelta si ridurrebbe al confronto tra m conseguenze (nell’es. c1 j , c 2 j ,...,cij ,..., c mj ) e la
scelta razionale equivarrebbe alla scelta giusta, sempre che siano note le conseguenze ed
il decisore sia in grado di esprimere, in modo razionale, le sue preferenze riguardo alle
conseguenze
stesse.
Il
comportamento
razionale
consente,
in
altre
parole,
l’individuazione dell’alternativa ottimale che comporta il conseguimento del massimo
beneficio.
Se lo stato di natura non è noto ma si dispone di una misura della probabilità dei
vari stati di natura, si parla di decisioni in situazioni di rischio. Se non si dispone di
alcuna informazione sulla probabilità dei vari stati di natura, si parla di decisioni in
situazioni di incertezza.
Alcuni autori, quelli che si richiamano alla Scuola bayesiana-soggettivista, non
accettano la tripartizione sopra richiamata in quanto ritengono, non solo possibile, ma
anche necessario, per una risoluzione ottimale dei problemi decisionali, procedere
all’introduzione di una misura della plausibilità (probabilità soggettiva) dei vari stati di
natura facendo così cadere la distinzione tra situazioni di rischio e situazioni di
incertezza.
Su questo punto si avrà modo di ritornare successivamente, qui si accoglie la
possibilità dell’esistenza di situazioni che possono essere definite di estrema
incertezza o di ignoranza assoluta, nelle quali non si può o non si vuole procedere alla
misura della plausibilità dei vari stati di natura.
Si supponga ora che le conseguenze siano esattamente definite, che siano, ad es.,
espresse in termini monetari
y ij = cij = f ( a i ,θ j )
per i=1, 2, ..., m ; j=1, 2, ..., n
e che il beneficio per il decisore sia rappresentato esclusivamente dal valore monetario
assumendo, ragionevolmente, che un valore monetario più elevato sia preferito ad un
valore monetario più basso. L’azione ottima è, pertanto, quella cui corrisponde il valore
monetario più elevato. Quindi, nel caso in cui il decisore si trova ad operare in
situazioni di certezza, di conoscenza, in altre parole, dello stato di natura, il problema
decisionale è praticamente risolto: basterà, infatti, scorrere la colonna dei valori
monetari, individuare il più elevato e scegliere l'azione corrispondente a tale valore.
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B. Chiandotto
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Versione 00 – Cap. 3
Molto più problematico è il caso in cui il decisore si trova ad operare in
situazioni di estrema incertezza. Infatti, se si guarda alla Tab. 2, dove ai simboli
algebrici cij sono stati sostituiti i simboli y ij , che rappresentano valori monetari, si vede
chiaramente come, non essendo noto lo stato di natura, non sia possibile operare il
confronto tra i valori numerici riportati nella Tavola a meno che non ci si riconduca ad
una situazione analoga a quella prospettata in precedenza (situazione di certezza) dove
ad ogni azione diversa corrisponde un solo valore numerico; si tratta, in altre parole, di
passare, in qualche modo, da n colonne ad una sola colonna.
Stato di
natura
Azioni
¨1
¨2
¨
a1
a2
y11
y 21
y12
y 22
ai
yi 1
yi 2
y1 j
y2 j
y ij
am
ym1
ym 2 j
y mj
¨n
y1 n
y2 n
y in
y mn
Tab. 2 - Tavola di decisione con conseguenze monetarie
Decisioni in situazioni di estrema incertezza
Il caso in cui l’agente non sia in grado o non voglia assegnare una distribuzione di
probabilità agli stati di natura s’incontra frequentemente in pratica. Risulta quindi
conveniente una breve rassegna dei criteri di decisione suggeriti per la risoluzione del
problema di scelta in tali situazioni (di estrema incertezza). Per semplificare
l’esposizione, senza perdere in generalità, ci si limiterà ad analizzare il caso discreto.
Tra i criteri suggeriti per la soluzione del problema di decisione in situazioni di
estrema incertezza assumono un certo rilievo: quelli che, grosso modo, fondano il
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B. Chiandotto
Metodi Statistici per le decisioni d’impresa
Versione 00 – Cap. 3
criterio di decisione su elementi caratteristici (ad esempio la realizzazione più
favorevole, quella meno favorevole, ecc.) della Tab. 2.
1. Criterio del max-min o criterio di Wald. Esso consiste nello scegliere l’azione a*
che corrisponde al massimo del minimo importo monetario
a * = max ( min y ij )
i
j
Questo criterio è proprio del pessimista estremo il quale è convinto che, qualunque
azione egli scelga, si realizzerà sempre quello stato di natura (condizioni strutturali,
economiche di produzione e di mercato, di lavoro, ecc.) che gli permetterà il
conseguimento del beneficio minimo. Quindi, egli si premunirà contro la natura
cercando di ottenere il massimo, tra i benefici minimi, che essa è disposta a
concedere.
2. Criterio del max-max. All’opposto del pessimista estremo c’è l’estremo ottimista, ed
è colui il quale ritiene che qualunque sia l’azione prescelta, la natura sarà tanto
benigna nei suoi confronti da concedere il beneficio massimo. La scelta ottimale
risulta dalla relazione
a * = max ( max y ij )
i
j
3. Criterio di Hurwicz. Considerando l’espressione
{
a * = max α min yij + (1 − α ) max y ij
i
j
j
}
per α compreso tra zero ed uno, si deriva un criterio intermedio ai due sopra esposti.
L’α assume quindi il senso di indice di pessimismo; infatti, per α = 1 si ha il criterio
del max-min, per α = 0 si ha il criterio del max-max.
4. Criterio di Savage o del min-max rimpianto. Per applicare il criterio di Savage,
occorre sostituire agli elementi di ciascuna colonna della Tab. 2 la differenza tra
l’elemento che ha valore massimo e l’elemento che occupa quella posizione
rij = max y ij − y ij
i
scegliendo poi l’azione a* per la quale il massimo rimpianto assume valore minimo
a * = min ( max rij )
i
j
Attraverso il criterio del min-max rimpianto l’operatore cerca di minimizzare i danni
di una decisione errata.
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B. Chiandotto
Metodi Statistici per le decisioni d’impresa
Versione 00 – Cap. 3
I quattro criteri di decisione presentati hanno tutti un certo carattere di
accettabilità: naturalmente gli argomenti che possono essere addotti a sostegno dell’uno
o dell’altro criterio, sono di natura diversa, il che in effetti non presenta gravi
inconvenienti. L’aspetto più problematico riguarda invece l’applicazione dei quattro
criteri: infatti se essi vengono adottati in uno stesso problema di decisione ne può
risultare una scelta di quattro azioni differenti. Da alcuni autori tale fatto è stato preso a
pretesto per affermare che uno o più criteri devono essere necessariamente errati. Non
sembra comunque che esistano ragioni sufficienti a sostegno di tale punto di vista; pare
invece più giusta l’affermazione che tutti i criteri proposti hanno una portata applicativa
limitata, e che a seconda delle circostanze dovrà essere adottato il criterio più
opportuno.
