Memo n.1 sulla filosofia di Giulio Preti

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Memo n.1 sulla filosofia di Giulio
Preti
Albe!o Per"zi
Dipa!imento # Filosofia • Università # Firenze • 22 #cembre
2011
E-mail: albe!o.per"[email protected]
(Bosch, La nave dei folli, particolare)
E-mail: albe!o.per"[email protected]
Alberto Peruzzi
Questo è il primo di una serie di “Memo” sulla filosofia di Giulio Preti. Come indica il titolo, non si tratta
di riflessioni sistematicamente organizzate, bensì di brevi osservazioni, spunti, talora ripensamenti, che
oscillano fra il commento a un passo di un’opera di Preti, la nota su un giudizio interpretativo espresso
in uno degli ormai numerosi saggi su Preti, il ricordo personale, la ripresa di un problema così come da
lui impostato.
In tutta sincerità, si tratta di un ripiego. Nel loro insieme, queste riflessioni erano destinate a preparare la
stesura di un volume per il centenario della nascita di Preti (Pavia, 1911). Non essendo riuscito a realizzare in tempo tale progetto, mi sono deciso a rendere pubblico il materiale preparatorio raccolto a tale
scopo nel corso degli ultimi vent’anni, senza inserirvi nulla di quanto oggi, anche alla luce di recenti
pubblicazioni e conferenze su Preti, sarei portato ad aggiungere. Pur di fare in tempo a rendere noti almeno i primi “Memo” della serie entro l’anno in corso, ho rinunciato all’accuratezza, espressiva e argomentativa, così come ho omesso la puntuale menzione dei riferimenti ai testi di Preti e alla letteratura
critica. In relazione a ciscuna questione discussa ci sono, sì, alcuni riferimenti, ma non quanti sarebbe
stato doveroso. Sporadici sono inoltre i rimandi alla letteratura critica, che ormai è ricca di contributi, fra
i quali si si possono trovare saggi di valore, scritti da valenti storici della filosofia. L’analisi di quanto è
stato scritto sul pensiero di Preti avrebbe meritato ben altro spazio, mentre in queste pagine il contributo
degli interpreti è più alluso che scrupolosamente discusso e, anche quando si accenna a un qualche
commento, la rapidità relega nell’implicito molti dettagli.
Ho sempre pensato, l’ho scritto e ora lo ripeto, che il modo migliore per rendere omaggio al magistero di
Preti non consiste nello scrivere saggi su di lui ma nell’affrontare i problemi che ci aveva insegnato a capire, e nell’elaborarne una soluzione. In questo, un esempio per tutti coloro che in una maniera o in un’altra si siano richiamati a Preti è stato l’impegno messo da Paolo Parrini, allievo e poi assistente di Preti, nel
portare avanti un discorso epistemologico che, mettendo a frutto la lezione pretiana, non è limitato a
riproporla o ad aggiornarla ma punta a offrire apporti specifici su problemi specifici – e intendo i problemi che sono stati e sono al centro del dibattito filosofico internazionale, non questioni di cronaca culturale della penisola. Credo che l’idea di Parrini sia sempre stata che soltanto attraverso tali apporti si
sarebbe potuto misurare l’importanza della ‘scuola’ che c’era dietro. Ho condiviso e continuo a condividere quest’idea. Anzi, assumendo l’impegno teoretico che essa comporta, mi sono anch’io sforzato di
tener fede a quella ‘scuola’ nei lavori che per quarant’anni ho dedicato a questioni di confine tra epistemologia, semantica e logica. Ma siamo nell’anno del centenario e allora è il caso di dimenticare il dopo e
parlare del prima, cioè, del pensiero di Preti, non foss’altro che per quella miniera di nuove domande che
ci pone ogni volta che andiamo a rileggere le sue opere – domande che credo sia utile cercar di capire
meglio, prima di interpretare la sua risposta o avanzare quella che ci sembra la risposta migliore.
I temi affrontati in questo primo “memo” sono pochi e saranno comunque ripresi nei “memo successivi”. Mi scuso fin d’ora per un andamento espositivo che più d’una volta ritorna sui suoi passi, in parte
ripetendo osservazioni già fatte, in parte guardando da altre angolature a una questione già toccata. Grazie alla forma esclusivamente digitale del testo qui presentato e al suo carattere non definitivo, se sulle
riflessioni che ospita i lettori avranno osservazioni e suggerimenti, sarò lieto di modificare questo e i
successivi “memo” tenendone conto.
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Memo n°1 sulla filosofia di Giulio Preti – 2011
1. Recouler pour mieux sauter
Recouler pour mieux sauter è un’espressione francese che sintetizza in quattro parole lo spirito che
anima queste pagine, cioè, l’idea di riconsiderare la lezione filosofica di Giulio Preti. Sono convinto che
attraverso tale riconsiderazione sia possibile prospettare il superamento di alcuni ostacoli propri dello
scenario attuale, ma non è solo questo il punto perché nella lezione di Preti c’è una ricchezza di pensieri
che va oltre lo scenario attuale. Si potrebbe anche aggiungere che i problemi che la filosofia di oggi si
trova davanti hanno indubbiamente caratteri nuovi rispetto ai problemi discussi da Preti, ma non conviene esagerare nel cantare le novità: la forma di almeno alcuni problemi fondamentali non è molto diversa
dai tempi di Preti. Ed è proprio questa forma che, pur con un lessico non più in uso, Preti individuò in
modo più lucido di quanto solitamente avvenga oggi. Per questo motivo, riconsiderare la sua lezione può
essere utile in più di un senso e non solo perché è “attuale”. Anzi, direi (e lo dico) che è utile perché ci
aiuta a dis-attualizzare quae che consideriamo tale e in fondo credo che anche da parte sua fossero intesi
così i numerosi richiami a temi e pensatori del passato più o meno vicino: il ritorno al passato serviva a
fare chiarezza sul presente nel senso che fungeva da antidoto al frastuono delle mode intellettuali e delle
parole d’ordine. Nel recouler pour mieux sauter, cioè, nel tornare indietro e prender la rincorsa per saltar
più in alto, si vuol testimoniare una pur minima cura del futuro, non un intento storiografico fine a se
stesso né un sublime appagamento per la multiprospetticità ricevuta in dono dal conoscere un po’ di più
il passato.1
Coloro i quali hanno seguito il vento che di volta in volta tirava nella filosofia italiana dagli anni
Sessanta a oggi (storicismo marxista, ondate ermeneutiche et alia) hanno tratto corposi vantaggi da riscoperte, riesumazioni, riletture di figure del passato in linea con la moda; vantaggi impensabili per
chiunque si richiami alla lezione di Preti. Per un banalissimo motivo: l’“onesto mestiere di filosofare”
richiede l’anteposizione di un’etica professionale a qualunque desiderio di apprezzamento, tornaconto e
carriera, e chiunque voglia tener fede a quella lezione sa che una tale anteposizione, per com’è il mondo,
non paga. Basta consultare la lista di “professori” (con licenza parlando) di filosofia che insegnano negli
atenei italiani e andare a vedere quale tipo di opere hanno realizzato (per lo più scrivendo sulla filosofia
fatta da altri, purché morti), quale tipo di linguaggio hanno usato per esprimersi e quali argomenti (laddove siano presenti) hanno offerto, per farsi una vaga idea di che cos’è che, dalle nostre parti, paga.
1
Per esempio, l’apprezzamento per quel che Preti definiva come “occamismo” era motivato dalle analogie che scorgeva tra il pensiero di Ockham e l’empirismo contemporaneo in materia di semantica. Non è un caso che le sue osservazioni sulla vox significativa mi indussero a proporgli come tesi di laurea un’indagine sulla semantica di Abelardo, motivata dai problemi cui vanno incontro molte teorie recenti, d’ispirazione logica, che reificano i significati.
Alberto Peruzzi
2. Magistero
Il magistero di Preti non era di quelli che esaltano le passioni e spingono a trasformare un argomento in uno slogan, non favoriva il consolidamento di un sistema d’idee nei termini del quale leggere il
mondo e tanto meno si prestava a etichette univoche. Di qui l’impressione di eclettismo data a chi vede le
etichette sui problemi e non i problemi.
Finita l’epoca in cui gli amanti della praxis inneggiavano all’idea di metter da parte l’interpetratio
mundi per procedere direttamente a cambiare quel che c’era in modo da dover perder meno tempo a
interpretare, è venuta l’epoca dell’interpetratio interpretationis e del resto (che al genitivo fa mundi) non
ci si è più preoccupati tanto. Ora stiamo avviandoci, forse, a maggior saggezza, peccato solo che non sia
nuova. “Peccato”? Di certo, non per chi è stato allievo di Preti.
Saper interpretare per poter davvero cambiare il mondo? È ovvio che per “mondo” s’intende la
società, il modo di vivere, l’economia, e non la galassia, mentre per “cambiare” s’intende cambiare il
mondo nel modo che riteniamo giusto. E cambiare cosa? Anche se con ciò intendesi quel che del mondo
non ci piace, la convinzione di riuscire a cambiarlo (anche di poco e su piccola scala) poteva esserci stata
nel Preti degli anni Quaranta e Cinquanta ma andò via via scemando. Il suo isolamento lo condannò al
ruolo di eroe non seguito e non capito – un’ottima preda per posteri famelici. Soprattutto, non fu mai
codesta pur eroica convinzione a guidare l’analisi che Preti fece dei problemi della filosofia: non gli sfiorava neppure il cervello di essere in grado di indicare una precisa via da seguire, né gli interessava candidarsi a fondatore di un nuovo ismo che, rifinito nei dettagli, avrebbe spazzato via ogni difficoltà e anche
cambiato il mondo. A prescindere dal suo progressivo disincanto, evidentemente deve aver pensato che
la forza del pensiero, da sé sola, non può farcela e che la forza del non-pensiero è pericolosa.
