iFdI the best of 2014 INDICE 1. “Genealogia della cultura” di Michele Castelnovo.............................................. 3 2. “Ammazziamo il Gattopardo: puntualizzazioni alla presentazione del libro” di Silvia Lazzaris..................................................................................................... 6 3. “Storia di una guerra e di uno stupro: La Ciociara di Alberto Moravia” di Dalila Forni....................................................................................................... 10 4. “I sogni segreti di Walter Mitty: la storia di un uomo alla scoperta di sé e del mondo” di Giulia Malighetti.......................................................................... 14 5. “Barbara di Jacques Prévert: una poesia di amore e guerra” di Dalila Forni..16 6. “Non hanno abolito storia dell'arte nelle scuole” di Michele Castelnovo....... 19 GENEALOGIA DELLA CULTURA di Michele Castelnovo Attualità La parola "cultura" deriva dal latino "colĕre", che significa "coltivare". Questa origine etimologica è riscontrabile ancora oggi, nell'uso corrente che ne si fa: basti pensare all'ambiguità semantica della parola "colto", dove un accento segna la differenza tra una persona ed un ortaggio. In latino "colĕre" però non significa solo coltivare. Dal dizionario latino-italiano di G. Pittàno, Mondadori 1965: Cŏlo, -is, colŭi, cultum, -ĕre, tr. 3a. I. coltivare, praticare II. curare, aver cura, adornare III. abitare, frequentare IV. onorare, venerare, celebrare Così in Cicerone (106 a.C. - 43 a.C.) abbiamo che "colĕre" si riferisce tanto ai campi, quanto alle amicizie, alle virtù e agli studi (agros colere, amicos colere, virtutem colere, studia colere). Ed è proprio con Cicerone che questa parola viene usata nell'accezione con cui ancora oggi noi parliamo di cultura. Come è noto, infatti, Cicerone fu colui che diffuse la filosofia presso i romani e costruì il vocabolario filosofico che ancora oggi noi usiamo (ad es. la parola "sostanza" deriva dal latino "substantia", termine da egli usato per tradurre il greco ὑποκείμενον, hypokeimenon). Trovandosi a dover tradurre il termine παιδεία, paidèia (educazione, formazione), Cicerone scelse proprio "colĕre". Identificando la cultura con la filosofia, infatti, egli sosteneva che la pratica filosofica conducesse - tramite la cultūra animi - gli uomini da una vita selvaggia, contadina a una vita civile, ovvero associata in comunità. Vale a dire: la cultura è il coltivare, l'esercitare la mente, consentendo di fare un upgrade ontologico da uno stato di inciviltà alla civiltà. In questa accezione la parola "cultura" nel corso del Medioevo è andata sovrapponendosi a "humanitas", designando a grandi linee ciò che ancora oggi noi definiamo cultura umanistica. Così la parola "cultura" ha identificato per secoli l'attività di studio, l'acquisizione pratica di un sapere teoretico. Con l'espressione "una persona di cultura" infatti tendiamo ad indicare una persona erudita, che ha molto studiato e accumulato molti saperi. Nel corso del XVIII secolo, grazie ai lavori del filosofo tedesco J. G. von Herder (1744 - 1803), la cultura perde il suo significato di arricchimento personale, andando a indicare il generale processo di civilizzazione del genere umano che si stacca dalle proprie radici naturali. L'acculturazione è un processo progressivo che segue un piano provvidenziale, il quale si attua nel passaggio da un popolo all'altro. Nella prima metà dell'Ottocento, con la nascita di un'antropologia scientifica, il termine "cultura" acquisì un nuovo significato. Per il tramite dei primi etnografi tedeschi, infatti, il pensiero di Herder giunse alla nascente antropologia evoluzionista. Uno dei padri della disciplina, E. B. Tylor (1832 - 1917), diede una nuova definizione di cultura nel suo testo più noto, Primitive culture(1871): « La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società. » Leggendo queste parole, non può che risuonare nell'orecchio l'eco delle parole di K. Marx (1818 - 1883), che ne L'ideologia tedesca(composto tra il 1845 e il 1846, ma pubblicato solo nel 1932) introduce il concetto di sovrastruttura, con il quale indica la produzione ideologica e culturale (le rappresentazioni del mondo, i miti, le idee, i concetti, il diritto, la religione, la politica...) di una società, distinta dalla produzione materiale, le cui modalità costituiscono la struttura, che a sua volta determina necessariamente la sovrastruttura. Tornando a Tylor, nonostante tutto egli è figlio del proprio tempo e, pur ampliando i significati designati dal termine "cultura", continua a concepirla come un sinonimo di "civiltà", inserendosi in una tradizione che affonda le proprie radici nell'Illuminismo europeo e che trae nuova linfa dai lavori di G. W. F. Hegel (1770 - 1831), per il quale, tramite la dialettica tra finito e infinito, si invera un susseguirsi di civiltà che prendono sempre più coscienza di sé, creando l'istituzione dello Stato etico, che è Stato in quanto rappresenta lo Spirito Assoluto nella finitezza dell'essere. Lo Stato etico dunque è il prodotto della graduale civilizzazione dei popoli e la civiltà è un processo graduale e continuo, mosso da un ideale teleologico, che va considerato per come si è presentato nella storia dello Spirito, a seconda del grado di evoluzione delle forme di vita associata. Sebbene sia stata per lungo tempo intesa come tale, "cultura" e "civiltà" non sono sinonimi. Esiste infatti una tradizione