Un ulteriore criterio cui si fa riferimento quando si deve operare in situazioni di
estrema incertezza è il cosiddetto criterio di Laplace o criterio della ragione
insufficiente. Il criterio di Laplace individua quale azione migliore a* quella cui
corrisponde il massimo della somma
n
a * = max ∑ y ij
i
j =1
In base al criterio di Laplace, si attribuisce implicitamente a tutti gli stati di natura
θj uguale probabilità; ciò viene fatto in quanto non si hanno motivi sufficienti per
ritenere che la distribuzione delle probabilità sia diversa da quella uniforme.
Evidentemente una tale giustificazione risulta del tutto insoddisfacente perché non sono
chiari i motivi per i quali lo stato d’ignoranza completa debba implicare
necessariamente un’uguale probabilità degli stati di natura. Pertanto, o si prende atto che
si sta operando in situazioni di estrema incertezza, e cioè di ignoranza completa
riguardo alla plausibilità (probabilità) dei vari stati di natura, e si agisce di conseguenza,
oppure si dovrà procedere esplicitamente alla valutazione (generalmente soggettiva)
delle probabilità attraverso procedure adeguate.
Teoria del valore
L’ipotesi su cui è stata svolta fin qui la discussione è che le conseguenze fossero
espresse in termini monetari e che l’agente fosse, pertanto, in grado di esprimere
facilmente le sue preferenze. Si consideri ora il caso più generale e che più
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B. Chiandotto
Metodi Statistici per le decisioni d’impresa
Versione 00 – Cap. 3
frequentemente si riscontra nella realtà, quello di un agente il quale debba effettuare una
scelta tra m azioni alternative possibili e s’ipotizzi che a ciascuna azione sia associata
una conseguenza di natura qualsiasi (per evitare il caso banale si può escludere, senza
perdere in generalità, la possibilità di esprimere le conseguenze mediante valori
monetari).
Il problema di decisione sopra introdotto può, come già detto, essere rappresentato
nel modo seguente:
Azioni Conseguenze
a1
c1
a2
c2
.
.
.
.
.
.
ai
ci
.
.
.
.
.
.
am
cm
dove con A, ai ∈ A, si indica lo spazio o insieme delle azioni e con C, ci ∈ C, lo spazio o
insieme delle conseguenze.
Affinchè l’agente sia in grado di effettuare una scelta tra le diverse azioni ai , egli
dovrà introdurre una scala o relazione di preferenza sulle conseguenze; questo vale
naturalmente nell’ipotesi che l’agente stesso voglia adottare un criterio di decisione
razionale.
I fondamenti della moderna teoria delle decisioni o, com’è ormai usuale dire, della
teoria del valore o, più in generale, dell’utilità, si trovano nell’opera di J. Von
Neumann e O. Morgenstern. I due autori mostrano come, sulla base di certi postulati o
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B. Chiandotto
Metodi Statistici per le decisioni d’impresa
Versione 00 – Cap. 3
assiomi di comportamento razionale di colui che deve prendere una decisione, sia
possibile introdurre una funzione a valori reali detta, a seconda del contesto in cui si
opera, di valore, o di utilità, per cui una decisione fondata unicamente su tale funzione si
riduce in effetti ad una scelta fatta seguendo il proprio schema di preferenze.
Critiche di varia natura sono state rivolte al criterio dell’utilità. Esse possono
essere comunque ridotte e sintetizzate nei due punti seguenti:
a) quelle rivolte all’evidenza empirica degli assiomi di comportamento razionale che
sono alla base della moderna teoria dell’utilità;
b) quelle che sottolineano l’impossibilità pratica di derivare una funzione di valore o di
utilità significativa.
Per quanto riguarda la prima serie di critiche si può rispondere che esse hanno, ma
non sempre, una certa rilevanza quando si considera il comportamento di un agente e si
voglia poi accertare fino a che punto egli segue le linee di comportamento razionale
attribuitegli. Quando però dal piano di verifica empirica di una teoria, intesa in senso
unicamente descrittivo, si passa al piano operativo, e quindi normativo della stessa, tali
critiche perdono, almeno in parte, di significato.
Il problema della rilevanza degli assiomi sul comportamento del decisore, va
visto, non nel senso di buona descrizione ma in quello di buona norma. Un tale
problema risulta però estremamente delicato in quanto, come già sottolineato, le
implicazioni normative degli assiomi, e quindi la bontà degli stessi, vanno giudicate in
funzione dei risultati cui conduce la teoria che su di essi è fondata.
Qui ci si limiterà comunque a sottolineare soltanto la logicità degli assiomi in
funzione di un’idea primitiva di comportamento razionale.
La discussione degli assiomi di comportamento razionale sarà condotta in termini
del tutto generali e ci si limiterà inoltre ad un’analisi abbastanza sommaria.
L’importanza fondamentale degli assiomi che verranno introdotti risulta dalla
seguente osservazione: Per un insieme di assiomi di comportamento razionale, relativi
ad un certo agente, esiste una funzione – e può essere determinata – a valori reali
perfettamente equivalente al suo schema di preferenze. In altri termini, se lo schema di
preferenze dell’operatore soddisfa ad uno specifico insieme di assiomi, allora esiste una
funzione di valore o di utilità per l’agente, e se lo stesso regola la propria condotta
20
B. Chiandotto
Metodi Statistici per le decisioni d’impresa
Versione 00 – Cap. 3
basandosi unicamente sul valore o sull’utilità egli agisce conformemente al proprio
schema di preferenze.
Prima di procedere alla discussione dei postulati o assiomi di comportamento
razionale risulta conveniente richiamare alcuni concetti relativi alle diverse possibilità di
specificazione delle modalità di manifestazione dei fenomeni collettivi (cioè delle
conseguenze cij ), ed alcune nozioni sulle relazioni binarie.
Come sottolineato nelle pagine precedenti, uno dei compiti principali della
statistica è quello di descrivere i fenomeni collettivi come primo passo verso la loro
spiegazione, cui si può pervenire, anche applicando i metodi induttivi della statistica e
attraverso la verifica empirica di ipotesi sviluppate sul piano teorico. Ma il passaggio
dal piano teorico a quello empirico non è per niente immediato; per poter connettere i
concetti, sviluppati nel contesto teorico ed in quello empirico, risulta indispensabile
operare delle scelte preliminari. Una di queste ha carattere fondamentale e riguarda il
tipo di misura che si intende adottare come espressione delle manifestazioni dei
fenomeni oggetto di indagine. La scala di misura non può che avere carattere
convenzionale, e sarà tanto più efficace quanto più riesce a facilitare la spiegazione dei
fenomeni.
