Ripartire i costi e i benefici dell`euro per salvare la moneta unica

Ripartire i costi e i benefici dell’euro
per salvare la moneta unica
Ripartire i costi e i benefici dell’euro per salvare la moneta unica
Andrea Ricci
Il cambio esterno determinatosi nell’Unione monetaria favorisce le esportazioni (tedesche) di
beni e servizi e penalizza le importazioni di paesi come l’Italia. Senza una diversa ripartizione di
costi e benefici occorrerà tirare le conseguenze
L’attuale crisi valutaria europea è atipica e si manifesta con la fuga dai titoli pubblici dei Paesi in
deficit esterno piuttosto che con la speculazione sul tasso di cambio. L’acquisto dei titoli pubblici
è il modo attraverso cui i deficit di parte corrente della bilancia dei pagamenti dei Paesi membri
dell’UME vengono finanziati da parte delle banche e degli operatori esteri. Il modo miope ed
egoistico con cui l’asse franco-tedesco ha gestito la crisi greca, ha reso evidente agli operatori di
mercato che l’euro non è affatto una scelta irreversibile. In tal modo in pochi mesi si è disperso
un patrimonio di credibilità e di fiducia accumulato nei venti anni precedenti.
In Europa esiste un precedente nella crisi del 1992. Allora l’Italia, insieme alla Gran Bretagna,
concordò con gli altri partner comunitari l’abbandono del Sistema Monetario Europeo, dopo che
lo
spread con i bond tedeschi aveva raggiunto 700 punti. La svalutazione del 25% del valore della
lira pose fine alla crisi e ripristinò le condizioni minime per perseguire l’equilibrio
macroeconomico. Questo fu l’atto fondamentale dell’allora Governo Amato. La successiva
manovra restrittiva dei conti pubblici per il 5,8% del Pil, la più pesante della storia della
Repubblica, servì per oltre due terzi a ripianare le perdite subite dalla Banca d’Italia, guidata da
Ciampi, nell’ostinata quanto vana difesa della parità della lira. Sei anni dopo l’Italia entrava
nell’Unione Monetaria Europea.
Oggi, come allora, la crisi affonda le sue origini nelle contraddizioni strutturali interne all’Europa.
L’Unione Monetaria Europea (Ume) è un’area fortemente disomogenea sotto il profilo
economico. Una delle principali argomentazioni addotte in Italia a favore dell’euro fu quella della
moneta unica come veicolo di convergenza virtuosa, in coerenza con la consuetudine delle classi
dirigenti italiane di utilizzare la “frusta” esterna come strumento di forzoso ammodernamento del
Paese. Nei dodici anni di esistenza dell’euro è accaduto esattamente l’opposto. Le divergenze
si sono accentuate e, dopo lo scoppio della crisi globale, hanno assunto un ritmo ancor più
accelerato.
Una cartina di tornasole degli squilibri interni all’UME è fornita dal saldo dei conti con l’estero
dei Paesi membri. Dalla nascita dell’Ume nel 1999 al giugno 2011 l’Italia ha accumulato un
deficit nelle partite correnti di oltre 305 miliardi di euro a fronte di un surplus della Germania pari a
oltre 1.050 miliardi. In questi stessi anni il contributo medio della domanda interna alla crescita
trimestrale su base annua del PIL tedesco è stato negativo (-0,2%) a fronte di un contributo
positivo della domanda estera (+0,6%). L’intera crescita dell’economia tedesca negli ultimi 12
anni è cioè addebitabile alle esportazioni nette. Opposto invece il caso italiano dove il contributo
medio della domanda interna è stato positivo (+0,5%) e quello della domanda estera negativo (0,3%). Il risultato finale è un tasso di crescita economica della Germania pari ad oltre il doppio di
quello dell’Italia dal 1999 al 2011 (dati Ocse).
Normalmente, in Paesi monetariamente sovrani, squilibri strutturali di tali dimensioni e durata
sarebbero stati corretti o quantomeno fortemente attenuati da variazioni del tasso di cambio.
All’interno di una Unione Monetaria, ovviamente, questo strumento non è più disponibile. La
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teoria delle aree monetarie ottimali ha evidenziato come in tale situazione l’aggiustamento degli
squilibri interni debba prevedere almeno una delle seguenti due condizioni, entrambe assenti
nell’Ume: forte mobilità interregionale del lavoro e meccanismi fiscali di redistribuzione
territoriale delle risorse. La flessibilità dei prezzi interni non rappresenta un meccanismo di
aggiustamento poiché, ad eccezione dei beni e servizi non commerciabili, per la gran parte dei
settori economici i prezzi sono allineati in tutto il territorio dell’Unione.
Diverso il quadro invece per il tasso di cambio reale misurato in termini di prezzi delle
esportazioni, che dal 1999 ad oggi ha garantito un guadagno di competitività internazionale della
Germania nei confronti dell’Italia pari a quasi il 40%. Le ragioni sono molteplici e complesse e
attengono in parte a cause di carattere sistemico, che rendono l’Italia un Paese relativamente
inefficiente rispetto alla Germania. Sicuramente rilevanti al riguardo sono alcuni fattori strutturali
che caratterizzano l’economia tedesca: la specializzazione produttiva, orientata su produzioni ad
alto contenuto tecnologico e ad alta intensità di capitale con una sostenuta dinamica della
produttività; la struttura dimensionale delle imprese con una dominanza delle imprese mediograndi in grado di praticare una discriminazione dei prezzi alle esportazioni; il contenimento
salariale concordato tra le parti sociali in particolare nel settore dell’export; una politica
industriale e commerciale attiva nel supporto ai settori esportatori; una rete infrastrutturale
pubblica efficiente nel ridurre i costi di trasporto, comunicazione e informazione per le imprese;
una politica della ricerca in grado di agevolare i processi innovativi; un forte sostegno del sistema
bancario, in prevalenza pubblico, al settore manifatturiero orientato all’export.