In lui le convinzioni, beninteso, c’erano ed erano anche forti, solo che questa forza si manifestava in
controluce, inclinandolo verso un atteggiamento resistenziale, per prima cosa contro il pressappochismo: la sua era sì una stoica missione-di-cultura ma era in primo luogo una missione-contro, contro diverse cosette abbastanza facilmente identificabili, ma per brevità diciamo (genericamente) contro la barbarie galoppante e gonfia di presunzione. E in secondo luogo? Be’, qui il discorso si farebbe complicato
e non lo comincio neppure. Da questo peculiare senso missionario deriva anche il suo atteggiamento
ironico, se non di sprezzo, verso chiunque pensasse di detenere l’ultima parola così come verso chiunque
non aveva il coraggio e l’onestà di dire apertamente, chiaramente, semplicemente, quel che in fondo pensava, pur di di mettersi al sicuro dalla critica razionale. La sua era dunque una missione contro l’omertà
filosofica (e ovviamente era anche qualcos’altro, grazie).
Su un piano più nobilmente teoretico Preti opponeva resistenza ai tanti baldanzosi sottoscrittori di
uno degli opposti di volta in volta all’ordine del giorno. Idealismo o positivismo? Empirismo o (neo-)criticismo? Cultura dello spirito o scienza-&-tecnica? Sofferta relatività storica o verità oggettiva? Il tribu-
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Memo n°1 sulla filosofia di Giulio Preti – 2011
nale della pura ragione o il parlamento degli istinti? Filosofia come ancilla scientiae o filosofia come
primum mobile? Metodica regimentazione del sapere o ribellione a qualunque Sistema? Assiologia di
regole vuote o di principi zeppi di contenuto?
In ciascun caso non è che Preti si ritraesse o cercasse di essere ecumenico. Si schierava a modo suo,
cioè, evitava di schierarsi per l’uno o per l’altro corno come usualmente intesi – e siccome aveva straordinariamente chiara la molteplicità di versioni di ciascun ismo, si rimboccava le maniche per selezionarne
quelle motivazioni che rispondessero a effettive esigenze di comprensione del mondo. Così, mentre insisteva sulla radicalità della presa di posizione cui si sentiva obbligato, cercava di individuare un piano su
cui alcuni aspetti degli opposti si potessero conciliare, senza con questo ignorare il loro conflitto sotto il
profilo storico-culturale. E siccome la selezione degli aspetti facenti al caso era massima, veniva fin dall’inizio esclusa ogni soluzione sincretica. I suoi sforzi erano orientati a delineare non un sistema cui delegare la fatica e la responsabilità di pensare per noi ma una cornice ra-zio-na-le entro la quale, selezionati alcuni ingredienti negli opposti ismi, si poteva configurare una po-ten-zia-le, non meno selettiva, convergenza degli stessi opposti. Per dirlo in breve con qualche simbolo: se A e B sono opposti globali, c’è
un A’ locale in A e un B’ locale in B tali che la composizione di A’ con B’ è coerente e porta a un diverso
risultato globale che è razionalmente preferibile ad A e a B ma a cui convergono sia A sia B. (Naturalmente, trovare A’, trovare B’, mostrare che A composto con B è coerente, che il risultato è preferibile ad A e a
B e che a tale risultato entrambi convergono, non è un giochetto.)
Pochi in Italia sono stati così netti nel denunciare unilaterali scelte di campo teoretico. Pochi, anche fuori dall’Italia, hanno così profondamente avvertito la tensione tra i due poli dialettici. Pochi hanno
saputo estrarne un minimo comun propulsore, capace di inaugurare quella nuova stagione di pensiero
che continuava a stargli a cuore anche quando la speranza di riuscire a vederla si andava riducendo a zero.
Il suo atteggiamento fu sempre quello di chi sa di muoversi sul filo di un rasoio. È perfino ovvio che tutto
questo non abbia facilitato la comprensione dei suoi testi e non abbia favorito il pieno riconoscimento
della sua statura di filosofo.
Alberto Peruzzi
Al di là della comprensione e del riconoscimento che piano piano sono nel frattempo maturati, 2
Preti ha ancora molto da insegnare. So che è un’affermazione vaga, così come voi sapete che, per precisarla, ci vorrebbe un bel po’ di pagine, quindi mi aspetto un po’ d’indulgenza al riguardo. So anche che è
un’affermazione ingenerosa nei confronti di coloro (me compreso) che hanno finora scritto qualcosa su
Preti, perché lascia supporre che in tali lavori non sia emerso quel molto che Preti ha ancora da insegnare. Mi scuso, ma è quel che penso, e poiché non rimedierò qui, mi sento in colpa. Se coloro verso i quali
sono ingeneroso non si sentono in colpa al par mio, pazienza.
Non ho più intenzione d’insistere, come feci una trentina d’anni fa, sul bisogno di far conoscere il
pensiero di Preti e apprezzarne pienamente la figura. 3 Tanto meno ho intenzione di colmare una lacuna
nelle ricostruzioni storiografiche che si trovano nei manuali o negli affreschi che a malapena si degnano
di ricordarne nome e cognome, più il titolo di un paio di libri. E questo non perché creda che da allora a
oggi le cose siano cambiate di molto, anche se su Preti comincia a esserci una cospicua letteratura e le
traduzioni di alcuni suoi saggi in altre lingue sono la prova di un’attenzione che finalmente c’è e non solo
2 Di tempo, ce n’è voluto però! Nell’immediato, dopo la morte di Preti nel 1972, ci fu il triplice “Ricordo di Giulio
Preti” (Alessio, Garin, Da Pra) uscito poi sulla Rivista critica di storia della filosofia (XXIX, pp. 432-437) ma non ci
si poteva aspettare da tanto brevi contributi altro che un’impressione generale. Nel ’74, se ricordo bene, furono
pubblicati gli interventi di Parrini e di Migliorini, nel volume degli atti del congresso nazionale di filosofia: altrettanto brevi, entravano però nel merito di precisi argomenti. Nel ’79 uscì la prima monografia su Preti, scritta da un suo
ex-allievo, Franco Cambi, dal titolo Metodo e storia (Grafistampa, Firenze) ma a causa della scarsa distribuzione
pochi la poterono leggere. È stato tutto merito di Dal Pra se l’opera di Preti è stata resa disponibile a quelli della mia
generazione e se nell’editoria italiana c’è stato un primo esiguo interesse ad ospitare opere su Preti. Sento di doverlo
ringraziare ancora una volta, e dal profondo del cuore, per il sostegno che dette a un giovane neolaureato che non
aveva mai visto e conosciuto e che gli si presentò più come un logico che come un filosofo, quando nel ’79 gli proposi
di pubblicare gli ultimi corsi di Preti come risultavano dagli appunti presi da noi studenti. Dal Pra accolse anche il
non marginale riferimento a Preti in un mio saggio sulla semantica carnapiana, che poi uscì sulla rivista da lui diretta
(“Significato e necessità in Carnap”, Rivista Critica di Storia della Filosofia, 36, 1981, pp. 293-316), che credo contenga il primo cenno alla rilevanza specifica delle idee di Preti per questioni specifiche che allora erano al centro del
dibattito semantico-epistemologico fuori dall’Italia. Le pubblicazioni successive su Preti furono molto più ‘generaliste’. Nel 1988 uscì una raccolta di saggi di Dal Pra su Preti (Studi sull’empirismo critico di Giulio Preti, Bibliopolis,
Napoli) e l’anno dopo il libro di Pier Luigi Lecis (Filosofia, scienza, valori: il trascendentalismo critico di Giulio Preti,
Morano, Napoli) in cui si metteva in evidenza il dialogo continuo di Preti con la grande tradizione mitteleuropea. Fu
nel corso dei contatti periodici con Dal Pra, al fine di realizzare la pubblicazione degli ultimi corsi di Preti, che conobbi Fabio Minazzi, allora laureando con Dal Pra con una tesi su Preti. Va riconosciuto a Minazzi lo sforzo con cui,
a partire dalla sua Bibliografia (F. Angeli, Milano 1984), nei decenni successivi si è dedicato a far conoscere, con
certosina abnegazione, il pensiero di Preti in relazione alle vicende politiche e culturali dell’Italia postbellica. Il
grande convegno milanese del 1987 su Preti fu organizzato da Minazzi. Si veda, tra le numerose pubblicazioni che
Minazzi ha dedicato a Preti, Il cacodemone neoilluminista (F. Angeli, Milano 2004). Nello stesso anno furono pubblicate altre opere su Preti, fra le quali il volume di atti curato da Paolo Parrini e Luca Scarantino, Il pensiero filosofico di Giulio Preti (Guerini, Milano). Altri, qui non ricordati, hanno scritto articoli, talvolta di particolare interesse,
sull’opera di Preti – e ad alcuni di questi lavori farò riferimento nei successivi “Memo” .
Cfr. Le due introduzioni ai testi delle sue lezioni del 1970-71 e del 1971-72 (Logica e filosofia e Il problema dei valori, F. Angeli, Milano 1984 e 1986, rispettivamente), nonché il volume, in omaggio a Preti, Il cuore della ragione,
Gabinetto Vieusseux, Firenze 1986.