Scale di misura
La classificazione secondo una scala di misura convenzionalmente scelta è
l'operazione che accompagna il processo di osservazione ogni qual volta quest'ultimo si
trasforma da occasionale in volontario e finalistico (osservazione scientifica). La
classificazione pertanto rappresenta il primo stadio di ogni ricerca e consiste nel
raggruppare le manifestazioni dei fenomeni secondo una o più caratteristiche di
interesse, decidendo quali manifestazioni devono considerarsi uguali e quali diverse.
Per ciò che concerne l'operazione di classificazione secondo una scala di misura si
distinguono, generalmente, quattro diversi livelli di misurazione; in questo contesto si
parla di scale nominali, scale ordinali, scale di intervallo e scale razionali o di rapporto.
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B. Chiandotto
Metodi Statistici per le decisioni d’impresa
Versione 00 – Cap. 3
La scala di rapporto rappresenta il più alto livello di misurazione, ha uno zero
assoluto (non arbitrario) e possiede una unità di misura di tipo fisico scelta come
elemento comune di riferimento.
La scala di intervallo, che possiede tutte le proprietà delle scale nominali ed
ordinali, si differenzia dalla scala di rapporto in quanto, pur possedendo una unità di
misura di tipo fisico, lo zero in essa contenuto ha natura arbitraria.
Sia le scale di rapporto che le scale di intervallo sono dunque espresse con una
unità di misura fisica scelta come elemento di riferimento e in questo caso si parla di
fenomeni misurabili, la diversità tra le due scale risiede nello zero scelto, che è
assoluto nelle scale di rapporto (l’utile conseguito da una azienda in un anno), relativo
nelle scale di intervallo (la temperatura di un corpo espressa in gradi Celsius o Fahreneit
– si ricorda che lo zero assoluto corrisponde a –273° centigradi nella scala Celsius).
Sulle due scale è quindi possibile applicare le usuali operazioni aritmetiche di
addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione, ma solo per i fenomeni le cui
manifestazioni sono espresse con una scala di rapporto ha senso istituire, appunto, un
rapporto tra diverse intensità di manifestazione; ad esempio, ha senso concludere che il
salario del dipendente A, che percepisce tre milioni al mese, è il doppio di quello del
dipendente B, che percepisce 1,5 milioni mensili, mentre non ha senso affermare che la
temperatura del corpo A è il doppio di quella del corpo B se le due temperature sono,
rispettivamente, pari a 10° e 5° gradi Celsius, mentre è del tutto sensato dire che la
differenza di temperatura tra i due corpi è di 5° gradi Celsius.
La scala ordinale consente un ordinamento delle manifestazioni dei fenomeni in
funzione dell'entità posseduta di un certo carattere senza che sia possibile, peraltro,
stabilire l'ammontare (intensità) del carattere posseduto; tale fatto pone le scale ordinali
ad un livello inferiore rispetto alle scale di intervallo nelle quali è invece possibile
misurare tale entità.
Esempi di caratteri espressi in scala ordinale sono: il titolo di studio, il grado
militare, la qualifica del personale, ecc.
La scala nominale costituisce il più semplice livello di misurazione. Sotto il
profilo formale le scale nominali possiedono unicamente le proprietà di simmetria e di
transitività; da ciò deriva che relativamente alle manifestazioni di fenomeni classificate
secondo una scala nominale si potrà semplicemente affermare se sono uguali o diverse.
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B. Chiandotto
Metodi Statistici per le decisioni d’impresa
Versione 00 – Cap. 3
Esempi di caratteri espressi in scala nominale sono: il sesso, il tipo di diploma di
scuola media superiore, il settore merceologico, ecc.
L'aver distinto i procedimenti di classificazione secondo una scala di misura è
operazione tutt'altro che oziosa; infatti, è proprio la scala di misura adottata a
condizionare la scelta dei metodi statistici (descrittivi, induttivi o decisionali) d'analisi
più appropriati.
Con riferimento ai problemi di classificazione secondo la scala di misura adottata,
va detto che gli statistici tendono usualmente ad operare una classificazione dicotoma
dei fenomeni a seconda che le loro manifestazioni abbiano natura qualitativa (scale
nominali ed ordinali) o quantitativa (scale di intervallo o di rapporto). Un tale fatto porta
a distinguere i fenomeni in mutabili e variabili a seconda che essi assumano, nelle loro
manifestazioni, modalità qualitative o modalità quantitative.
Scala di misura
Relazione
Qualitativa
Nominale
Quantitativa
Ordinale
Intervallo
Rapporto
ci = cj
*
*
*
*
ci ≠ cj
*
*
*
*
*
*
*
*
*
ci ≥ cj
ci - cj
ci : cj
*
Tab.3 – Relazioni tra le modalità delle diverse scale di misura
Dopo aver richiamato, molto sommariamente alcuni concetti relativi alle scale di
misura, si espongono, altrettanto sommariamente, alcune nozioni sulle relazioni binarie.
Relazioni binarie
Dato un insieme A = {a, b, c, ... } di elementi, una relazione binaria R sugli elementi
di A sta a significare che se si prendono due elementi (a, b) qualsiasi dell'insieme A, o
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B. Chiandotto
Metodi Statistici per le decisioni d’impresa
Versione 00 – Cap. 3
tra gli stessi esiste la relazione R (a R b) oppure la relazione stessa non sussiste (a R b),
cioè non è vero che a R b.
Una qualunque relazione binaria R tra gli elementi {a, b, c, ... } di un insieme A può
soddisfare o meno le proprietà sotto elencate:
Transitività: R è transitiva se, ∀ a, b, c ∈ A tali che a R b e b R c, è anche vero a R c.
Asimmetria: R è asimmetrica se, ∀ a, b∈ A, a R b e b R a non sono entrambe vere.
Equivalentemente, ∀ a, b ∈ A, a R b⇒ b R a.
Simmetria: R è simmetrica se, ∀ a, b ∈ A, se a R b allora necessariamente b R a.
Equivalentemente, ∀ a, b ∈ A, a R b ⇒ b R a.
Riflessività: R è riflessiva se, ∀ a ∈ A, a R a.
Confrontabilità: R è confrontabile se, ∀ a, b ∈ A, a R b o b R a oppure valgono
entrambe. Equi valentemente, ∀ a, b ∈ A o a R b o b R a oppure
valgono entrambe le relazioni.
Transitività negativa: R è negativamente transitiva se, ∀ a, b, c ∈ A tali che a R b,
b R c è anche vero che a R c.
Antisimmetria: R è antisimmetrica se, ∀ a, b ∈ A, (a R b e b R a) ⇒ a = b.
