Ascoso in Heidegger

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A
Marco Jacopino
Ascoso in Heidegger
Sentieri interrotti, strade perdute
Prefazione di
Raffaele Perrotta
Copyright © MMXIII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, /A–B
 Roma
() 
 ----
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: ottobre 
Desidero dedicare
questo mio piccolo lavoro
al Professore Raffaele Perrotta
Maestro di sapienza
e di umiltà.
Indice

Ringraziamenti

Prefazione
Significar pensante il verbo
di Raffaele Perrotta

Introduzione
Possibile un vestibolo e un significato della filosofia di
Heidegger?

Capitolo I
Actus essendi e Seinsvergessenheit: destino della metafisica tra Tommaso d’Aquino e Heidegger

Capitolo II
Sovrimpressioni (ovvero ‘Giochi per Melanconici’)

Capitolo III
“Raumvergessenheit” e “Fernweh”, ovvero Oblio dello spazio e Nostalgia (di terre lontane)

Capitolo IV
L’Essere (Evento)
di Martin Heidegger

Capitolo V
Tod als Tür

Capitolo VI
Cauchemar

Ringraziamenti
Ogni umana intrapresa per piccola che sia ha sempre, dietro di
sé, padri e madri: persone che affiorano nella memoria.
Ringrazio i miei docenti dell’Università di Genova e, in
primis, il Professor Carlo Angelino mio relatore per la tesi e il
correlatore Professor Domenico Venturelli, che mi condussero
con mano saggia all’interno della filosofia, terreno minato per
eccellenza.
Ringrazio il Professor Roberto Fai dell’Università di Catania, il primo in assoluto a pubblicare qualcosa di mio. A lui
devo moltissimo, per la cortesia e la pazienza che sempre ha
dimostrato in questi anni.
Altrettanto dicasi per l’amico Dottor Diego Caramma e il
Docente di Architettura a Roma Professor Luigi Prestinenza
Puglisi, che hanno accolto in internet numerosi miei interventi.
Le persone che mi sono vicine, la mia famiglia che mi ha
supportato e aiutato nei tredici anni che separano questa mia
piccola cosa dalla tesi di laurea, che mi ha richiesto più di un
anno di lavoro e quasi mille pagine di costante impegno. Forse
per questo ho trovato difficoltà nello scrivere, dopo. . . : il mio
‘calamaio’ era vuoto, asciutto.
Marco J
Nervi,  febbraio 

Prefazione
Significar pensante il verbo
di Raffaele P
non si fa per dire che il dire del detto, sicché detto è ri–detto, ma
non con pretesa di pro–duzione di senso: questi sta a osservare
i suoi propri proscenio e percorso velandosi in abbiccí di segno
scrittura significante elaborati a macro œ micro discorso. due
volte «a rose is a rose» (Gertrude Stein). s’invita teoreta, ma che
non ecceda nel far passare filologia della storicità in pro–dotto
interpretativo.
premessa generale per ciascun incontro con l’altro testuale — ¿
e credi tu che uno scritto sappia del tutto che cosa abbia scritto e
avuto in ricompensa il significare fatto di testo stabilito come fosse
intervenuto filologo di lungo córso o oggigiorno semiotico della seconda ora? ¿ e credi tu — una volta che si creda nell’affermarsi del
testo che parola è — che urlando l’escamotage “dico sul serio e nel
serio che parola mia è ferma e propositiva” opera buona ne venga
a presentazione di opera altrui, e in tal modo venga ad attutirsi
fraintendimento? ¿ non è ancóra indefinibile la parola antica? invero,
si dà il caso che parola sovrapponentesi a parola è un artificio che
trova il tempo che trova, un inganno a chi se la beva che la parola
sovrapposta ad altra parola è plausibile ai fini del semantico riconosciuto interamente nella sua direzione. nel momento che giochi
qualsiasi gioco non definisci il gioco che stai giocando. e quanto al
processo cognitivo, nel verificare attraverso la direzione semantica
che assumerebbe l’asse sintagmatico — la conoscenza —, ovverosia
trattare di filosofia la testualità operriale, pone il problema che cos’è
la filosofia. la filosofia: viene da porsene il problema proprio perché ci


