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INTERVISTA A GIORGIO TIRABASSI :: Martedi, 20 marzo 2007
di Arnaldo Casali
Canta, recita, declama poesie, suona chitarra, armonica, contrabbasso e percussioni, spazia dal blues al rap
fino agli stornelli romaneschi, entra ed esce da personaggi come gangster, tossici, cantastorie; personaggi
lontani nel carattere e nella storia, ma uniti dall’accento: quello inconfondibile della Roma delle borgate.
Non è un monologo, non è cabaret, non è teatro canzone, Coatto unico senza intervallo, lo spettacolo di
Giorgio Tirabassi che mercoledì 14 e giovedì 15 marzo ha registrato il tutto esaurito al teatro comunale di
Narni come quinto appuntamento della stagione 2007 di “Visioninmusica”, ma un viaggio a tempo di musica
attraverso una miriade di storie e forme artistiche differenti, sorretto da due ottimi musicisti (Daniele Ercoli e
Giovanni Lo Cascio) e dal talento di uno dei più grandi mattatori della scena italiana contemporanea, che con
questo spettacolo dimostra di essere un degno erede di Gigi Proietti, nella cui compagnia è – non a caso –
cresciuto.
Protagonista indiscusso di “Distretto di polizia” per sei stagioni nel ruolo dell’ispettore – divenuto poi
commissario – Roberto Ardenzi, ha scelto proprio quest’anno di abbandonare la serie che gli ha dato la
popolarità per tornare al teatro e cimentarsi con nuovi progetti. “Perché Distretto – spiega – è un’esperienza
magnifica, ma totalizzante. Ti impegna per dieci mesi l’anno e diventa impossibile fare qualsiasi altra cosa”.
Come nasce “Coatto unico”?
“Il rapporto con la musica ce l’ho da quando, a tredici-quattordici suonavo la chitarra e ho sempre cercato di
abbinarla al mio lavoro, ma non raramente è stato possibile. Poi, scrivendo delle canzoni e lavorando con il
gioco della contaminazione dello stornello con il blues ho trovato una via che poteva dare identità al tutto.
Avendo un’ossatura centrale non mi rimaneva che raccontare le storie dei personaggi di quelle canzoni e
quindi - dieci anni fa - ho realizzato questo spettacolo chiamato “Coatto unico” in cui io ero in scena da solo
e suonavo la chitarra, l’armonica, un bidone, quello che potevo. Lo spettacolo è stato rappresentato quasi
sempre a Roma, fuori dai teatri ufficiali, in quelli “off”, in periferia, nel carcere a Rebibbia. Oggi io e i miei
personaggi ci siamo sentiti abbastanza maturi per “oltrepassare il raccordo anulare” come dice uno di loro, e
quindi abbiamo cominciato questa tournée portando lo spettacolo un po’ in tutta Italia e scoprendo dei
consensi molto gratificanti”.
Come nascono i tuoi personaggi?
“Dalla strada, dalla realtà, dall’intuito, dalle dichiarazioni spontanee di alcune persone che non sanno che
dietro tutto quello che dicono ci può essere un mondo da portare a teatro. E con questa intenzione che ho
messo insieme personaggi rubati magari da un autobus o da una conversazione. In questo nuovo spettacolo
c’è poi anche l’inserimento del personaggio romano antico, il coatto dei primi del Novecento che forse era
fatto più di onore e meno di chiacchiere.”
Ti senti un attore drammatico che sa far ridere o un comico capace di entrare anche in personaggi
molto intensi?
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“Io penso di essere un attore brillante che ha avuto modo di cimentarsi con ruoli drammatici, anche se molta
gente oggi mi conosce come attore drammatico e solo in seguito mi scopre come comico”
Ma tu quand’è che ti senti di fare davvero quello per cui sei nato?
“Non te lo so dire. In questo spettacolo sicuramente tiro fuori le cose che ho dentro e che ho voluto scrivere
e mettere in scena con grande volontà, ma io mi sono divertito molto anche facendo cose drammatiche.
Sicuramente quello che mi dà più divertimento è questo spettacolo. Ma non posso dire io quale è la cosa che
mi viene meglio”.
Ti vieni da una grande scuola, quella di Gigi Proietti, in cui si sono formati anche Francesca Reggiani,
Gabriele Cirilli e Pino Quartullo…
“In realtà io non vengo dalla scuola, ma dalla compagnia di Proietti, anche se comunque è stata senza
dubbio quella la mia vera scuola. Quando sono entrato lavoravo da due anni e facevo spettacoli di ogni tipo:
dal teatro di avanguardia quindi con gli ultimi sprazzi del Beat 62, all’animazione nelle scuole”.
Ma quando e come hai deciso di fare l’attore?
“Da ragazzino ero sempre al centro dei gruppi, facevo ridere, raccontavo le barzellette, anche se non
pensavo certo che sarebbe diventato un lavoro, anche perché fino a 18 anni balbettavo moltissimo, quindi
era impensabile. Invece poi mi è nato un grande amore per il teatro durante la scuola e così ho cominciato ad
avvicinarmi a questo lavoro. Di fatto questo mestiere da quando avevo vent’anni e la considero una grande
fortuna, perché non è così facile lavorare in questo settore. Poi ho fatto un provino con Proietti che cercava
un attore, io suonavo la chitarra, cantavo, avevo anche fatto un corso di mimo, e sono entrato nella sua
compagnia”.
