A

Davide Fricano
Persuasione. Una lettura filosofica
Retorica aristotelica e atti linguistici
Postfazione di
Armando Plebe
Copyright © MMXII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, /A–B
 Roma
() 
 ----
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: giugno 
Indice

Introduzione

Capitolo I
Da Aristotele a Austin: linguaggio, significato, azione
.. Linguaggio ordinario e analisi semantica: un metodo filosofico,  – ... Analisi semantica,  – ... Uso del linguaggio,  – ... Vizi semantici,  – ... Chiarezza espressiva e linguaggio ordinario,  – .. Aspetti performativi del lógos aristotelico,  – ... Il paradigma semantico–referenziale,  – ... Il paradigma
pragmatico–performativo,  – ... Performatività del linguaggio in Aristotele,  –
.. Filosofie a confronto, .

Capitolo II
Natura illocutoria dell’atto retorico
.. La retorica come arte illocutoria,  – .. Illocuzione e perlocuzione,  –
.. La prospettiva metacausale,  – .. Le regole della tecnica retorica,  –
... Flessibilità normativa,  – .. Tecnica e natura,  – .. Convenzionalità
e linguisticità,  – .. Contesto, .

Capitolo III
Garver: la “Retorica” come opera filosofica
.. I livelli dell’atto linguistico,  – .. Illocuzioni retoriche,  – ... Nucleo
descrittivo e nucleo performativo,  – ... Prova e giudizio,  – ... Entimema
e sillogismo pratico,  – .. Felicità dell’atto illocutorio retorico,  – .. Appello razionale,  – .. Intenzione e retorica,  – ... Sincerità intenzionale,  – ... Intenzioni retoriche occulte,  – ... Trasparenza intenzionale,  –
.. Appello emotivo,  – .. Appendice: retorica e poetica, .

Capitolo IV
Retorica e persuasione
.. La retorica come arte del persuadere,  – .. La retorica aristotelica come
arte del persuasivo,  – .. La retorica come arte della persuasione, .

Capitolo V
La regola perlocutoria
.. Convenzionalità e tassonomia perlocutoria,  – .. Intenzionalità perlocu
Indice

toria,  – .. Apertura perlocutoria e ruolo della possibilità in retorica, 
– ... Apertura perlocutoria e felicità illocutoria,  – .. Intersuasione: natura
dialogica dell’atto retorico,  – .. Éndoxa e tópoi, .

Capitolo VI
Prove retoriche perlocutorie
.. Sinergia delle prove: tecnicità e linguisticità,  – ... Le prove retoriche:
linguisticità e perlocutorietà scopistica,  – .. Il paradigma della psicologia
cognitivista,  – .. Lógos,  – .. Lógos ed êthos: la verità retorica,  –
.. Lógos–páthos, .

Indice delle abbreviazioni

Bibliografia

Postfazione
Questo saggio nasce dalla tesi di dottorato in Filosofia del Linguaggio
discussa presso l’Università di Palermo, conclusione di un’esperienza di
ricerca della quale sono debitore nei confronti dei docenti del Collegio e dei
suggerimenti ricevuti dai colleghi dottorandi. Un grazie particolare a mia
moglie Roberta per l’aiuto offertomi nella non facile opera di traduzione
dei testi in lingua greca. Per la pubblicazione del saggio la mia riconoscenza
va al costante incoraggiamento della prof.ssa Mignosi, già docente di Storia
della Filosofia antica presso l’Ateneo palermitano, e all’apprezzamento manifestato dal prof. Plebe, già docente di Storia della filosofia dell’Università
di Palermo. Desidero inoltre ringraziare il dott. Gotti della casa editrice per
la paziente collaborazione e la fiducia accordatami. Dedico questo libro alla
mia famiglia che ha sostenuto con affetto la scelta “difficile” dei miei studi.