In questa sede interessano la relazione di preferenza forte
(a
b sta a
significare che l'agente - il decisore - preferisce strettamente l'alternativa a all'alternativa
b); la relazione di preferenza debole (a b sta a significare che l'agente - il decisore
- preferisce debolmente l'alternativa a all'alternativa b); la relazione di indifferenza ∼ (a
∼ b sta a significare che le due alternative forniscono all'agente - il decisore esattamente lo stesso beneficio); la relazione di scambio ← (a ← b sta ad indicare la
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B. Chiandotto
Metodi Statistici per le decisioni d’impresa
Versione 00 – Cap. 3
cessione di b per avere in cambio a. Da sottolineare che sugli scambi l'agente - il
decisore - dovrà esprimere le proprie preferenze).
Assiomi di comportamento razionale
Dato l'insieme di oggetti (conseguenze) C={a,b,c,...}, la relazione di preferenza
debole , la relazione di preferenza forte
e la relazione di indifferenza ∼, si
definiscono i seguenti assiomi [1.1-1.4]:
1.1-Confrontabilità
∀ a,b ∈ C, o a b o b a o a b ∩ b a.
1.2-Transitività
∀ a,b,c ∈ C, a b ∩ b c ⇒ a c.
1.3-Coerenza tra preferenza debole e indifferenza
a b ∩ b a ⇔ a ∼ b.
1.4-Coerenza tra preferenza debole e preferenza forte
a
b ⇔ b / a.
La rilevanza degli assiomi emerge con tutta chiarezza quando se ne evidenziano
le implicazioni logiche. La confrontabilità implica la necessità per il decisore di operare,
comunque, una scelta tra due alternative anche se questa, in base al terzo assioma, può
comportare indifferenza tra le stesse. La transitività e gli assiomi di coerenza
rispondono a una richiesta di non contraddittorietà tra le preferenze espresse.
Si dimostra facilmente che se i quattro assiomi sopra riportati sono soddisfatti
valgono le proprietà e relazioni seguenti:
ii.
iii.
∼ è transitiva, riflessiva e simmetrica;
i.
è transitiva;
è asimmetrica;
b e b ∼ c) ⇒ a iv. ∀ a,b,c ∈ A, (a ∼ b e b
v. ∀ a,b,c ∈ A, (a
c) ⇒ a
c;
c;
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B. Chiandotto
Metodi Statistici per le decisioni d’impresa
Versione 00 – Cap. 3
vi. ∀ a,b ∈ A, vale una e solo una delle seguenti posizioni: a
b, a ∼ b, b
a.
Se i quattro assiomi sono soddisfatti, valgono i due teoremi sotto riportati.
Teorema 1 (Esistenza della funzione di valore). Per ogni insieme finito di oggetti
(conseguenze) C={c1,c2, ...,cm} sul quale viene introdotta una relazione che
soddisfa gli assiomi [1.1-1.4] esiste, e può essere costruita, una funzione a valori
reali espressi in scala ordinale V(⋅) tale da soddisfare la relazione
ci cj ⇔ V(ci) ≥ V(cj).
Il teorema 1 stabilisce l'esistenza di una funzione a valori reali perfettamente
equivalente allo schema di preferenze del decisore.
Teorema 2 (Unicità della funzione di valore). Per ogni insieme finito di oggetti
(conseguenze) C={c1,c2, ...,cm} sul quale viene introdotta una relazione
che
soddisfa gli assiomi [1.1-1.4], esistono due funzioni di valore V(⋅) e W(⋅) che
soddisfano le relazioni
ci cj ⇔ V(ci) ≥ V(cj) e ci cj ⇔ W(ci) ≥ W(cj)
se e solo se V(⋅)=h(W(⋅)) dove h(⋅) è una funzione monotona crescente.
Il teorema 2 stabilisce che la funzione a valori reali espressi in scala ordinale è
unica a meno di una trasformazione monotona crescente.
La funzione a valori reali espressi in scala ordinale, pur fornendo una prima
quantificazione delle preferenze non consente di esprimerne le intensità; non consente,
cioè, di trattare algebricamente i suoi valori, prerogativa questa propria delle funzioni
espresse in scala di intervallo o di rapporto. Per derivare una tale funzione, in cui abbia
quindi senso parlare anche di distanza tra preferenze, occorre introdurre il concetto di
scambio tra oggetti e una relazione di preferenza sugli scambi.
Dato l'insieme di oggetti (conseguenze) C={a,b,c,...}, la relazione di scambio
a ← b, la relazione di preferenza debole
, la relazione di preferenza forte e la
relazione di indifferenza ∼ sugli oggetti, la relazione di preferenza debole s, la
relazione di preferenza forte
s
e la relazione di indifferenza ∼s sugli scambi, si
definiscono i seguenti assiomi {2.1-2.5}:
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B. Chiandotto
Metodi Statistici per le decisioni d’impresa
Versione 00 – Cap. 3
2.1-Ordinamento debole
La relazione: soddisfa gli assiomi [1.1-1.4];
la relazione s soddisfa gli assiomi [1.1-1.4].
2.2-Coerenza tra
e s .
∀ a,b,c ∈ C, a b ⇔ (a ← b) s (c ← c).
2.3-Coerenza interna della relazione
s .
a. ∀ a,b,c,d ∈ C, (a ← b) s (c ← d) ⇔ (d ← c) s (b ← a).
b. ∀ a,b,c,d,e,f ∈ C
[ (a ← b) s (d ← e) e (b ← c) s (e ← f) ] ⇔ (a ← c) s (d ← f).
2.4-Solvibilità.
a. ∀ b,c ∈ C, ∃ a ∈ C tale che (b ← a) ∼s (a ← c);
b. ∀ b,c,d ∈ C, ∃ a ∈ C tale che (a ← b) s (c ← d).
2.5-Proprietà Archimedea. Ogni sequenza standard strettamente limitata è finita.
Si ricorda che una sequenza standard strettamente limitata è definita dalla relazione:
{an  b
an ; (an ← a(n-1)) ∼s (a1 ← a0)}
dove  indica il condizionamento alle relazioni che lo seguono; nel caso particolare che
si sta trattando b
an significa che la sequenza è strettamente limitata e (an ← a(n-1)) ∼s
(a1 ← a0) implica che (a1 ← a0) ∼s (a2 ← a1) ∼s (a3 ← a2) ∼s … ∼s (an ← a(n-1)), ossia
che la sequenza è standard.
Le implicazioni logiche dei primi tre assiomi sono evidenti.
Il primo assioma ribadisce la necessità della esplicitazione da parte del decisore
di una qualche preferenza; è ammessa, cioè, l'indifferenza ma non l'indecisione, sia sulle
conseguenze sia sugli scambi e la non contraddittorietà tra le preferenze, sia che queste
riguardino le conseguenze oppure gli scambi.
Il secondo assioma stabilisce che una relazione di preferenza debole tra gli
oggetti a e b (a
b) debba permanere quando si confronta lo scambio tra gli stessi due
oggetti (a ← b) rispetto ad un non scambio, in quanto lo scambio di un oggetto con se
stesso (c ← c) nella sostanza non implica scambio alcuno.