Prefazione
intratteniamo con il testo Ascoso in Heidegger. Sentieri interrotti.
Strade perdute di Marco Jacopino, un testo che, a prima vista, è da
annoverarsi nella produzione filosofica; ma è pure dato che questo
testo si caratterizza per una scrittura filosofica non certo adempiente
ai canoni della seriosa accademia déi filosofi professionisti — e per
questa caratteristica del testo, si aggiunga, ci si complimenti con il
suo giovane autore, essendo stato superbamente ardito nello scrivere
seguendo un proprio personale modulare la sintagmatica del discorso
—. ‘pensare con la propria testa’, ‘scrivere con il proprio stilo’, la
morale della favola, siamo in circuito. ¿scuoladi pensiero o corrente di
pensiero? corrente, corrente di pensiero! cosí pare essere in maggiore
sintonia con la stilistica del testo di cui qui si fa approccio tematico
nella catena stilistica della sintagmatica testuale — che non è solo
forma —.
ma con tutti i possibili preamboli, lèggere il fatalmente formulare
— se s’intende la forma come specifico stilistico in funzione di conoscenza testuale — non prescrive il ‘guardarsi in faccia’, il lettore si
accinge a lèggere: la differenza consiste dal formulare a un riformulare, e la vita scrittoria prende un’altra piega, sicché dialettica porta con
sé il di sé formato specchio a non un altro bensí a specchio altro — il
con–‘fondersi’ è dell’estremo spaccato dell’asse sintagmatico–stilistico
scelto per l’asse discorsuale. la rete — l’aleatorio convalidato — è
una possibilità, ed è detta, con una impertinente disinvoltura, opera
compiuta! quando ci si trova di fronte all’a–dialettico, come nelle
migliori famiglie della traduzione (lèggi pure: interpretazione).
come se nulla fosse accaduto. . . si coltiva, ancóra una volta, il
secolo del lumeggiare la diatriba principale, onestamente: ¿ sai dirmi
dove vuoi arrivare con la tua traslazione? intendere è il ‘tendere
a’, sic et simpliciter, e poi, a giocarsela tutta la partita di segno
contrario, fortuna/lettura. e non scomodiamo i nobili del pensare
forte, la roccaforte è invincibile; solo la trama apparentemente sfilata
la può dire che una rondine fa primavera, e sotto sfacciatamente
metafora o qualcosa di simile. ¿ e dell’ente essente sotto l’ala protettiva
dell’essere? — come dire domandando in un tempo lontano: ¿quale
parola somma di summa per Sovranità e sua Destinalità? ¿Rischio il
solo pensarlo? —.
Prefazione