Introduzione
Il pensiero aristotelico può esser legittimamente visto come il nucleo di riferimento degli studi e delle teorie partorite nella fucina filosofica di Oxford.
Grazie alla feconda attività della “Aristotelian Society” (attestata dai relativi
“Proceedings”) poterono costruire e far conoscere le proprie posizioni di
rigorosa matrice aristotelica quelli che poi sarebbero diventati alcuni tra i più
autorevoli pensatori inglesi del secolo scorso. Scorrendo le pubblicazioni vi
si ritrovano i lavori di G.E. Moore, G. Ryle, quelli del gruppo dei “moralisti
di Oxford”, tra cui l’aristotelikótatos Cook Wilson (già presidente della Società, insieme a Ingmar Bywater), D. Ross e H.A. Prichard , oppure, ancora,
i lavori di P. Strawson che, ad esempio nel suo saggio Individuals, propone
l’idea di chiaro stampo aristotelico di una metafisica descrittiva costruita
sull’immagine di una realtà contenuta nel linguaggio ordinario, composta
di sostanze, generi, specie, accidenti. Né può essere sottaciuto il fatto che
negli anni Sessanta del secolo scorso si registrò una stretta convergenza
tra linguistic turn, maturato in ambito analitico–oxoniense, e neoaristotelismo pratico (Ritter, Anscombe, Arendt) . Ma, se Aristotele trova il suo
regno filosofico ad Oxford , il “gran visir” (l’espressione, secondo quanto
. Così lo definì Bywater.
. Quello stesso Prichard che fu l’esplicito bersaglio polemico di J.L. Austin nel suo saggio sul
concetto aristotelico di “felicità”. Si veda J.L. A, Saggi filosofici, a cura di P. Leonardi, Guerini,
Milano, , pp. –.
. Una delle tesi sostenute da F. Rigotti è che fu proprio tale convergenza a dare rinnovato vigore
alla retorica in quel periodo. Del resto non a caso, proprio in quegli anni, cominciava ad emergere
la Nouvelle Rhetorique di C. Perelman e L. Olbrecht–Tyteca. Florescu sostiene poi l’opportunità di
mediare in sede teorica gli assunti della nuova retorica di Perelman con la filosofia analitica austiniana
(e con lo studio da essa effettuato del condizionamento linguistico del ragionamento pratico). Si
precisa sin d’ora che in presenza di Autori citati senza alcuna specificazione bibliografica in nota,
s’intende che le teorie degli stessi prese in considerazione sono tratte dall’unico testo riportato nella
bibliografia finale o sono diffusamente estrapolabili da tutti i testi (nel caso di Autori dei quali siano
elencati più testi) inseriti nella suddetta bibliografia.
. Oxford si rivelò un ambiente culturalmente molto fertile anche per l’attecchimento di studi
sulla retorica intesa come disciplina. Ivi gli umanisti inglesi del Quattrocento imposero lo studio
dei classici, equiparando la retorica alla grammatica e alla logica. Essa, seppur estromessa dai livelli
più avanzati di studio, permane ancora a lungo come materia propedeutica al conseguimento
del baccalaureato, conoscendo semmai un progressivo arricchimento tematico. Nel  infatti il
Vescovo Fox fondò il “Corpus Christi College”, ove Cicerone (soprattutto con l’Orator) e Quintiliano
divennero gli autori classici di riferimento. Nel “Trinity College” furono invece le Elegantiae di Valla
a porsi come modelli di retorica, alle quali, presso il “St John’s College”, si aggiunsero studi più
approfonditi su Isocrate, Demostene ed Ermogene.


Introduzione
riporta Berti nell’introduzione alla monografia di Ackrill su Aristotele, è da
attribuirsi a J. Barnes nell’articolo Aristote dans la philosophie anglosaxonne,
in “Revue philosophique de Louvain”, , , –; l’attributo riferito
ad Austin è presente a p. ) che s’installa alla sua corte è J.L. Austin: il
teorico degli atti linguistici. Direttore della collana “Clarendon Aristotle
Series”, la sua intuizione (condivisa con Ryle e approfondita dai suoi allievi
J.L. Ackrill, successore di Austin alla direzione della prestigiosa collana, e
G.E.L. Owen) che il vero metodo della filosofia aristotelica dovesse rinvenirsi nella dialettica lo spinse ad elaborare la teoria dell’analisi del linguaggio
ordinario attraverso l’esame dell’uso e dei significati dei termini impiegati,
nonché la già menzionata teoria degli atti linguistici. Austin contribuì in
modo rilevante a sottolineare il tratto distintivo dell’approccio oxoniense al
pensiero aristotelico: accanto ad una rigorosa analisi filologica e storica del
testo aristotelico si colloca inscindibilmente un fecondo interesse filosofico
che sfocia da un lato in interpretazioni sempre più fedeli, e innovative al
contempo, del pensiero dello Stagirita e, dall’altro, in nuove e originali teorie filosofiche. Ma proprio qui si colloca un curioso paradosso: nonostante
Austin sia stato uno dei protagonisti più attivi e competenti nella metabolizzazione oxoniense del pensiero aristotelico , non v’è traccia apprezzabile
di studi specifici dedicati al rapporto tra la sua teoria degli atti linguistici
e il Corpus filosofico di Aristotele. La correlativa letteratura critica offre
infatti un panorama di straordinaria esiguità di contributi dedicati all’esame
dei rapporti sussistenti tra le teorie linguistiche, e per certi versi etiche,
della filosofia aristotelica e le teorie degli esponenti della filosofia degli atti
linguistici che alle prime si rifanno. Tale manchevolezza, lungi dall’insospettire doverosamente gli studiosi, ha semmai trovato sostegno e supporto in
alcune considerazioni piuttosto autorevoli; Searle, ad esempio, prendendo
spunto da un’affermazione dello stesso Austin contenuta in A plea for excuses,
scrive:
Parte del gusto di scrivere sugli atti linguistici è che non c’è nessuna pesante
tradizione filosofica che prema sulla ricerca. Tranne che per pochi casi prediletti
come promesse ed affermazioni, la maggior parte dei tipi di atti linguistici sono
stati ignorati dai grandi filosofi del passato; e si può indagare, per esempio, sul
ringraziare, sullo scusarsi e sul richiedere, senza doversi guardare dietro le spalle
per vedere quello che Aristotele, Kant o Mill hanno detto al proposito .
Quella di Searle è una posizione sicuramente estrema. L’errore commesso in buona fede dall’Autore nasce da un intento invero condivisibile:
. Si pensi al saggio da lui dedicato al concetto di felicità in Aristotele nei Saggi filosofici,cit., pp.
–.
. J. S, Dell’intenzionalità, Bompiani, Milano, , p. .
Introduzione