Quale è la cosa più importante che ti ha insegnato Gigi Proietti?
“Tante cose, sia volontariamente che involontariamente. Non ce ne è una in particolare. Anche se forse
alcune cose le ho imparate per contrasto con il suo modo di recitare e fare spettacolo, cercando una mia
identità di attore. Poi ho lavorato anche con altri attori da cui ho “rubato molto”. Giannini, Manfredi,
Mastroianni. Nella mia carriera ho avuto a che fare con grandi attori”.
Con Giannini, tra l’altro, hai condiviso un ruolo, quello di Paolo Borsellino, mentre avete recitato
insieme in un film di Tinto Brass, Snack bar Budapest.
“Quel film era tratto da un libro bellissimo di Marco Lodoli e Silvia Bre e non sembrava assolutamente che
dovesse diventare un film del taglio di Brass, tanto che c’era Giannini come protagonista. Ed è stato questo il
motivo per cui ho accettato di lavorarci. Poi il film in realtà ha preso una via molto più vicina ai film di Brass…”
Nel tuo curriculum c’è anche Forza vente gente…
“Avevo un ottimo rapporto con Mario Castellacci, che era un po’ la parte più colta del Bagaglino. C’era una
sostituzione da fare e io feci una tournée vestendo i panni del lupo e del diavolo. E’ stata un’esperienza di
teatro musicale molto gratificante”
Nel film “Paz” c’è una scena in cui interpreti un cantastorie…
“Abbiamo rifatto alla lettera una vignetta di Andrea Pazienza. Quando me l’ha proposta ci siamo posti il
problema della musica, perché nel fumetto – è evidente – non c’è. Così ho improvvisato qualcosa io ad
orecchio, con una chitarra volutamente scordata. E’ una partecipazione che ho fatto molto volentieri, per
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Andrea Pazienza, ma soprattutto per Renato De Maria, che aveva diretto la prima serie di “Distretto”.
Quest’anno Sanremo giovani è stata vinta da una canzone ispirata alla fiction su Borsellino che ha
interpretato.
“E’ una cosa che mi ha fatto molto piacere, anche perché non è stato influenzato solo lui. Abbiamo ricevuto
lettere di ragazzi che dopo averla vista hanno scelto di iscriversia Giurispruedenza invece che a Economia e
commercio. E’ stato un progetto che ci ha segnato molto”.
Come è stato interpretare un personaggio così vicino, e confrontarsi con chi lo aveva conosciuto?
“E’ una cosa che abbiamo fatto con molta attenzione. La sceneggiatura era tratta da una biografia scritta con
l’aiuto dei familiari, quindi sapevamo che tutto quello che raccontavamo era attendibile. I familiari poi ci hanno
seguito con grande discrezione. E stato un lavoro molto difficile e molto profondo, che alla fine ci ha ripagato
assolutamente di tutti i sacrifici fatti”.
La cosa curiosa è che in Distretto di polizia, tu che hai fatto Borsellino per Canale 5, lasci il posto a
Massimo Dapporto che ha appena fatto Falcone per la Rai…
“Non solo, ma nell’ufficio del commissario di Distretto c’è la storica foto di Falcone e Borsellino”.
Distretto di polizia è stata senza dubbio la cosa che ti ha fatto conoscere al grande pubblico. Per te
cosa ha rappresentato?
“E’ stato questo. Il grande salto, quello che tutti gli attori vorrebbero fare: una serie di successo con un ruolo
che ti senti addosso, che reciti con facilità e che coinvolge la gente”.
Hai smesso quest’anno, ma in realtà erano anni che cercavi di liberarti di questo personaggio.
“Ci ho provato, non è stato sempre facile. Già dopo la quarta serie io avevo deciso di andare via. Invece sia
Claudia Pandolfi che Ricky Memphis mi hanno convinto a restare; allora siamo andati tutti e tre dal produttore
e gli abbiamo detto che se ci dava un anno di pausa gli avremmo garantito la nostra presenza nella quinta
serie. Così è stato. Ci siamo fermati per un anno e io sono riuscito a fare uno spettacolo in teatro e
Borsellino; poi abbiamo fatto la quinta. Io poi volevo andare via perché per me l’esperienza era finita, invece
mi è stato chiesto – in amicizia – di fare il commissario nella sesta, e l’ho fatto. ma veramente me ne sarei
andato volentieri anche prima”.
Ti aveva stancato essere identificato con il personaggio di Roberto Ardenzi?
“No, non è tanto il personaggio a stancare, quanto la mole di lavoro che comporta una lunga serie. Se fai
quello non fai nient’altro: per dieci mesi vai a lavorare tutti i giorni e fai questo. Dieci mesi sono tantissimi, ti
vedi tutte le stagioni. Si può fare, è giusto farlo, ma l’ho anche fatto per sei anni, non mi pare che mi sono
tirato indietro!”.