die Sprache–das Wort. »Was ich noch sinne und was ich
noch füge / Was ich noch liebe trägt die gleichen züge«. ¿non
ci sarebbe problema in orizzonte di linguaggio? dicendo problema linguistico e chiedendocelo quanto a prospettiva del
discorso da farsi nella forma che dovrà porsi in essere di testo–‘tessuto’, ne deriva che, dove linguaggio è parola, e parola
avrebbe a premessa léggi e regole di grammatica, si riafferma
lo Heidegger–George di »Kein ding sei wo das wort gebricht.«
nel vivo di linguaggio a parola, il talentuoso Marco Jacopino.
la fortuna della filosofia — procedere in interrogazione alla
conoscenza del locus–testo–‘tessuto’ in atto letturale — viene
espressa dalla fortuna del linguaggio–parola composto in discorso il cui ‘modello’ di grammatica e stilistica, di grammatica stilistica, prende le mosse dalle scelte scrittorie dell’autore.
¡quale incendio incendia il discorso da linguaggio–parola! e lo
heideggerismo del testo del Nostro è un incendio, e singolare, non rifacente il verso a discorsi costruiti in passato. . . voce
che sorpassa l’uditorio. . . il problema déi problemi. . . nero su
bianco. . . ¿come è possibile che una parola come «dio» possa significare «Dio»? è almeno imbarazzante mettersi a parlare,
fissare sulla carta «discorso». e andiamo a discorso! e non c’è
filosofia che non abbia il suo fenomeno di linguaggio–parola. e
del tradurre non l’interprete. ¿e io che leggo Marco Jacopino,
chi sono oltre la mia esistenza? ¿quale lauro mi darebbe diritto
a lèggere l’opera, l’autore? non sono mai sufficienti le parole
da dedicare al discorso, eppure mille discorsi per la domanda
essenziale di parola in parola! il linguaggio! furoreggia per tutto
il campo déi discorsi, ha parola seguíta da parola, mai prima,
mai ultima. l’auctor scrive perché lègge, scrive perché ha letto
— continua a lèggere pur scrivendo —, il Nostro auctor è scrittore–lettore, ci consegna la sua filosofia pensata nel pensiero
filosofico del linguaggio–parola. e noi, a riaprire suo libro pensante filosoficamente il linguaggio–parola; ma la trascrizione
sarebbe una ulteriore messa–in–opera del vasto panorama che
il linguaggio–parola provvede a mostrare allo scrittore–lettore
che della ermeneutica considera il suo etimo di annunzian-

Prefazione
te linguaggio–parola. una espressione di cultura: in fondo a
linguaggio–parola, l’in–:–significante.
‘de–siderio’ di cammino, relazionare — lungo il lungo cammino heideggeriano, Heidegger, ¿e dopo il limite necessario
dell’esser–ci? — malgré lui–même —. Heidegger di Marco Jacopino; ¿e di noi? che pur ci intrattenemmo con il pastore dello
Sein. . . qui, una delle varianti della Problematica che si estende
al disciplinare fatto scienza œ critica scientifica, di quella con
accento in forza di teoretica: la com–prensione nel dia–logo
del lèggere — ascolto/evocazione parola —, ‘lettura’ da logos,
ché Logos viene ad ascolto (vedi: Eraclito); il ‘de–siderio’, e
dunque, non la ‘con–siderazione’, e, aumentandone il grado,
non la ‘con–templazione’ — altro limite necessario, il limite
con il quale il ‘logico’ del logos è posto nella condizione di non
saper piú reggere il proprio discorso di ricerca. fuori di qualsivoglia ‘uni–verso’, destino del ricercatore della ‘logica’ del logos
è cedere le armi e darsi per vinto per mancanza della parola
parlante la parola ‘logica’ del logos. ma lo stesso Eraclito, ancóra
Eraclito, avverte che, dell’ascolto del logos, è ascolto del logos
in ·shmaínein.
¿come stanno e sono le cose in situazione? le cose non stanno e non sono perché “le cose” stanno e sono nel non–luogo
della reificazione — il filo d’erba œ l’astro fulgente non sono
cose, sono il filo d’erba œ l’astro fulgente —. Marco Jacopino
accetta la sfida di porsi lungo il lungo cammino heideggeriano, Heidegger! e ci invita a frequentare questa sua sfida. sul
fondo di scena déi nostri saperi e linguaggi — e si ribadisca
che un sapere è un linguaggio —, ci si accinge, ancóra una
volta, a tentare di ascoltare il sussurro dell’aura heideggeriana
filtrata dal ‘pathos’ della Sprache distintamente heideggeriana,
inconfondibilmente heideggeriana. ¿e se si osasse intendere
Heidegger come il pensatore pensante la Sprache, la Sprache è
il suo pensiero, la Sprache ovvero lingua tedesca e parole in lingua
tedesca? d’altronde, Jacopino si accompagna alle parole della
lingua tedesca, della lingua di Heidegger. e sarebbe ora che
conoscessimo i pensatori pensanti riconoscendoli pensatori
Prefazione