sottolineare la novità e l’originalità che hanno caratterizzato il sorgere delle
teorie filosofiche di Austin. Questa preoccupazione ha però condotto il Filosofo americano a quel tipo di conclusione, così drastica ed, in fondo, inesatta.
Garantire originalità alla teoria austiniana del linguaggio infatti non può, né
deve, comportare la radicale esclusione di qualsiasi forma di derivazione filosofica della stessa da fonti così prestigiose, soprattutto da quella aristotelica
la cui funzione–matrice in questa prospettiva risulta, all’opposto, inequivocabile. Se è vero, infatti, che nei testi aristotelici non v’è traccia di uno studio
specificamente rivolto a quei determinati atti linguistici, è anche vero però
che, al di là delle ammissioni dello stesso Austin, la trattazione di quegli stessi atti condotta dal Filosofo oxoniense si avvale dell’imprescindibile risorsa
delle teorie aristoteliche sulla volontà, l’intenzionalità e la responsabilità,
che fanno degli assunti presenti nell’etica aristotelica il supporto concettuale
propedeutico alla definizione degli atti linguistici di cui sopra. Uno dei livelli
degli atti linguistici — ossia la perlocuzione — è per l’appunto caratterizzato
dalla medesima scarsità di contributi scientifici rilevata a proposito dei rapporti tra pensiero aristotelico e austiniano. Dunque la delineazione di un
percorso di rivalutazione del ruolo perlocutivo nell’economia complessiva
dei livelli dell’atto linguistico può costituire sia un versante significativo di
connessione tra i due filoni filosofici, sia un rimedio ai fraintendimenti in
ordine alla natura e alla funzione operativa di tale figura linguistica sorti
probabilmente a causa di quelle carenze bibliografiche sopra denunciate.
Per poter avviare tale processo di rivalutazione dello spessore filosofico della
perlocuzione (che emerge dalla delicata intersezione tra filosofia pratica
e filosofia del linguaggio) dovremo cominciare col sottolineare nel primo
capitolo il carattere anche performativo del linguaggio in genere e, soprattutto, del λόγος aristotelico. Perché proprio Aristotele? Perché abbiamo
ritenuto che tale riabilitazione filosofica della perlocuzione potesse godere di maggior credito se sostenuta dal supporto autorevole della Retorica
aristotelica. In quel testo infatti si possono rintracciare gli assetti basilari
di quel tipo di perlocuzione che, nostro avviso, può esser letto come filtro
perlocutorio universale: la persuasione (ossia: prima di poter conseguire
con successo qualsiasi effetto col dire qualcosa — intimorire, commuovere,
rallegrare, ecc. — occorre sempre che chi ascolta si persuada del contenuto
del messaggio destinatogli). C’è invero un valore aggiunto tra gli input che
hanno sollecitato l’assunzione di tale direttrice di ricerca: un articolo di
E. Garver in cui l’Autore, nell’intento di dare una lettura filosofica della
retorica aristotelica, tende ad interpretare l’atto retorico come un atto in
cui atto illocutorio ed effetto perlocutorio possano coincidere, con la conse. E. G, Aristotle’s Rhetoric as a work of philosophy, in «Philosophy and Rhetoric», , n., pp.
–.