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Memo n°1 sulla filosofia di Giulio Preti – 2011
in Italia. 4 Piuttosto, l’invito che oggi mi preme rivolgere attraverso la rilettura delle opere di Preti è un
altro: impegniamoci a capire meglio la struttura, prima che gli specifici esiti, del discorso di Preti e impegniamoci a spiegarla ai nostri studenti, i quali, se non altro, potrebbero essere incuriositi all’idea che,
attraverso la conoscenza del pensiero di Preti, chi faccia studi di filosofia in un’università italiana avrà una
chance in più per inserirsi in modo efficace nel dibattito internazionale
Quella appena fatta è una dichiarazione un po’ forte? Può darsi. Sto dimenticando che i termini del
dibattito sono cambiati rispetto al quadro che era familiare a Preti? No e non bisogna lasciarsi ingannare
dal lessico che ci piace di più usare. Per esempio, una delle polemiche più vivaci degli ultimi decenni ha
riguardato la contrapposizione fra ermeneutica e filosofia analitica e, con parole diverse, quanto Preti
ebbe a dire circa “le due culture” sarebbe stato oltremodo istruttivo a chi ha preso parte alla tenzone,
schierandosi da una parte o dall’altra. In particolare, almeno i contendenti di madrelingua italiana avrebbero potuto tenerlo presente nel momento in cui arrivavano a capire che la contrapposizione presentava
punti deboli, invece di sventolare come novità epocali i pur saggi ripensamenti di qualche filosofo francese o americano.5
3. Stile
Se ci si ferma all’apparenza, la forza del pensiero di Preti sembra disperdersi fra un settore e l’altro
degli studi filosofici, finendo per essere diluita dai suoi stessi molteplici interessi: da temi classici della
filosofia del linguaggio a questioni di epistemologia, da riflessioni sullo status della logica ad analisi storico-critiche su singoli pensatori. A dispetto di un simile svariare, ci sono schemi argomentativi che ritornano e in ciascun caso si avverte il suo sforzo di salvare l’essenziale unità della filosofia. Non è un’unità conseguibile riducendo la filosofia ai minimi termini o individuando qualche generalissimo principio
che ci dica “Il mondo è fatto così: ...” , “L’essenza di ... sta in ...” (riempiendo gli spazi dei puntini con
quel che ci preme). Di solito si ricorda che per Preti la filosofia è una metariflessione sempre pronta a
slittare di piano. Giusto, ma sarebbe troppo generico. Nel pensiero di Preti l’unità della filosofia si rivela
attraverso una serie di schemi argomentativi che ritornano da un tema all’altro, da una domanda all’altra,
da un ambito all’altro.
4 Sono stati soprattutto Jean Petitot e Luca Scarantino a promuovere il riconoscimento dell’importanza delle idee di
Preti in relazione al dibattito internazionale su temi di semiotica e di metodologia delle scienze umane. Cfr. Jean
Petitot, Per un nuovo illuminismo, Bompiani, Milano, 2009. Luca Scarantino, Giulio Preti: La costruzione della
filosofia come scienza sociale, Bruno Mondadori, Milano 2007. Il libro di Scarantino offre un’ampia e incisiva ricostruzione dell’ambiente culturale in cui si formò il cenacolo banfiano.
5 Cfr. A. Peruzzi, “Oltre la polemica fra Analitici e Continentali: l’eredità del pensiero di Giulio Preti”, nel volume, a
cura di P. F. Firrao, La filosofia italiana in discussione, Paravia Bruno Mondadori, Milano 2001, pp. 386-421 (Atti
del convegno nazionale della Società Filosofica Italiana, Firenze, dicembre 1999).
Alberto Peruzzi
Paradigmatico è il caso della logica. La stessa importanza che Preti le assegna non si spiega solo con
il peso che la logica ha avuto nelle indagini sul linguaggio, sulla scienza, sull’etica, La logica è anche un
componente-chiave di una strategia depurativa nei confronti dei problemi filosofici, perché aiuta a togliere di mezzo quel che non è essenziale; e inoltre offre l’opportunità di fare un test sfruttabile in molti
altri ambiti: i problemi che s’incontrano per chiarire lo status della logica e le linee seguite per risolverli
hanno una valenza appunto paradigmatica per l’assiologia generale, ovvero per quella cosa che la filosofia non può fare a meno di essere anche quando non lo vuole.
È infatti tipicamente “pretiana” una modalità espositiva e argomentativa che punta a estrarre da
qualunque posizione filosofica alcune linee teoretiche di fondo nella loro purezza, al di là delle commistioni con specifiche tesi (teoriche, ontologiche, e anche metodologiche) relative a un dato ambito e legate a motivi contestuali – commistioni che tendono sempre a esser presenti in un’opera filosofica e che
Preti non si stanca di identificare parlando di un autore, di una scuola o di un movimento che abbiano
segnato la storia della filosofia. Pur di far emergere queste linee teoretiche di fondo nella loro purezza,
Preti non fa sconti neppure ai padri putativi delle correnti alle quali è più legato.
Certo, “come sempre, le linee pure sono astrazioni e non si trovano in natura”.6 Isolare ciascuna
linea è nondimeno decisivo, oltre che utile, per il discorso filosofico, un po’ come succede con i piani
inclinati senz’attrito e con i gas perfetti per il discorso scientifico. Mi permetto di richiamare l’attenzione
su questo punto perché una preoccupazione simile non avrebbe avuto molto senso per uno che si fosse
preoccupato solo di smantellare i sistemi, come non lo ha per i tanti filosofi che oggi avvertono questa
preoccupazione come fondamentale, presentandola addirittura come unica spia della loro identità e con
ciò testimoniando in realtà una persistente, quanto tardiva, sensibilità romantica che era quanto di più
estraneo a Preti.
L’analisi condotta, da depuratrice, voleva farsi unificatrice. Come? È sempre per contrasto che
Preti, facendo slittare di piano la discussione, prospetta un più flessibile “sistema”. Lo prospetta e basta:
Preti si ferma lì, per pudore più che per una negazione della possibilità stessa di un quadro sistematico.
Si capisce facilmente che non ama i sistemi e tuttavia è proprio Preti ad ammettere che “il sistema è
l’istinto innato del filosofo”.7
Si potrebbe dire che la sua fu una ricerca delle armoniche fondamentali del pensiero, che è cosa
alquanto diversa dalla teorizzazione di un’armonica come l’unica o la più fondamentale di tutte. O meglio: quel che gli interessava era soprattutto delineare la cornice in cui queste armoniche avrebbero potuto esser confrontate, combinate, rintracciate storicamente e ridisposte in modi che la storia non aveva
ancora testimoniato. Dunque l’istinto per il sistema era all’opera nell’identificare lo spazio in cui far
6 Cfr. G. Preti, Umanismo e strutturalismo, p. 16, ma vedi anche p. 259 dei suoi Saggi filosofici, vol. II.
7 Così Preti aveva scritto in Fenomenologia del valore, p. 9.
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Memo n°1 sulla filosofia di Giulio Preti – 2011
muovere il discorso filosofico, anche se per la maggior parte dei filosofi il risultato non aveva nulla di
“sistematico”. Certo, non era nelle corde di Preti fare un elenco di tutte le posizioni e relative varianti,
tracciando uno specifico percorso attraverso esse.
Si potrebbe dire. Se non fosse che una simile descrizione si presta a essere intesa come denuncia di
qualcosa che manca al suo discorso, quando è nell’aver immaginato e nell’aver saputo concretare una tale
ricerca delle armoniche che stava la sua forza e la sua originalità. La sua debolezza? Non voglio negare
che ci siano punti deboli in singoli lavori di Preti o nel suo impianto generale di pensiero, ma qui mi permetto di segnalarne uno solo, che non è di contenuto ma di stile comunicativo e che ha due facce: non
aver voluto presentare le sue idee a) con l’enfasi necessaria a farsi ascoltare, in un ambiente propenso a
dar credito esclusivamente a roboanti esegeti e b) con maggiore attenzione al linguaggio di coloro cui
avrebbe dovuto rivolgersi perché le sue idee avessero maggiore impatto. Naturalmente, siete liberi di
pensare che questa non sia una debolezza, testimoniando piuttosto la legittima volontà di rivendicare
l’autonomia del filosofo dalle contingenze culturali e in primis politiche del suo tempo – e se pensate
questo, allora sarete confortati dalla latente tensione fra a) e b).
4. Logica matematica e filosofia
La scienza moderna ha assunto come ideale la formulazione matematica. Nel Seicento si trattava dei
principi della fisica, poi l’ideale si è esteso ad altri ambiti disciplinari. In una disciplina c’è tanto più
scienza quanta più matematica c’è, disse Kant. Per capire la matematica non ci vuole orecchio linguistico.
Per capire ciò che differenzia il linguaggio matematico dal linguaggio comune, ci vuole. E Preti aveva un
finissimo orecchio. (Vedi i suoi interessi linguistici prima ancora che si decidesse per la filosofia – e si
capisce che ad attrarlo sia stata poi una filosofia che metteva al centro l’analisi del linguaggio.)
Frege, Russell, Hilbert, Carnap avevano matematizzato la logica e come risultato il linguaggio matematico si presentava ora vestito a festa, cioè, logicizzato. Se c’era un linguaggio ideale, ormai non poteva essere che il linguaggio della logica (matematica). Al riguardo Preti non aveva esitazioni. Il pericolo
che avvertiva era quello derivante dal troppo stretto legame venutosi a creare fra logica e matematica.
Perciò non vedeva di buon occhio il privilegio accordato alle questioni interne alla matematica, temendo
che finissero per condizionare le possibili applicazioni della stessa logica a questioni di filosofia della
scienza e di filosofia del linguaggio.
Allorché la matematica fornisce lo scheletro o il modello di ogni disciplina che si voglia presentare
come scienza, cosa succede? Succede che a questo scheletro o modello si finisce per adattare ogni contenuto specifico e dunque si determina un vincolo non dovuto, un vincolo che ostacola un’adeguata analisi
logico-linguistica nei più diversi ambiti.