pensanti nelle parole che parlano parlando, i pensatori pensanti, nell’alveo della lingua di loro madrepatria, e i sapœri delle
parole trasuderebbero nelle innervature di tutte le lingue, di
ciascuna lingua, la distinzione di un popolo e déi suoi dottori
e savi. Wahrheit non è Veritas, denken non è pensare; ¿perché
nella lingua tedesca Sonne è di genere femminile e nelle lingue
neolatine è maschile, perché Mond è maschile e nelle neolatine
è femminile? Heidegger, la Sprache, le parole, e il risalire al loro
córso storico, alle etimologie; Jacopino apre l’Introduzione con
il favore etimologico: eccellente ufficio praticato dando quanto
si deve dare al segno, cioè il suo proprium, il significante, nel
cui corpo coesistono la convenzione del significato e la possibile o presunta storicità di nascita — etimologie: le radici delle
parole; e se le parole pro–muovono il discorso, questi godrà
di una sua propria, di una sua propria, ‘radicalità’ dis–corrente
del discorso in quanto discorso, con un suo ‘un certo non so
che di senso’, dove, al di qua della semantica, con il discorso,
si si va a correre su un naviglio periglioso, quello della retorica, la disposizione déi segni–parole. eppure, non si hanno che
quei segni speciali detti parole, ed è grazie a queste parole che
qualifichiamo il «discorso». ¿l’eloquio, l’eloquenza — da qui
l’eloquente — e quindi, lo stile complesso? parole scelte lungo la catena sintagmatica determinatrice dell’asse del discorso.
snervante ‘prendere’ parola. . . !
il rango del testo in questione e l’apologeta che io non devo
essere per non compromettere la sana pianta ‘grammaticale’
del testo chiamato a rispondere in clima di questione, giacché il testo che presenti una sua proprietà di vedute messe in
chiaro–complesso dalle scritture altro non richiede di verbalità estranea ad esso se non l’apporto di un ‘con–forto’ che ne
ri–con–fermi l’assetto e quel. . . certo senso di. . . e allora sarebbe
di troppo soffermarci stucchevolmente. ¿perché non si allenta
o addirittura non vien meno la catena generazionale di dotti e
saccenti sapienti per un Classico che classico è non per l’illustre
Passato bensí per l’orchestrazione degli elementi primi compresi nelle maglie dell’ufficializzazione e della legalizzazione