di pensiero per cui la cultura vada intesa più come i mōres romani che come un processo di crescita, individuale o collettiva che sia. L'idea stessa di cultura come coltivazione lascia intendere un processo di evoluzione unilineare, così come da un seme nasce una pianta. Mōs, mōris significa infatti costume, uso, usanza, abitudine. Abitudine viene dal latino hăbĭtŭdo, -dĭnis, che a sua volta deriva da hăbĭtŭs, -us, cioè abito, veste. Un abito si mette e si toglie, ma alla nascita si è nudi. Così - in senso metaforico - gli abiti di una società sono le costruzioni simboliche che si accumulano o abbandonano nel tempo storico; indicano ciò che è considerato socialmente accettabile o meno. In questo senso allora un'abitudine è la tendenza a ripetere e a rinnovare determinati abiti sociali. Intendere la cultura come insieme dei mōres di un popolo, cioè come abitudini, ovvero ripetizioni di vesti comportamentali, significa dunque abbandonare la scaletta evoluzionista - tipicamente occidentale ed eurocentrica - per cui esiste una cultura, coincidente con la civiltà, dall'alto della quale guidicare le altre società. Ogni popolo ha una sua cultura e non si dispone di un metro di valutazione unilineare. Dire ciò significa affermare che i popoli che usano la magia a scopo guaritivo non sono meno civili di chi usa la medicina. Significa inoltre porsi in un'ottica di relativismo culturale, per la quale ogni società è un capitolo del grande libro contenente gli infiniti modi di fare umanità. Già: il concetto di umanità è qualcosa che l'uomo costruisce e ridefinisce di continuo. L'humanitas europea non è che uno dei molteplici modi in cui l'uomo ha parlato di sé e chi non ha mai letto Dante non è meno umano di chi recita la Divina Commedia a memoria. Oggi, davanti al progressivo smembramento dell'umanismo e conseguentemente - delle discipline umanistiche, non ha senso domandarsi "che fine farà l'umanità?", perché semplicemente una nuova cultura sta soppiantando un'idea di uomo che fatto il suo corso. Ciò non significa che l'umanità sia morta, bensì che una nuova umanità ha iniziato a formarsi e non siamo ancora in grado di dire se il processo si sia compiuto, né quindi di esprimere giudizi su questo uomo nuovo. Certo è che la modernità ha fatto irruzione in tutto il mondo, omologando ai suoi standard persone di tutte le culture. Questo ha avuto indubbiamente dei vantaggi (come ad esempio la possibilità di guarire malattie reputate inguaribili), ma - come ogni cosa - ha avuto anche il suo rovescio della medaglia: tutte le culture particolari, con le proprie peculiarità, stanno cedendo il passo ad una cultura unica, globale. Meglio? Peggio? Ai posteri l'ardua sentenza... Come visto all'inizio, "colĕre" significa anche "aver cura". Allora fare cultura dovrebbe voler dire prendersi cura della cultura, tanto nel senso ciceroniano di erudizione quanto in quello antropologico di insieme degli usi e dei costumi. Entrambi sono due mondi che stanno scomparendo. Prendersene cura significa imparare la lezione del passato per affrontare al meglio le sfide del futuro. 31 marzo 2014 "AMMAZZIAMO IL GATTOPARDO": PUNTUALIZZAZIONI ALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO di Silvia Lazzaris Attualità "Ammazziamo il Gattopardo": il nuovo libro di Alan Friedman che ha scatenato un ciclone mediatico su cui è doveroso puntualizzare. E infatti la presentazione del libro di ieri, in Sala Buzzati del Corriere della Sera, è risultata atipica rispetto al solito. Non solo perché è inconsueto trovare a commentare un libro personalità come De Bortoli, Paolo Mieli, Corrado Passera e Pippo Civati, per di più tutte insieme. Ma anche perché è suonata tutta come una sorta puntualizzazione continua. Una presentazione-puntualizzazione. Noi eravamo lì, e cerchiamo di riassumere le note salienti dell'evento. Le puntualizzazioni di Friedman: l'intento del libro non è una critica a Napolitano Friedman svela che il concepimento è iniziato nel marzo dell'anno scorso. Non aveva in mente un libro che avrebbe svelato dei retroscena della politica italiana. Il primo titolo, bocciato dall'editore, suonava infatti in maniera diversa "Incubo italiano: come salvare il paese o almeno evitare il peggio". L'idea iniziale del libro era di indagare e raccontare in modo documentato (con anche l'utilizzo di videoregistrazioni - sul sito del corriere si può trovare una "web-serie" delle videoregistrazioni), perché l'Italia non sia riuscita negli ultimi decenni ad affrontare riforme per rimettersi in carreggiata. Ha deciso di intervistare l'Italia che muove i fili: presidenti del consiglio, figure politiche e nuove figuresimbolo come Matteo Renzi, ma anche banchieri e personalità accademiche. Insomma una specie di diagnosi del problema a cui segue l'elenco delle ricette per risanare il paese. Il libro non è quindi certo incentrato sul passaggio dal governo Berlusconi al governo Monti. Questo è solo un elemento. Il ciclone mediatico, invece, è ruotato intorno alla critica al presidente della repubblica Giorgio Napolitano. Ed è consistito in un fraintendimento del libro. C'è un solo capitolo, dice Friedman, che riguarda la questione di Giorgio Napolitano, Mario Monti, e Silvio Berlusconi. In questo capitolo si afferma in maniera documentata (che Monti ha tentato adesso di smentire, ma "è difficile smentire un video"), che Napolitano abbia sondato il polso di Monti quando Berlusconi era ancora in carica - per quel poco che possa