Questi però sono solo alcuni elementi, di natura interna, del modello di sviluppo neo-mercantilista
adottato dalla Germania. Un altro elemento decisivo deriva dall’appartenenza della Germania
all’UME. In un regime di cambi flessibili quale quello adottato dall’Ume, il tasso di cambio
nominale dell’euro è determinato nel lungo periodo dall’equilibrio nei conti con l’estero
dell’intera area monetaria. Il surplus esterno della Germania e dei Paesi nordici è pressoché
esattamente bilanciato dai deficit degli altri Paesi membri. Ciò ha comportato una situazione di
sottovalutazione dell’euro per la Germania e gli altri Paesi nordici e, viceversa, una
sopravvalutazione dell’euro per i Paesi mediterranei, Francia compresa, e per l’Irlanda. In altre
parole, per i Paesi a maggiore competitività l’euro è stato un potente veicolo per la conquista di
quote commerciali nei mercati extra-Ume, mentre, viceversa, esso è stato un ostacolo sugli stessi
mercati per i Paesi a minore competitività.
Il surplus della bilancia commerciale tedesca nell’intero periodo della moneta unica europea è
derivato per oltre i due terzi dall’interscambio con i Paesi extra-Ume. Anche grazie all’euro la
Germania nel 2011 è così diventato il secondo Paese esportatore di merci a livello mondiale
dopo la Cina, scavalcando gli Usa, ed occupa stabilmente la stessa posizione anche nelle
esportazioni di servizi commerciali, dopo gli Usa e prima di Gran Bretagna e Cina. La scomparsa
dell’euro potrebbe dunque essere una meta molto desiderabile per la Cina e gli Usa, sia perché
ridurrebbe sensibilmente la competitività commerciale di un temibile concorrente come la
Germania, sia perché eliminerebbe una potenziale minaccia al ruolo del dollaro come principale
valuta di riserva internazionale. Alla luce di tali considerazioni si possono forse comprendere
meglio alcuni discutibili
downgrading delle agenzie di rating americane e il sostanziale fallimento del G20 di Cannes, con
la cortese ritrosia della Cina nei confronti di un diretto coinvolgimento nella gestione della crisi
europea.
In un’area valutaria, dunque, la deflazione interna di un Paese agisce sulle quantità e non sui
prezzi. Ciò implica che l’aggiustamento condotto attraverso la deflazione dei Paesi in deficit
potrebbe teoricamente raggiungere il proprio obiettivo soltanto attraverso una recessione che
riduca il reddito, l’occupazione e, di conseguenza, anche le importazioni. Tuttavia, data la
dimensione degli squilibri esistenti, il processo deflattivo rischia di essere particolarmente lungo e
gravoso e di innescare un circolo vizioso che potrebbe sfociare in una profonda depressione
economica dell’intera area monetaria, allargando ancor di più le divergenze territoriali. Persino
negli ormai unanimemente famigerati programmi di aggiustamento strutturale, imposti dal Fondo
Monetario Internazionale negli anni Novanta ai Paesi in difficoltà del Sud del mondo, l’atto
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iniziale era costituito da una massiccia svalutazione della moneta che precedeva le misure
correttive dei bilanci pubblici. Il caso greco sta d’altra parte a dimostrare la totale inefficacia delle
misure deflattive per correggere gli squilibri.
Probabilmente più efficace e sicuramente meno costoso in termini di benessere complessivo
dell’area sarebbe perseguire un aggiustamento quantitativo dentro l’Ume attraverso la
reflazione dei Paesi in surplus, che farebbe aumentare la loro domanda aggregata e quindi le loro
importazioni. Misure di questo tipo sarebbero giustificabili in un periodo quale l’attuale,
caratterizzato da elevati tassi di disoccupazione del lavoro e di basso utilizzo della capacità
produttiva.
La lezione che è inevitabile trarre dalla crisi odierna è quella della necessità assoluta di
procedere rapidamente verso uno stretto coordinamento e una integrazione delle politiche fiscali
e di bilancio all’interno dell’Ume, finalizzato a garantire la sostenibilità per tutti i Paesi membri
dell’appartenenza all’area monetaria. Tuttavia, l’accelerazione del processo di integrazione
politica, per quanto rapida possa essere, non è più sufficiente per far fronte alla drammatica
emergenza attuale. Essa andrebbe accompagnata immediatamente dalla decisione della Banca
Centrale Europea di garanzia illimitata dei titoli dei debiti pubblici dei Paesi membri, come avviene
per qualsiasi altra Banca centrale di uno Stato sovrano. Ma se tutto ciò non dovesse accadere,
l’Italia dovrebbe forse ripetere l’esperienza della Grecia e perseguire consapevolmente
l’impoverimento del Paese? In questo quadro, ritengo che il senso dignità nazionale dovrebbe
spingere il nuovo Governo italiano a porre con forza la questione della riforma complessiva
dell’Ume e della ripartizione solidale dei costi e dei benefici cha da essa si traggono. In assenza
di risposte concrete e positive, non si può più escludere la possibilità di una fuoriuscita,
possibilmente concordata, dell’Italia dalla moneta unica europea.
Sì
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