Prefazione
il cui nome titolare recita sic et simpliciter «io sono ciò che
appaio», filologia parlante di sé stessa? il libro di Marco Jacopino
ha questo di vaglia: che offre di sé una saggistica filosofica non
appresa da alcuna scuola scolasticistica, prova ne sía, a esempio, sotto il titolo Cauchemar, súbito il ‘primo manifesto della
protoavanguardia storica’ con il suo cuore pulsante di un coup
de dés. . . jamais. . . n’abolirà. . . le hazard (quando la Poesia
entra di diritto anche nel cannocchiale dell’Esegesi). Jacopino,
per rimanere a Mallarmé, ha letto tutti i libri della Biblioteca di
Alessandria di Borges di Bataille e chissà di quante altre Biblioteche di città capitali e di autorevoli ‘librai’ competenti nello
scrivere delle scritture: ma quando ha da scrivere lui in prima
persona di Marco Jacopino, allora il passo il brano la frase il
periodo la proposizione protocollare o phil. il Marco Jacopino
ne fa bottino e lo registra in casa propria, spirito libero, cosí
scorre il discórso. . . a lèggere il libro del giovane studioso si
viene ad essere come suggestionati — ¿non incantàti? —, (cosí
parlò lo scrivente intorno a raro pregio di opera prima).
(à–côté — il titolo della ragione per cui si dà atto alla citazione d’occasione e senza intermediari mezzani, il dunque di precisione è: un intermezzo bello e buono, sottinteso all’insinuarsidell’incognita, nel ‘mezzo’ che sa adoprarsi, intagliatore come pochi ce ne
sono in giro, e non lo dàa vedere. . . abolita la meteora. procedendo anche se buon ultimo, a distinguersi territorio da terra, come opportuno
che sía, e a ricordarsi di Bob Wilson, perché, a conti fatti, traslucidamente a figura è da contrapporsi controfigura, ecco l’insegnarci Bob
Wilson — o, ed è lo stesso quanto a conseguirne di rapporto fra linguaggi diversi ma che comunque subiscononel loro íntimo di segno
corposo la fascinazione del linguaggio superiore alle norme vigenti
preposte ai distinti ordinamenti del discorso, Avanguardia riconosce
Classico, con l’aggiuntiva delle lodi quasi sperticate di Julian Beck
a Renata Tebaldi —, e poi: un apparato di note per il si tratta di
manifestivo cercare di tentare il sommo specchio, pur ponendosi di
fronte allo sforzo, il ‘codice’ superlativo piú ancóra del mitico ‘inno
alla gioia’, rimanendo peraltro innavigazione teoretica: un buon filosofo e un buon suo seguace hanno del loro linguaggio l’onestà del
Prefazione

sillabare, ed è proprio qui che si evidenziano la eco heideggeriana e
la scrittura di Marco Jacopino: «Weg und Waage, / Steg und Sage
finden sich in einen Gang» — e se ne tentò noi un–modo–di–via
(come per venirne fuori dalla morsa stretta diaforica) con la plaquette
per organo[eh sí, Heidegger è pensatore in filosofia ma lo è anche
in poesia — il pensare vince l’antico diaforismo filosofia/poesia —,
pensare e idearne parola appropriata all’esito del pensare medesimo,
ovverosia il sèma che non tradisce il tèma], e la parola si trasforma
ad amanuense–scriba in gesto di modello, e rupe in lontananza. . . ].)
dell’espressione a convincersi in atto dello studiarsi, il come
la ‘costituzione’ detta Ermeneutica abbia a proferire una sua
légge in funzione della p/Parola. ciò è problematica a tutti gli
effetti dell’o/Opera che viene a pronunziarsi in proprietà di
messaggio. il farne rilievo è tutto. qui sta il modus del riecheggiamento ermeneutico in risonanza ‘avvistamento di parola data’.
ciascuna volta che ‘si prenda in mano il l/Libro’ è questa solita
storia di provare a lèggere quel masso che è l’o/Opera–il l/Libro
— Teatro Speciale che, a ripetizione, ha l’accento del sorprendere il lettore piú esperto —, ‘l’esperienza della rinnovata prima
volta’. proviamoci. ma limite s’impone allorché ci si situi nella
con–fusione scrittura/lettura: lo storico della Storia della Filosofia è uno storico–autore della Storia della Filosofia; infatti ¿quale
studioso di buon senso, trovandosi innanzi al fenomeno scrittura/lettura, non è costretto ri–scrivere e ri–lèggere la Storia della
Filosofia dello storico–autore? il monito che si nasconde in quanto appena detto fa sí che, per la con–fusione scrittura/lettura, lo
storico di buon senso addivenga al ‘pro–figurarsi’ del ‘figurarsi’.
Wittgenstein ci ha provato, in brevitas, con Frazer e il suo
The Golden Bough: Frazer non ne esce tanto bene dalle grinfie
di Wittgenstein. parlare di capolavori trova il tempo che trova:
¿a chi la palma del Migliore? l’ardua sentenza è nel gusto di
un’epoca, poi, ancor con piú accorciamenti, con altri di degno
pensiero in scrittura, si fa la cernita, s’arriva a un giudizioso
giudizio d’approssimazione. parlare di ermeneutica, per Wittgenstein, non direi. il suo pregio, come se avesse riscritto il
Tractatus. intendo dire che in una ricapitolazione déi Saperi, e

