Gli ebrei europei alla vigilia della catastrofe 0001000140 ‣ Esito prevedibile? Leggere la storia a ritroso . Tra l'inizio degli anni Venti e la fine degli anni Trenta, gli ebrei d'Europa non sapevano di vivere “tra le due guerre”, né ritenevano di trovarsi “alla vigilia di una catastrofe”. Non potevano prevedere che il corso della storia aveva in serbo un'altra guerra mondiale e che contro di loro si sarebbe scatenata una furia genocida che, per dimensioni e per il carattere della sua organizzazione, sarebbe stata senza precedenti. Negli anni Trenta nessun ebreo poteva certo ignorare i segnali del crescente antisemitismo e di una incalzante esclusione sociale; tuttavia sarebbe azzardato supporre che qualcuno potesse essere in grado allora di prevedere anche nei suoi peggiori incubi ciò che ne sarebbe seguito. Quella che oggi è per noi la Prima guerra mondiale in quegli anni era semplicemente la guerra mondiale e quanto noi oggi sappiamo delle camere a gas come strumenti di sterminio di massa superava allora ogni possibile immaginazione. Michael André Bernstein, studioso di letteratura, sottolinea l'impossibilità di prevedere allora un esito che a noi oggi appare inevitabile: In un certo senso, il tentativo di imporre una lettura storica a ritroso pone inconsapevolmente gli ebrei in una posizione fin troppo simile a quella assegnata loro dalla Chiesa cristiana ai suoi albori. Come i primi cristiani avevano condannato gli ebrei perché, pur avendo visto il Salvatore e assistito ai suoi miracoli, avevano ugualmente deciso di ripudiarlo, così l'atteggiamento critico di quegli studiosi che proiettano retrospettivamente la loro conoscenza storica della Shoah sembra condannare tutti coloro che nei primi segnali del regime nazista non seppero ravvisarne le conseguenze1. Consapevoli del dramma che si abbatté sugli ebrei d'Europa nei primi anni Quaranta, la cui tragicità non possono in alcun modo trascurare, gli storici non devono tuttavia cadere nella trappola di ciò che Michel André Bernstein definisce appunto una “lettura a ritroso”. Ancorché non sia possibile fornire una spiegazione della Shoah senza comprendere gli eventi che caratterizzarono il ventennio precedente, in quegli anni altre strade erano ancora aperte, e non vi era necessariamente un unico destino possibile riservato agli ebrei d'Europa. Essi immaginavano certamente che le loro già precarie condizioni economiche sarebbero ulteriormente peggiorate, che l'emancipazione sarebbe stata revocata e che sarebbero stati relegati a cittadini di seconda classe, ma vi erano anche alcune voci che sostenevano, per contro, il carattere temporaneo di quella crisi e prevedevano per gli ebrei un futuro di integrazione nelle varie nazioni europee o la costituzione, in Palestina, di una nazione ebraica universalmente riconosciuta. Il periodo compreso tra il 1914 e il 1939 vide la dissoluzione dei grandi imperi multinazionali in cui viveva la maggior parte della popolazione ebraica europea, l'emergere degli Stati-nazione, il diffondersi del sionismo politico e, al contempo, la consapevolezza dell'esistenza di ostacoli alla realizzazione di uno Stato ebraico. In quegli stessi anni gli ebrei occupavano ruoli preminenti in politica, soprattutto in quegli Stati caratterizzati da regimi rivoluzionari, ma anche nelle democrazie parlamentari; per alcuni di loro il processo di assimilazione si approfondì, mentre per altri rimase forte l'anelito verso le proprie radici. Inoltre, se da una parte venivano abrogate le ultime leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei, dall'altra si erigevano nuovi ghetti. Non solo per gli storici, ma anche per i contemporanei che le vivevano, erano queste le contraddizioni che caratterizzavano il periodo tra le due guerre. ⋅ La Prima guerra mondiale come spartiacque: dagli imperi multinazionali agli Stati-nazione. | Durante i quattro anni della Prima guerra mondiale avvenne una trasformazione decisiva della comunità ebraica europea o, per meglio dire, si compì un processo di trasformazione iniziato ben prima del 1914, i cui sviluppi fondamentali coinvolsero principalmente tre aspetti: riguardo alle grandi speranze riposte in una completa integrazione nelle società di appartenenza, in virtù della condivisione di una comune esperienza bellica, gli ebrei non solo vennero disillusi, ma sperimentarono una nuova dimensione di esclusione e di rifiuto; in secondo luogo, l'abbrutimento generalizzato causato dalla guerra generò nuove forme di razzismo e di violenza senza precedenti. Infine, la distruzione del sistema politico prebellico e la conseguente ridefinizione dei confini europei trasformò gli ebrei d'Europa, sudditi per generazioni di vasti imperi multinazionali, in cittadini di nuovi Stati-nazione. Questi, anche quando erano repubbliche formalmente democratiche, si dimostrarono non di rado assai meno tolleranti nei confronti degli ebrei delle vecchie monarchie prebelliche. Tutto ciò accadde nonostante gli ebrei avessero combattuto sui campi di battaglia dell'Europa e pagato alla guerra un alto tributo in vite umane, paragonabile a quello sofferto dai loro compatrioti cristiani e in taluni casi anche superiore. Gli ebrei che prima della guerra sentivano di non essere integrati nelle società europee in cui vivevano avevano sperato che le trincee arrivassero là dove le leggi avevano fallito. Avevano riposto le loro speranze nella condivisione dell'esperienza bellica con i commilitoni cristiani, ma troppo spesso invano. Nell'esercito tedesco combatterono per il Kaiser 85.000 ebrei, 12.000 dei quali non fecero più ritorno. Una percentuale simile si riscontra in Francia e in Algeria, dove la piccola comunità ebraica composta di 186.000 ebrei contribuì con 46.000 soldati e più di 6400 caduti. Dei circa 41.500 ebrei britannici che servirono nell'esercito, 2000 persero la vita, mentre si ritiene che gli ebrei arruolati nell'esercito zarista fossero 600.0002. E tuttavia, in tempi di nazionalismo militante, in Europa gli ebrei divennero il principale bersaglio della propaganda antipatriottica, che non teneva in alcun conto la lealtà dimostrata verso i rispettivi paesi. In Francia e in Inghilterra, dove la comunità ebraica era in gran parte di recente immigrazione, gli ebrei vennero accusati di non essere sufficientemente francesi o inglesi. In Inghilterra in particolare, dove, a seguito dell'introduzione della coscrizione obbligatoria nel 1916, circa 30.000 giovani ebrei nati nell'impero zarista furono tra i pochissimi a essere esentati perché residenti stranieri, essi attirarono l'attenzione e spesso il biasimo della loro stessa comunità. Nonostante dichiarassero lealtà nei confronti delle rispettive patrie, gli ebrei spesso venivano accusati di cosmopolitismo, di mantenere legami con i loro paesi d'origine o con i paesi dei loro genitori, di essere fedeli alle comunità ebraiche dei paesi nemici. Gli ebrei che combattevano nelle file dell'Intesa potevano forse essere alleati fedeli di uno Stato russo che vantava una lunga tradizione antisemita? Potevano combattere con convinzione contro il nemico tedesco quando molti di loro avevano radici tedesche o consideravano la Germania patria della cultura ebraica moderna? Alcuni ebrei, come Eduard Bernstein, esponente del Partito socialdemocratico tedesco, identificandosi nella natura cosmopolita attribuita alla comunità ebraica ritenevano che proprio gli ebrei, per il loro carattere internazionale e per la loro tradizionale funzione di mediatori, fossero nella posizione migliore per porre fine al conflitto bellico. Bernstein auspicava un'iniziativa ebraica volta a promuovere la pace tra gli opposti schieramenti3. Tuttavia solo un'esigua minoranza, sia tra gli ebrei sia tra i gentili, faceva propri i richiami alla pace. Più comunemente, gli ebrei reagivano alle accuse antisemite con rinnovato patriottismo. Tale atteggiamento era ancor più evidente in Germania, dove la delusione seguita all'esperienza bellica aveva colpito una delle comunità ebraiche meglio assimilate d'Europa. L'imperatore Guglielmo II, nel suo appello a favore di una “tregua civile”, aveva inizialmente dichiarato che nel suo impero vi erano solo tedeschi e che non esistevano specificità o divisioni. Il più illustre pensatore ebreo tedesco, il filosofo Hermann Cohen, si dichiarava orgoglioso di assistere all'ora eroica della Germania. Nel saggio del 1915 Deutschtum und Judentum 4, egli espresse la propria convinzione nella validità di una simbiosi culturale ebraico-tedesca. Secondo Cohen, in tempo di guerra gli ebrei tedeschi avevano lo speciale compito di diffondere la supremazia della cultura germanica tra le comunità ebraiche degli altri paesi europei cosicché, una volta riconosciuta la particolare affinità esistente tra etica ebraica e filosofia tedesca, anche gli ebrei di Francia e Inghilterra, come quelli di Russia e Stati Uniti, avrebbero guardato alla Germania come alla propria “patria spirituale”. Con minore enfasi spirituale, il poeta nazionalista ebreo tedesco Ernst Lissauer profuse le proprie energie nella composizione di canti di guerra, come per esempio il famigerato Canto dell'odio contro l'Inghilterra (1915). Non solo ebrei liberali e nazionalisti tedeschi si dimostravano favorevoli al conflitto, ma anche molti ortodossi e sionisti. Se da una parte i socialdemocratici rispondevano prontamente alla chiamata alle armi dell'imperatore, dall'altra i sionisti tedeschi volevano dimostrare che anche loro avrebbero fatto il proprio dovere di soldati, tanto che un gruppo di sionisti ritornò dalla Palestina per combattere nell'esercito della madrepatria tedesca. La Prima guerra mondiale produsse in realtà un cambiamento decisivo nello sviluppo delle relazioni tra ebrei e tedeschi, ma non nella direzione auspicata dalla comunità ebraica. Invece di portare all'accettazione sociale degli ebrei, la guerra fu causa di una cocente disillusione. Tra i ricordi indelebili della guerra per gli ebrei tedeschi vi fu l'antisemitismo vissuto nelle trincee, che indusse alcuni ad abbracciare il sionismo. Coloro che erano già sionisti e avevano inizialmente accolto con favore la guerra, come per esempio lo scrittore Arnold Zweig, espressero crescenti dubbi sull'opportunità dell'impegno profuso dagli ebrei a favore di uno stato tedesco che nel 1916 aveva sottoposto i soldati israeliti a un particolare censimento, la cosiddetta “conta degli ebrei”. È inoltre assai significativo che ebrei liberali come lo scrittore Georg Hermann ritenessero non vi fosse più alcuna speranza in un esito positivo del processo di assimilazione. In un saggio toccante, l'autore di Jettchen Gebert (1906), romanzo allora assai popolare che racconta dell'esperienza di assimilazione di una famiglia di ebrei berlinesi, confessò che l'essersi identificato per tutta la vita con il carattere e la cultura tedeschi non era stata che un'illusione: “Che lo vogliamo o no”, scrisse un anno dopo la fine della guerra, “abbiamo dovuto riscoprire il nostro giudaismo [...]. Siamo stati enormemente disillusi dai tedeschi e continuiamo a esserlo”5. In Francia non si riscontravano giudizi altrettanto negativi, ma molti personaggi pubblici esprimevano il sospetto che l'idea di union sacrée non fosse universalmente condivisa e che gli ebrei immigrati dall'Europa orientale fossero divenuti il bersaglio preferito dell'antisemitismo. Inoltre, sebbene durante la guerra gli ebrei arruolati negli eserciti delle varie nazioni avessero in realtà combattuto gli uni contro gli altri, il conflitto paradossalmente favorì il rafforzamento dei legami di solidarietà tra le diverse comunità ebraiche d'Europa. Solo poche settimane dopo lo scoppio della guerra, Martin Buber, in un discorso pubblicato in seguito come saggio d'apertura in “Der Jude”, il giornale da lui stesso fondato, prevedeva il rafforzarsi della solidarietà comunitaria tra gli ebrei tedeschi, esprimendosi in questi termini: Nella tempesta degli eventi l'ebreo ha potuto davvero sperimentare cosa significhi essere una comunità [Gemeinschaft ] [...]