valere, io devo ancora capire cosa ci sia di incostituzionale. Gli altri capitoli costituiscono quello che alcuni hanno chiamato una "controstoria": retroscena di altri eventi a partire dal malgoverno della prima repubblica, ad esempio una lunga intervista con Amato che spiega la costruzione e la crescita del debito del paese a partire dagli anni '80. Altra puntualizzazione a cui Friedman tiene è quella sul proprio atteggiamento di americano che commenta i fatti politici italiani e viene a darci consigli: chiarisce che ama l'Italia. Che ha imparato ad amare questo paese "tanto strano quanto meraviglioso". E sottolinea che non si debba fraintendere. Che non si debba utilizzare un'ottica anglosassone per capire l'Italia. Bisogna capire l'Italia nel modo italiano. Non si possono prendere esempi anglosassoni, ma italianizzare tutto. La ricetta che si dà nel libro è costituita di dieci punti, che riguardano: l'abbattimento del debito, la creazione di condizioni di lavoro, l'urgenza di un minimo vitale per tutelare le fasce più deboli, come rendere il sistema pensionistico più efficiente ed equo, l'importanza di un programma nuovo per l'occupazione femminile (chiarisce "non è solo questione di asili nidi"), la garanzia di una vera meritocrazia, la sanità non solo come questione di costi standard e sprechi, le regioni e le competenze da togliervi per riportarle al centro, la questione di una patrimoniale leggera. Il libro, a quanto pare, è anche intervallato da scenette comiche tratte soprattutto dall'intervista con D'Alema, che tra le tante comiche che dice, confida a Friedman "Sa, io tutti i giorni leggo i suoi articoli del New York Times". Friedman ci riflette un po'. "Ma io non scrivo più sul New York Times dal 2003!" Le puntualizzazioni di De Bortoli: si tratta di un'inchiesta giornalistica incontrovertibile De Bortoli ci tiene invece a sottolineare il valore di un'inchiesta giornalistica documentata con videoregistrazioni e realizzata da un grande giornalista che possiede l'arte di "ammaliare gli interlocutori" come Friedman. È un libro ben fatto, un'inchiesta incontrovertibile, verificata con grandissimo scrupolo. E qui, il direttore del Corriere, offre uno spuntino di lezione di giornalismo con il retrogusto amaro di chi risponde a una critica. Un buon giornalista deve pubblicare tutte le notizie, dice, non deve polemizzare mai con nessuna notizia e dare il giusto risalto alle notizie che hanno valore. Ci tiene a dire che sono tanti i giornalisti che fanno bene il proprio mestiere, e che non fanno affatto parte di chissà quale complotto. Il mestiere del giornalismo è incalzare il potere senza fare sconti a nessuno, emettere nelle condizioni di avere ingredienti non avariati per costruirsi un giudizio e per esercitare il proprio compito di cittadino. "Si fa tutto quello che è giusto fare perché bisogna presentare alla pubblica opinione tutti gli elementi positivi o negativi". Conclude il suo intervento con un "e meno male che abbiamo avuto Giorgio Napolitano, meno male che abbiamo avuto un'istituzione di garanzia che si è resa conto che lo stato in cui si trovava il nostro paese doveva essere risolto". Le puntualizzazioni di Mieli: nessuna furberia da parte della casa editrice Mieli, direttore della casa editrice che pubblica il libro, Rizzoli, parla di quei giornalisti che si sono chiesti "Perché far uscire il libro proprio in questo giorno?", alludendo a qualche furberia da parte della casa editrice. E commenta "Se lo leggete sui giornali, chi l'ha scritto o è un cretino o è in malafede. In genere è un cretino. E comunque spesso i cretini sono in malafede". Si mette quindi a raccontare il processo attraverso cui si arriva alla pubblicazione: c'è una lavorazione che dura sei mesi, poi il libro viene consegnato, rivisto, stampato, e questo prevede altri quattro mesi. Alla fine, due mesi prima della data d'uscita si decide la data. Per quella data le macchine si mettono in moto e producono decine di migliaia di copie. Quindi l'uscita di un libro si prevedrebbe con un anticipo di svariati mesi. Chiunque abbia mai lavorato con il mondo dell'editoria non potrebbe sospettare che ci sia stata un'operazione "ad-orologeria". Gli interventi di Civati e Passera più che puntualizzazioni sono commenti politici, come del resto è prevedibile: Civati sostiene quanto sarebbe forte una campagna elettorale in questo momento, quanto sarebbe importante andare a votare prima o poi. "Questo Gattopardo lo sta sottovalutando ancora chi scrive in queste pagine", afferma, nonostante si dichiari d'accordo con il contenuto del libro. Ci dev'essere una politica che dia strumenti a queste scelte, una politica coraggiosa. Anche Passera sottolinea quanto sia importante portare un cambiamento in Italia, e dichiara che presto presenterà dei punti, su cui però non dà altre informazioni. Vorrei chiudere con delle parole di Friedman, che - sempre per quello che può valere - a me è piaciuto molto. Non è un giornalista-canaglia, a meno che il vero giornalismo non possa fare a meno di affibbiarsi questo appellativo. Per come è stato presentato, il lavoro di Friedman mi sembra davvero un contributo di rilievo: utile non solo a noi oggi, per la costruzione di un'idea più consapevole dei meccanismi politici e dei vizi storici del nostro paese che ci hanno condotto a questa situazione, ma utile nella ricostruzione storica futura del difficile periodo che stiamo vivendo. Premiamo e incentiviamo la chiarezza di opere come