Introduzione
guenza però di inglobare l’atto perlocutorio retorico (la persuasione) in una
delle classi illocutorie teorizzate da Searle: quella dei dichiarativi. A nostro
parere questo tentativo risulta improprio. Oggetto del secondo capitolo
sarà l’esposizione dettagliata della posizione critica piuttosto radicale per la
quale sarebbe auspicabile la lettura dell’atto retorico in veste esclusivamente
illocutoria; analizzeremo anche sotto quali profili tale prospettiva si rivela
“debole” e incapace di rendere compiutamente conto delle più importanti
dinamiche operative e degli assetti strutturali dell’atto retorico. Nel terzo
capitolo scorreremo dettagliatamente invece le posizioni più “moderate”
di Garver, corroborandole con tutti gli elementi teorici che è possibile
avanzare a loro sostegno (trasparenza dell’intenzione persuasiva come segno distintivo della razionalità dell’appello retorico, persuasione emotiva vs
razionale, il concetto di prova e di giudizio retorico, ecc.). In fin dei conti,
buona parte della seconda sezione del testo si può leggere anche come
confutazione della teoria garveriana e, perciò stesso, come esposizione di
tutti i rilievi tesi a mostrare il perché dell’improprietà di tale prospettiva. Per
il momento basti sommariamente anticipare la differenza sostanziale di quel
paradigma esplicativo rispetto al nostro: a noi non interessa spiegare l’atto
retorico utilizzando come metro esplicativo la teoria degli atti linguistici; tale
intento reca infatti implicito un rischio, invero assai diffuso, di prediligere
uno dei livelli dell’atto linguistico, solitamente l’illocutorio, considerandolo
come quello che esaurisce l’atto retorico nella sua complessità. All’opposto,
a noi interessa vedere cosa c’è di retorico, qual è la base, la natura, la struttura retorica dell’atto perlocutorio. Qual è il suo atto di nascita filosofica, il
suo statuto culturale e quali le sue modalità dinamiche d’attuazione: capire
questo equivale a salvaguardarne l’autonomia delle funzioni, la “dignità epistemica”, nel rispetto peraltro della piena unità dell’atto linguistico data dalla
compresenza e dalla complementarietà di tutti e tre i suoi livelli. Soltanto
avendo chiaro questo punto si potrà cogliere l’intento di fondo di questo
studio: tentare di offrire un’ipotesi di lettura filosofica del fenomeno della
“persuasione”. Tracciare un possibile percorso che consenta d’inquadrare
filosoficamente la persuasione comporta mettere in gioco, nell’accostarsi
a questo concetto, una serie di risorse tipicamente filosofiche che, a loro
volta, vengono rivisitate criticamente nei loro principi e nei loro rapporti
costitutivi: teoria degli atti linguistici (con annessa convenzionalizzazione
e riabilitazione del ruolo perlocutorio) e teoria retorica aristotelica (con la
descrizione dei suoi rapporti con la filosofia pratica, che esuli però dalla
consueta riduzione allo schema retorica–politica o retorica–psicologia, e
metta in gioco elementi e concetti più tecnici, quali il rapporto sillogismo
pratico/entimema con annesso excursus sul concetto di intenzione, scelta
proairetica, proposito). D’altro canto tale percorso consente di sottrarre
il tema della persuasione all’egida esclusiva degli studi psicologici (con le
Introduzione