Alberto Peruzzi
È quel che era successo, a parere di Preti, con l’uso della logica matematica da parte di un buon
numero di filosofi analitici. Il timore che questo si ripetesse spiega come mai era contento che la “logica
filosofica” si fosse affrancata dalle commistioni con la gnoseologia, l’ontologia e la psicologia e come mai
invece era preoccupato che la matematizzazione della logica si trasformasse in “matematismo”. A suo
giudizio, la filosofia della matematica tendeva a schiacciare le questioni di struttura o architettura del
sapere in questioni fondazionali, finendo per riproporre termini troppo “carichi” (com’era solito dire),
cioè, carichi di valenze ontologiche (che Preti voleva assolutamente evitare) e, in particolare, carichi di
quell’antico sostanzialismo che gli empiristi moderni avevano messo in crisi una volta per tutte. Per
esempio, Preti non avrebbe voluto che la contrapposizione fra platonismo e formalismo fosse ereditata
come questione primaria verso la quale doversi impegnare prima ancora di fare un qualsiasi uso pratico
della logica.
La logica era vista da Preti come intrinsecamente legata alla semiotica, in quanto teoria generale del
linguaggio, prima ancora che alla matematica, come se l’aspetto formale della logica dovesse mantenere
una maggiore generalità rispetto al suo impiego in matematica. Sul che si potrebbe disquisire a lungo e si
potrebbe anche dissentire. 8 Se gli si fosse detto che la grammatica di derivazione chomskiana si proponeva appunto come capitolo-modello di una teoria generale della facoltà del linguaggio e che poteva porsi
come tale solo perché era il diretto sviluppo di una branca della logica matematica (ovvero, della teoria
delle funzioni ricorsive), che cosa avrebbe replicato? Me lo sono chiesto più volte, quando ero ancora un
suo studente e in contemporanea seguivo i corsi di Casari. Mea culpa: non ho avuto il coraggio di porgli
direttamente la domanda. Mi proponevo di farlo ma non ho fatto in tempo.
Al riguardo c’era anche qualche problemino interpretativo. In maniera tanto significativa quanto
dubbia, Preti associava Chomsky allo strutturalismo europeo. Così, la sua eventuale replica avrebbe dovuto far valere la pluralità di dimensioni semiotiche che s’intersecano nel linguaggio verbale e che non
sembrano prestarsi affatto a quella formalizzazione o comunque a una formalizzazione univoca. Anche
ammesso questo, le istanze semiotiche non cominciavano forse a trovar posto entro una cornice scientifica? Intendo: la cornice delle scienze cognitive. Pochi anni dopo, nella seconda metà degli anni Settanta,
Tversky e Kahneman evidenziarono sperimentalmente, non in termini di una qualche filosofia del linguaggio, lo scarto tra la logica e l’effettivo ragionamento. Mi piace immaginare Preti che, diciamo nel
1983, torna sul tema con un saggio in cui parte dalla polemica Carnap-Strawson e arriva a discutere dei
risultati di Tversky e Kahneman. Fatto sta che tutto il nuovo panorama di ricerche legato al nome di
8
Su questo punto vertevano le riserve di Preti sulla linea seguita dal suo allievo Casari, così come le riserve che
esprimeva nei confronti del mio entusiasmo per le lezioni del corso di Casari che seguivo nel 1971-72, e ancor più nei
confronti dell’idea, allora da me malamente espressa, che la matematizzazione dei problemi filosofici non passasse
necessariamente o esclusivamente per la porta della logica.
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Memo n°1 sulla filosofia di Giulio Preti – 2011
Chomsky era descrivibile solo facendo leva su raffinati e flessibili strumenti matematici: era la matematica
della cognizione ed essa ora ardiva estendersi perfino alla dimensione dell’intenzionalità. 9
L’idea che ho appena richiamato era, agli occhi di Preti, semplicemente improponibile. Forse è per
questo che non ebbi il coraggio di chiedergli cosa ne pensava e probabilmente avrei rinunciato al proposito anche in seguito, per evitare un sicuro discredito prima ancora di essermi guadagnato ai suoi occhi
un minimo credito. Eppure, dato che escludeva la possibilità di adoperare il termine “linguaggio” nel
caso di formalismi non interpretati, non avrebbe dovuto plaudire a un’analisi delle basi cognitive della
semantica? Non era finalmente un modo empirico di sviluppare quella fenomenologia della logica che
pure gli stava a cuore? E poiché Preti vedeva la logica come una parte propria della teoria del linguaggio
– propria perché le sfugge l’essenziale dimensione pragmatica del linguaggio10 –, come si sarebbe posto
nei confronti delle ricerche orientate a una pragmatica formale? Queste però sono domande che non solo
mi mancava il coraggio di fare ma che allora non sarei neppure stato in grado di formulare.
Quanto alle questioni relative ai fondamenti della matematica, Preti raramente entra nel merito. 11
Non certo perché ignorasse la problematica fondazionale e il modo in cui la relativa filosofia si era venuta
sviluppando, da Frege a Russell e da Hilbert a Carnap, ma piuttosto perché la considerava viziata da
un’ambiguità di fondo:
la tesi dell’identità di logica e matematica di per sé e in assoluto non significa proprio nulla.
Bisogna vedere quale logica e quale matematica [...] Il problema quindi della riducibilità
della matematica alla logica è un problema pratico o tecnico, non filosofico.12
“Bisogna vedere”: giusto ... (Ed è un peccato che a questo non siano arrivati i tanti che per decenni
hanno continuato a scrivere su riduzionismo e antiriduzionismo.) ... anche se, di nuovo, sul “quindi” si
possono nutrire dubbi. Chiaro è che Preti non era disposto ad accettare che il rapporto tra due discipline
praticamente e storicamente distinte, come appunto logica e matematica, si riducesse a un problema
9
Che poi l’impresa avesse successo, era un altro discorso. Nei primi anni Ottanta mi capitò di intervenire più volte
per indicare i punti deboli dell’impresa. Ormai non merita neanche fare i rimandi espliciti, tanto quella problematica
non interessa più a nessuno; e allora, in Italia, interessava a così pochi che mi vidi costretto a pubblicare quei lavori
su riviste fuori dal grande circuito. Il mio errore fu di non mettere bene in chiaro che il taglio che cercavo di dare alla
semantica formale applicata al linguaggio naturale scaturiva da domande che avevano la loro origine non in saggi di
qualche rampante filosofo americano ma in quanto Preti ci aveva detto a lezione.
Sul rapporto tra logica e grammatica, si vedano le sue considerazioni in Saggi filosofici, vol. I, p. 329 e vol. II, pp.
149-152.
10
11 Le uniche sue osservazioni che ricordo al riguardo vertevano sulla teoria dei tipi di Russell.
12 G. Preti, Saggi filosofici, vol. I, pp. 266-67.
Alberto Peruzzi
tecnico-formale. Per lui, l’analisi dello status della matematica era pur sempre parte della filosofia della
cultura, intesa in tutta la sua ampiezza, e non era in alcun modo isolabile da questo sfondo; non era
“quindi” configurabile in termini puramente formali, i quali a loro volta avrebbero dovuto essere compresi filosoficamente attraverso l’analisi del loro ruolo entro la cultura e, in primis, entro la scienza.13
Preti batte e ribatte su un punto: le forme proposizionali e inferenziali che sono oggetto della logica
non scendono dal cielo. Anche se possiamo concepire a priori le più diverse strutture algebriche, bisogna poi vedere quali di queste strutture sono funzionali (o le più funzionali) all’organizzazione del discorso scientifico, che non è uno e neanche trino. Battendo e ribattendo, vuol fare emergere un duplice
senso empirico della logica:
1) le “forme” proposizionali e inferenziali sono il distillato di modi di organizzare il pensiero che hanno
provato la loro efficacia nel corso della storia;
2) il fatto che gli schemi logico-formali corrispondano all’architettura del discorso scientifico è qualcosa
che può esser accertato solo empiricamente.14
Conclusione: il confine tra ciò che appartiene alla logica e ciò che non le appartiene è storico-empirico. Una conclusione, questa, che non era poi tanto meno ambigua dell’ambiguità che doveva servire a
cancellare e non è un caso che, a questo proposito, il pensiero di Preti oscillerà fra più letture, cui la conclusione si presta, fino all’ultimo.
Allora non basta che la filosofia abbia a che fare con l’analisi del linguaggio e con la progettazione
di un linguaggio ideale. Per Preti, la filosofia ha un ambito più vasto di ogni specifico linguaggio ideale:
ha in sé una spinta ad abbracciare la totalità degli aspetti della civiltà: simbolismi, arti, scienze, tecniche,
istituzioni, che non è tutta roba linguistica. E questa spinta non è lo sguardo concesso alle cose umane da
un esilio cosmico: ha da essere efficace e può esserlo solo se resta in contatto con la vita della cultura e in
particolare con la ricerca viva in ambito scientifico. 15
E con ciò? Con ciò intendo semplicemente dire che la stessa spinta è esercitata anche nei confronti
dell’assetto che di volta in volta la logica e la matematica conseguono. Perciò non ci si può aspettare una
soluzione per via assiomatico-formale dei problemi che la filosofia si ritrova o che pone, spostandosi
sempre di piano. Dunque la rivendicazione del carattere essenzialmente metateorico della riflessione
filosofica ha un senso distributivo e non collettivo, un senso non molto lontano dal motivo che indusse
13 Si veda il suo saggio postumo “La filosofia della matematica di Bertrand Russell”, alle pagine 449 e 454.
14 Cfr. Saggi filosofici, vol. II, pp. 125-26.
15 Cfr. Logica e filosofia, p. 12.
13
Memo n°1 sulla filosofia di Giulio Preti – 2011
Kant nella Dottrina del Metodo a respingere il progetto di una matematizzazione della filosofia, dopo
aver respinto la possibilità di una metafisica razionale. Si può voler migliore equilibrio?