questa. Ecco la conclusione del suo intervento: «Gli italiani non sono per niente stupidi. Credo preferirebbero non leader politici che promettono la luna e poi danno briciole, ma leader che si alzano in piedi e dicono onestamente "Questa impresa non sarà facile, ci vuole coraggio, ci vuole spirito di sacrificio collettivo, ma se uniamo le forze potremo rifare il nostro paese e riprenderci in mano il nostro futuro. Ma le forze della conservazione sono fortissime. Questo libro si chiama "Ammazziamo il Gattopardo" perché le forze della conservazione politica sono quelle che dicono come Tancredi nel Gattopardo "Se vogliamo che tutto rimanga lo stesso dobbiamo cambiare tutto". Questo è il Gattopardo da ammazzare (non il giaguaro di Bersani). Questa è una mentalità troppo pesante nella cultura politica ma forse anche nella classe dirigente in generale». 13 febbraio 2014 STORIA DI UNA GUERRA E DI UNO STUPRO: LA CIOCIARA DI ALBERTO MORAVIA di Dalila Forni Letteratura Nel 1957, un decennio dopo la fine della seconda guerra mondiale, Alberto Moravia pubblica il romanzo La ciociara. La trama dell’opera è piuttosto semplice: siamo in Italia, nell’anno 1943, Cesira, una negoziante vedova piuttosto spregiudicata, è costretta a fuggire da Roma con la figlia di diciotto anni, Rosetta. E’ proprio la madre in prima persona a raccontarci la loro esperienza: abbandonata la propria bottega – ma sicura di potervi fare ritorno entro poche settimane – la donna si dirige con la figlia verso Vellecorsa, in Ciociaria, dove è convinta di poter trovare rifugio nella casa dei propri genitori. Tuttavia, il treno che trasporta lei e Rosetta si ferma nel paesino di Fondi: qui le due protagoniste vengono a contatto con i contadini del luogo e sono accolte insieme ad altri sfollati in alcune piccole capanne. La vita della campagna è semplice e rurale, soprattutto agli occhi di due donne di città come Cesira e Rosetta: i nove mesi trascorsi tra i braccianti e i fuggitivi sono caratterizzati da una forte monotonia, interrotta solo dalla paura per le bombe lanciate dagli aerei e dalla mancanza di cibo, che diventa via via un bene sempre più prezioso. Durante questo insolito soggiorno madre e figlia fanno la conoscenza di vari personaggi, tra cui possiamo ricordare Michele, un giovane laureato antifascista e piuttosto idealista con cui stringono subito un forte legame di amicizia. In questi lunghi mesi di esilio l’arrivo degli inglesi sembra essere l’unica speranza di salvezza, ma proprio nel momento in cui Cesira e Rosetta pensano di poter far ritorno a Roma in sicurezza, le due vengono attaccate da un gruppo di marocchini: il risultato di questo scontro impari sarà lo stupro della piccola Rosetta, che da questo momento subirà una vera e propria metamorfosi. Questo episodio, seppur descritto nella seconda metà del libro, è il punto centrale dell’opera; scrive infatti Moravia al riguardo in una lettera al suo editore del 1956: “Il titolo resterà ‘La Ciociara’ benché il titolo più appropriato sarebbe ‘Lo stupro’. Anzi addirittura, alla maniera classica ‘Lo stupro d’Italia’, come a sottolineare non solo la violenza sulla ragazza, ma lo stupro di un intero paese causato dalla guerra. Sempre al suo editore, l’autore propone per la copertina del romanzo un’opera di Picasso – per esempio un dettaglio di Guernica – oppure di Goya, in modo da far comprendere immediatamente al lettore quali siano i temi trattati, ovvero gli orrori della guerra. Va inoltre evidenziato come il romanzo sia fortemente autobiografico: sebbene sia difficile identificare Moravia con Cesira – un personaggio sicuramente molto distante dallo scrittore – un’esperienza simile fu vissuta anche dell’autore che, nel settembre del 1943, per fuggire dalla violenza della guerra si rifugiò con la moglie Elsa Morante sui monti della Ciociaria, dove restò per otto mesi, in modo analogo a Cesira e Rosetta. Si tratta di un avvenimento fortemente traumatico per lo scrittore, che lo ricorda come uno dei momenti peggiori della propria vita insieme agli anni in cui, durante l’infanzia, fu colpito dalla tubercolosi. L’esperienza personale dello scrittore vieni quindi ripresa ampiamente nel romanzo: solo Cesira, Rosetta e Michele sono personaggi inventati, tutti gli altri si legano infatti in qualche modo agli sfollati conosciuti da Moravia durante il suo esilio sulle montagne. Nonostante lo scrittore abbia affermato che durante il periodo passato sui monti romani il suo unico pensiero fosse la sopravvivenza, e non di certo la scrittura, alcuni testimoni assicurarono di aver visto più volte Moravia alle prese con dei quadernetti sui cui era solito annotare qualcosa, forse dettagli poi tornati utili per la stesura dell’opera. Il primo capitolo del romanzo venne scritto dall’autore nel 1946; Moravia tuttavia non seppe inizialmente come continuare la narrazione, forse intimidito dai fatti ancora troppo vicini che aveva vissuto in prima persona e sicuramente molto impegnato a causa delle sue attività giornalistiche, narrative e cinematografiche. Il romanzo fu quindi completato soltanto dieci anni dopo la guerra, quando lo scrittore ebbe modo di prendere le distanze e poter riflettere in modo più distaccato sull’accaduto. Moravia si nasconde quindi dietro a Cesira, seppur da lui così diversa, per raccontare gli avvenimenti e le sensazioni della guerra da lui sperimentati. Tutti gli eventi narrati sono visti attraverso gli occhi – spesso ingenui, spesso fin troppo furbi – della donna; di conseguenza, ogni personaggio che il lettore incontra durante il romanzo viene filtrato dal giudizio di lei, a partire dalla figlia Rosetta – descritta come una ragazza pura e religiosa – fino ad arrivare a Michele – l’intellettuale che la donna non riesce a comprendere sempre a fondo nonostante l’affetto che li lega. Nonostante la storia sia ricca di sentimenti, il tema dell’amore non viene mai toccato: Cesira è totalmente distaccata dal marito ormai morto per cui – già dalla nascita di Rosetta – non provava più attrazione, il suo unico amore sembra essere infatti quello per la sua bottega e la sua “roba”; la figlia, educata dalle suore, è casta e dedita solo alla preghiera e all’ubbidienza per la madre, anche se questa fragile educazione religiosa vacillerà presto; mentre il giovane Michele sembra non avere attenzioni che per i suoi libri e soprattutto per le sue idee e i suoi princìpi. Lo scrittore dà voce alla donna utilizzando un linguaggio popolare, schietto, privo di fronzoli e spesso dialettale. Nella mente del lettore sembra proprio Cesira, e non più Moravia, a ideare e raccontare la (sua) storia: la lingua utilizzata – soprattutto nel primo capitolo – rispecchia pienamente la determinatezza e per certi versi la “virilità” della donna, che in più di un’occasione si lascia andare a delle volgarità. Proprio questo linguaggio così diretto che caratterizza e rende veritiera l’opera non è stato del tutto compreso dalla critica, tanto che quando il primo capitolo del romanzo fu pubblicato su di una rivista, Moravia venne denunciato per oscenità, vincendo però poi la causa. Se la lingua di Cesira semplifica la narrazione, una parte piuttosto ostica è quella centrale, in cui le due donne, segregate sui monti della Ciociaria, trascorrono le giornate in un costante stato di noia. Questa monotonia viene trasmessa efficacemente anche al lettore attraverso lunghe pagine in cui vengono descritte varie azioni quotidiane ma in cui, in fin dei conti, non succede nulla. In questo modo anche chi legge, seguendo le semplici vicende delle donne e dei contadini, può constatare quanto la guerra possa essere portatrice non solo di violenza e paura, ma anche di tedio e ripetitività: gli sfollati in campagna non possono fare altro che aspettare che qualcuno – per alcuni gli inglesi, per altri i tedeschi, per altri ancora non importa chi – ponga fine alla guerra. Inoltre il lettore può, in queste pagine centrali del romanzo, conoscere sempre di più Cesira e Rosetta, capendo poi nella parte finale quanto la guerra abbia trasformato entrambe in soli nove mesi.“Quella lentezza accresce i valori e gli effetti dell’ultima parte” dice Bompiani, l’editore di Moravia. E lo scrittore aggiunge: “[…] questa attesa delle truppe alleate, questo vivere sempre all'aperto immersi nella natura, questa solitudine formavano intorno a me un'atmosfera insieme disperata e piena di speranza che non ho mai più ritrovato da allora. O meglio sì, l'avevo provata in un altro momento estremo della mia vita, durante gli anni del sanatorio. Anche lì avevo aspettato qualche cosa in condizioni di sofferenza. E questo qualche cosa che aspettavo era in fondo la stessa cosa, allora come adesso. La fine di una condizione malsana e dolorosa, il ritorno alla normalità.” Come già detto, oltre alla guerra il punto centrale della narrazione, seppur collocato nella parte finale del romanzo, è lo stupro. Le due donne vengono infatti attaccate da una banda di stranieri e sarà in particolare la piccola Rosetta – di diciotto anni d’età ma descritta ancora come una bambina per i suoi comportamenti – a subirne le maggiori conseguenze dal punto di vista psicologico: non sarà più da questo momento la ragazzina perfetta e comprensiva, ma una donna disinibita, annoiata, priva di valori e di affetti. Il dolore è però anche quello di una madre che non solo si vede sporca per aver ceduto alle lusinghe di un corteggiatore prima della partenza da Roma, ma considera distrutta dal peccato anche una figlia che considerava “una santa”. A rendere lo stupro un avvenimento ancora più sconvolgente è la collocazione dell’evento: le donne vengono attaccate proprio quando pensano di essere salve e di poter tornare finalmente a Roma, e il tutto accade in una chiesa,“sotto gli occhi della Madonna”, come dirà Cesira. Il romanzo è stato poi riproposto nel 1960 in una versione cinematografica diretta da Vittorio De Sica; è celebre l’interpretazione dell’allora ventiseienne Sophia Loren, che vinse proprio grazie a questo film il suo primo Oscar. Si tratta in conclusione di un’opera in grado di far riflettere in modo semplice e genuino su un tema complesso come la vita durante la guerra, facendo emozionare il lettore che non può non empatizzare con le due donne protagoniste. 