Prefazione
soprattutto quando si andassero a confrontare pensieri e scritture diversi e diverse quanto a civiltà di pensiero e scrittura, e con
iniziativa di ‘avanguardia’ — comunque si tenga presente che
la cosiddetta Critica, non riallacciandoci alle moli esegetiche di
stampo biblico, le quali sono ‘formazioni linguistiche a sé stanti’, la cosiddetta Critica ha data iniziale recente, e vale la pena
ritenerla altra Specie di Letteratura, comparabile alla Teoretica
tout court œ alla Historiae œ ancóra alla Poematica —, ebbene
questi Saperi risultano offrirsi in un sol fascio di erbe. bestemmia? in principio era qualcosa che fu poi chiamato ‘pensiero’
piuttosto che ‘scrittura’, ‘civiltà’ in entrambe le nominazioni. e
uno che fa uno è uno, il linguaggio mai risolto nella definizione
della massima semanticità, e il genere degenera nel formidabile
fulminante idioletto.
dunque, qui–e–ora, leggiamo, e per ‘spunti’, di Marco Jacopino, il suo proprio Titolo a parlare, decisamente in ‘taglio’
riflessivo e in prosa riflessiva: seguirne il ‘ri–córso’ è però dicibile a patto che la nostra di ‘riflessione’ abbia a disposizione uno
spazio non da prefazione o introduzione o ancóra in una sorta
di ‘ri–pensamento’ in ‘ri–scrittura’, e ciò non è dato all’umile
sottoscritto.
l’attacco di Opera–Libro, un capolavoro di estraneamento
dal punto di riferimento. ¿punto di riferimento? che si parli,
che so, di Heidegger, o d’altro che sía citabile per onestà di
pensiero in scrittura, non importa: invece importa che l’autore
faccia opera di riflessione scrivendone l’atto, appunto, di riflessione — la parola ne ha il potere, perché essa parola è la prima
e ultima dicitura in ogni questione di pensiero in scrittura —.
Foucault gioca ai rispecchiamenti degli specchi, facendo rientrare la scrittura della non scrittura di Socrate, e, Colli rilancia
Nietzsche ma rilanciandone il linguaggio attutito da limpido
calcolato linguaggio di prosa — e questo per dire che noi possiamo riprenderci il linguaggio nonostante i notari del Linguaggio:
parola nostra! ma c’è dell’ambiguo, proprio semantico, nella piú
lucida delle proposizioni filosofiche; tenerlo a mente non può
che far bene alla mente. e non è che il seguire il percorso di una
Prefazione