Se dovessi dire che il ragionamento di Preti mi ha pienamente convinto, direi il falso. Il ricorsivo
slittamento non dovrebbe preludere a una fuga dai problemi e invece la fuga dai problemi temo che ci sia
se seguiamo Preti per questa strada senza la sua stessa ricchezza di riferimenti storico-filosofici e storico-scientifici. Ovviamente, un argomento sta o cade non per ragioni legate a fatti personali!
La logica e la matematica, così come tutte le discipline scientifiche e, a guardar bene, anche quelle
non-scientifiche, dalla critica letteraria al diritto, includono sempre (in dosi e modalità diverse) riflessioni
meta-teoriche e infine vertono anche su se stesse: sono cioè auto-referenziali. Bene – direte –, significa
che c’è in giro più filosofia (buona o cattiva) di quanta credessimo. Invece non scorgo in ciò l’automatica
spia di un discorso “filosofico” in senso proprio. Se ogniqualvolta un ricercatore riflette sui principi e sui
metodi della propria disciplina fa della filosofia, dobbiamo essere pronti a dire che la filosofia oltre a non
avere un suo proprio terreno non ha neppure un suo proprio tipo di discorso. Il sale non fa parte del menu di un ristorante: è semplicemente su ogni tavolo, oltre a essere già presente in molte voci del menu.
Nessuno dice di andare al ristorante per mangiare del sale.16
Per questa via, alla fine, bisognerebbe dire che il filosofare non è isolabile da una vita pensata, cioè,
da una vita umana consapevole dei valori che trovano, o non trovano, realizzazione in essa. Non intendo
negarlo. In questa considerazione c’è del vero e, in certo senso, quel che c’è di vero è perfino gratificante, perché ha sempre fatto parte del lavoro dei filosofi dire ai membri della polis e poi ai borghesi gentiluomini quanta (rozza) filosofia stavano facendo senza saperlo, quindi dirlo ai fisici o ai matematici o ai
linguisti o ai giuristi non è altro che una naturale continuazione dell’impresa – quand’anche un’impresa
di Sisifo, non importa.
Cos’è allora che non quadra? È semplicemente che si tratta di una considerazione troppo generica
e tale, sono convinto, era anche per Preti. Chiunque conosca un po’ di filosofia sa che c’è dell’altro da
una generica meta-coscienza. E quest’altro, per non introdurlo di soppiatto, dev’essere riconosciuto
come qualcosa a sé, mettendo in rilievo l’impegno teorico che comporta. Insomma, l’impressione è che
qui Preti assecondi quel che ho chiamato “il Mito del Meta”17 e finisca per dare alla filosofia troppo e
troppo poco. Che lo facesse con le migliori intenzioni non è in forse: voleva sfoltire le schiere di coloro
che da sempre coltivano l’illusione di una philosophia prima così come voleva salvare la filosofia dal riti-
16
Negli anni Ottanta ero convinto – e lo scrissi – che la filosofia è “capillare” nella ricerca scientifica e che non può
essere altro di meglio. Era una dichiarazione provocatoria nei confronti di tutti coloro che continuavano a fare filosofia pensando che fosse una piantina la quale trae nutrimento da sé.
17
Nel pamphlet intitolato “commiato dal Commiato” (1996), reperibile su internet all’indirizzo
www.swif.uniba.it/lei/rassegna/testi/fas01.htm
Alberto Peruzzi
rarsi in una tecnica d’analisi del linguaggio. Buone intenzioni come queste non sono, tuttavia, sufficienti
a legittimare il Mito del Meta.
Per esser chiari, è bene precisare due cose: A) Preti non si accontentava di guadagnare la dimensione metateorica, sempre pronta a slittare, tant’è vero che respinge l’idea che l’etica si esaurisca nella
metamorale – e qui rientrava in gioco un motivo banfiano, ovvero la dialettica inerente a un sistema aperto della razionalità fa sì che, per ogni X, la riflessione critica su X abbia effetti all’interno di X; B) la comprensione di una simile dialettica si rivelava indispensabile per individuare il piano più proprio, finalmente stabile, della filosofia, onde evitare l’eterna fuga di piano in piano, e allora diventava possibile additare
un preciso, duplice, compito per i filosofi, maschi e femmine: quello di osservatori critici della cultura in
actu e di architetti della civiltà in potentia (benché Preti abbia nel corso degli anni insistito più sul primo
che sul secondo compito).
Le preoccupazioni di Preti verso una non pienamente realizzata autonomia della logica dalla matematica sono, come già accennavo, legate al sospetto che nella logica siano ancora presenti residui metafisici, abilmente mascherati dall’aspetto formale. 18 In più occasioni Preti esprime riserve circa tracce di
sostanzialismo aristotelico perduranti nella logica del Novecento: dall’atomismo di Russell al “dogma”
dell’estensionalismo fatto proprio dalla semantica di derivazione tarskiana. Tracce per lui inaccettabili,
tanto più che in fisica e in altre scienze era ormai chiaro che l’oggetto del discorso si costituisce entro
una rete di rapporti – che indicava come un “reticolato categoriale” –, e allora c’era ancor meno motivo
che una teoria del significato restasse ancorata a una visione ingenua, come appunto quella sostanzialistica, del riferimento (Bedeutung, reference) .
Né, scendendo nel dettaglio, Preti riusciva a scorgere come una prospettiva primariamente epistemica, centrata sul costituirsi dell’oggetto,19 potesse concretamente arricchire dall’interno la semantica. Se
della strada percorsa da Chomsky per quanto riguarda la sintassi vedeva più i pericoli che le potenzialità,
era difficile aspettarsi una reazione diversa nel caso di una teoria analoga per quanto riguarda la semantica. Non credo che sia un caso fortuito che, proprio riguardo agli sviluppi della semantica, Paolo Parrini,
già assistente di Preti, si sia sentito impegnato a fare i conti con lo scenario che si era delineato a partire
dalle critiche di Quine alla legittimità della stessa nozione di significato, fino alla proposta avanzata da
18
Su questo ebbi il coraggio di porgli qualche domanda. La discussione che nel 1972, nel suo studio alla fine di una
lezione, ebbi con lui al riguardo non solo non riuscì a fargli cambiare minimamente idea (cosa che non mi proponevo), ma riuscì a farmi fare la figura dell’ingenuo e, visto che non avevo idea di quel che era successo nella filosofia del
Novecento, dell’ignorante.
19 Oggi, una simile prospettiva, nel bene e nel male, si trova a fare i conti con le scienze cognitive. Cfr. A. Peruzzi, Il
significato inesistente, Firenze University Press, Firenze 2004.
15
Memo n°1 sulla filosofia di Giulio Preti – 2011
Katz per mettere a punto una teoria semantica empiricamente controllabile.20 Solo facendo questi conti
si poteva davvero capire se e quanto le riserve di Preti fossero superabili.
Le cose, ahimé, si complicavano perché gli argomenti di Quine contro la dicotomia analitico/sintetico minacciavano il senso trascendentale che Preti attribuiva alle verità analitiche, intese esprimere gli
elementi costitutivi di un universo di discorso, tanto più che le critiche di Quine non investivano solo la
specifica sistemazione carnapiana ma tutta la filosofia del linguaggio che aveva respinto l’identificazione
tra significato e riferimento, quindi investivano anche le posizioni emerse in alcuni dei principali sviluppi
successivi della semantica (si pensi alla teoria di Kripke), già discussi con lucidità da Andrea Bonomi nei
primi anni Settanta.21 La minaccia era terriblmente seria: rendeva insicura qualunque linea netta di demarcazione fra linguaggi e teorie, esigendo un approfondimento delle basi epistemiche della semantica
e, in primo luogo, dell’aggancio referenziale dei termini di una qualsiasi teoria scientifica – un approfondimento che in Italia fu proprio Parrini a iniziare e la cui rilevanza non fu apprezzata quanto avrebbe meritato per la semplice ragione che non fu neppure capita (a onore dei filosofi italiani allora in cattedra).
5. L’Effetto cascata
Una delle tesi centrali del pensiero di Preti è che l’analisi metateorica ha ricadute non banali sul
piano propriamente teorico, sia che si tratti di una teoria scientifica sia che si tratti di una teoria etica.
Dunque la questione non riguarda solo la semantica o l’epistemologia: riguarda più in generale ogni
discorso sui valori (l’oggettività della conoscenza è un valore, ma non è certo l’unico).
Qui s’inseriva un’ulteriore tesi che Preti, anche se non l’ha espressa a chiare lettere, ha più volte
suggerito: la tesi secondo la quale c’è simmetria fra la soluzione dei problemi epistemologici e la soluzione dei problemi etici. È stato in rapporto a tale tesi che nella comunicazione presentata al primo congresso dedicato a Preti (svoltosi nel 1987 presso l’Università Statale di Milano) insistevo sulle difficoltà irrisolte e forse irrisolvibili che il suo discorso incontra nell’ambito dell’etica in vista della stessa strategia seguita (sempre per viam negationis) nel caso dell’epistemologia. 22 Allora consideravo superfluo dire che
tali difficoltà, se riguardano l’etica, riguardano la teoria generale dei valori, dunque anche la teoria della
verità in senso lato e la teoria dell’oggettività scientifica. Lo consideravo superfluo dando per scontato un
20 Cfr. P. Parrini, Linguaggio e teoria, La Nuova Italia, Firenze 1976.
21 Cfr. A. Bonomi, Le vie del riferimento, Bompiani, Milano 1975) e Universi di discorso, Feltrinelli, Milano 1979.
22 A. Peruzzi, “È Morale la filosofia della Morale?”, in F. Minazzi (a cura di), Il pensiero di Giulio Preti nella cultura
filosofica del Novecento, F. Angeli, Milano 1990, pp. 307-320. Ricordo la totale indifferenza del pubblico (tra cui
altri relatori del convegno) agli argomenti che esposi.