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B. Chiandotto
Metodi Statistici per le decisioni d’impresa
Versione 00 – Cap. 3
Il terzo assioma relativo alla coerenza interna della relazione di preferenza sugli
scambi appare molto ragionevole, infatti, quando esiste una relazione di preferenza
debole tra scambi:
a. sembra ovvio che la stessa si debba invertire quando si inverte lo scambio;
b. risulta naturale assumere che la stessa relazione continui a sussistere sia quando lo
scambio è diretto, sia quando lo scambio avviene tramite un terzo oggetto.
Teorema 3 (Esistenza della funzione di valore misurabile). Per ogni insieme finito di
oggetti (conseguenze) C={c1,c2,...,cm} sul quale vengono introdotte le relazioni
e s che soddisfano gli assiomi {2.1-2.5} esiste, e può essere costruita, una
funzione a valori reali espressi in scala di intervallo V(⋅) tale da soddisfare le
relazioni
ci
(ci ← cj )
cj ⇔ V(ci) ≥ V(cj);
s (ch ← ck ) ⇔ V(ci) - V(cj) ≥ V(ch) - V(ck).
Il teorema 3 stabilisce l'esistenza di una funzione di valore misurabile
perfettamente equivalente allo schema di preferenze del decisore.
Teorema 4 (Unicità della funzione di valore misurabile). Per ogni insieme finito di
oggetti (conseguenze) C={c1,c2,...,cm} sul quale vengono introdotte le
relazioni
e s che soddisfano gli assiomi {2.1-2.5}, esistono due
funzioni espresse su scala di intervallo V(⋅) e W(⋅) che soddisfano le
relazioni
ci
(ci ← cj )
s (ch ← ck )⇔ V(ci) - V(cj) ≥ V(ch) - V(ck);
ci
(ci ← cj )
cj ⇔ V(ci) ≥ V(cj);
cj ⇔ W(ci) ≥ W(cj);
s (ch ← ck )⇔ W(ci) - W(cj) ≥ W(ch) - W(ck)
se e solo se V(⋅)=α+β W(⋅) per β > 0.
Il teorema 4 stabilisce che la funzione di valore misurabile è unica a meno di una
trasformazione lineare positiva.
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B. Chiandotto
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Versione 00 – Cap. 3
Teoria dell’utilità
E’ già stato sottolineato come le situazioni decisionali possano essere
concettualmente distinte in base alla informazione disponibile circa le conseguenze
associate ad ogni specifica decisione. Se per ogni alternativa è nota a priori la
conseguenza che ne deriverà, la situazione è detta di decisione in condizioni di certezza;
se sono note le possibili conseguenze associate a ciascuna decisione e le probabilità
(oggettive o soggettive) relative, la situazione è detta di decisione in condizioni di
rischio o incertezza; se sono note le possibili conseguenze
associate a ciascuna
decisione ma non le relative probabilità, la situazione è detta di decisione in condizioni
di estrema incertezza.
Nelle pagine precedenti si è trattato della prima e della terza situazione
decisionale (situazione di estrema incertezza con conseguenze monetarie e situazione di
certezza), si soffermerà ora l’attenzione sulla teoria normativa delle decisioni in
situazioni di rischio o incertezza (con conseguenze di natura qualsiasi) ammettendo la
disponibilità di una misura (oggettiva o soggettiva) delle probabilità sugli stati di natura.
Le innumerevoli teorie (normative e prescrittive) delle decisioni che sono state
proposte e si sono successivamente sviluppate sono, nella generalità dei casi, riferite alla
teoria dell’utilità attesa (EU - Expected Utility Theory) proposta da von Neumann e
Morgenstern, la quale, pur rappresentando la teoria normativa per eccellenza (tale
viene considerata dalla maggioranza degli studiosi), si è, tutto sommato, anch’essa
sviluppate in un’ottica prescrittiva come risposta alle carenze riscontrate nella prima
formulazione della teoria normativa delle decisioni che prevedeva la massimizzazione
del valore monetario atteso (EMV –Expected Monetarc Value). In proposito, si deve
segnalare che la teoria dell’EU può essere fatta risalire a D. Bernoulli il quale partendo
dalla costatazione che la teoria dell’EMV non riusciva a fornire una descrizione
adeguata di comportamenti (apparentemente) razionali osservati propone possibili
valutazioni (utilità) diversificate, a seconda delle circostanze operative, di uno stesso
ammontare di denaro anticipando cosi anche la spiegazione a quello che,
successivamente, diverrà universalmente noto come il paradosso di San Pietroburgo.
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B. Chiandotto
Metodi Statistici per le decisioni d’impresa
Versione 00 – Cap. 3
Il problema decisionale in cui sono possibili stati di natura diversi, ma sono note
le probabilità (oggettive o soggettive) ad essi associata, può essere evidenziato
utilizzando una rappresentazione tabellare analoga a quella già introdotta in precedenza
arricchita, però, degli elementi P(θj) indicano le probabilità dei diversi stati di natura.
Probabilità
Azioni
a1
a2
P(¨ 1 ) P(¨ 2 ) P(¨ j ) P(¨ n )
c11
c 21
c12
c 22
ai
ci 1
ci 2
am
cm 1
cm 2
c1 j
c2 j
cij
c mj
c1 n
c2 n
cin
c mn
Tab. 4 - Tavola di decisione in situazioni di rischio o incertezza
Una rappresentazione alternativa del problema decisionale è quella che si avvale
dello schema delle lotterie in cui le azioni, e le conseguenze ad esse associate, sono,
appunto, espresse come lotterie.
Formalmente una lotteria si rappresenta con l’espressione algebrica
l i = ( p1 , ci1 ; p 2 , c i2 ;.........; p n , cin )
che può essere messa in corrispondenza alle diverse azioni stabilendo una relazione di
equivalenza tra azioni stesse e lotterie nel senso che se si sceglie l’azione ai e come
scegliere la partecipazione alla lotteria li dove si ha la possibilità di ricevere il premio
cij con probabilità p(θj) .
Questa rappresentazione si rivela particolarmente utile, come si avrà modo di
verificare in seguito, nella esplicitazione degli assiomi di comportamento razionale e
nella dimostrazione dei teoremi; infatti, il riferimento alle lotterie evidenzia in modo
immediato sia il contenuto sintattico degli assiomi sia la loro valenza semantica.
In proposito si deve, comunque, sottolineare che al decisore si richiede di
esplicitare le proprie preferenze, non solo sulle lotterie (semplici) del tipo sopra
riportato, anche nei confronti delle cosiddette lotterie composte; cioè, si chiede, al
decisore di esprimere le proprie preferenze su lotterie che assumono la forma
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B. Chiandotto
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Versione 00 – Cap. 3
l i = ( q1 , l i1 ; q2 ,l i2 ;.........; q n , l in )
r


dove l i1 ,l i2 ,.........,l in rappresentano le lotterie e q1 , q 2 ,........., q n  qi ≥ 0, ∑ qi = 1 
i =1


rappresentano le probabilità di partecipare a tali lotterie.