relative ristrette interpretazioni psicologistiche) restituendogli le sue radici;
radici autenticamente e saldamente filosofiche che, a nostro avviso, permangono comunque come le più esplicative: per questo ci soffermeremo anche
sulla delineazione di una teoria della persuasione emergente nella filosofia
del linguaggio aristotelica, sulla relazione cioè tra persuasione e linguaggio,
sulla sovrapposizione di questi due “insiemi” che può offrire il senso più
proprio del concetto di persuasione in Aristotele, ancor oggi valido (non
ci risultano specifici studi in merito, mentre abbondante, ovviamente, è
la bibliografia vertente sulla retorica aristotelica in generale, comprensiva
di tutti i molteplici aspetti che la riguardano). Nel capitolo quarto si procederà dunque allo studio del concetto di persuasione, inquadrato anche
sotto il profilo datone dai modelli di psicologia cognitivista (Chaiken, Petty
e Cacioppo) mostrandone poi le sostanziali eterogeneità rispetto a quelli
della retorica classica (e aristotelici in particolare). Il capitolo quinto sarà
dedicato alla sintesi di tutti gli studi finora specificamente dedicati al tema
della perlocuzione e alla descrizione del nostro paradigma di perlocuzione:
ad essa assegneremo i caratteri di intenzionalità e convenzionalità che solitamente le vengono negati essendo ritenuti di esclusivo dominio dell’area
illocutoria. Cercheremo di mostrare infatti come la perlocuzione presenti
un duplice assetto convenzionale: attività convenzionalmente regolata ed
al contempo regola di formazione e condizione di felicità delle illocuzioni
ad essa associate. In questo capitolo troveranno spazio anche gli elementi
della retorica (luoghi e opinioni notevoli) che contribuiscono ad accrescere
il ruolo dell’uditorio (così importante per la realizzazione degli effetti perlocutori) all’interno dell’atto retorico. L’ultimo capitolo infine si traduce in
un viaggio esplorativo attraverso le prove retoriche tecniche descritte da
Aristotele per mostrare, a partire da esse, quanto della loro natura possa
essere riconducibile alle qualità dell’atto perlocutorio.
Capitolo I
Da Aristotele a Austin
Linguaggio, significato, azione
Vorrei proporre un principio che si potrebbe chiamare il Nuovo Rasoio di Occam: i sensi non devono essere moltiplicati più del necessario.
— H.P. G, Logica e conversazione
: .. Linguaggio ordinario e analisi semantica: un metodo filosofico,  –
.. Aspetti performativi del lógos aristotelico,  – .. Filosofie a confronto, .
Esistono almeno quattro distinti punti di tangenza generale tra la prospettiva
aristotelica e quella austiniana: due di essi sono strettamente connessi, ossia
riconoscimento dello spessore filosofico del linguaggio ordinario e teoria del
“significato” inteso come analisi dell’uso di un termine in ambito comunicativo. Nonostante a queste due istanze austiniane non sia mai stato dedicato
un saggio peculiarmente volto ad illuminarne la germinazione aristotelica, è
pur vero che il loro contenuto di fondo è riscontrabile in letteratura, seppure
in forma disorganica. Si tratta prevalentemente di osservazioni sporadiche
e marginali contenute in contributi riguardanti tematiche più generali. Gli
altri due punti di tangenza (aspetti performativi presenti nel lógos aristotelico e carattere di apertura e incompiutezza dei due filoni di pensiero) non
hanno invece al momento raggiunto un grado di maturazione bibliografica
che ne possa consentire un’adeguata valorizzazione.
.. Linguaggio ordinario e analisi semantica: un metodo filosofico
La teoria di Austin prende corpo attraverso la giustapposizione di alcuni
spunti teorici. Ossia: la costruzione o l’indagine di una teoria filosofica
deve presupporre l’analisi delle modalità d’espressione dell’eloquio ordinario; tale analisi comporta l’esame dell’uso che i parlanti fanno delle parole
quando comunicano tra loro; osservare l’uso della terminologia adoperata


Persuasione. Una lettura filosofica
contribuisce a determinare correttamente il significato specifico del vocabolario cui si ricorre; l’individuazione precisa di questo insieme di significati
consente di evitare abusi, fraintendimenti semantici, assicurando con ciò
validità e correttezza alla teoria presa in esame od in fase di elaborazione.
Soffermiamoci dunque sui singoli passaggi di tale procedimento. Cominciando dalla rilevanza filosofica di tale metodo: che ruolo ricopre l’analisi
linguistico–semantica in filosofia? Leonardi risponde in modo abbastanza
esplicito; nel commento introduttivo all’edizione italiana dei saggi filosofici
di Austin egli infatti scrive:
Quando si parla del metodo della filosofia del linguaggio ordinario, si parla in realtà
del metodo di Austin, che lo descrisse con una certa cura in «Una giustificazione
per le scuse», del . [. . . ] Se il nostro problema filosofico nasceva da un equivoco,
dopo aver usato il metodo del che cosa diciamo quando, l’equivoco sarà probabilmente
risolto; se il nostro problema invece sussiste, ne conosceremo almeno quasi tutti
gli elementi, ne avremo una buona mappa. Seguendo il procedimento appena
descritto, infatti, usiamo una consapevolezza affinata delle parole per affinare la
nostra percezione dei fenomeni, e arriviamo ad una mappa del problema. Se il
problema sussiste, comunque, dovremo ricorrere ad altri mezzi per risolverlo: la
mappa ci serve per muoverci, ma muoversi è un’altra cosa. Insomma, il linguaggio
ordinario non dice l’ultima parola; semmai la prima. [. . . ] Senza considerarlo affatto
un metodo esclusivo, resta che il cosiddetto metodo della filosofia del linguaggio
ordinario costituisce, come ho già detto, un notevole raffinamento di un metodo
filosofico — l’analisi del linguaggio ordinario e la discussione di famiglie di casi —
cui si è sempre fatto ricorso .
Il metodo della filosofia del linguaggio ordinario costituisce dunque —
per ripetere le parole più significative dello Studioso — un metodo filosofico
(analisi del linguaggio ordinario) cui si è sempre fatto ricorso. A partire dallo
stesso Aristotele, come vedremo tra breve. È lo stesso Leonardi, nelle stesse
pagine, ad offrirci un’immagine sintetica del lavoro messo a punto da Austin:
preliminarmente dobbiamo fare una lista delle parole rilevanti, a cominciare da
«scusarsi» e «dispiacersi» — un’operazione che, servendosi di quell’importante
risorsa che sono i dizionari, può essere fatta in due modi: (i) possiamo fare la
lista delle parole rilevanti prendendo un dizionario e sfogliandolo dalla prima
all’ultima pagina. Una cosa che richiede meno tempo e meno sforzo di quanto non
si creda. Oppure, (ii) possiamo fare a memoria una prima lista delle parole rilevanti,
controllando sul dizionario le voci corrispondenti. Possiamo ricavare da queste voci
un secondo gruppo di parole rilevanti da aggiungere alla nostra lista, e, controllando
. J.L. A, Saggi filosofici, cit., pp. –.
. Ricordiamo quanto già esposto nel brano di Leonardi precedentemente riprodotto: il saggio
in cui Austin delinea teoricamente in modo più esplicito il proprio metodo è il saggio A plea for
excuses. Un saggio che riguarda lo studio di temi quali la “responsabilità”, la “libertà” ecc.; o meglio:
quando si dice che qualcuno è veramente responsabile degli atti commessi, quando si può definire
qualcuno realmente libero d’agire.
. Da Aristotele a Austin