Alberto Peruzzi
presupposto, cioè, che si avesse presente lo schema argomentativo pretiano. Col senno di poi è chiaro
che facevo male, molto male, a considerarlo superfluo.
Ma ora usciamo da tardive rivendicazioni e torniamo a quel che conta: i problemi in esame. È sul
piano axiologico generale che Preti nega la possibilità di fondare le leggi di alcunché su regole o norme,
così come nega ogni forma di soluzione di tipo platonistico e nega il naturalismo, di cui, riprendendo
l’argomento di George Edward Moore, denuncia la fallacia. Le difficoltà cui alludevo nella comunicazione al convegno del 1987 derivano proprio dal richiamo pretiano alla notitia quinque sensuum e alle emozioni vitali. Infatti, il richiamo non va tanto d’accordo con la negazione del naturalismo. C’era dunque
qualche distinguo da fare. Quale?
Preti era disposto ad ammettere che le strutture del linguaggio in cui prende forma o si articola il
pensiero umano affondano in una soggettività universale. Perciò si preoccupava che esse non fossero
prese come dato psicologico (contingente): prenderle così significava imboccare una via la cui inadeguatezza già Bolzano e Husserl avevano messo in evidenza. Nell’innatismo chomskiano Preti vedeva riproposta una simile inadeguatezza, come riduzione del contenuto di pensiero ai processi mentali; e siccome
aveva già una lunga familiarità con le deformazioni “coscienzialistiche” cui era andata incontro la filosofia critica, non era disposto a aprire le porte a una loro nuova variante.
Il suo sospetto era più che comprensibile. Strano era che venisse da quel Preti che aveva dichiarato
di avere un punto di vista “empiristico” e che aveva riposto speranze, sull’onda dell’entusiasmo degli
empiristi logici emigrati in America, nell’impostazione comportamentistica della psicologia, perché i
cognitivisti e tra loro in prima fila Chomsky stavano facendo una battaglia contro la possibilità di ridurre
le strutture costitutive dell’esperienza linguistica a fatti empirici. Il sospetto, semmai, avrebbe dovuto
essere nei confronti delle ingenuità del senso comune o verso i fumosi brancolamenti di tanta filosofia,
anche di marca fenomenologica, gongolante alla sola idea di qualcosa che sfugge ai metodi quantitativi
delle scienze naturali. Ma nel soppesare i rischi di due posizioni ci può essere un margine che dipende
dalla percezione soggettiva e la percezione che Preti ne aveva lo avrebbe portato a dire che il comportamentismo, messi in conto tutti i suoi difetti, si muoveva pur sempre nel solco dell’empirismo, con i suoi
bravi vincoli (controllabilità osservativa), mentre il neo-mentalismo proposto da Chomsky non sembrava
intenzionato a tenerne conto. 23
Anche da quel poco che ho detto si capisce che la questione era per lui abbastanza delicata e irta di
complicazioni. I sospetti di Preti verso quello che stava diventando un modello dell’approccio cognitivista dipendevano dalla sua personale stima del rischio. Il prezzo da pagare per quest’opzione fu alto, però.
Tra le strutture della conoscenza (espressa in giudizi e inferenze) e le strutture della mente conoscente
(giudicante e inferente) non doveva forse esserci un legame anche per lo stesso Preti? Ahimé, questo
23 Cfr. Saggi filosofici, vol. I, p. 319 e “Lo scetticismo e il problema della conoscenza”, pp. 259-60.
17
Memo n°1 sulla filosofia di Giulio Preti – 2011
legame finiva per risultare inspiegabile o quanto meno, per prudenza, andava messo fra parentesi ... a
tempo indeterminato. 24 Un esito difficile da accettare e ancor più difficile per chiunque si fosse interessato di psicologia cognitiva, che proprio negli anni Sessanta stava uscendo dall’età del comportamentismo.
Dietro a queste difficoltà c’era un noto e a Preti più che familiare schema argomentativo contro lo
psicologismo, riferito alla logica e alla matematica ma, cambiando quel che c’è da cambiare, trasferibile
ad ogni altro ambito, ove siano presenti contenuti oggettivi di pensiero, unitamente a verità dotate sia di
portata universale sia di potere controfattuale (cioè applicabili anche a situazioni diverse da quelle di
fatto osservate). Chiedendo venia per la stringatezza con cui lo formulo, l’argomento-base è così riassumibile:
ARGOMENTO-BASE
1) la matematica non è riducibile a psicologia; 2) la matematica è riducibile a logica; quindi
3) la logica non è riducibile a psicologia.
Perché tale schema funzioni, in questo come in ogni altro caso (A non si riduce a C, A si riduce a B,
quindi B non si riduce a C), bisogna provare le due premesse. Il nocciolo di tale prova, e allo stesso tempo ciò che legittima la trasferibilità dell’argomento ad altri ambiti, poggia su due affermazioni: l’affermazione che niente di ciò che sia necessariamente vero (o valido) è riducibile a (deducibile da) qualcosa che
è contingentemente vero (o valido) e l’affermazione che le verità matematiche sono necessarie.
Frege aveva dedicato tutte le sue forze a garantire 2) ma si era preoccupato anche di 1), mentre è
esclusivamente su 1) che Husserl insiste, continuando a pensare (anche nel 1929, in Logica formale e
trascendentale) che la logica sia una parte propria della mathesis universalis. Le loro due strategie dunque non collimavano e al riguardo il discorso di Preti andava più nella direzione di Husserl che in quella
di Frege, previa depurazione dal platonismo delle Ricerche logiche, aprendo così l’analisi fenomenologica
a un’indagine davvero radicale, allusa in Esperienza e giudizio ma mai realizzata da Husserl e soci: un’indagine sul radicamento della logica nelle strutture del mondo-della-vita, ove prende corpo la praxis primaria, naturale, soggiacente a ogni discorso umano. E tutta questa trafila non era una tempesta in un
bicchier d’acqua, o se preferite una questione remota e non comparabile, per importanza, con le grandi
domande della scienza. Per un motivo semplice: le verità logico-matematiche erano diventate, nell’approccio analitico, verità semantiche, dunque relative alla struttura stessa del linguaggio, ma la semantica
24 Cfr. Saggi filosofici, vol. I, pp. 85-86.
Alberto Peruzzi
era connessa con la pragmatica (come già Carnap si era sforzato di precisare) e dai nuovi sviluppi della
linguistica riemergeva anche una connessione con la psicologia.
Qui veniva a galla il problema relativo al punto centrale dell’argomento-base. Per favorire la comprensione del problema conviene estrarre il nocciolo e, viste le divergenze tra logicisti e non-logicisti,
intendere questo nocciolo come l’autentico argomento-base:
ARGOMENTO-BASE*
1) la logica e la matematica contengono verità necessarie; 2) le verità necessarie non sono
riducibili a verità contingenti; 3) le verità circa fatti naturali/mentali/sociali/storici, sono
contingenti; quindi 4) la logica e la matematica non sono riducibili a verità circa fatti naturali/mentali/sociali/storici.
Passando a questa versione, il problema è semplice a formularsi quanto difficile da risolvere: i fatti
del mondo-della-vita, i dati dell’esperienza vissuta, e quant’altro sia legato alla natura biologica e psicologica dell’essere umano, corrispondono a verità contingenti. Ma il “radicamento” nella praxis è l’individuazione di una sorgente cui ridurre lo status peculiare (necessario) di logica e matematica. E allora questo “radicamento” non può certo rimandare a qualcosa di contingente.
Il discorso di Preti si scontra con questo problema e, anche se non ne viene a capo, riesce a intravedere alcuni elementi utili a risolverlo. A più riprese Preti torna sulla questione e, in Italia almeno, fu lui
l’unico a delineare una convergenza tra orientamento fenomenologico e analitico, una convergenza mirante a radicare non solo la logica ma ogni contenuto giudicativo in un piano che si può anche indicare
come mondo-della-vita, di cui fa parte anche il linguaggio (e ovviamente intendo il linguaggio ordinario).
Anzi, su questo piano si realizza una commistione pragmatica di tante diverse strutture semiotiche, in un
senso non dissimile da quello in cui Wittgenstein aveva parlato dei linguaggi come “forme di vita”. Riconoscere la commistione, ponendo poi il compito di analizzarla, non è una prova, però, di ciò che si vuol
asserire! Tanto Wittgenstein quanto Preti, quanto (prima ancora) Husserl, si trovano nella condizione di
dover provare qualcosa che il loro stesso discorso porta a ritenere non provabile.
A scanso di equivoci, non intendo negare i meriti della strategia seguita da Preti, che individua e
mette a frutto in maniera originale la confluenza di fenomenologia e analisi del linguaggio – e questo
molti anni prima dell’invaghimento di massa per il misterioso Ludwig. Il punto è un altro. A promuovere
tale confluenza è lo stesso filosofo che, per niente disposto a rinunciare alla lezione carnapiana, aveva
segnalato un ostacolo per entrambi gli orientamenti: il mondo-della-vita non è un mondo vero e proprio,
19
Memo n°1 sulla filosofia di Giulio Preti – 2011
cioè non è qualcosa di ordinato da cima a fondo. Preti lo dice espressamente: il mondo-della-vita è piuttosto un insieme di “frammenti d’esperienza”,25 un contenitore “indeterminato”, non dunque una super-struttura dalla quale i vari linguaggi (tecnici, scientifici e infine puramente formali) estraggono il loro
spicchio di struttura lavorando e rifinendo quanto estratto con un utile netto positivo.