Il risultato di una lotteria può consistere, quindi, nella partecipazione ad un’altra
lotteria od anche nel conseguimento di un premio finale; in questa sede si assume che il
numero di passaggi necessari per il conseguimento del premio finale (conseguenza) sia
finito.
Ovviamente, il decisore che è in grado di esprimere le proprie preferenze nei
confronti di lotterie semplici è anche in grado di esprimere le proprie preferenze nei
confronti delle cosiddette lotterie di riferimento. Le lotterie di riferimento sono espresse
nella forma
c r p c1 = ((1 − p ), c1 ;0,c 2 ;0,c;..........; p , c r )
dove c1 è la conseguenza meno preferita e c r è la conseguenza preferita a tutte le
altre; affinché il problema risulti non banale deve essere c r c1 .
Si può osservare come le singole conseguenze possono essere interpretate come
lotterie degeneri, infatti:
ci = (0, c1 ;0,c 2 ;.........;0,ci −1 ;1,ci ;0,ci +1 ;.........;0,c r )
Dopo aver introdotto il concetto di lotteria ed aver stabilito l’equivalenza tra
lotterie ed azioni si può procedere nella descrizione della base assiomatica della teoria
delle decisioni in situazioni di rischio o incertezza trattando il problema di scelta
facendo riferimento alle lotterie anziché alle azioni.
I primi quattro assiomi o costituiscono una riproposizione degli assiomi [1.1-1.4]
già introdotti, o sono di tutta evidenza; si evita, pertanto, il loro commento, mentre si
descriveranno, seppure molto sinteticamente, gli altri assiomi.
Dato l'insieme di lotterie L = ( l1 ,l 2 ,....,l m ) , la relazione di preferenza
debole , la relazione di preferenza forte
e la relazione di indifferenza ∼, si
definiscono i seguenti assiomi [3.1-3.9]:
3.1 – Non banalità. Indicando l1 la lotteria meno preferita e con l r la lotteria preferita
a tutte le altre, deve essere
l1 l r
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B. Chiandotto
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3.2 – Equivalenza.
∀ ai , a j ∈ A e l i ,l j ∈ L a i a j ⇔ l i l j
3.3 – Esistenza della lotteria di riferimento
Esiste sempre una lotteria del tipo c r p c1
dove c1 è la conseguenza meno preferita e c r è la conseguenza preferita a tutte le altre.
3.4 – Ordinamento debole
La struttura di preferenze del decisore sugli elementi di L costituisce un
ordinamento debole; soddisfa, cioè, gli assiomi [1.1-1.4]
3.5 - Continuità
∀ l1 ,l 2 ,l 3 ∈ L , con l1 l 2 l 3 , esiste una probabilità 0 ≤ p ≤ 1 che soddisfa la
relazione
p l1 + (1 - p ) l 3 ∼ l 2
3.6 – Riduzione di lotterie composte
l = (q1 ,l1 ; q 2 ,l 2 ;....; q s ,l s )
Sia
(
una
lotteria
composta
e
)
l j = p j 1 ,l1 ; p j 2 ,l 2 ;....; p jr ,l r , con j = 1,2,….,s una generica lotteria semplice;
s
data la lotteria l * = ( p1 , x1 ; p 2 , x 2 ;....; p r , x r ), dove pi = ∑ q h p hi con
h =1
i = 1,2,….,r , allora l ∼ l*.
3.7 – Sostituibilità
Dati due elementi qualsiasi (conseguenze o lotterie) a e b tali che a ∼ b allora
l ∼ l*, dove l = (....; p , a ;....) e l * = (....; p ,b;....) .
3.8 – Indipendenza
Dati tre elementi qualsiasi (conseguenze o lotterie) a,b,c , con a ∼ b allora
a p c ∼ b p c . Si ricorda che con la simbologia a p c si è indicata la lotteria
di riferimento.
3.9 – Monotonicità
Dati due elementi qualsiasi (conseguenze o lotterie) a e b, con a b , e due
probabilità p e p*, con p ≥ p * , allora
p ≥ p* ⇔ a p b a p* b
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B. Chiandotto
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Versione 00 – Cap. 3
L’assioma 3.5 risponde ad un’esigenza di continuità tra preferenze su lotterie. La
rilevanza dell’assioma 3.6 risiede nella circostanza collegata al fatto che al decisore non
interessa tanto la tipologia di svolgimento del processo che conduce al risultato finale
quanto il risultato finale stesso e la probabilità di conseguirlo; ciò sta ad indicare che
non si attribuisce alcun valore al piacere del gioco. Con l’assioma 3.8 si afferma,
sostanzialmente, che l’indifferenza tra due lotterie deve permanere indipendentemente
dalle trasformazioni equivalenti sulle probabilità di ottenere le conseguenze coinvolte
nel processo e, per estensione, a tutti gli elementi che compongono le lotterie; pertanto,
l’assioma di indipendenza include, come casi particolari, sia l’assioma di riduzione sia
l’assioma di sostituibilità.
Se i postulati (3.1-3.9) sono soddisfatti vale il teorema sotto riportato. Si riporta
l’enunciato del teorema facendo riferimento al solo caso discreto.
Teorema 5 (Esistenza della funzione di utilità).
Se un decisore agisce conformandosi ai postulati di comportamento
razionale (3.1-3.9), cioè, se il suo schema di preferenze sull’insieme L
delle lotterie (semplici, composte, di riferimento e degeneri1), allora esiste
una funzione a valori reali u (⋅) definita sull’insieme delle conseguenze
(premi finali) C tale che:
ai a k ⇔ li l k ⇔ ∑ P(θ j ) u (cij ) ≥
n
j =1
∑ P (θ ) u (c )
n
j
kj
j =1
Dal teorema 5 ne consegue che il criterio ottimale di scelta in situazioni di
rischio o incertezza è quello della massimizzazione dell’utilità attesa.
Teorema 6 (Unicità della funzione di utilità)
La funzione di utilità, cosi come deriva dal Teorema 5, è unica a meno di
una trasformazione lineare positiva. Cioè, se u (⋅) è una funzione a valori
reali definita su C , allora anche w(⋅) = α + β u (⋅) è una funzione di utilità
definita sullo stesso insieme e che rappresenta lo stesso schema di
Si ricorda che qualunque conseguenza può essere espressa sotto forma di lotteria degenere, infatti, è già
stata introdotta la relazione
ci = (0, c1 ;0,c 2 ;.........;0,ci −1 ;1,ci ;0,ci +1 ;.........;0,c r )
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B. Chiandotto
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preferenze. Inoltre, se u (⋅) e w(⋅) sono due funzioni di utilità a valori reali
definite su C che rappresentano lo stesso schema di preferenze, allora
esistono due valori reali α e β > 0 tali che w(⋅) = α + β u (⋅) . Le due
funzioni u (⋅) e w(⋅) si dicono strategicamente equivalenti.
