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La condizione postumana
Avvisi ai naviganti
Rosi Braidotti
N
on tutti noi possiamo soste nere, con un alto grado di sicurezza, che siamo sempre stati umani, o che non siamo null’altro all’infuori di questo. Alcuni di noi non sono considerati completamente umani ora, figuriamoci nelle precedenti epoche della storia occidentale sociale, politica e
scientifica. Non se per «umano» intendiamo
quella creatura che ci è diventata tanto familiare
a partire dall’illuminismo e dalla sua eredità: il
soggetto cartesiano del cogito, la kantiana comunità di esseri razionali o, in termini più sociologici, il soggetto-cittadino, titolare di diritti, proprietario, ecc. E tuttavia questo termine gode di
ampio consenso e conserva la rassicurante familiarità del luogo comune. Affermiamo il nostro
attaccamento alla specie come se fosse un dato di
fatto, un presupposto. Fino al punto di costruire attorno all’umano la nozione fondamentale di
diritto. Ma stanno davvero così le cose?
Mentre, oggi sempre più spesso, le forze sociali conservatrici e religiose si adoperano per
reinscrivere l’umano all’interno dei paradigmi
della legge naturale, il concetto stesso di umano
è esploso sotto la doppia pressione degli odierni
progressi scientifici e degli interessi dell’economia globale. Dopo la condizione postmoderna,
postcoloniale, postindustriale, postcomunista,
persino dopo la contestata condizione postfemminista, ci troviamo oggi a vivere la difficile situazione postumana.
La condizione postumana, lungi dal costituire l’ennesima variazione n in una sequenza di
prefissi che può sembrare infinita e arbitraria,
apporta una significativa svolta al nostro modo
di concettualizzare la caratteristica fondamentale di riferimento comune per la nostra specie, la
nostra politica e la nostra relazione con gli altri
abitanti del pianeta. Tale questione solleva una
serie di domande intorno alla struttura stessa
delle nostre identità condivise – in quanto
umani – colta nel bel mezzo della complessità
delle scienze attuali, delle relazioni politiche e
internazionali. Non umano, inumano, antiumano sono oggi al centro di molti discorsi e di
molte rappresentazioni, mentre disumano e postumano proliferano e si sovrappongono nel
contesto delle società globalizzate e tecnologicamente guidate.
I discorsi della cultura mainstream spaziano
dalle ostinate discussioni economiche sui robot,
le protesi tecnologiche, le neuroscienze e i capitali biogenetici fino alle più confuse visioni new
age del transumanismo e della tecnotrascendenza. Il potenziamento umano è il punto centrale
di queste discussioni. Nella cultura accademica,
d’altro canto, il postumano è, alternativamente,
celebrato come nuova frontiera per la teoria critica e culturale, o respinto come l’ultima moda
nella serie dei noiosi post. Il postumano suscita
entusiasmo e ansia allo stesso tempo rispetto alla
possibilità di un serio decentramento dell’Uomo, misura prima di tutte le cose. Vi è una diffusa preoccupazione circa la perdita di importanza e supremazia che sta interessando la visione dominante del soggetto umano e il campo di
studi a esso attiguo, ovvero le scienze umane.
Dal mio punto di vista, il comune denominatore della condizione postumana è l’ipotesi secondo la quale la struttura della materia vivente
è in sé vitale, capace di autorganizzazione e al
contempo non-naturalistica. Questo continuum
natura-cultura è il punto di partenza per il mio
viaggio nella teoria postumana. Rimane tuttavia
da capire se questa ipotesi postnaturalistica, alla
fine, si limiti a concludersi nelle sperimentazioni
ludiche intorno ai limiti della perfettibilità del
corpo, nel panico morale per la scomparsa di
credenze vecchie di secoli circa la «natura»
umana, o nella caccia orientata al profitto dei capitali neuro-genetici.
A che cosa si riferisce questo continuum natura-cultura? Esso evidenzia un paradigma che
prende le distanze dall’approccio socio-costruttivista che ha goduto di largo consenso. Approccio
che postula una distinzione categorica tra il dato
(la natura) e il costruito (la cultura). Nelle poli-
tiche progressiste i metodi del costruttivismo sociale sostengono i tentativi di denaturalizzare le
differenze sociali e mostrare così la loro struttura contingente e storicamente determinata dall’uomo. Basti pensare agli effetti rivoluzionari
che, su scala mondiale, ha avuto la frase di Simone de Beauvoir: «Donna non si nasce, si diventa». Tale comprensione delle ingiustizie sociali,
colte all’interno di una natura determinata socialmente e variabile storicamente, apre la strada
al progetto umano di risolverle tramite politiche
sociali e attivismo.