Ma allora il problema con l’argomento-base* diventa ancora più grave, non meno grave, di quanto
Preti lasciasse supporre. Diventa più grave perché l’estrazione di strutture riguarda anche le strutture
semantiche e argomentative. Perciò, se lo status della logica è davvero paradigmatico, bisognerebbe
semmai dire che ogni argomentazione comunemente usata, insieme al linguaggio “naturale” in cui si
esprime, fa parte di uno sfondo plastico, di un tema che si fa attraverso le variazioni, le quali possono
differire molto l’una dall’altra. E allora si capisce bene che il linguaggio “naturale” non è un linguaggio,
cioè, non è un sistema di espressioni ed enunciati suscettibile di una globale e coerente semantica, bensì
una congerie di frammenti, tasselli, atolli dal bordo alquanto frastagliato, nessuno dei quali autonomo
per proprio conto e nessuno dei quali sufficientemente articolato, dunque nessuno dei quali capace di
giustificare un’inferenza rispetto ai canoni che ne sono stati estratti. Quindi, in rapporto all’argomentobase*, il radicamento non può essere una riduzione o una deduzione.
Curiosamente, su alcuni aspetti di quest’immagine del linguaggio Chomsky avrebbe potuto essere
d’accordo. Non sono le lingue specifiche o i dialetti che gli interessano e neanche la varietà degli usi delle
parole. Gli interessa quel che c’è dietro. Nella faculté de langage ci sono parametri sintattici indeterminati che aspettano di saturarsi in un modo o nell’altro. Si può dunque supporre che analogamente (anzi, a
fortiori) ci siano parametri semantici e pragmatici che si trovano nella stessa condizione.26 Il linguaggio
non è, in questo senso, nessuna lingua particolare, pienamente definita in ogni suo aspetto.
Bene, ma lo stesso vale per la logica! Vale per qualunque sistema assiomatico di logica che s’ intenda proporre come “naturale” e, in linea con la generalità dell’argomento-base, vale per qualunque altra
axiologia, quindi vale in particolare per il sistema stesso dei principi della semantica, anche se nessuna
delle sistemazioni formali della semantica (inclusa quella degli enunciati valutativi) che Preti aveva davanti a sé si prestava a uno sviluppo tanto ambizioso.
Per diversi anni ho lavorato sul problema e sono arrivato a pensare che la teoria delle categorie, con
la relativa presentazione della semantica e della logica, sia l’unica cornice attualmente in grado di descrivere il processo dialettico con cui dal tessuto frammentato e insaturo del mondo-della-vita, così come si
esprime nel linguaggio ordinario, emergano strutturazioni di crescente generalità che, precisandosi in
specifiche aree tecnico-scientifiche, retroagiscono sul portato di fasi precedenti di strutturazione, in un
25 Così Preti si esprime perentoriamente in “B. Russell ...”, p. 456.
26
Un’idea, questa, che non apparteneva al primo Chomsky, ma che emerge per esempio nella voce “Linguaggio” da
lui realizzata per l’Enciclopedia Einaudi.
Alberto Peruzzi
processo spiraliforme che poggia su un tessuto-sorgente che resta quel che è nella sua schematicità, vale
a dire un tessuto di vincoli ... non vincolanti sul modo di soddisfarli. 27
In semantica, è stato proprio a partire da alcune difficoltà cui è andata incontro la teoria chomskiana che a partire dagli anni Ottanta ci si è avvicinati al tema della corporeità, di cui oggi tanto si parla, in
modi abbastanza confusi, velleitari e retorici. Il tema ha invece ricevuto nell’area di studi nota come cognitive grammar una dettagliata trattazione, facente riferimento a schemi cinestetici intrinseci; ed è appunto sul piano di questi schemi che ho proposto di individuare gli a priori che, attivati e riempiti in vario
modo, portano il peso della necessità cognitiva – quella necessità che è richiesta per evitare l’antinomia
fra l’argomento-base* e il richiamo al mondo-della-vita.28 La proposta avanzata può essere giusta o sbagliata, ma è un modo per affrontare il problema lasciato aperto da Preti, invece di continuare a compiacersi della possibile pluralità di soluzioni, senza mai impegnarsi ad argomentarne una.
6. L’apertura della semiosi ha da esser rispecchiata nella metateoria?
Dietro al rifiuto dello psicologismo c’era l’esigenza di garantire il carattere di necessità che compete alla matematica e più in generale l’impossibilità di ridurre ciò che vale a ciò che è.29 Dietro al rifiuto del
realismo platonico c’era il punto di vista empiristico fatto proprio da Preti. Dietro al rifiuto di entrambi,
con specifico riferimento alla logica e alla semantica, c’era un motivo comune, che Preti indica nella storicità culturale in cui la ragione fa se stessa, individuando soluzioni da dare ai problemi che di volta in
volta la praxis solleva.
Qui la componente dialettica, hegelo-marxiana, della formazione di Preti rientrava in gioco e qui si
ripresentava uno dei punti più delicati lasciati in sospeso dal suo discorso. Infatti, il richiamo a un retro-
Ho illustrato, in forma di diagramma, questo schema nella mia tesi di laurea: Significato e riferimento nella logica e
nella teoria del linguaggio contemporanee, Università di Firenze, Firenze 1974.
27
Cfr. A. P., “Grounded noema”, trad. it. in R. Lanfredini, a cura di, Fenomenologia applicata, pp. 13-38, Guerini,
Milano, 2004.
28
29 Quanto ho appena detto è volontariamente impreciso. Il modo consueto di precisarlo consiste nel riferire la neces-
sità in oggetto agli enunciati matematici. Dato l’assetto assiomatico delle teorie matematiche, ogni enunciato cui
competa il carattere di necessità è allora o un assioma o un teorema di una teoria (matematica). Essendo comunemente accettato che la necessità si erediti dalle premesse di un’inferenza alla sua conclusione, quanto appena detto si
riduce ad affermare che gli assiomi di una qualunque teoria matematica sono necessari: i teoremi che ne sono inferiti
saranno automaticamente necessari se tali sono gli assiomi – e non importa se la necessità è stampata sugli assiomi
per convenzione o in virtù del loro corrispondere a un’essenza. Purtroppo, in presenza di più teorie matematiche
che ora accettano ora negano un dato enunciato, il modo consueto di precisare quanto ho detto va incontro a grandi
difficoltà, che non è il caso di affrontare qui per non aprire una parentesi troppo lunga. Preti aveva visto molto bene
la “fissione” della filosofia, ma non aveva prestato uguale attenzione all’analoga “fissione” della matematica, che non
è un problema confinabile ai fondamenti.
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Memo n°1 sulla filosofia di Giulio Preti – 2011
terra sorgivo e indeterminato nelle sue potenzialità non è banalmente coerente con il richiamo all’auto-determinarsi di linguaggio, pensiero e valori nella storia culturale.
Quale tipo di raccordo c’è fra i due richiami? Da una serie di osservazioni di Preti sparse in più
opere, si ha l’impressione che si sia posta ripetutamente questa domanda e che si sia trattenuto dal dare
una risposta ben definita. Se incalzato a darla, credo che avrebbe risposto qualcosa come: “il raccordo
consiste nel fatto che la ragione si manifesta sempre attraverso le sue determinazioni ma l’identità del suo
determinarsi empirico può essere precisata solo con un’indagine a sua volta empirica”, dunque non suscettibile di essere nobilitata su un piano assiologico generale. Risposta abile, vaga quanto saggia, che si
lascia proiettare su molte altre questioni, configurando una vera e propria lezione filosofica.
Dobbiamo prendere questa lezione come lacunosa, insatura, incompleta per costruzione, proprio
laddove essa prospetta un nuovo tipo di indagine su ciò che sta a fondamento del pensiero umano, e dunque non ci resta che imboccare altre strade per cercare qualcosa che possa colmare la lacuna? Oppure
dobbiamo essere paghi della risposta come quella che dice tutto quel che si può dire, sentendoci semmai
impegnati a contribuire alla sua ulteriore articolazione, consapevoli che anche in filosofia c’è prima o poi
un punto d’arresto, con su scritto Non plus ultra come sulle colonne d’Ercole, oltrepassare il quale equivarrebbe a contaminare la purezza del filosofare?
La questione in gioco, ancora una volta, non riguardava solo la natura della logica e dei significati.
Se radichiamo tutte quante le strutture costitutive della semiosi e della razionalità umana nel farsi dell’esperienza storico-culturale, non vedo come evitare una conclusione: il senso che diamo a parole come
validità, verità, oggettività ecc. emerge per selezione culturale – e siccome è sempre e solo nel vivo degli
assetti che empiricamente, storicamente, si dispongono i valori cui si riferiscono tali parole, il loro significato è precisato per induzione.
E questo è un bel guaio, perché allora ci ritroviamo con una variante della fallacia naturalistica, alla
quale Preti aveva opposto lo schema argomentativo dell’irriducibilità di ciò che vale a ciò che è (ed è alquanto ingenuo pensare di migliorare le cose mettendo ciò che diviene al posto di ciò che è), da cui l’irriducibilità della logica alla psicologia ecc. La gravità della situazione si fa ancor più evidente se allo stesso
tempo riconosciamo che la necessità delle strutture logico-semantiche, e più in generale axiologiche, è
da intendersi trascendentalmente, perché allora si colloca sul piano delle precondizioni dell’esperienza,
inclusa l’esperienza storico-culturale, e di conseguenza quel che possiamo dire “trascendentale” è il
contenitore più vuoto che ci sia: il puro trascendentalese è un linguaggio in cui ci sono solo variabili.