. La debolezza fondamentale dell'ebreo occidentale non consisteva nell'essere “assimilato”, ma nell'essere frammentato; egli non aveva legami [con la comunità ebraica], il suo cuore non batteva più all'unisono con una Gemeinschaft vivente [...], era escluso dalla vita della gente e dalla loro sacra Gemeinschaft. Il giudaismo non era più radicato e le radici divelte [Luftwurzeln ] della sua assimilazione non ricevevano più alcun nutrimento. Ma ora, nell'esperienza comune di questi eventi catastrofici, l'ebreo ha scoperto con stupore e gioia la grande vitalità della Gemeinschaft. E [tale scoperta] l'ha conquistato6. Con l'incontro tra ebrei tedeschi ed ebrei dell'Europa orientale si moltiplicarono gli sforzi a favore di questi ultimi nel tentativo di alleviarne le precarie condizioni economiche, e negli anni del conflitto sia in Germania sia in altri paesi occidentali vennero fondate a tale scopo numerose associazioni. L'incontro tra ebrei occidentali e orientali ebbe come ulteriore risultato l'idealizzazione e la glorificazione della vita delle comunità ebraiche dell'Europa orientale, descritta nei resoconti di guerra e di viaggio. Uno dei racconti più vividi della vita degli ebrei orientali, vista con gli occhi dei soldati ebrei tedeschi, fu quello di Arnold Zweig nel suo Das ostjüdische Antlitz (1919; Il volto degli ebrei orientali), con illustrazioni di Hermann Struck. Il loro messaggio era semplice: solo nell'Europa dell'est era possibile trovare ancora ebrei che potessero dirsi veramente tali, mentre gli israeliti che vivevano nei paesi occidentali erano diventati “non-ebrei”. In Francia, alcune organizzazioni ebraiche quali un'associazione per il sostegno delle vittime di guerra, fondata nel 1916, e l'Alliance Israélite Universelle distribuivano fondi agli ebrei dell'Europa orientale. L'Alliance in particolare era attiva anche sul fronte diplomatico e si adoperava nel tentativo di migliorare lo statuto giuridico degli ebrei in stati come Russia e Romania. Se si considera nel suo complesso l'intera comunità ebraica europea, furono sicuramente le grandi masse di ebrei orientali a pagare il maggior tributo alla guerra. Nell'aprile del 1915 l'esercito russo ordinò l'espulsione dalla Lituania di gran parte degli ebrei, costringendo centinaia di migliaia di persone ad abbandonare le proprie case. Ciò fece seguito alla fuga degli ebrei dalla Galizia, in fuga dall'esercito zarista, episodio che risale all'inizio del periodo bellico. Le malattie, la fame, i pogrom causarono la morte di un numero imprecisato di ebrei dell'Europa orientale. Con la caduta dello zar, nel 1917, gli ebrei russi godettero di un breve periodo di tregua, ma all'indomani della guerra e della Rivoluzione l'antisemitismo tornò a manifestarsi con rinnovata e inedita violenza. Come già sottolineato, uno degli esiti della guerra fu la dissoluzione degli imperi multinazionali di Turchia, Austria-Ungheria e Russia e la costituzione o la ricostituzione di stati-nazione o di stati che almeno sulla carta si definivano tali, come Polonia, stati baltici, Jugoslavia, Cecoslovacchia e Romania, che aveva notevolmente allargato i propri confini. Con questa trasformazione il ruolo degli ebrei d'Europa, in precedenza sudditi degli imperi zarista, ottomano e asburgico, divenne assai meno definito rispetto al passato e assai più incerto. Negli stati di nuova formazione, in cui la nazionalità dominante non rappresentava comunque più dei due terzi dell'intera popolazione, ebrei e altre minoranze erano considerati estranei. Ma a differenza delle minoranze tedesche, ungheresi, lituane o russe, gli ebrei non avevano una nazione alla quale appellarsi per salvaguardare i propri interessi. Negli stati costituitisi secondo il principio di nazionalità create artificialmente, come nel caso di Cecoslovacchia o Jugoslavia, gli ebrei erano invece spesso considerati i soli veri rappresentanti di quella nazionalità, così come erano ritenuti gli unici veri “sovietici” in Unione Sovietica. In Europa tale percezione era ampiamente diffusa e oggetto di motti di spirito. In Belgio si raccontava a titolo di battuta che, in occasione di una cerimonia nazionale, quando era stato detto ai valloni di allinearsi a sinistra e ai fiamminghi di allinearsi a destra, il signor Goldberg, al centro dei due schieramenti, avesse chiesto: “E i belgi dove devono mettersi?” Al contempo, l'emergente nazionalismo di Germania, Italia, Ungheria e altri Stati-nazione dell'Europa centrale poneva nuove minacce al ruolo degli ebrei nella società. Solo a partire da queste considerazioni è possibile comprendere il crescente riconoscimento del sionismo sia a livello diplomatico sia in termini di movimento politico. La dichiarazione di Balfour, del novembre 1917, rappresentò la tappa fondamentale di questo processo giacché il governo britannico, che si preparava ad assumere il mandato sulla Palestina, fu la prima grande potenza a riconoscere il legittimo diritto del popolo ebraico alla terra dei propri avi. Alla vigilia della Prima guerra mondiale gli ebrei che vivevano nei Balcani avevano avuto una dimostrazione di ciò che avrebbe poi significato la ridefinizione su base etnica dei confini europei. Durante le guerre balcaniche del 1912 e del 1913 centinaia di migliaia di rifugiati turchi erano fuggiti a est e, al contempo, intere comunità greche dell'Anatolia occidentale vennero espulse e trasferite in Grecia. Salonicco, che passò dal dominio ottomano a quello greco, ospitava una delle più vaste comunità ebraiche d'Europa. Gli ebrei di Salonicco, che costituivano l'etnia più numerosa della città, seguiti da greci e turchi, dovettero pertanto scegliere se rimanere nel luogo dove avevano vissuto per secoli o trasferirsi altrove, nell'impero che aveva accordato ai loro padri asilo e una relativa tolleranza, dopo che questi erano stati espulsi dalla penisola iberica. Il caso di Salonicco esemplifica un problema più generale che caratterizzò gli anni tra le due guerre nell'Europa orientale. Chi o che cosa erano gli ebrei e come potevano integrarsi nel nuovo ordine degli Stati-nazione? I greci di Salonicco erano cristiani ortodossi, i turchi erano musulmani, ma gli ebrei erano solo ebrei. Lo stesso discorso vale per la Polonia, dove i polacchi erano cristiani cattolici mentre i tedeschi erano protestanti e gli ucraini erano cattolici greci oppure ortodossi orientali. Ma gli ebrei si definivano tali sia in termini di nazionalità sia di confessione religiosa, pertanto il loro status di minoranza era unico, il che non favoriva la loro integrazione. Nelle parole pronunciate nel 1925 dal rappresentante ungherese alla Lega delle Nazioni, emblematiche della situazione generale degli ebrei d'Europa negli anni tra le due guerre, si legge un'evidente incertezza sulla questione delle minoranze ebraiche: egli ritiene che gli ebrei siano in parte una razza, in parte un gruppo religioso, in parte una nazionalità e che “in virtù della posizione unica che gli ebrei occupano in tutto il mondo, non è possibile definire una minoranza ebraica allo stesso modo di altre minoranze”7. Sebbene tali atteggiamenti potessero difficilmente dirsi positivi per gli ebrei d'Europa, sarebbe un errore non ammettere che nell'ordine postbellico si nutrisse anche la speranza di un futuro migliore. Per la prima volta nella storia alcuni stati, come la Germania di Weimar, permisero agli ebrei di occupare posizioni preminenti nella politica e nell'amministrazione del paese, mentre altri, soprattutto nell'Europa centrorientale, furono spinti, almeno in teoria, a concedere alle minoranze ebraiche ampi diritti di autonomia. In Russia, all'odiato regime zarista si sostituì un nuovo corso di governo, che almeno a parole bandì l'antisemitismo, mentre il sionismo ottenne un importante riconoscimento diplomatico grazie all'accettazione da parte della Lega delle Nazioni dei principi della dichiarazione di Balfour del novembre 1917, anche se né la Gran Bretagna, né la stessa Lega delle Nazioni realizzarono mai quelle promesse. Dovendo riassumere quello che l'esperienza della guerra significò per gli ebrei, non ci si può dunque limitare a raccontare esclusivamente una storia di emarginazione e declino, poiché ciò non renderebbe giustizia alla realtà degli eventi, che richiedono una spiegazione ben più complessa. Durante la guerra gli ebrei cercarono in tutti i modi di farsi apprezzare, ma ciò che ottennero fu di essere a malapena riconosciuti come popolo. Gli sforzi e l'impegno profusi nel conflitto bellico scaturivano direttamente dal cuore, ma più spesso l'accettazione degli ebrei quali cittadini degli stati dell'Europa fu una pura questione di calcolo. Mentre gli ebrei scrissero con il sangue il loro amore per le rispettive patrie, i proclami con cui si sancì il loro status all'indomani della guerra spesso non si rivelarono altro che carta straccia. ⋅ Una sola comunità ebraica europea? Esperienze comuni e differenze. | In nessuna occasione storica gli ebrei avevano combattuto tra loro su così vasta scala come era avvenuto nel corso della Prima guerra mondiale. Una volta deposte le uniformi austriache e russe, francesi e romene, i sentimenti di lealtà verso le rispettive patrie non scomparvero: tuttavia l'esperienza della guerra e dell'immediato dopoguerra pareva avere rafforzato i legami di solidarietà fra gli ebrei delle varie nazioni. Oltre all'emozione spesso suscitata dall'incontro tra ebrei d'Oriente e d'Occidente, è innegabile che il crescente antisemitismo da una parte e il nazionalismo dall'altra ebbero parte in questi sviluppi. Nei disordini rivoluzionari e post-rivoluzionari degli anni compresi tra il 1917 e il 1920, gli ebrei si trovarono al centro di eventi sanguinosi, sia nei paesi dell'Europa centrale sia in quelli dell'Europa orientale. I rivoluzionari di estrazione ebraica furono spesso identificati con la sinistra radicale. A chi nutriva sentimenti antisemiti non importava che Rosa Luxemburg avesse rinnegato i propri legami con la comunità ebraica, né che gli ebrei di Budapest e Monaco avessero preso le distanze dai leader di origine ebraica delle effimere repubbliche sovietiche ungherese e bavarese, come Béla Kun o Eugen Leviné. A nulla valse che Lev Davidovicc Bronìtein avesse cambiato il proprio nome in Trotskij e avesse tagliato tutti i ponti con il giudaismo. Come si soleva dire, i Trotskij potevano rivoltare il mondo, ma sarebbero poi stati i Bronìtein a pagarne le conseguenze. Ciò che le masse notavano era che, per la prima volta nella storia, leader ebrei sembravano essere alla guida del destino di molti stati d'Europa. Persino Thomas Mann parlò di “giovinastri ebrei” [Judenbengel ] alla guida di un “governo ebreo” [Judenregiment ] e l'8 novembre 1919, giorno di inizio della rivoluzione che avrebbe fatto di Kurt Eisner il primo Primo ministro ebreo di uno Stato tedesco, egli scrisse nel suo diario: “Monaco, come la Baviera, governata da scrittori ebrei. Per quanto potrà sopportarlo?” E pochi giorni dopo, pensando a come difendersi da eventuali accuse, aggiunte “Sentite, io non sono ebreo, non sono un vincitore della guerra, né alcuna altra cosa negativa del genere”8. Tra le due guerre gli ebrei si trovarono spesso in prima linea, e non solo perché esponenti di spicco nel campo della politica. Molti furono coinvolti nelle guerre civili scoppiate all'indomani della nascita dell'Unione Sovietica, della Polonia e della breve esperienza indipendentista dell'Ucraina. Mentre a Parigi si ratificavano i trattati di pace, la popolazione civile dell'Europa orientale subiva i più terribili massacri e gli ebrei ne erano le principali vittime. In Ucraina, dove gli ebrei avevano sperato nella nascita di una repubblica multinazionale che garantisse loro il diritto all'autonomia nazionale, dopo un primo governo all'apparenza favorevole alla causa ebraica fece seguito un secondo regime assai meno tollerante e poi un terzo, guidato da Semyon Petlyura, che divenne il simbolo di un rinnovato antisemitismo. Dopo l'esperienza del regime di Petlyura, qualsiasi cambiamento sarebbe stato accolto con favore: nell'estate del 1919 il numero di civili ebrei uccisi dalle forze ucraine aveva già raggiunto i 30.000 individui e l'arrivo dell'Armata Rossa fu salutato con favore, anche da chi aborriva l'ideologia comunista. Ma non tutti dovevano pensarla così se Isaac Babel, l'11 luglio 1929, annotava nel suo diario: “La stessa vecchia storia [...] gli ebrei [...], che si aspettavano la libertà dal regime sovietico, hanno improvvisamente udito urla, schioccare di fruste e grida di ``sporco giudeo''”9. Dopo la fine della Prima guerra mondiale, sebbene l'era industriale stesse avanzando anche nell'Europa orientale, i massacri avvenivano ancora come nella tradizione dei pogrom: gli uomini pugnalati e mutilati, le case incendiate, le donne stuprate. Ciò che cambiò fu il numero delle vittime. Anche i pogrom del passato avevano distrutto la vita di intere comunità, ma mai prima di allora la furia contro gli ebrei orientali si era scatenata con tale violenza. Nel febbraio del 1919, nel pogrom di Proskurov (oggi Hmelnicki), in Ucraina, durante un pomeriggio dello Shabbath [il sabato ebraico, giorno del riposo, N.d.T.] 300 cosacchi uccisero in tre ore quasi 1500 ebrei che si trovavano nelle loro case, poi si spostarono verso i villaggi vicini al fine di perpetrare ulteriori massacri contro una popolazione che si riteneva avesse appoggiato i bolscevichi. Nel 1919 anche in Polonia si contavano già 106 pogrom, concentrati soprattutto in Galizia, ma anche nella città di Lódź.10 Nell'Europa occidentale non si ebbero massacri di tale entità, ma vi furono ugualmente alcuni episodi assai significativi. In Germania, Walther Rathenau, il più importante degli ebrei tedeschi, venne assassinato da estremisti di destra nel 1922, solo quattro mesi dopo aver assunto la carica di ministro degli Esteri. In Francia, dove l'antisemitismo era rimasto latente sin dal processo Dreyfus, si levarono contro gli ebrei voci sempre più violente mentre il libello antisemita I protocolli degli Anziani di Sion veniva distribuito liberamente. In Gran Bretagna, dove moltissimi ebrei erano immigrati recentemente dall'Europa orientale, iniziavano a serpeggiare sentimenti di intolleranza. Più che il senso di appartenenza a una stessa confessione o origine, fu la comune minaccia dell'antisemitismo a rinsaldare i legami tra gli ebrei d'Europa all'indomani della Prima guerra mondiale. Poco importava se gli