4 aprile 2014 “I SOGNI SEGRETI DI WALTER MITTY”: LA STORIA DI UN UOMO ALLA SCOPERTA DI SÉ E DEL MONDO di Giulia Malighetti Cinema "Vedere il mondo, cose pericolose da raggiungere, avvicinarsi,trovarsi l’un l’altro, e sentirsi. È questo lo scopo della vita'' (motto di Life Magazine) “Vedere il mondo”, una cosa mica da poco per chi, come Walter Mitty (Ben Stiller), nella sua vita non ha visto che New York, la città in cui vive e lavora, e poco altro. Una cosa mica da poco per chi, come il nostro protagonista, non ha molto da aggiungere alla sezione “luoghi visitati” del proprio profilo su un social network di incontri online. Vedere il mondo, però, è quello che Mitty fa da sedici anni rinchiuso in uno scantinato a sviluppare i negativi che il misterioso fotografo Sean O’Connell (Sean Penn) gli manda dagli angoli più disparati del pianeta. Ed è quello che comincerà a fare quando scoprirà che il Life Magazine, il giornale per cui lavora, sta per essere ridotto ad una versione “.com” e il negativo della foto che dovrebbe comparire sulla copertina dell’ultimo numero proprio non si trova. “Cose pericolose da raggiungere”. La Groenlandia, ad esempio, dove Walter va dopo aver collegato tra loro alcuni indizi lasciatigli da Sean nelle sue fotografie. Oppure l’Islanda, che Mitty raggiunge in nave, dopo essersi gettato da un elicottero guidato da un ubriaco appena scaricato dalla fidanzata conosciuto in un pub. Ed è proprio in Islanda che il nostro si avvicina al grande fotografo, che manca di un soffio nonostante la discesa in skateboard lungo la strada verso l’aeroporto; è qui che sfugge ad una eruzione vulcanica. E ancora, le montagne dell’Afganistan, dove per passare si è costretti a offrire ai guerriglieri la torta fatta dalla mamma, o le vette dell’Himalaya. “Avvicinarsi”, a Sean, a Cheryl (Kristen Wiig), la bella collega assunta da poco con cui Walter tenta di approcciare mandandole “mi piace” al suo profilo, all’operatore (Patton Oswalt) adibito all’assistenza del sito, a cui Walter telefona quando si accorge che i suoi likes non arrivano a destinazione e con cui continuerà a sentirsi in tutto il suo peregrinare, che provvederà ad aggiornare la sua lista di “luoghi visitati” e “cose fatte”, facendo lievitare le visualizzazioni al suo account. Avvicinarsi anche a se stessi, dopo che si aveva riposto il proprio spirito di avventura in un cassetto insieme al diario di viaggio regalato dal padre e ci si era rimboccati le maniche, dopo la sua morte, per trovare un lavoro come cameriere in una catena di pizzerie e guadagnarsi da vivere. “Trovarsi l’un l’altro”, altra cosa difficile per il nostro Walter, un sognatore ad occhi aperti, che ha sempre vissuto nel suo mondo in cui lui è protagonista di storie a mezzo tra il rocambolesco e l’eroico. Trovarsi l’un l’altro nello stesso ufficio, ma non avere il coraggio di parlarsi, trovarsi in ascensore con il responsabile della acquisto del giornale da parte del web e spegnerlo (ovviamente sognando ad occhi aperti) con sagacia; trovarsi con Sean, che nessuno della redazione aveva mai incontrato, a kilometri di distanza lontano da tutto su una montagna in Asia; trovarsi con la propria sorella (Kathryn Han), una’altra sognatrice che non ha mai smesso di credere di poter diventare la star di qualche musical, e con la propria mamma (Shirley Mc Laine), che non ha mai buttato via nessuna delle cose del figlio, nemmeno quel borsello regalatogli da Sean e che potrebbe essere la chiave di tutta la questione. Trovarsi all’aeroporto di Los Angeles, di ritorno dal giro di mezzo mondo, con quel famoso operatore del sito di incontri, l’unico, in quella situazione, in grado di poter tirar fuori il nostro Mitty dai guai. “Sentirsi”, per davvero. Non tramite internet o quel Social Network che tanto angustiava Walter quando non riusciva ad approcciare Cheryl, da cui si eliminerà quando comincerà a vivere per davvero, nonostante i contatti sempre più frequenti. Non al cellulare, un normalissimo apparecchio “a conchiglia” di quelli che non si vedono più dal 2005. Sentirsi nelle fotografie ancora analogiche di Sean, nella porosità della carta dell’ultimo numero del Life Magazine. “E’ questo lo scopo della vita”, che Walter comincia a capire nel momento in cui comincia a vivere per davvero, staccandosi dalla convinzione di essere un uomo “qualunque”, perché un uomo qualunque non lo è mai stato (cosa che aveva ben capito Sean, che rivelerà la gratitudine nei confronti di Mitty con un regalo inaspettato) , allontanandosi dalla tecnologia inutile dietro la quale cercava di nascondersi senza comunque esserne troppo convinto, come si vede bene quando, prima di mandare il “like” a Cheryl, esita parecchio “I sogni segreti di Walter Mitty” è un film brillante, divertente e profondo allo stesso tempo, dove ciascuno può, a più livelli, rispecchiarsi nel protagonista, un uomo comune ma non banale, che ha sempre avuto la potenzialità dentro sé ma non aveva ancora trovato il coraggio o lo spunto giusto per svilupparla, proprio come si fa con le fotografie. 2 gennaio 2014 BARBARA DI JACQUES PRÉVERT: UNA POESIA DI AMORE E GUERRA di Dalila Forni Letteratura Ricordati Barbara Pioveva senza sosta quel giorno su Brest E tu camminavi sorridente Serena rapita grondante Sotto la pioggia Ricordati Barbara Come pioveva su Brest E io ti ho incontrata a rue de Siam Tu sorridevi Ed anch'io sorridevo Ricordati Barbara Tu che io non conoscevo Tu che non mi conoscevi Ricordati Ricordati quel giorno ad ogni costo Non lo dimenticare Un uomo s'era rifugiato sotto un portico E ha gridato il tuo nome Barbara E sei corsa verso di lui sotto la pioggia Grondante rapita rasserenata E ti sei gettata tra le sue braccia Ricordati questo Barbara E non mi rimproverare di darti del tu Io dico tu a tutti quelli che amo Anche se una sola volta li ho veduti Io dico tu a tutti quelli che si amano Anche se non li conosco Ricordati Barbara Non dimenticare Questa pioggia buona e felice Sul tuo volto felice Su questa città felice Questa pioggia sul mare Sull'arsenale Sul battello d'Ouessant Oh Barbara Che coglionata la guerra Che ne è di te ora Sotto questa pioggia di ferro Di fuoco