sul dizionario le voci corrispondenti alle parole di questo secondo gruppo, ricavare
un terzo gruppo di parole da aggiungere alla lista, continuando così finché non
riusciamo più ad aggiungere nuove parole alla lista, finché cioè non troviamo che
ripetizioni. Una volta in possesso di una buona lista di parole rilevanti (idealmente
della lista completa), il metodo del cosa dire quando entra in azione. Vediamo allora
se ci sono corrispondenze lessicali fra nomi, verbi, aggettivi ed avverbi (cioè se da
una stessa radice si producono un nome, un verbo, un aggettivo e un avverbio);
controlliamo suffissazioni e prefissazioni, e quali preposizioni ammettono i diversi
sintagmi; costruiamo frasi rilevanti a partire da quelle parole, e facciamo delle
variazioni su di esse, per esempio inserendo avverbi, controllando quali avverbi
vanno con quali verbi, quali aggettivi vanno con quali nomi, ecc. (gli avverbi e
gli aggettivi che ci servono a costruire variazioni non saranno sempre, e forse
neppure spesso, nella nostra lista di parole); verifichiamo se quelle frasi possono
essere usate come conseguente di un condizionale, e di quale, ecc. Nel fare tutto
questo guardiamo alle parole — cioè, a che cosa diciamo — ma prendiamo in
considerazione nello stesso tempo anche le situazioni nelle quali, e quelle per
parlare delle quali, usiamo le parole — cioè, quando diciamo quello che diciamo.
Molte volte scopriamo che quelli che crediamo essere usi linguistici diversi sono in
realtà usi in circostanze diverse.
Una meticolosa tassonomia semantica, con la minuziosa focalizzazione
di affinità e differenze di significati, sta dunque alla base della natura filosofica
del metodo austiniano. Ora, appare ben evidente come Austin invero non
abbia fatto altro che tradurre in una ordinata procedura metodologica quella
che è stata, fin dalle origini, un’intuizione filosofica pertinente al campo
della dialettica. Senza scomodare il famoso ti estí socratico–platonico, ancor
più calzanti (e attinenti al nostro tema d’analisi) appaiono le osservazioni di
Aristotele: «Difficile infatti distinguere ciò che è detto nello stesso modo e
ciò che è detto altrimenti, colui che infatti è capace di fare ciò è prossimo a
conoscere il vero, soprattutto sa approvarlo » (SE, ,  a –).
Ribadendo, poco oltre, l’importanza per la filosofia di un’accurata analisi
dei significati delle parole e degli enunciati cui si ricorre: «Sono dunque utili
alla filosofia per almeno due motivi. Primariamente, infatti, essendo nati
. Anche in Aristotele il linguaggio ordinario costituisce solo la prima parola, il la, lo spunto
da cui muoversi per elaborare le proprie dottrine, né potrebbe essere altrimenti. Il minuzioso
esame vocabolaristico e concettuale che precede ogni teoria (metafisica, etica) aristotelica parte
proprio da termini del linguaggio ordinario, dal modo con cui di solito li si impiega e li si intende
(evidenziandone le distanze o l’affinità rispetto al proprio uso od a quello scientifico in genere, oppure
più semplicemente mostrando quale tra i significati elencati appare all’Autore il più opportuno).
Da qui si risale via via a gradi di complessità terminologica proporzionali ai gradi di complessità
epistemica. Solo tenendo conto di questa prospettiva affermare che nel filosofare aristotelico il
linguaggio ordinario rivesta un ruolo importante si rivelerà del tutto compatibile con la presenza
nelle sue opere di scienza teoretica (fisica in testa) di un linguaggio invece più tecnico, specialistico
e articolato. Ciò del resto accade anche in Austin: lungi dall’essere privi di tecnicismi, i suoi testi a
volte abbondano di termini appartenenti alle più svariate discipline scientifiche e filosofiche.
. Si precisa sin d’ora che le traduzioni dei brani riportati, ove non fossero presenti differenti
indicazioni, sono nostre.