ebrei erano cittadini tedeschi o sovietici, se si consideravano francesi o polacchi: era innanzitutto in quanto ebrei che sempre più venivano attaccati in tutta Europa. L'approfondirsi del loro legame con il giudaismo come reazione all'antisemitismo fu percepibile anche tra gli elementi più integrati nelle società del tempo. Kurt Eisner, che nel 1918 era Primo ministro del neonato governo bavarese, dichiarò che fino a quando gli ebrei fossero stati perseguitati egli si sarebbe considerato ebreo; il compositore austriaco Arnold Schönberg, convertitosi nel 1898 al protestantesimo, negli anni Venti riscoprì gradualmente le proprie radici ebraiche, a seguito di un episodio razzista di cui era stato vittima (non gli fu concesso di soggiornare in una famosa località termale austriaca a causa del cognome ebraico); dopo che alcuni antisemiti scoprirono le sue origini ebraiche, il famoso scrittore Emil Ludwig dichiarò di voler riprendere nuovamente il proprio cognome originale, Cohn. Oltre all'antisemitismo, non sembravano esservi molti altri elementi di unione tra le varie comunità ebraiche d'Europa e sarebbe certamente fuorviante parlare di un'unica comunità ebraica europea invece che, più genericamente, di ebrei che vivevano in Europa. Le differenze esistenti tra le varie comunità ebraiche divennero evidenti durante i negoziati di pace di Parigi del 1919. Mentre i delegati dell'Europa orientale si batterono perché agli ebrei venisse riconosciuto lo status di minoranza nazionale e ampie autonomie, i delegati ebrei britannici e francesi si opposero a tale risoluzione, sostenendo che gli ebrei rappresentavano una minoranza in termini di confessione religiosa, ma non di nazionalità. Evidentemente, gli atteggiamenti delle varie delegazioni altro non riflettevano che il diverso grado di assimilazione ed emancipazione raggiunto nel tempo dall'ebraismo europeo a partire dalla Rivoluzione francese, quando per la prima volta furono garantiti agli ebrei i diritti di cittadinanza. Nei paesi dell'Europa centroccidentale dove aveva preso avvio il processo di emancipazione si era delineata una ridefinizione dell'identità ebraica su base puramente confessionale. Gli ebrei parlavano la lingua dei loro compatrioti non ebrei e ne accettavano in gran parte la cultura, distinguendosi unicamente per la religione praticata. Diversa era la situazione nell'Europa orientale, dove gli israeliti, rimasti un gruppo distinto anche in termini di nazionalità, avevano mantenuto costumi collettivi che andavano al di là delle usanze religiose ed erano spesso riconoscibili per la loro lingua (yiddish, o ladino nei Balcani), l'abbigliamento, la concentrazione in determinati quartieri, o il tipo di mestieri che esercitavano. È vero che all'inizio del XX secolo queste peculiarità stavano lentamente iniziando a scomparire, ma alla vigilia della Seconda guerra mondiale esse caratterizzavano ancora molti degli ebrei dell'Europa orientale e sudorientale. Il contrasto tra due diversi stili di vita degli ebrei, quello occidentale e quello orientale, spesso attraversava i nuovi stati creati dall'ordine postbellico. Esemplare il caso della Cecoslovacchia, dove gli ebrei boemi appartenevano al modello di acculturazione occidentale mentre le comunità orientali della Rutenia subcarpatica avevano molti più punti in comune con gli ebrei polacchi o russi. Quando nel censimento del 1921 venne chiesto di dichiarare la propria nazionalità, meno del 15% degli ebrei boemi (di religione ebraica) si definì di nazionalità ebraica (la maggior parte di loro si considerava di nazionalità cecoslovacca o tedesca) mentre circa l'87% degli ebrei della Rutenia subcarpatica si dichiarò invece di nazionalità ebraica (il restante 13% si definiva principalmente ungherese). Nelle regioni centrali della Moravia e della Slovacchia circa la metà degli ebrei che si definivano tali per confessione religiosa si riteneva anche di nazionalità ebraica. Mentre la Cecoslovacchia era uno stato nuovo, creato artificialmente, la Romania esisteva già prima della guerra, sebbene dopo il conflitto i suoi confini risultassero notevolmente estesi a spese di Ungheria e Bulgaria. Le antiche comunità ebraiche delle terre romene del Regat, il cui stile di vita era di tipo occidentale, si trovarono pertanto a convivere con le comunità orientali della Moldavia, della Bucovina, della Bessarabia e della Transilvania. Così come nel caso della Cecoslovacchia, era dunque difficile parlare di un'unica comunità ebraica romena. Lo stesso può dirsi per la Polonia, dove viveva la maggiore e più attiva comunità ebraica d'Europa. Lo stato polacco ricostituitosi dopo la Prima guerra mondiale era formato da regioni precedentemente inglobate in imperi diversi in cui gli ebrei avevano vissuto destini diversi. Gli ebrei più acculturati vivevano nelle estreme regioni occidentali di Poznań e della Slesia (sebbene prima dello scoppio della guerra molti di loro avessero già abbandonato queste terre per trasferirsi a Berlino o in altre città tedesche), sotto il dominio prussiano. Lo stile di vita degli ebrei di Galizia era di tipo orientale, ma sotto il benevolo dominio dell'imperatore austriaco Francesco Giuseppe essi avevano goduto di privilegi maggiori rispetto agli ebrei polacchi che prima della costituzione della Polonia si trovavano sotto l'impero zarista. Anche in questo caso non è dunque possibile parlare di un'unica, definita comunità polacca: gli hassidim di Galizia potevano sentire di avere legami più profondi con gli hassidim della Bessarabia (annessa ora alla Romania) che con i mitnagdim di Vilnius (i quali, dopo la restaurazione, si trovavano separati dal resto degli ebrei lituani) [hassidim e mitnagdim sono correnti dell'ebraismo ortodosso dell'Europa orientale, N.d.T.]; un ebreo di Poznań con padronanza del tedesco si sentiva probabilmente più affine a un ebreo berlinese che a un ebreo di Biaystok, mentre un ebreo di Cracovia che leggesse correntemente il giornale ebraico polacco poteva non riuscire a comunicare con un ebreo di uno shtetl [villagio ebraico dell'Europa orientale, N.d.T.] dell'Ucraina orientale che parlava solo yiddish, poiché non necessariamente avevano una lingua in comune. Tra gli ebrei d'Europa esistevano dunque moltissime divergenze, all'apparenza difficili da ricomporre. Quale paese avrebbero scelto come loro futura patria? Europa o America, Unione Sovietica o Palestina? Che lingua avrebbero dovuto studiare i bambini a scuola, l'yiddish o l'ebraico? Quali movimenti politici avrebbero appoggiato? Il comunismo, il socialismo, il liberalismo, i vari nazionalismi o il sionismo? Quale forma di ebraismo avrebbero praticato? Tradizionalista, ortodosso, riformato – o forse non l'avrebbero praticato affatto? Se queste erano solo alcune delle differenze tra gli ebrei d'Europa, vi era qualcosa che li univa, a parte la lotta contro un nemico comune? Senza dubbio l'identità ebraica non coincideva più con la mera confessione religiosa, né si rivelava in un palese e ben definito sentimento di appartenenza a una nazione ebraica. Se nell'Europa dell'Est fiorivano sentimenti nazionalisti, nell'Europa occidentale vi erano dei tentativi volti a delineare, seppur ancora in maniera imprecisa, una qualche linea di identificazione comune, forse accentuata dall'antisemitismo, ma non definita da questo. Sigmund Freud, in una lettera del 1926 alla loggia viennese dell'associazione B'nai Brith, esprimeva il complesso punto di vista di molti ebrei occidentali: Ciò che mi legava all'ebraismo non era [...] la fede, e nemmeno l'orgoglio nazionale [...]. Ho sempre cercato di reprimere l'orgoglio nazionale, quando ne sentivo l'inclinazione, come qualcosa di calamitoso e di ingiusto, spaventato dagli esempi ammonitori dei popoli in mezzo ai quali gli ebrei vivono. Ma tante altre cose rimanevano che rendevano irresistibile l'attrazione per l'ebraismo e gli ebrei, molte oscure potenze del sentimento, tanto più possenti quanto meno era possibile tradurle in parole, così come la chiara consapevolezza di un'identità interiore, la familiarità che nasce dalla medesima costruzione psichica11. Sebbene in Francia come in Germania, in Ungheria come in Romania, gli ebrei si definissero ufficialmente sulla base del credo religioso come cittadini di fede mosaica, persino i maggiori esponenti delle organizzazioni ebraiche più assimilazioniste adottarono una definizione di ebraicità più ampia e al contempo più vaga. In Germania per esempio, Ludwig Holländer, una delle figure di spicco della principale organizzazione ebraica del tempo, l'Associazione centrale dei cittadini tedeschi di fede ebraica [Centralverein deutscher Staatsbürger jüdischen Glaubens ], in un discorso del 1928 affermava chiaramente che la maggior parte degli ebrei tedeschi apparteneva a una “comunità senza fede” piuttosto che a una “comunità di fede”. Egli si dichiarava pertanto favorevole a una comunità definita su base etnica. Una posizione simile fu espressa nel 1927 da Horia Carp, delegato dell'Unione degli ebrei romeni [Uniunea Evreilor Romani ] al senato della Romania, il quale dichiarò che gli ebrei non si consideravano più un gruppo esclusivamente religioso, ma un gruppo etnico particolare. Entrambi sottolineavano comunque la propria lealtà alle rispettive patrie e i profondi legami con i popoli tedesco e romeno12. Consideriamo infine i due milioni e mezzo di ebrei sovietici la cui vita, rispetto a quella di tutte le comunità ebraiche finora citate, subì un tragico processo di trasformazione. Se nell'impero zarista gli ebrei avevano spesso viste minacciate le loro proprietà e la loro stessa incolumità fisica, il nuovo regime sovietico minacciò le pratiche religiose e l'esercizio di alcune professioni. Come era accaduto in altre regioni d'Europa, gli ebrei si destarono presto dalle illusioni in cui si erano cullati. Tuttavia, la speranza di giorni migliori non si infranse immediatamente: il 20 marzo 1917, il governo provvisorio russo concesse diritti civili a tutti i cittadini e il breve periodo che precedette la Rivoluzione d'Ottobre parve l'inizio di una nuova era, non solo per gli ebrei russi, ma per tutti coloro che in passato avevano subito pesanti discriminazioni. Inoltre, all'inizio del governo di Lenin, il nuovo regime ripudiò con vigore l'antisemitismo e durante questo breve periodo la cultura ebraica secolare conobbe una breve fase di fioritura. Come nella Germania di Weimar, gli ebrei occuparono ruoli di rilievo nella politica (nel 1917, dei ventuno membri del Comitato centrale del Partito comunista cinque erano ebrei), nell'esercito e nell'apparato statale: eventi del tutto nuovi rispetto al regime zarista. 0001000140 ‣ Città e villaggi: luoghi e modi di vita . Negli anni tra le due guerre l'Europa ospitava ancora la maggior parte della popolazione ebraica del mondo, ma questa situazione stava subendo alcuni mutamenti. Se nel 1900 più dell'82% della popolazione ebraica viveva in Europa (il 69% nell'Europa orientale), nel 1925 la percentuale era scesa al 62% (il 51% nell'Europa orientale) e nel 1939 al 57% (46% in Europa orientale)13. Luoghi privilegiati dell'emigrazione furono gli Stati Uniti, dove si formarono comunità ebraiche di notevoli dimensioni e, in misura minore, la Palestina. Negli anni Trenta le due città che contavano la più vasta popolazione ebraica erano New York e Chicago, seguite da Varsavia, Budapest, Vienna, Odessa, Londra e Berlino. Tra il 1914 e il 1939 in Europa vivevano dai nove ai dieci milioni di ebrei. Il gruppo più numeroso si trovava in Polonia, con tre milioni di ebrei (pari al 10% della popolazione totale del paese), e nella parte europea dell'Unione Sovietica (2,7 milioni, pari al 2%). Seguivano poi Romania (1,1 milione, 6,2%), Germania (600.000, pari allo 0,9%) e Ungheria (470.000, pari al 6%). Come si può dedurre già da queste cifre la divisione tra Europa orientale e occidentale era piuttosto netta; mentre nell'Est europeo gli ebrei rappresentavano una percentuale piuttosto consistente sul totale della popolazione, procedendo verso Ovest tale percentuale diminuiva costantemente: 0,9% in Germania, 0,7% in Gran Bretagna (290.000), 0,4% in Francia (160.000), 0,1% in Italia (45.000) e 0,02% in Spagna (4000) e in Portogallo (2000). L'unico paese dell'Europa occidentale ad avere una percentuale superiore all'1% erano i Paesi Bassi (115.000 ebrei, pari all'1,7% della popolazione olandese)14. Continuando un processo avviato nel XIX secolo, la popolazione ebraica europea si stava rapidamente inurbando: se a metà del XIX secolo gli ebrei vivevano soprattutto in villaggi di campagna, negli anni Venti del XX secolo la popolazione ebraica era la più urbanizzata d'Europa e tale fenomeno si osserva sia nell'Europa orientale sia nell'Europa occidentale. Per esempio, la comunità ebraica di Lódź, 2700 unità nel decennio 1850-60, passò alle oltre 150.000 unità nel decennio 1920-30. Negli stessi periodi, la popolazione ebraica di Mosca aumentò da 300 a 132.000 unità, quella di Vienna da 4000 a 200.000, quella di Berlino passò da 10.000 a 170.000, quella di Londra da 6000 a quasi 200.000. Negli anni Trenta gli ebrei che vivevano nell'Europa centroccidentale si concentravano soprattutto nelle grandi città e, per quanto riguarda alcuni