d'acciaio di sangue E l'uomo che ti stringeva tra le braccia Amorosamente È morto disperso o è ancora vivo Oh Barbara Piove senza sosta su Brest Come pioveva allora Ma non è più la stessa cosa e tutto è crollato È una pioggia di lutti terribili e desolata Non c'è nemmeno più la tempesta Di ferro d'acciaio e di sangue Soltanto di nuvole Che crepano come cani Come i cani che spariscono Sul filo dell'acqua a Brest E vanno ad imputridire lontano Lontano molto lontano da Brest Dove non vi è più nulla (J. Prévert, Barbara) Barbara è forse uno dei componimenti più famosi del poeta francese Jacques Prévert (1900 – 1977). Nel 1946, nel dopoguerra, esce la raccolta di poesie Paroles, dove Barbara è contenuta. Già dai primi versi il poeta delinea il luogo in cui l’opera è ambientata: si tratta di Brest, una cittadina portuale francese bombardata nel 1944. La poesia, scritta in prima persona, comincia con un’esortazione rivolta a Barbara a ricordare qualcosa di ormai passato; moltissimi versi infatti, fatta eccezione per l’ultima parte del componimento, iniziano con la parola “ricordati”. La donna, figura centrale della poesia, è descritta con pochi aggettivi che sono però molto incisivi: “sorridente / serena rapita grondante” o, ripresi con un chiasmo qualche verso dopo, “grondante rapita rasserenata”. Barbara, con la sua bellezza e la sua allegria, sembra portare luminosità e spensieratezza nel paesaggio, descritto dall’autore come un luogo colpito da una pioggia “senza sosta”. Tuttavia, in contrapposizione alla ‘tradizione letteraria’, che vede la pioggia come qualcosa di particolarmente triste, l’acquazzone simboleggia in questo caso la felicità e l’amore che inonda la città: la pioggia è infatti descritta con due semplici aggettivi colmi di positività, “buona e felice”. Il poeta – che dai primi versi potrebbe sembrare un amico, forse addirittura l’amante, della donna – è in realtà un passante che, pur non conoscendola, osserva Barbara mentre felice corre incontro ad un uomo e lo abbraccia amorevolmente. L’unico legame che chi scrive ha con la donna è quindi quello dei loro sorrisi che si incrociano per le strade della città, niente di più. Il poeta è un semplice osservatore che, guardando la ragazza, si invaghisce della sua spensieratezza, tanto da arrivare a darle del tu. L’elemento del guardare, dell’osservare senza però essere visti, è spesso presente nelle opere di Prévert: un esempio è la poesia I ragazzi che si amano, dove il poeta descrive alcuni giovani amanti, pur essendo soltanto un osservatore completamente esterno ai fatti. L’atmosfera piovosa ma serena delle prime strofe subisce un cambiamento radicale al verso 37. La guerra irrompe brutalmente nel componimento e il poeta, al posto che esortare Barbara a ricordare, si rivolge alla donna con un “Oh Barbara”, come a volerla compatire con tristezza. La pioggia quindi non è più felice ma “di ferro/ di fuoco d'acciaio di sangue” o “di lutti terribili e desolata”, come se a piovere non fossero delle gocce d’acqua ma delle bombe, quelle che hanno infatti colpito la cittadina francese durante la seconda guerra mondiale. Anche il linguaggio subisce un brusco cambiamento nell’ultima parte della poesia: mentre nelle prime strofe la lingua è semplice e familiare, così da coinvolgere immediatamente il lettore, nelle ultime due diventa gergale e volgare, con parole come “coglionata” o “crepano”. Si tratta di un linguaggio antipoetico utilizzato per denunciare gli orrori della guerra che, oltre ad uccidere esseri umani innocenti, distrugge gli amori felici, come quello di Barbara e dell’uomo che la chiamava sotto ad un portico, che potrebbe essere ora morto disperso. Questi ultimi versi sono ricchi di nostalgia verso una felicità ormai passata; la malinconia è ricreata dal poeta tramite l’uso di termini che rimandano alla morte, alla violenza e alla distruzione. Anche quando la guerra e i bombardamenti sono finiti, il paesaggio rimasto è terrificante: tutta la città è ormai solo un ammasso di macerie e desolazione. Significativa è anche l’ultima parola: “nulla”, come se fosse proprio il nulla, la morte, a vincere. I versi della poesia sono inoltre caratterizzati da piccole ma significative immagini, essendo poi privi di punteggiatura e interruzioni si ottiene una grande fluidità che crea nel lettore un particolare effetto, come se stesse facendo scorrere tra le proprie mani una serie di fotografie. La lingua utilizzata da Prévert è semplice e diretta: la poesia è scorrevole e immediatamente comprensibile, priva di aulicismi o espressioni complesse ed è quindi particolarmente apprezzabile in lingua originale anche per chi non conosce il francese in modo approfondito. Nonostante questa semplicità, i versi non sfiorano mai la banalità, ma sono sempre nitidi e significativi. Gli aggettivi sono pochi ma ben calibrati e molto rilevanti: servono a delineare prima di tutto la bella Barbara, poi la città piovosa ma felice e, infine, la distruzione che colpisce Brest e i suoi abitanti. Sono poi presenti numerose ripetizioni che creano come una sorta di ritornello, dando così alla poesia una musicalità in grado di incantare il lettore: il testo è infatti stato spesso ripreso e messo in musica da numerosi artisti. 