Persuasione. Una lettura filosofica
per lo più dalla léxis fanno possedere ciò che è meglio in riferimento ad
ogni cosa che è detta in molti sensi e a ciò che viene ad essere sia in modo
simile sia in modo diverso, sia per i fatti che per i nomi» (SE, ,  a –).
Aristotele in questo brano si riferisce ai discorsi che assumono la forma di
una risposta fornita a determinate domande: affinché tali enunciati–risposta
si possano rivelare utili alla filosofia occorre che vengano formulati avendo
ben presenti le differenze e le analogie semantiche tra i nomi e le varie
espressioni, anche tra quelle che dal punto di vista lessicale presentino
forme analoghe.
... Analisi semantica
Stabilito il nesso sussistente tra filosofia e metodo della classificazione semantica, va adesso visto cosa i due Autori intendano per “significato”.
Austin, in proposito, in uno dei suoi Saggi filosofici (pp. –) è chiarissimo:
l’espressione «il significato di una parola» è in generale, se non sempre, un nonsenso
pericoloso [. . . ]. Si potrebbe giustamente insistere che, propriamente parlando,
solo un enunciato ha significato. Beninteso, si può parlare con assoluta proprietà per
esempio di «cercare il significato di una parola» in un dizionario. Ciononostante,
pare che il senso in cui una parola o un’espressione «ha un significato» è derivato dal
. Segnaliamo qui che il termine λέξις conosce diverse traduzioni standard: stile, espressione,
elocuzione. V’è in proposito una lunga e autorevole tradizione: J. H in Poétique, Parigi, 
traduce con élocution (elocuzione); A. H e M. D in La Poétique d’Aristote, Parigi, ,
traducono con discours; M. D invece ne Aristote. Rhétorique, Parigi, , cambia versione e, per
l’ambito retorico, preferisce style (in ciò preceduto da I. C in An introduction to Aristotle’s Rhetoric,
Londra,  e seguito da D.W. L in Aristotle’s Poetics, Oxford, , il quale intendeva per λέξις lo
stile emergente dall’intero processo di combinare le parole di un testo in una sequenza intelligibile); I.
B in The Poetics, inserito nel lavoro curato da J. B The complete works of Aristotle, Princeton,
, preferisce diction. La traduzione con “stile” (da cui poi discende la celebre attribuzione di toni
stilistici precisi e distinti in relazione allo scopo che si vuol conseguire in un determinato frangente
dell’atto oratorio, per cui lo stile umile si addice al probare, quello mediocre al conciliare ac delectare e
quello sublime al movere) contribuisce a dare un’immagine eccessivamente letteraria della retorica.
Noi riteniamo che nessuno dei termini prescelti, da solo, esaurisca il senso pieno della parola greca.
Léxis è infatti l’insieme degli elementi connotati dai termini sopra visti e ha assunto ormai una
pregnanza semantica così corposa da poter essere mantenuto nella sua forma originaria. In Poetica
 b –, Aristotele definisce la léxis semplicemente come “l’esprimere attraverso le parole”. Per
una più precisa determinazione del concetto di λέξις in Aristotele rimandiamo a F. L P; qui ci
limitiamo a citarne un passo particolarmente esplicativo tratto da Il corpo vivente della léxis e le sue parti,
in «Histoire épistémologie langage», /, pp. –: «Nel Corpus aristotelicum, léxis [. . . ] non è né la
voce articolata, piccola o grande che sia, separata dal significato né un generico “significante” o “piano
dell’espressione” da distinguere da un “significato” o “piano del contenuto”. È il nome generico con
cui viene designato l’insieme variegato dei comportamenti specie–specifici umani connessi con l’uso
del linguaggio» (p. ). Essa rappresenta cioè lo strumento unico e necessario per la messa in opera
dei comportamenti specifici dell’uomo quali dire il vero o il falso, lodare e biasimare, consigliare
o sconsigliare, accusare o difendere ecc. ecc. In tal senso essa «più che espressione esteriore del
pensiero, è il corpo naturale vivente di quell’agire specie–specifico umano che è l’agire linguistico
nelle sue varie articolazioni cognitive» (ivi, p. ).
. Da Aristotele a Austin
senso in cui un enunciato «ha un significato»: dire che una parola o un’espressione
«ha un significato» equivale a dire che ci sono enunciati che «hanno significato»
in cui essa ricorre, e conoscere il significato di una parola o di una espressione,
equivale a conoscere il significato degli enunciati in cui essa ricorre. Tutto quello
che il dizionario può fare quando «cerchiamo il significato di una parola» è fornirci
un aiuto per comprendere gli enunciati in cui essa ricorre. Pare, quindi, corretto dire
che ciò che «ha significato» in senso primario è l’enunciato. Filosofi più all’antica