stati, soprattutto nella capitale, come nel caso di Danimarca (92%), Francia (70%), Austria (67%), Inghilterra (67%) e Olanda (60%). In Germania, nel 1933, il 55% della popolazione ebraica era concentrata in dieci città; in Unione Sovietica, dove, fino alla generazione precedente gli ebrei erano vissuti prevalentemente in aree rurali, alla vigilia della Seconda guerra mondiale il 40% degli ebrei viveva nelle sei città di Mosca, Leningrado, Odessa, Kiev, Harkov e Dnepropetrovsk. Di conseguenza, i villaggi di campagna e le cittadine abitati nel corso del XIX secolo da una consistente popolazione israelita si svuotarono inesorabilmente. In aree piuttosto vaste di Germania, Cecoslovacchia, Ungheria e nelle regioni francesi di Alsazia e Lorena le comunità ebraiche rurali andarono rapidamente scomparendo. Lo stesso rapido processo di inurbamento si può osservare in Unione Sovietica, dove, come già ricordato, a Mosca, Leningrado, Kiev, e, in misura minore, nella città di Odessa, la popolazione ebraica aumentò considerevolmente, a discapito di numerose comunità di dimensioni minori. Leggermente diverso il caso di Polonia e Lituania, dove rispettivamente il 25% e il 37% della popolazione ebraica continuava a vivere in villaggi e cittadine la cui popolazione complessiva non superava i 10.000 abitanti. Negli anni Venti e Trenta, in molte città europee grandi e piccole, la presenza degli ebrei era percepibile da qualunque visitatore. Vi erano città polacche, rumene e persino sovietiche dove gli ebrei rappresentavano la maggioranza della popolazione. Nel 1923, il 75% degli abitanti di Pinsk (Polonia), il 65% di quelli di Berdiccev (Unione Sovietica) e il 60% di quelli di Chisôinacu e Iasôi (Romania) era ebreo. Persino in alcune cittadine tedesche circa la metà degli abitanti era di origine ebraica, come nel caso di Rhina nella regione dell'Assia. Anche in alcune grandi città di tutta l'Europa la presenza degli ebrei era piuttosto consistente: 33% circa a Varsavia, 25% a Salonicco, 20% a Budapest e oltre 10% ad Amsterdam, Vienna e Sofia. A Francoforte gli ebrei costituivano solo il 6% della popolazione totale e nessun'altra grande città della Germania contava una popolazione ebraica altrettanto numerosa. Come nelle altre città europee, anche a Francoforte gli ebrei vivevano nei quartieri della media e alta borghesia, ma, a differenza dei loro più tradizionalisti correligionari dell'Europa orientale, erano meno visibili. In tutte le città, anche laddove gli ebrei erano maggiormente assimilati, la loro presenza diventava però evidente in occasione dello Yom Kippur, il giorno dell'espiazione, quando le principali aree commerciali apparivano improvvisamente deserte. Spesso le comunità ebraiche costituivano una sorta di “città nella città”. Gli ebrei avevano scuole, istituzioni sociali, programmi culturali e associazioni sportive propri. A Salonicco, dove negli anni precedenti la Prima guerra mondiale la comunità ebraica era assai numerosa, le banche e il porto erano chiusi il sabato; dopo la guerra erano ancora circa 30.000 gli ebrei che vivevano in città e che gestivano più di trenta sinagoghe, numerosi ospedali, farmacie e una vasta rete di scuole fondate principalmente da organizzazioni ebraiche, quali la francese Alliance Israélite Universelle o la tedesca Hilfsverein der deutschen Juden. La struttura delle comunità ebraiche differiva a seconda dei vari paesi europei. In Germania la separazione tra Stato e religione era assai meno accentuata rispetto a Gran Bretagna e Francia, dove le associazioni di natura religiosa si reggevano unicamente su base volontaria ed erano quasi associazioni private. In Germania, le comunità ebraiche percepivano invece dallo Stato una certa somma per ogni loro membro, in relazione alle imposte sul reddito che ciascun ebreo versava nelle casse statali. Sebbene nella Germania di Weimar fosse possibile dissociarsi ufficialmente da una comunità ebraica rimanendo comunque ebrei, ciò implicava comunque una decisione volontaria; in caso contrario ogni bambino la cui madre facesse parte di una comunità ebraica ne diventava anch'egli automaticamente membro. In questo contesto le leggi corporative della kehillah [termine ebraico che significa “comunità”, N.d.T.] tradizionale antecedenti l'emancipazione avevano ancora un peso rilevante in Germania, assai più che in altri paesi dell'Europa occidentale. La struttura occupazionale della popolazione ebraica differiva anch'essa significativamente nelle diverse regioni d'Europa. Vi erano innanzitutto alcune peculiarità a livello locale, rappresentate per esempio dai lavoratori portuali di Salonicco, dai tagliatori di diamanti di Amsterdam e Anversa, o dai mercanti di bestiame della Germania meridionale e dell'Alsazia. In generale, ovunque in Europa gli ebrei erano principalmente dediti al commercio, mentre un'esigua minoranza lavorava nell'agricoltura. In Polonia circa il 33% degli ebrei esercitava professioni legate al commercio, mentre solo il 2% della popolazione polacca non ebrea era impiegata in tale settore; in Romania tali percentuali erano 38% e 2%, in Ungheria 44% e 4%, in Germania 55% e 8%. In alcune regioni, come la parte cecoslovacca della Rutenia subcarpatica, circa il 90% di tutte le attività commerciali locali era di proprietà ebraica, mentre in Polonia tale percentuale superava il 60%. Qui non vi era una distribuzione regolare tra i vari tipi di commerci: circa l'80% delle pelletterie, il 70% delle gioiellerie e i due terzi delle attività nei settori tessile e calzaturiero appartenevano a ebrei, mentre la loro presenza nei commerci di generi alimentari era trascurabile. Anche a Budapest, nel 1925, il 90% di tutte le attività commerciali riguardanti il tessile, la pelletteria e l'arredamento apparteneva a ebrei. Si nota tuttavia un declino rispetto alla situazione prebellica. Per esempio, a Varsavia la percentuale di ebrei dediti al commercio passò dall'80% nel 1882 al 62% nel 1920 e a Budapest dal 62% nel 1900 al 50% nel 1920. In Unione Sovietica si assistette, per contro, a una rapida proletarizzazione della popolazione ebraica, tanto che tra il 1926 e il 1935 il numero di lavoratori manuali ebrei triplicò. Nelle città dell'Europa occidentale, laddove gli ebrei potevano esercitare professioni liberali, la medicina e l'avvocatura erano i settori privilegiati. Agli inizi degli anni Trenta la maggior parte dei medici e degli avvocati di Budapest e Vienna era costituita da ebrei e tale preponderanza si rispecchiava anche nella percentuale di studenti universitari di quelle città. Le perduranti restrizioni nell'esercizio delle funzioni pubbliche contribuirono allo sviluppo delle professioni liberali in seno alle comunità ebraiche. Così, in Ungheria un avvocato su due, ma solo il 4% dei giudici, era di origine ebraica e in Polonia i funzionari municipali o statali raramente erano ebrei. Nei mestieri artigianali vi era una profonda divisione tra Europa orientale e occidentale: mentre in occidente, dove gli ebrei erano stati per secoli esclusi dalle corporazioni, erano pochi quelli che svolgevano un mestiere artigianale, la tradizione dell'Europa orientale era opposta, e la maggior parte degli artigiani ebrei della stessa Europa occidentale era in realtà costituita da immigrati dall'Est europeo. Nei paesi dell'Europa orientale gli artigiani ebrei erano in prevalenza orafi, pellicciai e tessitori. Gli ebrei erano più ricchi o più poveri dei cristiani loro contemporanei? La risposta a questa domanda varia a seconda del gruppo sociale che si considera per il confronto. Si potrebbe infatti confrontare la popolazione ebraica con quella cristiana in generale, considerare solamente la popolazione cittadina oppure paragonare il solo ceto medio di entrambi i gruppi. Utilizzando quest'ultimo criterio, si può affermare che nell'Europa centroccidentale gli ebrei costituivano una popolazione più ricca rispetto ai cristiani. A Budapest due terzi dei cristiani, ma solamente un quarto degli ebrei, vivevano in appartamenti di un'unica stanza mentre il 35% degli ebrei e solo il 15% dei cristiani viveva in appartamenti di tre o più stanze. A Copenaghen coloro che potevano permettersi di avere della servitù erano solo il 13% della popolazione totale, ma il 65% di questi era costituito da ebrei, alcuni dei quali avevano addirittura due o tre domestici. Nelle città tedesche l'ammontare delle imposte versate dagli ebrei era spesso quattro o cinque volte superiore, in termini percentuali, degli importi versati dalla popolazione non ebrea. Tale situazione non rifletteva però le misere condizioni economiche di larghe parti dell'ebraismo dell'Europa orientale. Nel periodo precedente la Prima guerra mondiale circa due milioni di ebrei erano emigrati in America, ma quella porta si era poi definitivamente chiusa a causa delle restrizioni all'immigrazione introdotte dagli Stati Uniti e con esse era svanita la speranza di nuove opportunità. La crisi economica generale che caratterizzò l'Europa tra le due guerre colpì duramente la classe media ebraica e a peggiorare le cose intervennero ulteriori fattori quali l'inasprirsi della pressione politica, l'introduzione di leggi antisemite e di misure discriminatorie antiebraiche. In molte parti d'Europa si organizzarono boicottaggi contro le attività commerciali di proprietà ebraica mentre in Ungheria e Polonia si tentò di porre limitazioni al numero di studenti ebrei, anche se la percentuale di questi in rapporto alla popolazione studentesca totale rimase assai elevata in entrambi i paesi. Ci si potrebbe chiedere perché in questo clima generale di antisemitismo, discriminazione e crisi economica gli ebrei non abbandonassero l'Europa. Non esiste una risposta facile a questa domanda, a meno di non supporre che gli ebrei di allora fossero profeti e potessero prevedere la catastrofe incombente che li avrebbe colpiti. La situazione era più complessa di quanto potesse sembrare a prima vista. Si potrebbe innanzitutto notare, come ha fatto Peter Gay in riferimento alla Germania di Weimar, che gli ebrei si sentivano a casa propria in molte parti d'Europa15. In molti luoghi la comunità ebraica aveva radici più antiche di quella cristiana e si tende forse a dimenticare che, prima di essere sradicati con la forza, gli ebrei erano profondamente legati ai villaggi, alle città, al paese in cui vivevano. Molti ritenevano inoltre che, rispetto alle generazioni precedenti, il loro status sociale ed economico fosse migliorato e consideravano l'antisemitismo una parentesi temporanea. Infine, coloro che volevano lasciare l'Europa l'avevano già fatto prima della guerra; per quelli che ora avrebbero voluto seguirli non era semplicemente più possibile farlo, giacché la via d'accesso agli Stati Uniti era ormai quasi del tutto sbarrata. Sebbene crisi economica e antisemitismo colpissero duramente molti ebrei, essi sapevano di non essere gli unici a subire vessazioni. Gli ucraini in Polonia, gli ungheresi in Romania, i tedeschi in Cecoslovacchia erano tutti consapevoli di appartenere a una minoranza all'interno di stati definiti sulla base dei valori delle rispettive nazionalità dominanti. In una regione cattolica non era sempre piacevole appartenere alla minoranza protestante, e viceversa. Socialisti e nazionalisti si combattevano nelle strade, mentre la crisi economica creava milioni e milioni di disoccupati. In questa prospettiva più generale, le sofferenze patite dagli ebrei, pur con caratteristiche del tutto particolari, facevano parte di una situazione generale ben poco promettente. Per alcuni osservatori di oggi può essere difficile credere che la vita quotidiana degli ebrei non fosse dominata dalle persecuzioni o dalla violenza, sebbene negli anni tra le due guerre gran parte di essi fosse perfettamente consapevole delle minacce teoriche a cui era esposta la propria esistenza fisica ed economica. Esattamente come i loro connazionali non ebrei, gli ebrei erano occupati a guadagnarsi da vivere, facevano parte di una comunità religiosa attiva o di associazioni sportive e culturali. Vi era certamente qualcuno che immaginava il proprio futuro o il futuro dei propri figli oltre Atlantico o sull'altra riva del Mediterraneo, ma la maggior parte di loro si considerava parte integrante della società europea. 