14 febbraio 2014 NON HANNO ABOLITO STORIA DELL'ARTE NELLE SCUOLE! di Michele Castelnovo Attualità No. Non hanno abolito definitivamente la Storia dell'Arte dalle scuole secondarie. Ma come?! Su Internet ho letto di sì! Oggi la mia home di Facebook si è riempita di post indignati. Veniva condiviso un articolo con la più classica delle didascalie: "VERGOGNA! TUTTI A CASA! CHE SCHIFO!". L'articolo in questione è intitolato: "L'Italia cancella l'arte dalle scuole, è definitivo". Insospettito dalla notizia, ho fatto un po' di ricerche su Google e ho trovato un unico altro articolo su questa tema, dal titolo "Abolita la Storia dell'Arte in Italia". N.B. entrambi gli articoli hanno l'odierna data di pubblicazione, il 05 febbraio 2014. Ambedue gli articoli sostengono che alcuni giorni fa la Commissione Cultura, Scienze e Istruzione della Camera dei Deputati abbia detto di no al reintegro dell'insegnamento della Storia dell'Arte nelle scuole superiori. Non essendo riportata alcuna fonte - sempre più insospettito - ho deciso di fare un po' di verifiche. Oggi la Commissione VII della Camera si è sì riunita, ma non per discutere di questo. Ho cercato se per caso se ne fosse discusso ieri o nei giorni scorsi: niente. Ho cercato allora di fare un po' di mente locale e di ricordare quando era scoppiato il caso. Mi sono così ricordato che tutto era iniziato lo scorso autunno. Infatti il Disegno di Legge in materia di istruzione era stato presentato il 12 settembre 2013. In seguito era nata una petizione online, dal suggestivo titolo "Ripristiniamo la Storia dell'Arte nelle scuole" o qualcosa di comunque affine. In Commissione il 31 ottobre era stato presentato un emendamento all'articolo 5dall'On. Costantino, deputata di Sel, che recita: tra le discipline scolastiche le cui ore di insegnamento sono state eliminate o ridotte negli ultimi anni in diversi indirizzi delle scuole secondarie superiori, una è particolarmente grave per un Paese come l'Italia: ci si riferisce alla storia dell'arte. I maltrattamenti alla Storia dell'Arte infatti non sono opera dell'attuale legislatura, ma della precedente (la Berlusconi-Monti). In particolare ci si riferisce alla Riforma Gelmini del 2008 (Decreto Legge 133 e 169/2008), la quale prevedeva il riordino delle scuole superiori. Come si evince dall'Allegato B, la Storia dell'Arte non è stata abolita. È vero - come riportato in uno degli articoli citati - che sono stati aboliti gli istituti d'arte, che nei nuovi licei artistici ne sono state ridotte le ore, che è stata eliminata dai bienni dei licei classici e linguistici e dagli indirizzi di Turismo e Grafica degli Istituti tecnici professionali. Ma dire che la Storia dell'Arte sia stata abolita, usando titoli e toni apocalittici, non solo è falso, ma è anche moralmente scorretto. In ogni caso l'emendamento della Costantino è stato bocciato, nonostante il parere favorevole (pag. 72) dell'attuale Ministro dell'Istruzione, Maria Chiara Carrozza (che in tutto ciò non ha nulla a che vedere!). Comunque sia l'emendamento è stato bocciato il 31 ottobre 2013, cioè circa 3 mesi fa. Con questo DDL non è stata abolita la Storia dell'Arte. È stato solo bocciato un emendamento che chiedeva di tornare alla situazione ante Gelmini. Sono rimasto colpito da un po' di cose. Primo. Perché la protesta è infuriata questo autunno ed oggi, a 6 anni dalla riforma Gelmini? È vero che all'epoca le proteste furono molte ed anche accese, ma prima di ottobre 2013 io non ho mai sentito parlare di abolizione della Storia dell'Arte nelle scuole superiori. A maggior ragione non vedo che senso abbia farlo oggi. Secondo. Perché questi articoli sono stati pubblicati oggi? Le risposte che mi sono dato sono state due: o per far riscoppiare il caso, avere tante visualizzazioni e quindi tanti introiti pubblicitari, o per disinformazione. Terzo. Perché tutto questo catastrofismo, questo millenarismo? La Storia dell'Arte non è stata cancellata da tutte le scuole superiori ma solo in alcune ed in alcune altre è solo stata ridotta. La mia personale opinione è che la Storia dell'Arte - in Italia, che ne è la madre sia da studiare in ogni scuola di ogni ordine e grado. Non sto quindi né difendendo la Riforma Gelmini (per carità!) né sputando sul patrimonio patrio. Sono sinceramente rimasto stupito dai toni usati negli articoli (e nei commenti ad essi): Cosa sarà della nostra cultura fra 5/6 anni? Chi si ricorderà i nomi delle opere, degli autori, dei quadri e delle sculture, dei monumenti e delle statue. Che generazioni stiamo crescendo? O, ancora: Mai più, tra i banchi di scuola, risuoneranno i nomi di Giotto, Leonardo, Michelangelo, Caravaggio, Van Gogh e Picasso. Se sapete chi sono ritenetevi fortunati, i vostri nipoti non potranno dire altrettanto. Ok, la strada imboccata non è delle migliori. È profondamente sbagliato che non si studi Arte nei bienni del Liceo Linguistico o - soprattutto - del Classico, che si elimino gli istituti d'arte ecc., ma da qui a paventare una catastrofe culturale mi sembra che il passo non sia poi così breve. Si è sempre in tempo ad invertire la rotta. La fine non è vicina. L'unica cosa ovvia è che però non si deve proseguire su questa strada: bisogna avere il coraggio di imprimere una svolta e tornare ad investire in cultura e scuola - un binomio che dovrebbe essere inscindibile. Però fino allora - per favore! - evitate i toni che nemmeno Gioacchino da Fiore usava! Avrete qualche visualizzazione e qualche soldo in più sul vostro blog, ma non è così che si fa informazione, specialmente se si scrive sul web, dove nessuno controlla la veridicità di quanto affermato né si prende la briga esclusi rari casi - di riportare le fonti. 5 febbraio 2014