La mia tesi è che questo approccio, che si attesta sull’opposizione binaria tra il dato e il costruito, sia progressivamente sostituito dalla teoria non dualista dell’interazione tra natura e cultura. Dal mio punto di vista quest’ultimo approccio è legato e supportato dalla tradizione filosofica monista, che rifiuta i dualismi, soprattutto l’opposizione natura-cultura, e si concentra piuttosto sulla forza autopoietica della materia vivente. I confini tra le categorie del naturale
e del culturale sono stati spostati e, in larga misura, sfumati dagli effetti degli sviluppi scientifici e tecnologici. La mia analisi prende le mosse
dall’ipotesi che la teoria sociale necessiti di fare il
punto sulla trasformazione dei concetti, dei metodi e delle pratiche politiche causata da tale
cambiamento di paradigma. Di converso la domanda circa che tipo di analisi politica, e che
tipo di politica progressista, sia sostenuta dall’approccio basato sul continuum natura-cultura, risulta centrale nell’agenda della situazione postumana.
In primo luogo: cos’è il postumano? E, in
modo più specifico, quali sono gli itinerari intellettuali e storici che possono condurci al postumano? In secondo luogo: dove la condizione
postumana si separa da quella umana? E in
modo più specifico: quali nuove forme di soggettività si addicono al postumano? In terzo
luogo: in che modo il postumano produce le sue
specifiche forme di inumano? Ovvero: come
possiamo resistere agli aspetti inumani della no-
stra era? Infine: quali sono le conseguenze che il
postumano ha sulle scienze umane oggigiorno?
Ovvero: qual è la funzione della teoria ai tempi
del postumano?
Dopo la fine ufficiale della guerra fredda, i
movimenti politici della seconda metà del XX
secolo sono stati marginalizzati e i loro sforzi
teoretici banditi in quanto ritenuti esperimenti
storici fallimentari. La nuova ideologia dell’economia del libero mercato ha eliminato tutte le
opposizioni, nonostante le massicce proteste di
diversi settori della società, imponendo l’antintellettualismo come caratteristica saliente dei nostri tempi. Questo è un duro colpo soprattutto
per le scienze umane in quanto penalizza la sottigliezza dell’analisi, chiamata a prestare indebita
fedeltà al senso comune – la tirannia dell’opinione – e al profitto economico – la banalità dell’interesse individuale. In questo contesto la teoria
ha perso valore ed è stata spesso screditata come
una sorta di fantasia o di narcisistico autocompiacimento. Di conseguenza la versione superficiale del neoempirismo – spesso coincidente con
la mera raccolta di dati – è diventata la norma
metodologica della ricerca nelle scienze umane.
È innegabile che vi sia un lato oscuro nella
condizione postumana, specialmente a proposito delle genealogie del pensiero critico. È come
se, dopo la magnifica esplosione di creatività
degli anni Settanta e Ottanta del XX secolo, fossimo entrati in un monotono orizzonte pietrificato, privo di differenze e caratterizzato da un
persistente senso di melanconia. Una dimensione spettrale si è infiltrata nei nostri schemi di
pensiero, amplificata dai concetti, tipici della destra politica, della fine del tempo delle ideologie
e della inevitabilità delle crociate civilizzatrici.
Sul versante della sinistra politica, invece, il
rifiuto della teoria ha condotto all’onda di risentimento e di pensiero negativo rispetto alle generazioni intellettuali precedenti. In questo contesto di malessere teorico intellettuali neocomunisti hanno sostenuto l’impellenza di ritornare all’azione politica concreta, persino all’antagonismo violento, se necessario, piuttosto
che insistere con altre speculazioni teoretiche. E hanno così contribuito a rendere obsolete le teorie filosofiche poststrutturaliste.
In risposta a questo generale clima
sociale negativo, vorrei rivolgermi alla
teoria postumana intendendola sia come
strumento genealogico che come bussola per la navigazione. Il postumano è un
termine utile per indagare i nuovi modi
di impegnarsi attivamente nel presente,
ragionando su alcuni suoi aspetti in modo empiricamente fondato ma non
riduttivo, critico ma non nichilista. Mio
intento è quello di mappare alcune delle
strade attraverso le quali il postumano
sta circolando come termine dominante
nelle nostre società globalmente connesse e tecnologicamente mediate. Più precisamente, la teoria postumana è uno
strumento produttivo capace di sostenere quel processo di ripensamento dell’unità fondamentale, riferimento comune dell’umano, in questa età biogenetica nota come antropocene, momento storico in cui l’umano è diventato
una forza geologica in grado di influenzare la vita su tutto il pianeta. Per estensione, esso può anche aiutarci a ripensare i principi fondamentali della nostra
interazione con altri agenti umani e non
umani su scala planetaria.
Anticipazione del libro di Rosi Braidotti,
Il postumano. La vita oltre sé, oltre la specie, oltre
la morte, in uscita nelle librerie il 29 gennaio
per le edizoni DeriveApprodi.
Alfredo Jaar, We Shall Bring Forth New Life (Umashimenkana), 2013.
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