Funzione di utilità
Stabilità l’esistenza, e l’unicità a meno di trasformazioni lineari positive della
funzione di utilità, resta irrisolto il problema della sua elicitazione, cioè il problema
della costruzione di una funzione di utilità che rappresenti fedelmente lo schema di
preferenze del decisore.
I metodi di elicitazione proposti in letteratura non verranno trattati in questa
sede, verranno svolte soltanto alcune considerazioni sulle caratteristiche e sulle
peculiarità più significative ed interessanti della funzione di utilità.
Per semplificare l’esposizione, senza perdere in generalità, si può fare
riferimento al caso in cui l’insieme delle conseguenze è costituito da importi monetari x.
Lo scopo principale dell’elicitazione di una funzione di utilità è quello della
evidenziazione delle specificità del decisore quali l’atteggiamento nei confronti del
rischio e la sua eventuale dipendenza dalle conseguenze e dal livello degli importi di
riferimento; caratteristiche queste che sono immediatamente percepibili ricorrendo ad
una adeguata rappresentazione grafica.
Ricorrendo agli assi cartesiani la rappresentazione grafica di una funzione di
utilità può risultare analoga ad una delle tre evidenziate nella Fig. 6, dove in ordinata
sono riportati i valori assunti dalla funzione di utilità ed in ascissa i valori delle possibili
conseguenze monetarie.
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Versione 00 – Cap. 3
Avversione
al rischio
u(x)
Indifferenza
nei confronti
del rischio
Utilità concava
Utilità lineare
Propensione al
rischio
Utilità convessa
x
Fig. 6 – Funzione di utilità per diversi atteggiamenti nei confronti del rischio
Come sottolineato, osservando la forma della funzione di utilità si ricavano
indicazioni sugli atteggiamenti del decisore nei confronti del rischio. Infatti, un decisore
la cui funzione di utilità è concava risulta avverso al rischio, se in vece le funzione è
lineare l’atteggiamento del decisore è di neutralità o indifferenza nei confronti del
rischio mentre il decisore con funzione di utilità convessa è propenso al rischio.
Si consideri una lotteria di riferimento l = x1 p x 2
x = p x1 + (1 − p ) x 2 = E( l )
e si indichi con
il valore atteso della stessa lotteria. Il decisore risulta
avverso al rischio se vale la relazione
u (x ) = u[E (l )] = u[ p x1 + (1 - p ) x 2 ] > p u(x1 ) + (1 - p) u(x 2 )
cioè se assegna un utilità maggiore al valore atteso della lotteria rispetto all’utilità attesa
della lotteria stessa. Dalla figura sotto riportata, relativa ad una funzione di utilità
concava, quanto affermato emerge in modo molto evidente. Per ogni coppia di valori
monetari distinti x1 e x 2 ( x1 < x 2 ) la funzione di utilità concava assume per ogni valore
x interno all’intervallo x1  x 2 un valore maggiore rispetto alla combinazione lineare
dei valori assunti dalla funzione dei due punti estremi dell’intervallo
u( x ) = u[a x1 + (1 - a) x 2 ] > a u(x1 ) + (1 - a) u(x 2 ) per 0 < a < 1.
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u(x)
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Utilità concava
u(x 2 )
u (x )
u
u (x1 )
x1
x
xc
x2
x
Fig. 7 – Funzione di utilità concava (decisore avverso al rischio)
Dove: x = p x1 + (1 - p ) x 2 ; u = p u (x1 ) + (1 - p ) u (x 2 ) e, come usualmente
avviene, si è indicato con
l’equivalente certo (Cash Equivalent o
CE(x) = xc
Certainty Equivalent) della lotteria l = x1 p x 2 , cioè l’importo per il quale vale la
relazione
u[CE ( x )] = u (xc ) = p u(x1 ) + (1 - p) u(x 2 ) ⇔ xc = u -1 [ p u (x1 ) + (1 - p ) u (x 2 )] = u -1 (u )
Per la situazione prospettata nella Fig. 7 (decisore avverso al rischio) vale la
relazione:
u (x ) > u
Ovviamente per il decisore indifferente al rischio vale la relazione u (x ) = u ,
mentre per il decisore propenso al rischio si avrà u (x ) < u
Il grado di concavità (convessità) della funzione di utilità indica il livello di
avversione (propensione) al rischio del decisore. Nella generalità dei casi
l’atteggiamento dei confronti del rischio è strettamente dipendente dal contesto
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decisionale e in cui si opera e, in particolare, dall’entità delle conseguenze coinvolte nel
processo stesso.
Facendo sempre riferimento a conseguenze rappresentate da importi monetari,
l’andamento usualmente si riscontra nella realtà è quello riportato nella Fig. 8 si
osserva, cioè, una propensione al rischio (più o meno spiccata in dipendenza della
condizione personale del decisore) per bassi importi monetari mentre si osserva
avversione al rischio per importi monetari elevati.
Un’ulteriore interessante caratteristica della funzione di utilità è quella di
consentire la determinazione del cosiddetto premio di rischio: se il decisore è avverso
al rischio sarà disposto a pagare qualcosa di più rispetto al valore atteso della lotteria
piuttosto che rischiare partecipando alla lotteria stessa, e ciò accade nei casi in cui gli
importi sono negativi, come avviene, ad esempio nei contratti assicurativi; mentre, nel
caso di importi positivi, il decisore avverso al rischio sarà disposto a ricevere qualcosa
di meno piuttosto che partecipare alla lotteria. Pertanto, tanto maggiore è l’avversione
tanto più elevato risulta l’ammontare del premio di rischio che risulta definito dalla
relazione:
Pr = x − CE( x ) = x - xc
dove CE(x) = xc rappresenta l’equivalente certo definito nelle righe precedenti. Se il
decisore è indifferente nei confronti del rischio il premio di rischio è, ovviamente, nullo.
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u(x)
Punto di indifferenza
Propensione al rischio
Si preferisce il gioco piuttosto
che accettare un basso
vantaggio monetario per certo
Avversione al rischio
Si rifiuta il gioco e si accetta
un basso vantaggio
monetario per certo
Fig. 8 - Funzione di utilità
Il grado di avversione al rischio del decisore può essere misurato. L’indice sotto
riportato, usualmente detto indice assoluto di avversione al rischio, è stato proposto da
Pratt e Arrow:
ra ( x ) = −
u" (x )
u' (x )
ra ( x ) > 0 denota avversione al rischio, mentre ra ( x ) < 0 denota propensione al
rischio.
L’indice di Arrow-Pratt non costituisce una misura globale di avversione al
rischio di un decisore essendo calcolato in corrispondenza di uno specifico livello x ,
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Versione 00 – Cap. 3
per tale ragione quando si fa ricorso a tale indice si parla di misura locale di avversione
al rischio.