0001000140 ‣ Integrazione ed esclusione: la cittadinanza e i suoi limiti . Almeno sulla carta, la condizione giuridica della grande maggioranza degli ebrei d'Europa migliorò notevolmente dopo la Prima guerra mondiale. Se nell'impero zarista o in Romania gli ebrei erano etichettati da numerose limitazioni come cittadini di seconda classe, nel nuovo ordine del dopoguerra la discriminazione su base religiosa fu bandita dalla maggior parte delle Costituzioni. Persino nella Germania imperiale la Costituzione prussiana aveva previsto distinzioni tra cittadini cristiani e non cristiani, e solo nel periodo della Repubblica di Weimar gli ebrei poterono avere accesso alle massime cariche politiche e amministrative. In realtà le promesse ventilate dal nuovo ordine giuridico venivano raramente mantenute, in parte perché in diversi stati la nuova legislazione, soprattutto per quanto atteneva le garanzie per i diritti delle minoranze, veniva attuata solo dietro pressione di paesi stranieri, soprattutto da parte degli Stati Uniti, incontrando uno scarso gradimento in patria. Così avvenne certamente in Polonia e in Romania, gli stati dell'Europa centrorientale in cui la popolazione ebraica era più numerosa. In Unione Sovietica la teorica condanna della discriminazione e dell'antisemitismo presenti nella Costituzione aveva ben poco valore nei confronti della continua attuazione di politiche antiebraiche. Nonostante ciò, sia nella Repubblica di Weimar sia in Unione Sovietica singoli ebrei riuscirono a ottenere posizioni di rilievo tra i dirigenti politici, anche se, in effetti, i casi più noti tramontarono con la stessa rapidità con cui erano sorti ai ranghi più elevati. Nel caso dell'assassinio di Walther Rathenau, importante industriale tedesco (il padre era stato il fondatore della AEG, società generale di elettricità) e ministro degli Esteri, avvenuto nel 1922, l'antisemitismo aveva giocato un ruolo importante, mentre era stato meno esplicito nel caso di Lev Trotskij e di non pochi altri dirigenti comunisti ebrei, assassinati o condannati a morte negli anni del dominio di Stalin. Nella maggior parte dei paesi dell'Europa centrorientale non era neppure pensabile che un ebreo potesse aspirare a posizioni di rilievo nella gerarchia politica. Nell'Europa occidentale agli ebrei che volessero dedicarsi all'attività politica si presentavano meno ostacoli. In Inghilterra gli ebrei fecero parte dei governi liberali e del gabinetto di guerra di Lloyd George e più tardi acquisirono ruoli importanti nel Partito laburista. In Francia, Léon Blum fu Primo ministro intorno alla metà degli anni Trenta; persino in Italia vi erano ebrei nel Partito fascista. Se i politici ebrei di rilievo si potevano contare sulle dita di una o due mani, non si può trascurare il ruolo avuto dai rappresentanti dell'ebraismo nella cultura dell'Europa tra le due guerre. La letteratura tedesca non sarebbe stata la stessa senza l'apporto di personalità della statura di Franz Kafka, Franz Werfel, Stefan Zweig, Arnold Zweig, Alfred Döblin, Arthur Schnitzler, Jakob Wassermann o Lion Feuchtwanger. Ma gli “anni d'oro” non furono tali solo per la letteratura. Sulla “Frankfurter Zeitung” o sui grandi quotidiani berlinesi, proprietà di famiglie ebree come i Mosse o gli Ullstein, scrivevano critici come Walter Benjamin e Siegfried Kracauer. La cultura della Repubblica di Weimar è stata segnata dalla musica di Arnold Schönberg, dalle opere teatrali di Max Reinhardt, dall'attività di attrice di Elisabeth Bergner, dalla pittura di Max Liebermann e dall'architettura di Erich Mendelssohn. E i contributi che Albert Einstein e Sigmund Freud diedero alla civiltà non richiedono di essere approfonditi qui. Al di fuori di Germania e Austria l'elenco delle celebrità di origine ebraica può essere forse meno lungo, ma non sarebbe corretto presumere che questo eccezionale amalgamarsi degli ebrei nella cultura europea fosse limitato all'area di lingua tedesca: basti pensare agli artisti ebrei russi, come El Lissitsky e Marc Chagall, o a scrittori come Boris Pasternak e Osip Mandelstam, ai francesi Henri Bergson e André Maurois, agli italiani Amedeo Modigliani e Italo Svevo e agli autori polacchi Julian Tuwim e Bruno Schulz. Alcuni circoli erano costituiti quasi esclusivamente da ebrei, come la “Scuola Critica” di sociologia fondata a Francoforte, ad Amburgo gli studi sulla cultura che gravitavano intorno ad Aby Warburg e alla sua biblioteca, e il campo della psicanalisi, anche se in quegli anni essa aveva iniziato ad aprirsi anche a studiosi non ebrei. La nutrita presenza di ebrei nella vita culturale europea portò il sociologo e filosofo Thorstein Veblen a scrivere nel 1919 un saggio dal titolo La preminenza intellettuale degli ebrei nell'Europa moderna, mentre lo scrittore tedesco Thomas Mann parlava nel 1923 dello “spirito critico-letterario della democrazia europea, che in Germania era rappresentato soprattutto da ebrei”16. Se gli intellettuali erano in apparenza parte essenziale della cultura europea, come si erano integrate le masse ebraiche? In quasi tutti gli stati dell'Europa orientale le promesse di autonomia non furono all'altezza delle attese. In Polonia, per esempio, gli accordi per la protezione delle minoranze salvaguardavano il diritto degli ebrei di osservare lo Sabbath attraverso la proibizione di convocare ebrei in tribunale o in qualunque istituzione governativa e l'impegno a non tenere elezioni nelle giornate di sabato. Ma agli ebrei non era d'altro canto consentito tenere aperte le attività commerciali di domenica anziché di sabato, il che per una parte significativa della popolazione ebraica si traduceva nella perdita di un sesto del reddito complessivo e in un peggioramento delle condizioni economiche. Identico effetto avevano le leggi sul divieto dell'apertura domenicale nella città di Salonicco, divenuta greca. Nel campo scolastico gli ebrei avevano conservato il diritto alle proprie scuole con insegnamento in yiddish o in ebraico, ma senza alcuna sovvenzione pubblica; spesso, poi, diplomi e certificati non erano riconosciuti come prerequisiti per l'iscrizione all'università. Più sopra abbiamo visto come solo dietro una pressione esterna gli stati dell'Europa orientale avessero accettato i diritti delle minoranze, facendo poi tutto il possibile per disattenderli. Nel 1934 la Polonia disconosceva ufficialmente la validità degli accordi sulle minoranze. La Lituania aveva smantellato il proprio avanzato sistema per l'autonomia della popolazione ebraica già negli anni Venti. La Cecoslovacchia fu il solo stato in cui gli ebrei poterono godere pienamente della protezione degli accordi sulle minoranze; in misura minore questo avvenne anche in Lettonia. Nei nuovi stati dell'Europa centrorientale e soprattutto in Polonia il tradizionale ruolo antiebraico della Chiesa cattolica, che dipingeva gli ebrei come gli assassini di Cristo, si fuse con la nuova immagine degli ebrei atei e comunisti. Qui, in particolare il Venerdì Santo, nelle piccole città molti ebrei preferivano restarsene in casa piuttosto che uscire ed essere bersaglio di commenti sgradevoli o essere presi a sassate dai cattolici, incitati dalle prediche infervorate di qualche prete locale. Se il caso dell'Europa orientale era un esempio alquanto fosco di integrazione ebraica, gli stati dell'Europa occidentale sembravano puntare in direzione totalmente diversa. In Inghilterra, quello che era un piccolo nucleo ebraico fortemente assimilato si trasformò in una comunità di immigrati, passando dalle 60.000 persone del 1870 alle 250.000 negli anni del primo conflitto mondiale. Questa comunità, costituita in primo luogo da persone emigrate di recente dall'Europa orientale e dai loro figli, nel periodo tra le due guerre era ancora stabilita in quartieri circoscritti, come Whitechapel a Londra, l'area dei Leylands a Leeds e Red Bank a Manchester. Se alcuni continuavano a vivere nel proprio ambiente chiuso, nel quale i contatti con il mondo dei gentili erano scarsi, la seconda e soprattutto la terza generazione si caratterizzava per una nuova distribuzione territoriale e per la diversificazione delle occupazioni. Contrariamente a quanti erano rimasti in Polonia o in Romania, questi nuovi ebrei inglesi non si trovarono davanti muri insuperabili dal punto di vista dell'esclusione, anche se non si poteva certo parlare di piena accettazione. Gli immigrati di prima generazione, con il loro accento marcato, i cognomi insoliti e spesso con le loro strane pratiche religiose erano e restavano stranieri; anche la generazione successiva, pur frequentando spesso la scuola pubblica e cambiando nome, non divenne inglese così facilmente. Il tipico immigrato di seconda generazione non viveva più in un ghetto, ma non si era lasciato completamente alle spalle le tradizioni ebraiche. Spesso osservava gli elementi di base delle prescrizioni alimentari in casa ma non più in pubblico, magari andava in sinagoga nelle feste comandate ma non per ogni Shabbath. I matrimoni misti non erano frequenti rispetto a quanto avveniva nell'Europa centrale, e molti erano consapevoli del fatto che un matrimonio poteva essere utile più di un passaporto per essere considerato inglese da un vicinato non ebreo. Gli ebrei avevano restrizioni nell'accesso ai circoli di golf e ai collegi, e parecchie scuole istituirono quote per gli aspiranti studenti ebrei. Forse per un senso di orgoglio britannico esclusivista, personaggi ebrei, spesso esotici e dai tratti sgradevoli, fecero la loro comparsa nelle pagine delle opere dei più noti autori inglesi, da Thomas Steaens Eliot a Rudyard Kipling a Graham Greene. La tradizione dello Shylock di Shakespeare e del Fagin di Dickens aveva certamente lasciato il segno17. In Germania, il caso della Repubblica di Weimar si collocava grosso modo a metà tra le società nettamente antisemite dei paesi dell'Est e i sistemi liberali di Inghilterra e Francia a Ovest. La maggioranza degli ebrei tedeschi si sentiva a proprio agio in un paese in cui spesso i propri antenati avevano vissuto per secoli, erano ben integrati nelle associazioni sportive e culturali e i rapporti di amicizia con i tedeschi non ebrei erano sempre più frequenti, tanto quanto i matrimoni misti. Solo per una minoranza erano ancora visibili le barriere del ghetto prima dell'emancipazione, come pure di ciò che rimaneva di un ambiente chiuso. Nelle grandi città v'erano ancora ebrei ortodossi e in campagna ebrei dediti alle tradizionali attività “ebraiche”, come il commercio di bestiame e il piccolo commercio. Nella maggioranza dei casi la popolazione ebraica era formata in realtà da una media borghesia urbana e bene assimilata, che si sentiva tedesca almeno nella stessa misura in cui restava fedele alle tradizioni del giudaismo. Certo nessun ebreo era cieco di fronte alle minacce del violento antisemitismo che si accompagnava alle spesso brutali scene di strada degli ultimi anni di Weimar, ma non riusciva neppure lontanamente a immaginare, diversamente dai confratelli dei paesi dell'Est, che tutto ciò sarebbe stato ufficializzato in una politica statale. Gli ebrei avevano a tal punto identificato le tradizioni liberali dell'Illuminismo, di Goethe, di Schiller e della spesso splendida scena culturale della Repubblica di Weimar con la Germania, che l'altra faccia del paese, quel lato oscuro che presto avrebbe preso il sopravvento, restava per loro un fantasma privo quasi di forma concreta. Con il regime bolscevico ormai saldamente al potere, in Unione Sovietica si osservava intanto un altro, non meno drammatico sviluppo: veniva gravemente limitata e spesso resa impossibile la libertà di professare la propria religione così come era avvenuto nella Russia prebellica, seppure con restrizioni diverse. Erano scoraggiate anche le espressioni secolari del giudaismo, dato che né Lenin né Stalin garantivano agli ebrei i privilegi di una minoranza nazionale, sebbene ufficialmente riconoscessero loro lo stato di nazionalità. Alla fine il regime autoritario sovietico mise al bando i partiti politici ebraici, compreso il socialista Bund. Si può presumere con buona certezza che la maggior parte degli ebrei avrebbero votato per uno dei partiti ebraici, come nel caso della Polonia, in cui socialisti del Bund, sionisti e agudisti ortodossi [seguaci del partito sionista religioso Agudath Israel, N.d.T.] erano tutti rappresentati nel Sejm, il parlamento polacco. Nelle uniche elezioni democratiche tenute nel 1917 in Russia per l'Assemblea costituente, prima della Rivoluzione d'Ottobre, i partiti ebraici ottennero notevoli risultati nelle regioni in cui era più numerosa la popolazione ebraica18. I bolscevichi non lasciarono che l'estinzione della comunità ebraica avvenisse naturalmente, ma cercarono piuttosto di accelerarne i tempi attraverso la creazione di diverse istituzioni. Nel febbraio 1918 Semyon Dimenìtein, leninista della prima ora, fu nominato a capo del nuovo Commissariato per gli affari ebraici; subito dopo nacquero le sezioni ebraiche del Partito comunista (“Evsekcija”), che continuarono a esistere fino al 1930. Il loro scopo principale era liberare gli ebrei dalla loro lingua (anche se lo yiddish sarebbe stato tollerato molto più a lungo dell'ebraico), dalla loro religione e cultura e dal loro status professionale “borghese”, per trasformarli – attraverso i vecchi sistemi emancipazionisti, anche se con strategie più radicali – in cittadini “maggiormente utili”. L'yiddish, la lingua parlata ancora dalla maggior parte degli ebrei sovietici, veniva usato come strumento per promuovere un processo di russificazione. La pratica individuale della religione non era fuorilegge, ma fu abolita la comunità ebraica in quanto organizzazione responsabile delle questioni religiose, e ai rabbini non fu più consentito di svolgere il loro ruolo tradizionale. L'osservanza dello Shabbath, la circoncisione dei neonati maschi e l'uso di alimenti kasher [cioè, consentiti dalle norme alimentari ebraiche, N.d.T] erano ora limitati per lo più all'uso privato e pressoché segreto da parte di una minoranza sempre più ristretta. Quando Stalin nel 1928 concesse agli ebrei un proprio territorio, ossia la regione alquanto arretrata del Birobigian al confine sudoccidentale