Da spettatore ti dico che pur non guardando le fiction, di Distretto non perdo una puntata e ho
persino comprato tutti i cofanetti. Perché Distretto, è innegabile, è un prodotto completamente
diverso da quello che offrono le altre serie televisive. Quale è il suo segreto?
“Questa differenza è stata fortemente voluta. Tutto il cast era molto preoccupato dell’operazione, perché la
fiction televisiva, sette anni fa, lasciava il tempo che trovava. C’erano storie molto romantiche, personaggi
puliti, asettici, non passava verità. Invece questo produttore che è un geniaccio, Pietro Valsecchi, decise di
mettere facce e professionalità cinematografiche, poi abbiamo cominciato a sporcare il linguaggio con gli
accenti per dare maggiore verità. A quei tempi il romanesco si usava solo per le commedie, mentre noi lo
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abbiamo usato creando un equilibrio giusto tra dramma e commedia, anche se poi il melodramma ha preso il
sopravvento, purtroppo”.
Anche il soggetto delle varie serie riprende sempre l’attualità. La quinta sembrava ispirata alla
vicenda di Ilaria Alpi. Quanto alla sesta, non ti dico chi mi ricordava quell’imprenditore-delinquente...
“Sì, sai, dopo sei serie ti devi anche trovare delle idee, anche per questo è stato sano allontanarsi”.
Valsecchi ha dichiarato di avere in mente uno spin off sul commissario Ardenzi, e al chiusura della
sesta serie lascerebbe intendere questa possibilità, anche perché insiste nel dire che tu, in qualche
modo, continuerai a partecipare alle prossime serie…
“Stare dietro a tutto quello che dice Valsecchi nelle interviste è un lavoro a parte. Secondo lui io dovevo fare
Riina, Mattei… ogni tanto esce fuori qualche notizia. Per spin off bisogna capire cosa intende. Io sono
disponibile a fare qualche scena, ma rientrare no, la mia è una scelta definitiva”.
Nella prossima serie ci saranno tue comparsate?
“Di sicuro ci sarò all’inizio, per girare una scena in cui presento il nuovo commissario. Il resto non lo so,
anche perché non so nemmeno che tipo di trama e sviluppo abbiano in mente per la vicenda. Non ne ho
idea”.
Che effetto ti ha fatto la reazione del pubblico alla morte di Mauro Belli?
“Ce l aspettavamo, sapevamo tutto, sapevamo che effetto avrebbe fatto l’uscita di scena di Ricky, e anzi,
abbiamo cercato di usarla al meglio”.
Ricky se ne è andato perché te ne volevi andare te?
“No, anzi, Ricky è andato via anche prima. Io l’ultima serie l’ho fatta tutta, lui ha girato solo poche puntate”.
Una scelta autonoma quindi.
“Sì, perché ha un figlio piccolo, e vuole goderselo. Se ne è andato per motivi familiari, per riappropriarsi un
po’ della sua vita”
E’ vero che vi conoscete da tanti anni, come i personaggi che interpretate?
“Sì, ci conosciamo da tanti anni, però ci frequentiamo attraverso il lavoro. Abbiamo fatto il “Branco” di Marco
Risi, poi “L’ultimo capodanno”, poi “Ultimo” e infine “Distretto”. Insomma, sì, adesso comincia ad essere un
po’ tempo, che ci conosciamo”.
Siete davvero molto amici anche nella realtà?
“Assolutamente, ci mancherebbe, certo che siamo amici. Magari non ci vediamo, non ci frequentiamo molto,
ma siamo ottimi amici, come no”.
Adesso che sei finalmente libero da “Distretto”, su cosa pensi di concentrare le tue energie?
“La cosa che ho fatto subito è stata riprendere un po’ il teatro anche in vista di un nuovo lavoro della
televisione che mi impegnerà molto. Il cinema non lo faccio moltissimo, anche perché non tutte le proposte
sono buone, altre sono molto rischiose, altre ancora non vale la pena di prenderle in considerazione”.
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Offre più stimoli la televisione?
“Dipende che attore sei e che stimoli vuoi. Oggi la grande produzione è televisiva, quindi la maggior parte
delle cose passano di lì. Al cinema ci sono registi che fanno ogni due anni film interessanti, dipende dalle
opportunità, dal singolo progetto. Dipende anche che direzione vuoi dare alla tua carriera”.
A te cosa piace fare?
“Avendo fatto tanta televisione trovavo giusto tornare al teatro”.
Hai mai pensato di incidere un disco?
“No, forse potrebbe essere interessante una registrazione live di questo spettacolo, ma un disco vero e
proprio, pensato con un produttore e una carriera, no, non ci penso per niente, non è il mestiere mio; è un
lavoro ben preciso a cui mi sono avvicinato pochissimo e nei confronti del quale non ho alcun interesse”.
(Narni, 15 marzo 2007. Trasmessa su Radio Adesso TNA e pubblicata sul Giornale dell'Umbria il 20 marzo)
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