‘légge’ scrittoria eviti di poter aver innanzi, e al punto fermo
del solido dettato, un ulteriore profondo incerto di dichiarazione
dichiarata, malgré l‘autore stesso tutto compreso nel suo fare,
di pensiero, scrittura.
è un ricominciare nella vastità degli orizzonti della filosofia
stando a fare lettura déi testi del Testo di Jacopino, un mostro,
sí, di pondo mentale e di conoscenze di prima mano, direi con i
favori della Storia e le puntualità della Filologia, la ricchezza del
Racconto, e dico non scomodando l’enfasi; e ci si va a ricordare
quel semplicemente capo–opera che è del solitario spirito di
Michelstaedter, La Persuasione e la Rettorica — ¿capo–opera da
chi passata a lettura? —; dico con la dovuta fortezza di conoscenza storica per cui tutta la Letteratura Filosofica [¿che è mai
«Filosofia»?] significa se non un prontuario di notizie riguardanti
il tormentarsi del Pensiero, e non oltre, ché l’Oltre è in mano al
Destino, a quel ‘Destino’ sovrastante i nostri destini di studiosi
alla barriera del Conoscere vero e proprio: di noi, l’oscurità déi
semantemi, a ciò giunge l’oscuro lavoro del continuarsi nell’apprendistato del verificare l’unica e sola, la Verità — la Semantica,
il lusso dell’in–venirsi al bello stilo d’un signoreggiare profonde
parole spuntate al momento del loro essere il Detto. La Persuasione e
la Rettorica, Carlo Michelstaedter, la ‘solitudine’ e il ‘rinnovo’
dell’esperienza vana. ¿ma dove sto sbattendo la testa raffigurandomi discorsi sull’orlo dell’abisso che piú che abisso è l’Abisso
personificato dal ‘fantasma d’opera’, l’opera ostinata che ci tiene
al tavolo di lavoro senza intravederne nemmeno lo sviluppo —
il nonfinito dell’Opera nostra?
Marco Jacopino mi giunge alla Citazione, lui, mente che si
applica nel capogiro delle volte del pensare e del dire, nella sua
solitudine di ‘soggetto’ al quale si rivolge il discorso problematico, non tanto del senso, quanto dell’incidere di segno, parole
parole parole — e che portino alla risposta di Amleto alla curiosità di Polonio è puramente casuale, non fa assolutamente parte
della festa a palazzo. conta l’intenzione dell’intendere, l’opera è
il nonfinito, sicché di là da relegare in soffitta la dicitura “l’opera
è finita, realizzazione di senso, quadratura del cerchio, ora si

Prefazione
hanno solo discepoli, non ventura piú di rischiosa domanda
fondamentale”. inoltre, le condizioni perché l’Opera venga a costituzionein guisa di ‘linguaggio interlinguistico’, e per linguaggio si
intenda ogni sorta di segno scrittura significante a promuovere forme
e stili che, una volta espressi, possono essere — e li si dovrebbero —,
superati da/con altri forme e stili altri, a pareggiare l‘incandescente
multiformità di terre e di cieli con–figurati nella con–figurazione.
so benissimo che il titolo significar pensante il verbo — nonostante il ‘pro–verbio’ —, per l’opera del giovane Marco Jacopino, è oltre–modo ‘significante’, mettendo a repentaglio la mia
reputazione di scarsa attitudine alla Critica — tuttavia i ‘numeri’
li ha tutti questo giovane studioso in filosofia e ben altro del
disciplinare di scienze umanistiche, prova ne è l’‘ordigno’ di cui
a tematica —: ma ciò mi lascia del tutto indifferente perché,
leggendo l’opera di Marco Jacopino, «I’ mi son un, che quando
/ Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo
significando», (e non lo strapazzo il testo dell’opera). cogliere nel
segno è una espressione che non mi compete in quanto ritengo
che semiotica e semantica abbiano da fare ancóra tanta e poi
ancóra tanta strada prima che entrino nella intessitura dell’opera testualizzata in σημαίνειν. il maldestro parafilosofo: il Verbo,
aldilà della stessa Letteratura, è stata mèta déi miei studi per
anni interi, mi sono affaticato a lume di candela per tentare di
sbrogliare la gloriosa matassa di questo Verbo suonandomi di
continuo in quel suo parlar sottovoce. . . cosí parlò l’inetto a costruir di testo l’opera. e, inevitabilmente — o forse —, pur fosse
mezza frase, per via dell’opera autoriale che si va trattando,
una punta di stilo con riferimento a questione della Μέτ–οδος
dovrebbe starci tutto, se non fosse che lo spessore del testo qui
a leggersi è di quelli che debbono accettarsi per come si presentano, tel quel; e allora, accettarlo, questo testo intraprendente
nel fattore spessore, e, in aggiunta, in approfondimento di la
sua memoria storica del pensiero in atto nell’èra–parola sempre
dominante pagina per pagina, riga per riga. chiamiamole citazioni le vere e proprie auree che abbondano in questo testo dello
spessore: ma fatto ciò, ¿che se ne evince? che Marco Jacopino ha
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