Per rendere indipendente la misura dell’avversione al rischio dal livello di x, è
stato proposto, sempre da Pratt, un indice relativo di avversione al rischio definito da:
rr ( x ) = −
x u" (x )
= x ra ( x ) .
u' (x )
Quest’ultimo indice non ha, tuttavia, significato in problemi di scelta con
conseguenze negative, per trattare tali situazioni è stato proposto l’indice parziale di
avversione al rischio:
rp (x ) = −
(x− x0 ) u" (x ) (x x ) r (x )
=− − 0 a
u' (x )
Teorie generalizzate dell’utilità
E’ noto, e ne sono esempio i numerosi paradossi presentati in letteratura, come i
comportamenti degli individui non siano spesso in accordo con i principi di razionalità
sui quali si basa il modello classico dell'utilità attesa.
Questo aspetto ha indotto molti autori a considerare il modello di von Neumann
e Morgenstern inadeguato come strumento operativo; in particolare il divario che spesso
si osserva fra il comportamento ideale ipotizzato in un modello normativo e il
comportamento effettivo degli individui è stato il motivo principale di rivisitazioni e
critiche, nonché la base per lo sviluppo di teorie delle decisioni che si discostano da
quella classica. I modelli decisionali normativi, infatti, pur traendo origine da
comportamenti reali, si discostano dagli stessi comportamenti proprio per la loro
idealizzazione e astrazione dalle situazioni reali, estraniandosi in tal modo da contesti
decisionali concreti. Tuttavia, ciò non deve necessariamente indurre al rifiuto dei
modelli normativi e all'accettazione di quelli descrittivi, il cui scopo è quello della
identificazione della natura e struttura delle preferenze degli individui dai quali trarre
modelli che permettano di configurare preferenze e decisioni non ancora manifestate
La semplice descrizione dei comportamenti individuali, infatti, risulta in alcuni
contesti altrettanto insoddisfacente, in quanto, se posti di fronte alle proprie incoerenze,
molte individui cercano di ovviare alle incoerenze proprio attraverso una rivisitazione e
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B. Chiandotto
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Versione 00 – Cap. 3
sistemazione delle proprie scelte in accordo con quanto previsto dai metodi normativi.
A questo proposito, alcuni autori hanno evidenziato il fatto che l'analisi delle decisioni
dovrebbe indirizzarsi sempre più verso una risposta alla domanda: è possibile per gli
individui operare in modo tale da non contraddire il proprio schema di
preferenze? Dovrebbe, cioè, suggerire comportamenti ottimali, senza però fare troppa
violenza sulle attitudini più profonde del decisore. In quest'ottica si colloca l'approccio
prescrittivo alla teoria delle decisioni: un'analisi prescrittiva dovrebbe sviluppare
procedure volte ad eliminare o ridurre violazioni dei principi cardine delle scelte
razionali.
I modelli prescrittivi sono dunque orientati ad avvicinare i comportamenti degli
individui a schemi decisionali razionalmente coerenti; tali modelli contemplano
solitamente assiomi più deboli rispetto a quelli classici o, addirittura, possono anche non
trovare inizialmente una giustificazione su base assiomatica.
Si deve comunque sottolineare che la distinzione tra modelli normativi,
descrittivi e prescrittivi risulta tutt'altro che netta; nonostante ciò, tale classificazione,
proposta da Bell, Raiffa e Tversky nel 1988, risulta oltremodo ragionevole e con grandi
implicazioni sul versante operativo. Infatti, se per un modello descrittivo è
fondamentale la sua validità empirica, per un'impostazione normativa è importante
soprattutto la sua coerenza teorica, mentre per un modello prescrittivo la valutazione è
focalizzata sulla sua pragmaticità, cioè sulla capacità di tradursi in un efficace strumento
decisionale.
Nelle righe successive vengono svolte, in modo molto sintetico, alcune
considerazioni sulle teorie generalizzate più significative proposte in letteratura.
Prendendo lo spunto dai numerosi paradossi e incoerenze comportamentali
messi in luce in letteratura, sono stati elaborati modelli e teorie alternative a quella
dell'utilità attesa, ognuno dei quali è volto a spiegare determinati aspetti del
comportamento individuale che non rispondono agli assiomi della EU. E’ noto inoltre
come sia l'assioma di indipendenza quello usualmente violato (esempi illuminanti in tale
direzione sono le incoerenze evidenziate dal famoso paradosso di Allais e il fenomeno
di inversione delle preferenze).
Gran parte delle teorie dell'utilità generalizzate dell’utilità propongono assiomi
alternativi più deboli, nei quali la struttura di preferenze viene rappresentata da funzioni
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B. Chiandotto
Metodi Statistici per le decisioni d’impresa
Versione 00 – Cap. 3
non lineari non solo dei risultati ma anche delle probabilità. Si hanno poi teorie che
eliminano completamente l'assioma di indipendenza, così come teorie non transitive che
eliminano l'assioma di transitività.
Le incoerenze dei comportamenti rispetto alla teoria dell'utilità attesa trovano
un'evidente conferma empirica nell'analisi delle scelte assicurative; diversi autori citano
proprio i contratti assicurativi come elemento significativo di violazione dei presupposti
della teoria classica dell'utilità.
Un primo esempio di incoerenza è fornito dalla cosiddetta assicurazione
probabilistica. E’ noto, infatti, come l'avversione al rischio di un individuo, e dunque la
concavità della sua funzione di utilità, sia condizione fondamentale affinché egli si
assicuri. Tuttavia persone manifestamente propense ad assicurarsi, e dunque avverse al
rischio, poste di fronte alla scelta tra una assicurazione standard e una probabilistica
(con la quale cioè viene pagato metà premio e se si verifica il danno si ha una
probabilità pari a 0.5 di pagare l'altra metà del premio e di avere la copertura delle spese
e una probabilità pari a 0.5 che il premio versato venga restituito dovendo così
affrontare le spese) preferiscono la prima, anche se si dimostra che una funzione di
utilità concava dovrebbe portare ad una preferenza per la seconda alternativa.
Quanto sopra osservato costituisce una riprova abbastanza evidente di come la
teoria classica dell’utilità attesa non sia in grado di cogliere tutti gli aspetti connessi alle
decisioni in situazioni di rischio e incertezza. Comportamenti apparentemente
irrazionali sono tuttavia spiegabili alla luce delle teorie generalizzate, attraverso
opportune definizioni di avversione al rischio che non implicano necessariamente la
concavità.
Inoltre, sempre in riferimento alle decisioni in campo assicurativo, diverse
analisi sperimentali hanno mostrato come la dipendenza dal punto di riferimento
influenzi le decisioni assicurative; infatti, si può mostrare, ad esempio, come la
presentazione della stessa polizza con franchigia in termini di rimborso, conduca ad un
evidente spostamento delle preferenze.
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