Così il punto lasciato in sospeso ha una portata molto più vasta di quanto poteva apparire all’inizio.
Non credo che Preti avrebbe apprezzato una situazione del genere. Preparò il terreno per uscire
dall’impasse? Mi piace pensare di sì e può darsi che a sostegno di ciò si trovi maggiore evidenza di quella
che ho trovato. Può darsi che, in qualche pagina, abbia anche suggerito come uscirne, salvo poi non dar
Alberto Peruzzi
seguito al suggerimento. Di sicuro, non ha detto chiaramente qual era la sua risposta né l’ha sviluppata.
Altrimenti, del resto, saremmo qui a discutere della sua via d’uscita, non a interrogarci sulle interpretazioni del suo percorso. O abbiamo il coraggio di dire Non plus ultra o abbiamo il coraggio di trovare una
risposta. E se pensiamo che una risposta ci sia, sta a noi darla, ammesso che ci interessi ancora, consapevoli che non c’è un unico modo di sviluppare una pur ricca serie di suggerimenti.
Preti si limita a dirci che è a posteriori che arriviamo a scoprire, in qualunque ambito scientifico,
quelle leggi che poi funzionano da a priori e dunque dovrebbero valere come a priori rispetto alla loro
stessa scoperta. Ma com’è possibile questo tirarsi su dalla palude afferrandosi per i capelli? Questo, Preti
non ce lo dice e chiederci se ci sia un modo di dirlo ci riporta nuovamente all’antinomia che ho esposto.
7. Chiusura personalistica
Il tema dell’uomo-che-fa-ste-stesso è sempre stato centrale da Fenomenologia del valore a Praxis
ed empirismo. Poi, questo tema viene lentamente relegato sullo sfondo o addirittura esce di scena negli
ultimi scritti, almeno se ci fermiamo a quanto è in essi esplicito, ed esce di scena malgrado che al tema
fosse già stata tolta ogni valenza romantica, conservandone il senso di Bildung tutta positiva, concreta,
declinata perfino sul piano manuale della tecnica – e, per inciso, tra le cose-alla-mano di cui parlano (o
dovrebbero parlare) i fenomenologi ci sono anche prodotti tecnici. Resta il fatto che senza quest’idea la
convergenza tra analisi del linguaggio e fenomenologia non sta in piedi. Il fatto che Preti non faccia più
riferimento, ripeto: almeno esplicito, a essa ha evidentemente le sue brave motivazioni e si presta a più di
una chiave interpretativa.
Sembra che negli ultimi anni della sua vita sia diventata prioritaria un’altra preoccupazione – altra
dal richiamo all’autopoiesi – tanto da essere frequentemente allusa anche quando non dichiarata: quella
di salvare il salvabile di fronte alla volgarizzazione della cultura. Allo stesso tempo Preti sembra recuperare, con segno cambiato, spunti presenti in Idealismo e positivismo, allorché suggerisce che le stesse discipline umanistiche ostacolino un compito pedagogico, di formazione ai valori della humanitas, perché
ciò richiede primariamente un’educazione a sapersi distaccare dalle passioni, dagli scopi circostanziali,
dalla stessa pragmatica della comunicazione umana che pur tanto gli interessava e dalla dimensione dell’utilità (anche quella buona, orientata al benessere personale e sociale) – un compito che le scienze favoriscono ma non sono in grado di assolvere. È venuta meno la capacità di sollevarsi a un piano di universalità, libera da qualunque contingente interesse, e allora l’idea che sembra farsi strada in Preti è che formare-se-stessi consista primariamente nel perdere ogni elemento di individualità e di appartenenza a un
contesto determinato, per riconoscersi unicamente nella dedizione a un compito di testimonianza: testimonianza di fedeltà ai valori.
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Ho detto tre volte “sembra”. Il punto è che, se è così, l’alternativa è antinomica e come tale è destinata a restare senza risposta: il problema del radicamento dei valori nel mondo-della-vita finisce addirittura per rivelarsi fuorviante. Se è così, il tour dialettico è stato oltre che molto lungo anche auto-inibente,
perché quel che resta è solo una radicale e scheletrica nozione di Bildung che sfocia nell’ascesi. Tra il
detto e il non-detto, trapela un grido soffocato a malapena ed è il grido di un kamikaze, rassegnato ma
ancora lucido, svuotato di entusiasmi e di compiacimenti, quasi l’ultima parola di Socrate prima della
cicuta.
Il mondo-della-vita ormai doveva interessargli poco se non come fonte di esempi (in negativo),
quasi curiosità per un viaggiatore alieno. E a tale si atteggia in alcuni articoli degli ultimi anni. L’autopoiesi umana si stava manifestando in figure che tradivano l’essenza dell’uomo, invece di promuoverla,
ma siccome quell’essenza aveva detto che non c’era, se non nel farsi stesso dell’uomo (la vita ha solo il
significato che gli diamo noi), le cose si mettevano male. E poi: Preti non aveva più voglia di fare altre
battaglie. La passione per la razionalità, che lo aveva accompagnato nelle battaglie degli anni Quaranta e
Cinquanta, non bastava più, perché la fiducia che i suoi sforzi servissero a qualcosa era venuta meno.
Temo che sia così.
Le ultime considerazioni possono dir poco o nulla sul piano teoretico generale cui fin qui mi sono
attenuto e so bene che hanno l’aspetto di una divagazione, suggestiva più che argomentata, sul tema dell’equilibrio fra dimensione esistenziale e propriamente filosofica. Nondimeno, penso che quest’impressione dipenda dal prendere ciò che Preti scrive cercandovi una modulistica per scrivere saggi sul tale o
talaltro tema apprezzato nei convegni di filosofia seria, se non una ricetta per sentirsi confortati di fronte
ai problemi che non sappiamo risolvere. Per essere più chiaro: non bisogna perdere di vista il modo in cui
i suoi argomenti si erano snodati per arrivare all’esito antinomico. Posso sbagliarmi, ma per me non è
stata una divagazione. Ha un altro senso, personale e morale, e mi riesce difficile trovare un diverso
modo altrettanto sintetico per indicare le difficoltà in cui Preti si ritrovò.
In lui c’era sempre stata umiltà e coraggio, la forza e la tenerezza della ragione. Non aveva additato
una via regia né aveva esortato i suoi allievi a sentirsi partecipi di una specifica tradizione, tanto meno si
era mai potuto contentare d’industriarsi in alchimie tra ismi, come quelle che si vedono ancora oggi proliferare nella letteratura critica (che resta secondaria e non va fraintesa come primaria, a dispetto del costume accademico italico). Preti ti lasciava lì dov’eri, a interrogarti su come dar corpo alla prospetticità di
cui ti aveva fatto dono. Cos’altro chiedergli? Quando morì, ero già affaccendato a cercare un modo per
ristabilire i contatti tra la sua lezione e le frontiere della ricerca in logica, in filosofia della scienza e in
filosofia del linguaggio. Mi resi conto che era un compito per me troppo difficile e soprattutto un compito che mi avrebbe impedito di fare ricerca in prima persona sui temi che mi interessavano. Inoltre, sentivo
che bisognava prendere le distanze dalla filosofia di Preti, anche se non sapevo dire bene perché.
Alberto Peruzzi
Invece, col passar degli anni, il suo modo di pensare cominciò a farsi strada per conto suo, non
richiesto, mettendomi spesso i bastoni fra le ruote. La sua voce si mostrava poco contenta degli sviluppi
logico-filosofici che a quei tempi appassionavano le reclute come me. Ci scherzavo su e continuo a farlo,
evidentemente con scarso successo.
Era, la sua, un’insaziabile richiesta di qualcosa di più: più accuratezza, più misura, più eleganza,
più scrupolo verso la lezione del passato. Preti non era imitabile, però. Ognuno di noi, come una sera mi
disse, è irripetibile, è “unico nella storia dell’universo”, e lo disse con un sorriso per consolarmi della
frustrazione di non sapere bene quale strada prendere e cosa essere (insomma, credevo di non essere
all’altezza delle sue aspettative). Volente o nolente, anniversari o no, non posso fare a meno di continuare a discuterci.
Talvolta, maldestramente, ho provato a riempire i suoi schemi di pensiero con nuovo materiale
immesso sul mercato delle idee. Funziona poco. Giulio Preti era e resta Giulio Preti (come disse di George Edward Moore nel ’72: “Moore è ... Moore”). Non ha lasciato messaggi in bottiglia da decifrare e non
ha indotto a farsi promotori di un culto: due cose che aveva ugualmente in odio. Figuriamoci se avesse
saputo che era stato candidato post mortem all’uopo.
Ricordo che alla fine di un pranzo a Volterra lo ringraziai a nome di tutti gli allievi del corso ed ebbe
un attimo di commozione. Non si aspettava riconoscimenti dagli studenti, specialmente in quegli anni, e
il suo non era certo un atteggiamento che invogliasse al dialogo (sorvolo sull’aneddotica al riguardo –
libretti volati fuori dalla finestra et similia).
Il nostro compito, oggi, è farne vivere il pensiero senza imitarlo, senza incensarlo, senza restare
appagati dallo scoprire le ragnatele nascoste dietro alle sue parole o dal trovare questa o quella difficoltà,
se non addirittura un’antinomia, nel suo pensiero. E chi si diletta a recitare il rosario: c’è il Preti 1, c’è il
Preti 2, c’è ..., di sicuro non risolve alcun problema che il rosario vorrebbe abilmente nascondere. Individuare una difficoltà non vale a nulla se non diciamo (chiaramente) come superarla. Oserei dire che non è
ancora filosofia. Preti avrebbe desiderato che facessimo filosofia.
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