con la Cina, tentava di conseguire un doppio risultato: controbilanciare in primo luogo il desiderio sionista di un territorio ebraico e, in secondo luogo, utilizzare la manodopera ebraica per edificare e promuovere una delle aree più depresse e spopolate del vasto territorio sovietico. Naturalmente gli ebrei non accorsero in massa per costituire una colonia di lingua yiddish sul confine cinese: alla fine del 1933 vi si erano stabilite non più di 8000 persone, in contrasto stridente con le 50.000 previste. Costoro erano quindi una minoranza trascurabile rispetto alla comunità ebraica dell'Unione Sovietica e rappresentavano solo il 20% della popolazione di quest'area scarsamente abitata. Eppure la storia degli ebrei nel primo ventennio dell'Unione Sovietica sotto molti aspetti può essere letta come una vicenda di successo, sia dal punto di vista sociale sia economico. Coloro che desideravano assimilarsi molto spesso furono in grado di farlo, e persino di emergere in campi di eccellenza, in una misura fino ad allora sconosciuta. “Della nuova élite sovietica facevano parte per lo più non ebrei, e la maggior parte degli ebrei non faceva parte della nuova élite sovietica. Ma non vi è alcun dubbio che tra gli ebrei vi fosse una percentuale di membri dell'élite molto più alta rispetto a qualunque altro gruppo etnico dell'URSS... Era tra di loro che si trovavano i poeti, i profeti e i propagandisti”19. Gli ebrei erano il gruppo più acculturato dell'Unione Sovietica, detenevano la quota maggiore di diplomati e nel 1939 costituivano ancora una parte significativa della popolazione studentesca universitaria (il 17% a Mosca, il 19% a Leningrado, il 25% a Harkov e il 36% a Kiev). Un terzo di tutti gli ebrei sovietici in età di studi accademici era iscritto all'università, mentre la cifra corrispondente per i non ebrei in tutta l'Unione Sovietica era inferiore al 5%. Formata da ebrei era la colonna portante della burocrazia e nel 1939 era ebreo il 70% dei dentisti, il 59% dei farmacisti, il 45% degli avvocati difensori di Leningrado; in Ucraina gli ebrei erano il 33% di tutti i professori universitari e ancora il 33% degli scrittori della delegazione di Mosca al primo Congresso degli scrittori sovietici, nel 1934. I due campi in cui l'Unione Sovietica poteva competere con il mondo occidentale – gli scacchi e la musica – erano dominati da cognomi ebraici20. Anche se parecchi ebrei furono perseguitati e uccisi, non lo furono in quanto ebrei. Per tutto il periodo tra le due guerre continuarono ad esserci ebrei in posizioni di rilievo nell'esercito, nei servizi segreti e nella dirigenza del Partito. Se costoro si erano lasciati alle spalle il proprio ebraismo, l'ambiente in cui vivevano ricordava molto bene la loro origine ebraica. La contraddizione interna delle politiche sovietiche nei confronti dell'ebraismo è dimostrata dall'antisemitismo popolare che continuò a esistere, nonostante la costituzione sovietica lo bandisse ufficialmente, dalla istituzione delle Evsekcija come strumento di distruzione della vita comunitaria degli ebrei, dal riconoscimento della nazionalità ebraica senza che fossero poste le basi stesse di una nazione ebraica e dal progetto del Birobigian, condannato al fallimento sin dall'inizio. Sia Lenin sia Stalin fecero in modo di mantenere viva la consapevolezza di un'identità ebraica tenendo fede alla teoria di una distinta categoria etnica ebraica, ma nessuno dei due fu pronto a dare sostanza a tale teoria. Gli ebrei dovevano essere assimilati e allo stesso tempo la discendenza etnica doveva restare riconoscibile: una combinazione che, pur mantenendo il senso di appartenenza etnica, non era sufficiente a consentire la sopravvivenza del giudaismo. Sotto molti aspetti, quindi, l'esclusione degli ebrei può essere interpretata come il risultato di una integrazione riuscita fin troppo bene. Almeno per un brevissimo periodo, sia nella Germania di Weimar sia in Unione Sovietica gli ebrei furono in apparenza gli elementi più innovativi di queste due società di recente definizione. Soprattutto nelle città erano ebrei medici e avvocati, professioni di grande visibilità, ed erano ben rappresentati nella élite economica della Germania e in quella politica della Russia; sia in questi ultimi sia in molti altri stati europei gli ebrei costituivano un'alta percentuale degli studenti universitari e degli intellettuali. Era il “peso del successo”, come ebbe a definire questa situazione Fritz Stern, che gli ebrei d'Europa si trovavano a portare in questo periodo come mai era accaduto prima21. Se da una parte gli israeliti tedeschi e inglesi si dedicavano a quantificare i propri “contributi” alla civiltà e gli autori ebrei scrivevano romanzi utopici venati d'amarezza sulla morte della cultura europea dopo una preannunciata espulsione degli ebrei (Hugo Bettauer, Die Stadt ohne Juden, 1922; Artur Landsberger, Berlin ohne Juden [Berlino senza ebrei], 1925)22, dall'altra i loro detrattori puntavano il dito contro il “controllo ebraico” sui mezzi di comunicazione d'Europa, sulla cultura e sull'economia. Per costoro non si parlava di ebrei come individui, ma di una collettività accusata di dominare l'Europa in molti settori. Le fandonie anteguerra dei Protocolli degli Anziani di Sion acquisirono una popolarità mai avuta prima; il testo fu distribuito negli Stati Uniti da Henry Ford23. 0001000140 ‣ Volgersi verso la comunità: la vita culturale e religiosa ebraica . Le profezie del disastro erano diffuse tra gli ebrei d'Europa sin dall'inizio del Novecento, anche se, com'è ovvio, nessuna arrivava a pronosticare la portata reale della catastrofe che si sarebbe presto abbattuta sull'ebraismo europeo. Tali previsioni erano fondate su dati demografici e sugli sviluppi sociologici. Nel 1911 il medico sionista Felix Theilhaber, berlinese, dava alle stampe un libro molto controverso e discusso, Der Untergang der deutschen Juden [Il tramonto degli ebrei] e vent'anni dopo Otto Heller, comunista, scriveva invece il suo Der Untergang des Judentums [Il tramonto del giudaismo]. Entrambi contenevano un messaggio assai chiaro: nella sua forma attuale, la comunità ebraica europea era destinata all'estinzione. Theilhaber proponeva la deportazione in Palestina e la successiva costituzione di una società “normale e sana”, mentre Heller, autore di un secondo libro dal titolo Sibirien: ein anderes Amerika [Siberia: un'altra America], quale unica scelta per il futuro raccomandava la totale assimilazione: la sua soluzione era quella comunista tipica. Nei suoi libri, così sosteneva, analizzava la “questione ebraica” e la sua “soluzione mediante la rivoluzione proletaria”24. Argomentando il fallimento sia del giudaismo tradizionale sia del sionismo, per Heller l'Unione Sovietica e soprattutto il progetto staliniano del Birobigian rappresentavano il futuro di una popolazione ebraica privata del suo giudaismo, che si sarebbe trasformata in una società senza classi. Il libro di Theilhaber fu pubblicato nel 1921 in una seconda edizione, nella quale confutava punto per punto le obiezioni e le critiche mossegli nel corso dei dieci anni precedenti, esacerbando ulteriormente i toni. Coloro che lo criticavano, sosteneva, preferivano chiudere gli occhi di fronte agli eventi spiacevoli. Riteneva che il loro fosse un linguaggio chiaro: il linguaggio della graduale scomparsa della vita ebraica. Inoltre, proseguiva, tutto ciò non era così unico nella storia degli ebrei: l'integrazione porta all'assimilazione, che a sua volta porta alla scomparsa. Gli ebrei cinesi ci hanno dimostrato che era certo possibile scomparire del tutto, così com'era accaduto alla comunità ebraica originaria in Italia e alla popolazione sefardita in Olanda25. Theilhaber allegava cifre sui bassi tassi di nascita, sull'aumento dei matrimoni misti e sull'affievolirsi della pratica religiosa, per giungere a una conclusione cristallina: gli ebrei tedeschi avrebbero seguito le orme delle tribù perdute d'Israele. Senza dubbio l'assimilazione era aumentata nell'Europa occidentale e iniziava a farsi sentire nelle città dei paesi dell'Est. Come una tipica popolazione di classe media, gli ebrei occidentali avevano pochi figli, costituivano un gruppo di popolazione di età media avanzata ed erano sempre più frequenti i matrimoni misti, ma ai figli nati da queste unioni ben di rado veniva impartita un'educazione ebraica. In Unione Sovietica l'assimilazione era un processo prescritto dallo Stato, al quale non era semplice sottrarsi. In Polonia l'esperienza del Bund socialista e di altri movimenti ebraici secolari erano novità troppo recenti per rivendicare un certo peso sulle future generazioni. A questi segnali di crisi se ne contrapponevano altri, del tutto diversi: e se alcuni osservatori parlavano di estinzione del giudaismo in Europa, altri scorgevano all'orizzonte i segni della sua rinascita. Nel periodo tra le due guerre fu lanciata a questo scopo tutta una serie di iniziative, dalle nuove direzioni della vita religiosa alle imprese culturali, fino all'orgoglio per i successi sportivi. Nei paesi dell'Europa orientale le forme tradizionali della religione continuarono a sopravvivere nel periodo tra le due guerre. I tribunali rabbinici erano in piena attività in Polonia e in Romania, mentre in Lituania e in Polonia le grandi Yeshivot [accademie di studi rabbinici, N.d.T.] restavano importanti centri d'attrazione per l'insegnamento del Talmud. La nuova Yeshivat hakhmey Lublin [Yeshiva dei Savi di Lublino] divenne un centro innovativo per lo studio del Talmud nella Polonia tra le due guerre. Quelli che un tempo erano stati centri di ispirazione religiosa e di studio nell'Unione Sovietica erano tramontati per sempre. Allo stesso tempo l'istruzione di tipo secolare cominciava ad avere importanti effetti in tutta l'Europa orientale. Dopo un lungo periodo di scetticismo e di dichiarazione della morte di Dio, nei paesi dell'Europa occidentale gli orrori della Prima guerra mondiale portarono anche a un rinnovamento del sentimento religioso nell'ambito di diversi settori; il giudaismo non fece eccezione a questa tendenza. In Germania, dove sia liberali sia ortodossi avevano espunto la tradizione mistica dalla filosofia e dalla pratica religiosa, entrambe le correnti riscoprirono il misticismo. Appena prima della fine della guerra Isaac Breuer, caposcuola a Francoforte della nuova ortodossia, scrisse un romanzo messianico e in seguito ebbe parole di critica nei confronti dei suoi predecessori (tra essi Samson Raphael Hirsch) per aver cercato di comprendere il giudaismo più con la ragione che con il cuore. Anche Leo Baeck, rabbino liberale di fama, iniziò a parlare di misticismo, come emerge chiaramente dai cambiamenti da lui stesso apportati nell'edizione del dopoguerra di un suo lavoro già divenuto un classico, L'essenza dell'ebraismo. Le riforme di tipo pratico attuate in alcune sinagoghe a Berlino, che accordavano alle donne uno status quasi paritario a quello degli uomini nella preghiera, e la creazione di un'atmosfera quasi da gruppo di studio, in cui tutti i partecipanti contribuivano attivamente alla funzione, preannunciavano gli sviluppi che si sarebbero avuti molto più tardi negli Stati Uniti. La ricomparsa del misticismo era ancor più evidente presso i due filosofi ebrei di maggior spicco nella Germania del periodo di Weimar, Martin Buber e Franz Rosenzweig. Buber aveva già pubblicato i suoi racconti hassidici all'inizio del secolo e conferito loro uno status quasi di culto tra molti giovani ebrei, in particolare dei movimenti popolari giovanili; soprattutto negli anni Venti la sua filosofia del dialogo conobbe la massima popolarità. La maggior opera filosofica di Franz Rosenzweig, Der Stern der Erlösung 26, segnava un chiaro distacco dalla filosofia razionalistica di un Hermann Cohen del periodo immediatamente precedente alla guerra e può essere vista nel contesto di un'interpretazione del giudaismo sempre più vicina all'esistenzialismo. Il libro non ebbe grande fortuna, ma l'altra creatura di Rosenzweig, la Lehrhaus [centro di studi ebraici], a Francoforte, diventò polo di attrazione per più di un migliaio di studenti e un'istituzione copiata anche in altre città. Buber e Rosenzweig proposero una nuova traduzione della Bibbia a quattro mani, nel tentativo di riportare il lettore ebreo, ormai privo di conoscenza diretta della lingua antica, al suono e alla struttura del testo originale in ebraico. L'opera ebbe una popolarità enorme, sintomo dell'attrazione che molti ebrei assimilati sentivano nei confronti delle proprie radici. Le parole di Richard Koch, uno dei docenti della Lehrhaus e medico di Rosenzweig, possono essere utili a esprimere con efficacia il motivo che si celava dietro questa urgenza: Se la nostra storica sofferenza dovesse un giorno ripetersi, allora vogliamo sapere perché soffriamo; non vogliamo morire come animali, ma come esseri umani che sanno cosa è bene e cosa è meglio... Molte volte ci hanno detto, come del resto ci siamo detti anche noi stessi, che siamo ebrei e che abbiamo difetti e virtù. L'abbiamo sentito troppo spesso. La Lehrhaus ci dirà perché siamo ebrei, e a quale scopo27. In realtà solo una minoranza imboccò la via radicale di Franz Rosenzweig, il quale negli anni precedenti la Prima guerra mondiale era stato sul punto di farsi battezzare, ma decise prima di conoscere la religione che voleva abbandonare, per intraprendere così un viaggio interiore alla scoperta del cuore stesso del giudaismo. All'estremo opposto vi erano poi coloro che intendevano recidere ogni legame con la comunità ebraica. Il caso della famiglia Scholem rispecchia efficacemente questa complessa evoluzione come microcosmo dell'ebraicità nella Germania del tempo. In questa famiglia berlinese assimilata, uno dei figli, Gerhard, divenne sionista, cambiò il proprio nome in Gershom e già nel 1923 lasciò la Germania per la Palestina, mentre il fratello Werner era deputato del Partito comunista al Reichstag. Entrambi avevano, ognuno a suo modo, voltato le spalle al mondo borghese del padre così fiero di essere tedesco. Altri due fratelli continuarono invece a vivere in quel mondo, uno da liberale e l'altro sostenendo gli interessi nazionalistici della Germania. Ogni volta che siamo tentati di definire in una sola frase cosa significava a quel tempo essere ebrei in Germania, dovremmo sforzarci di tenere a mente questo quadro complesso. In altri paesi dell'Europa occidentale la situazione non era molto diversa. Anche tra gli ebrei francesi o tra quelli italiani vi erano alcuni settori sociali in cui il processo di assimilazione iniziato dai genitori era stato portato a termine, ma anche tentativi in senso opposto, soprattutto tra i più giovani, per rendere il giudaismo più interessante. I vari gruppi all'interno del movimento giovanile attiravano allo stesso modo ortodossi, sionisti e socialisti. Questi gruppi proponevano per lo più attività simili a quelle degli scout, nelle quali però veniva attribuita grande importanza all'identità etnica degli ebrei e si insegnava l'ebraico28. Sia nell'Europa occidentale sia in quella orientale il sionismo non si limitò a propugnare l'immigrazione immediata. Molti attivisti sionisti si concentrarono particolarmente su quello che i sionisti tedeschi chiamavano Gegenwartsarbeit [lavoro per il presente], il che significava per prima cosa la necessità di costruire le basi per la futura piena coscienza di vivere in uno stato ebraico: senso di appartenenza al popolo d'Israele, uso dell'ebraico e acquisizione di un bagaglio di conoscenze fondamentali sull'ebraismo. In questo senso all'interno delle organizzazioni sioniste si ebbero spesso scontri tra coloro che sostenevano le attività della diaspora e quanti preferivano investire maggiori energie nel progetto dell'emigrazione. Per molti sionisti il Gegenwartsarbeit si trasformò in un obiettivo di per sé e, soprattutto per i sostenitori del sionismo dell'Europa occidentale, rappresentò un traguardo più accettabile. Dagli scontri politici, spesso animati, all'interno delle comunità ebraiche (tra sionisti, liberali e ortodossi a Occidente, e tra sionisti, socialisti del Bund e gruppi ortodossi nei paesi dell'Est) vennero talvolta risultati sorprendenti. I sionisti del Jüdische Volkspartei, che sostenevano il Gegenwartsarbeit, riuscirono per esempio a vincere nel 1926 le elezioni della comunità ebraica di Berlino in coalizione con gli ortodossi religiosi e a deporre i liberali che erano stati saldamente al potere per interi decenni. Non sarebbe corretto ipotizzare che da questo derivasse un aumento significativo del numero di ebrei che lasciavano la Germania per la Palestina; significava semplicemente che a Berlino molti ebrei scelsero di identificarsi in modo più forte e in senso più specificamente etnico con l'ebraismo, più di quanto non avvenisse in precedenza, in condizioni di politica liberale. A Vienna il successo dei sionisti fu più duraturo: qui furono a capo della comunità ebraica per buona parte degli anni Trenta. Molte comunità ebraiche dell'Europa occidentale furono caratterizzate da feroci conflitti tra settori stanziali e tenacemente antisionisti e immigrati, tendenzialmente simpatizzanti per il sionismo. In Inghilterra la divisione risaliva ai tempi della Prima guerra mondiale, quando le organizzazioni angloebraiche tentarono di opporsi all'iniziativa di Chaim Weizman, che condusse infine alla dichiarazione di Balfour. Negli anni del dopoguerra i sionisti presero la guida di molte istituzioni comunitarie. L'organismo religioso più importante, la Sinagoga unita, ratificò una raccolta di fondi per l'organizzazione sionista Keren Hayesod; la Federazione delle Sinagoghe e l'organizzazione ebraica B'nai Brith elessero presidenti sionisti e già nel 1913 Joseph Hertz, rabbino capo sionista, aveva sostituito Herman Adler, che era stato viceversa decisamente antisionista. Il Board of Deputies inglese, la principale organizzazione ebraica secolare, restò invece in mani non sioniste, quando non apertamente antisioniste, come nel caso di Neville Laski, anche se gli iscritti si spostarono su posizioni più possibiliste. In modo analogo, in Francia la minoranza di ebrei storicamente radicati sul territorio vide le proprie istituzioni minacciate da correligionari di nuova immigrazione dall'estero. In alcune città tedesche, come a Lipsia e a Dresda, dove gli ebrei provenienti da altri paesi europei superavano in numero gli ebrei tedeschi, questi ultimi introdussero un sistema elettivo discriminante, col quale si garantiva una maggioranza di ebrei tedeschi nelle assemblee locali delle comunità ebraiche. In Italia, invece, la spaccatura fra sionisti e antisionisti attraversava la stessa comunità italiana. La situazione era ovviamente diversa nei paesi dell'Europa orientale, dove nelle grandi città gli assimilazionisti erano solo una piccola minoranza. A capo delle comunità erano ortodossi, sionisti o socialisti del Bund. A Varsavia, dove viveva la comunità ebraica più numerosa d'Europa, l'organizzazione ortodossa Agudath Israel predominò per la prima metà degli anni Trenta, per poi lasciare il passo all'affermazione trionfante dei bundisti, considerati la risposta più appropriata a una situazione politica sempre più difficile in seguito alla morte del presidente polacco Jósef Pilsudski, avvenuta nel 1935. Il socialismo fece il suo ingresso persino nelle organizzazioni di ebrei ortodossi, con l'istituzione di movimenti religiosi sionisti come Hapoel Hamizrahi e Poalei Agudas Yisroel [Lavoratori dell'(ultraortodosso) Agudas Yisroel]. Nell'Europa occidentale la cultura ebraica si esprimeva in genere con l'aggiunta di un ulteriore strato a un'identità sfaccettata, utilizzava la lingua usata nei vari paesi ed era modellata dalle tendenze culturali della società in cui era immersa. Un romanzo di Lion Feuchtwanger su un tema ebraico, una raffigurazione espressionista dell'Haggadah [il testo letto durante le cene pasquali, N.d.T.] o un brano di musica liturgica composto nello stile dei principi rivoluzionari di Arnold Schönberg erano esempi di questa cultura ebraica modernizzante. Nei paesi dell'Est la cultura ebraica era invece qualcosa di più profondo ed esclusivista. Gli scrittori, sia della tradizione sia modernizzanti, si rivolgevano in genere a un pubblico di ebrei, scrivendo in yiddish o in ebraico. Circoli espressionisti di letteratura yiddish presero vita a Varsavia, Lódź e a Vilnius. Alla fine degli anni Venti nell'Unione Sovietica si assisté a una rinascita della letteratura yiddish, con autori importanti come Dovid Bergelson, Peretz Markish, Der Nister e molti altri. Berlino divenne invece, per un breve periodo all'inizio degli anni Venti, la patria di diversi scrittori ebrei di rilievo. Ma v'erano anche compagnie di teatro yiddish di Vilnius, Varsavia e Mosca (sotto la direzione del leggendario Solomon Mikhoels) a girare le piazze d'Occidente; lo studio teatrale ebraico Habimah, fondato a Mosca nel 1920, non fece ritorno in patria quando divenne evidente la repressione della cultura e della lingua ebraiche da parte dello stato sovietico. Le opere teatrali sia in yiddish sia in ebraico venivano accolte in modo entusiastico nei paesi dell'Europa occidentale, ciò che può essere letto come un segno dei tentativi sempre più frequenti di chiusura verso l'interno, una volontà di rinnovare i legami culturali con l'eredità ebraica. A Mosca, a Kiev e a Minsk esistevano persino scuole di teatro yiddish. Le scuole ebraiche non erano più limitate soltanto allo heder, la scuola elementare religiosa tipica dell'Europa orientale, o alla yeshiva per lo studio del Talmud e alle scuole ebraiche, spesso provinciali, dei paesi e delle piccole città della Germania, ma aprirono la strada a sistemi scolastici moderni e spesso secolarizzati. Oltre all'innovativa rete di scuole religiose femminili Bais Yaakov, presero vita in Polonia le scuole della Tsisho (Organizzazione centrale delle scuole yiddish), più vicina alla sinistra, la scuola ebraica Tarbut (Cultura) e le scuole Yavne, di stampo sionista religioso. In Germania le scuole ebraiche erano state chiuse l'una dopo l'altra tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, ma a Berlino, Colonia, Monaco e Norimberga venivano ora istituite nuove scuole elementari e superiori. Nel periodo tra le due guerre, sia in Polonia sia in Germania, come anche nel resto dell'Europa, la grande maggioranza dei bambini ebrei frequentava comunque le scuole statali, affiancando lo studio più o meno approfondito della storia e della cultura ebraiche. Per gli studi ebraici, iniziati nella Germania dell'Ottocento come Wissenschaft des Judentums [Scienza del Giudaismo], vi erano ancora alcuni centri importanti là dove avevano visto la luce. I seminari rabbinici di Berlino (sia liberali sia ortodossi) e di Breslavia (conservatore) continuavano a esistere come i luoghi più autorevoli per lo studio accademico del giudaismo, così come accadeva a Vienna e a Budapest. L'istituzione a Berlino dell'Accademia per la Wissenschaft des Judentums segnò il primo tentativo di apertura di un centro disciplinare secolarizzato, al di fuori di ogni tipo di pressione religiosa e di cultura rabbinica. Ma anche nel periodo della Repubblica di Weimar non si riuscì a trovare una sede per gli studi ebraici in una università tedesca, a meno di non considerare la modesta docenza di Martin Buber all'università di Francoforte una realizzazione di tali aspirazioni. Quando finalmente gli fu conferita la cattedra, nel 1931, essa fu ridefinita più genericamente “di studi religiosi”. La Germania non era più il centro indiscusso degli studi ebraici accademici: nuovi centri nascevano oltre i confini d'Europa, sia in Palestina (con l'apertura dell'Università ebraica di Gerusalemme nel 1925) sia negli Stati Uniti (con l'istituzione negli anni Venti delle cattedre ad Harvard e alla Columbia). Ma si potevano osservare nuove dinamiche anche nell'Europa dell'Est. La più importante tra le nuove istituzioni fu l'istituto YIVO, l'accademia di studi yiddish fondata a Berlino nel 1925 e poi trasferita a Vilnius. Altri importanti istituti aprirono i battenti a Varsavia e persino in Unione Sovietica: anche a Kiev e a Minsk erano attivi istituti di studi ebraici. Un campo di attività del periodo tra le due guerre che si tende spesso a trascurare è quello delle attività sportive ebraiche. Gli ebrei erano noti per le doti intellettuali e i traguardi spesso prestigiosi, dato che tra essi si contavano diversi premi Nobel. Nel quadro di un piano sionista di “normalizzazione” lo scrittore Max Nordau aveva propugnato al Secondo congresso sionista del 1898 la creazione di un “ebraismo fortificato nel fisico”. Sin dall'inizio del secolo in tutta Europa erano state fondate associazioni sportive sioniste, e altre non sioniste vennero istituite nel dopoguerra. Negli anni Venti e Trenta ogni città in cui vivesse una nutrita comunità ebraica contava uno o più circoli sportivi riservati. In Polonia, i club Hapoel dei conservatori del Poalei Zion's (Partito laburista sionista) gareggiavano con le società Gwiazda, più orientate a sinistra, e le Morgnshtern, l'organizzazione sportiva dei socialisti del Bund; in Germania, gli ebrei tedeschi patriottici si riunivano nel movimento Schild, mentre i sionisti giocavano nel Maccabi o nel BarKochba. La squadra sportiva più importante fu senza dubbio l'Hakoah di Vienna, che vinse nel 1925 il primo campionato austriaco di calcio professionista e raccolse importanti vittorie persino contro importanti squadre inglesi. Nel 1925 la squadra sionista Hakoah di Vienna vinse anche il campionato austriaco di hockey su prato, lotta e nuoto. Lo scrittore austriaco Friedrich Torberg, a sua volta campione di pallanuoto ceco con lo Hagibor Brno, non solo scrisse un romanzo basato interamente su questo sport, ma raccolse in un breve resoconto tutti i risultati dell'Hakoah : queste opere ebbero sugli stereotipi antisemiti dell'ebreo fisicamente poco dotato un effetto più potente di tanti studi scientifici o discorsi apologetici. Le società sportive ebraiche ebbero anche la funzione, sovente sottostimata, di rafforzare l'identità ebraica. Gli ebrei integrati che non prendevano parte ad alcuna attività ebraica in particolare, si identificavano con l'Hakoah Vienna e in gran numero si iscrissero alla società sportiva, che aveva un numero di membri superiore a qualunque altra società sportiva europea. Va ricordato che esistevano anche diverse associazioni sportive generali di grande successo, considerate “ebraiche” perché fondate da ebrei o perché avevano presidenti ebrei o annoveravano sportivi ebrei: tra queste l'Austria Vienna, l'MTK Budapest e il Bayern Monaco. Nell'Europa orientale praticamente tutti gli ebrei non ortodossi facevano parte di qualche associazione sportiva o di un movimento giovanile, definendo anche così la propria identità politica. Oltre al calcio, gli sport più popolari erano il pugilato, il tennis da tavolo e il nuoto. 0001000140 ‣ L'inizio della fine . Nei paesi dell'Europa centrorientale le azioni legali a sostegno della parziale abolizione dell'emancipazione degli ebrei iniziarono molto prima del 1935, anno delle leggi naziste di Norimberga, che degradavano gli israeliti a cittadini di seconda classe. In Romania una legge del 1924 revocava la cittadinanza a tanti ebrei che non potevano dimostrare di essere stati residenti in Bessarabia prima del 1918 o in Bucovina e Transilvania nel periodo anteguerra; la Polonia discriminava gli ebrei lituani che avevano attraversato il confine per passare in terra polacca. In quest'area dell'Europa praticamente nessuno stato impiegava ebrei nel servizio pubblico; dove vi erano ancora impiegati ministeriali o comunali ebrei, come avveniva in Polonia dai tempi degli Asburgo, queste posizioni furono drasticamente ridotte nel corso degli anni Trenta. Tale evoluzione poteva essere osservata anche in Cecoslovacchia, lo stato più liberale, dove tra il 1921 e il 1930 il numero di impiegati pubblici ebrei fu dimezzato. In Polonia parecchie associazioni di medici e avvocati esclusero i membri di religione ebraica. La discriminazione più macroscopica fu la forzata riduzione del numero di studenti ebrei nelle università. Dove non si poteva rendere obbligatoria per legge una quota ufficiale (numerus clausus) si cercavano altri sistemi. In Ungheria alla fine degli anni Venti furono introdotte leggi che subordinavano l'immatricolazione degli studenti alla professione dei genitori, con il chiaro obiettivo di ridurre il numero degli ebrei nelle università; in Polonia gli attacchi e la discriminazione nei confronti degli studenti ebrei – come l'introduzione dei “banchi-ghetto” al Politecnico di Leopoli nel 1935 e più tardi anche all'università di Vilnius – raccolsero anch'essi risultati immediati: tra il 1923 e il 1937 il numero di studenti ebrei diminuì di un terzo, mentre il numero totale degli studenti aumentava di un terzo. In Ungheria la percentuale di ebrei tra gli studenti universitari passò dal 32% nel 1918 al 10% nel 1932; in Lettonia passò dal 16% all'8%29. Negli anni Venti e Trenta in Unione Sovietica il numero di studenti ebrei rimase costante, tra il 13 e il 14% di tutti gli studenti universitari (che erano il 2% della popolazione totale), comunque un numero molto superiore, ovviamente, rispetto alla proporzione degli ebrei sulla popolazione totale. L'ascesa al potere del nazismo ebbe un impatto negativo sulla situazione degli ebrei in tutta Europa. La violenza fisica contro gli ebrei si diffuse ampiamente in Polonia; nel 1935 il Partito dei contadini uniti dichiarò che l'emigrazione restava l'unica soluzione al problema ebraico, affermazione che rispecchiava il marcato incremento dell'emigrazione in Palestina di cittadini ebrei polacchi intorno alla metà degli anni Trenta. Dei 140.000 ebrei polacchi “saliti” in Palestina [aliyah immigrazione permanente in Palestina; letteralmente “salita”, N.d.T.] nel periodo tra le due guerre, più delle metà era emigrata tra il 1933 e il 1936, quando gli inglesi ridussero le quote di immigrazione. Nello stesso anno la legislazione antiebraica in Polonia toccò nuovi livelli, quando la macellazione kasher fu assoggettata a pesanti restrizioni. In Romania il teorico antisemita Octavian Goga diventò Primo ministro nel 1937, dando nuovo impulso a politiche antiebraiche già diffuse, per giungere all'emanazione di leggi razziste sul modello di quanto avveniva nella Germania nazista. Il suo governo non durò a lungo, ma in Romania l'applicazione delle politiche contro gli ebrei continuò. Anche le repubbliche baltiche erano governate da dittature similfasciste, che favorivano lituani e lettoni a detrimento delle minoranze nazionali, ebrei compresi. L'ascesa al potere del politico ungherese antisemita Gyula Gömbös nel 1932 si dimostrò invece meno pericolosa per gli ebrei d'Ungheria di quanto ci si aspettasse. Nel corso del suo governo quinquennale Gömbös giunse a un accordo con la comunità ebraica di Budapest dominata dai Neolog [ebrei favorevoli all'assimilazione] e, forse in cambio di un sostegno finanziario, annunciò di avere “rivisto le proprie idee sulla questione ebraica”30. Eppure a metà degli anni Trenta si evidenziò un chiaro distacco dalle precedenti politiche liberali e un avvicinamento alla destra autoritaria. Il peggio doveva ancora arrivare, dal momento che politici ancora più conservatori di Gömbös si preparavano a prenderne il posto. Nel maggio 1938 il Primo ministro filotedesco Kálman Darányi varava le prime leggi antiebraiche nell'Europa centrorientale, limitando il numero di israeliti nelle varie categorie professionali a quote rigidamente definite. Man mano che si rafforzavano i legami con il regime nazista e l'influenza del partito radicale delle Croci Frecciate, entrò in vigore nel maggio del 1939 una seconda “Legge ebraica”, che tuttavia non riguardava i figli di genitori ebrei che si fossero convertiti e dunque non applicava le rigide nozioni razziali delle Leggi di Norimberga. Per quanto riguarda l'Italia, dopo oltre un decennio di tolleranza nei riguardi degli ebrei (che potevano anche far parte, e fecero parte, del Partito fascista), Mussolini scelse apertamente la via del razzismo e nel 1938 l'Italia emanò le proprie “leggi razziali”31. In Unione Sovietica non fu introdotta invece alcuna politica ufficiale contro gli ebrei, anche se questi ultimi venivano sempre più spesso esclusi dalle posizioni più alte nella gerarchia del partito, né potevano diventare funzionari dello Stato. Le politiche economiche, come la liquidazione delle attività commerciali di privati, ebbero invece effetti più gravi sulla popolazione ebraica. Se singoli scienziati, scrittori e artisti ebrei potevano ancora raggiungere posizioni di eccellenza, qualsiasi forma di attività culturale yiddish veniva ora gravemente minacciata e l'assimilazione religiosa si accompagnava a una forzata assimilazione linguistica. Vi erano poche isole di relativa tranquillità: Inghilterra, Francia e i paesi del Benelux rimanevano ancora porti sicuri rispetto alle grandi comunità dell'Europa centrale e orientale, ma anche qui si poteva percepire il deterioramento del clima generale. In Inghilterra, dove già nel 1920 era uscita una versione dei Protocolli degli Anziani di Sion col titolo The Jewish Peril, erano frequenti i dibattiti sul potere degli ebrei e sul tema della cospirazione ebraica. L'antisemitismo non fu mai un argomento centrale nella politica parlamentare inglese, ma la destra radicale trovò una base nella British Union of Fascists di Oswald Mosley, che se non divenne mai un movimento di massa acquisì verso la metà degli anni Trenta una efficacia sufficiente a istigare aggressioni violente nei confronti degli ebrei e delle loro proprietà. Già nel 1932 e l'anno successivo le sinagoghe di Leeds e di Liverpool subirono attacchi vandalici e si sentì parlare di misure di boicottaggio contro gli ebrei. Nell'ottobre del 1936 una squadra di 150 fascisti saccheggiò le botteghe degli ebrei nell'East End, mentre la folla gridava “Abbasso i giudei”32. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale gli ebrei d'Europa si sentivano una comunità sempre più assediata dalla crisi economica, dall'emarginazione sociale e da legislazioni restrittive, e allo stesso tempo intrappolata, a causa della forte riduzione dell'immigrazione in Palestina imposta dagli inglesi e delle leggi restrittive sull'espatrio verso gli Stati Uniti. Malgrado le tante speranze del periodo successivo alla Prima guerra mondiale, nonostante quello che a un primo sguardo appariva come un nuovo ordine costituito da Stati nazionali democratici, nell'arco di vent'anni la maggioranza degli ebrei europei era stata – se non de iure, perlomeno de facto – ridotta nella condizione di cittadini di seconda classe. Note al saggio 1 - Michael André Bernstein, Foregone Conclusions: Against Apocalyptic History, University of California Press, Berkeley 1994, p. 34. (Si è reso con “lettura a ritroso”, qui come nel titolo del paragrafo, il termine utilizzato da Bernstein “backshadowing ”, N.d.T.)2 - Lloyd Gartner, History of the Jews in Modern Times, Oxford University Press, Oxford 2002, p. 268.3 - Eduard Bernstein, Von den Aufgaben der Juden im Weltkrige, Reiss, Berlin 1917.4 - Cfr. la trad. it. in Ebraicità e germanicità. La ``simbiosi'' di H. Cohen, e il ``dialogo ebraico-tedesco'' e gli studi ebraici, a c. di Roberto de Pas et al., Thalassa De Paz, Milano 1999.5 - Georg Hermann, Zur Frage der Westjuden, “Neue Jüdische Monatshefte” 3, 1919, p. 400.6 - Martin Buber, Die Lösung, in “Der Jude” 1, 1916, pp. 1-2.7 - Citato in Ezra Mendelssohn, The Jews of East Central Europe Between the World Wars, Indiana University Press, Bloomington n.d., p. 106.8 - Thomas Mann, Tagebücher 1918-1921, a c. di Peter de Mendelssohn, S. Fischer, Frankfurt am Main 1979, pp. 63, 81, 85.9 - Citato in David Vital, A People Apart: The Jews in Europe, 1789-1939, Oxford University Press, Oxford 1999, p. 722.10 - Lloyd Gartner, History of the Jews cit., pp. 281-283.11 - Citato in Yosef Hayim Yerushalmi, Freud's Moses, Yale University Press, New Haven 1991, p. 12 [cfr. anche la trad. it. Il Mosè di Freud: giudaismo terminabile e interminabile, Einaudi, Torino 1996, p. 18].12 - Citato in Michael Brenner, The Renaissance of Jewish Culture in Weimar Germany, Yale University Press, New Haven, p. 41 e Mendelsohn, The Jews of East Central Europe cit., p. 190.13 - I dati statistici sono tratti da Arthur Ruppin, Soziologie der Juden, Jüdischer Verlag, Berlin 1930, vol. 1, p. 89 [trad.it. Gli ebrei d'oggi dall'aspetto sociale, Bocca, Torino 1922]; Paul Mendes-Flohr, Jehuda Reinharz, The Jew in the Modern World, Oxford University Press, New York 1995, p. 703.14 - I dati statistici che si riferiscono alla metà degli anni Venti sono tratti dall'articolo Bevölkerungsstatistik der Juden, in “Jüdisches Lexikon”, vol. IV/2, coll. 630-672, e Ruppin, Soziologie cit., p. 91.15 - Peter Gay, In Deutschland zu Hause... Die Judem der Weimarerzeit, in The Jews in Nazi Germany, a c. di Arnold Pancker, JCB Moher, Tu«bingen 1986, pp. 31-43.16 Citato in Paul Mendes-Flohr, Jews Within German Culture, in German-Jewish History in Modern Times, a c. di Michael M. Meyer, Columbia University Press, New York, 1998, vol. 4, pp. 170171.17 - Todd M. Endelman, The Jews of Britain: 1656-2000, University of California Press, Berkeley 2002.18 - Cfr. Vital, A People Apart cit., p. 706.19 - Yuri Slezkine, The Jewish Century, Princeton University Press, Princeton 2004, p. 236.20 - Ivi, pp. 223-226.21 - Fritz Stern, The Burden of Success: Reflections on German Jewry, in Id., Dreams and Delusions: The Drama of German History, Knopf, New York 1987, pp. 97-114.22 - Hugo Bettau«er, Die Stadt ahne Juden; ein Roman von übermorgen, Wien 1922 [trad. it. La città senza ebrei: un romanzo di dopodomani, Donzelli, Firenze 2000; Artur Landsberger, Berlin ohne Juden, Lowit, Wien-Leipzig 1925.23 - Cfr. Cecil Roth, The Jewish Contribution to Civilization, n.p., 1938 e Siegmund Kaznelson, Juden im deutschen Kulturbereich, Jüdischer Verlag, Berlin 1959 (questo libro, di oltre 1000 pagine, fu terminato negli anni Trenta, ma poté essere pubblicato soltanto nel dopoguerra.)24 - Otto Heller, Der Untergang des Judentums: Die Judenfrage/Ihre Kritik/Ihre Lösung durch den Sozialismus, Verlag für Literatur und Politik, Wien-Berlin 1931. In traduzione francese: La fin du judaÝsme, Üd. Rieder, Paris 1933. Dello stesso autore si veda anche Sibirien: ein anderes Amerika, Neue deutscher Verlag, Berlin 1930.25 - Felix Theilhaber, Der Untergang der deutschen Juden. Eine volkswirtschaftliche Studie, Jüdischer Verlag, Berlin 1921, seconda edizione rivista, pp. 32-33.26 Franz Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, J. Kauffmann, Frankfurt am Main 1921 [trad. it. La stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1985].27 - Richard Koch, Das Freie Jüdische Lehrhaus, in “Der Jude” 7, 1923, p. 119.28 - Paula E. Hyman, From Dreyfus to Vichy: The Remaking of French Jewry, 1906-1939, Columbia University Press, New York 1979; David Bidussa et al., Oltre il ghetto. Momenti e figure della cultura ebraica in Italia tra l'Unità e il fascismo, Morcelliana, Brescia 1992.29 - Shmuel Ettinger, The Modern Period, in A History of the Jewish People, a c. di Haim Hillel Ben Sasson, Harvard University Press, Cambridge MA 1976, p. 956.30 - Mendelssohn, The Jews of East Central Europe cit., p. 114.31 - Michele Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell'elaborazione delle leggi del 1938, Zamorani, Torino 1994; Id., Gli ebrei nell'Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 2000.32 Endelman, The Jews of Britain cit., p. 203.