discutono «il problema del significato» delle parole e tendono perciò a cadere
in errori particolari, che filosofi più aggiornati evitano perché discutono invece
il problema parallelo del «significato degli enunciati» [. . . ]. Ci sono molti tipi di
enunciati in cui si trovano le parole «il significato della parola», per esempio «Non
sa o non comprende, il significato della parola sega a mano»; «Le dovrò spiegare il
significato della parola piccozza», e così via. Intendo considerare per prima cosa
la seguente questione banale: «Qual è il significato di così e così?» ovvero «Qual
è il significato della parola così e così?». Supponiamo che nella vita quotidiana mi
si chieda «Qual è il significato della parola piccante?». Per rispondere posso fare
due cose: posso rispondere usando delle parole, cercando di descrivere che cos’è
e che cosa non è l’essere piccante, cercando di dare esempi di enunciati in cui si
potrebbe usare la parola piccante, e di altri enunciati in cui non la si dovrebbe usare.
Chiamiamo questo genere di cosa «spiegare la sintassi» della parola «piccante» nella
lingua italiana. D’altra parte, potrei dare quel che si dice una «dimostrazione della
semantica» della parola, facendo sì che chi me ne ha chiesto il significato immagini,
o addirittura esperimenti effettivamente, delle situazioni che si descriverebbero
correttamente per mezzo di enunciati contenenti «piccante» «essere piccante», ecc.,
e altre situazioni ancora in cui non dovremmo usare queste parole. Questo è senza
dubbio un caso semplice: ma forse questi due generi di procedure sono proprio
quelli cui si ricorre di solito almeno per le parole più comuni [. . . ]. Essendoci
chiesti «Qual è il significato di (della parola) “topo”?», «Qual è il significato di (della
parola) “gatto”?» [. . . ] possiamo, però, in quanto filosofi, provare a porre l’ulteriore
domanda, generale, «Qual è il significato di una parola?». Ma c’è qualcosa di spurio
in questa domanda. Con essa non intendiamo porci una domanda determinata, che
sarebbe perfettamente legittima, e cioè la domanda: «Qual è il significato di (della
parola) “parola”?»: chiedersi questo non sarebbe affatto più generale che chiedersi il
significato della parola topo, e vi risponderemmo esattamente allo stesso modo. No,
ci vogliamo chiedere semmai «Qual è il significato di una–parola–in–generale?» o
«di una qualsiasi parola» — non intendendo con «qualsiasi» la parola che vi piacerebbe
scegliere, ma piuttosto nessuna parola particolare, appunto «qualsiasi parola». Se ci
riflettiamo anche solo un momento, questa è una domanda cui è perfettamente
assurdo cercare di rispondere. Posso rispondere solo ad una domanda nella forma
«Qual è il significato di “x”?» se «x» è una parola particolare di cui mi si chiede il
significato. Questa domanda che si suppone essere generale è in realtà una domanda
spuria di un tipo comune in filosofia. Si può chiamarla, la fallacia di chiedere
«Niente–in–particolare»: una pratica denigrata dall’uomo comune, che il filosofo
ha chiamata generalizzare, e ha considerata con un certo compiacimento [. . . ].
La domanda «Conosci il significato di una parola?» sarebbe stupida. [. . . ] Subito
ci si presenta uno stormo di risposte tradizionali e rassicuranti: un «concetto»,
un’«idea», un’«immagine», una «classe di oggetti di senso simili» ecc. Tutte risposte
ugualmente spurie ad una pseudodomanda [. . . ]. Quanto sia strano questo modo
di procedere lo si può vedere nel modo seguente. Supponiamo che un uomo della
strada, perplesso, mi chiedesse «Qual è il significato di (della parola) “afoso”?» e


Persuasione. Una lettura filosofica
io rispondessi, «L’idea o il concetto di “afa”», o «La classe delle sensazioni di cui è
corretto dire “Questo è afoso”». L’uomo mi squadrerebbe indubbiamente come se
fossi un imbecille. Ciò sarebbe sufficiente per me per concluderne che quella non
era affatto il genere di risposta che si attendeva: nell’italiano comune, infatti, quella
domanda non può mai richiedere quel genere di risposta. [. . . ] Comunque è chiaro
cosa sostengo: non c’è nessuna semplice e maneggevole appendice di una parola,
che sia «il significato della (parola) x».
Le considerazioni che si possono trarre dalla lettura di questo ampio
brano sono molteplici: innanzitutto la ribadita centralità del problema del
“significato” all’interno dell’orizzonte teorico austiniano. Centralità che
sarà riconfermata a più riprese nella teoria degli atti linguistici, ove Austin
riserverà, tra i livelli di un atto linguistico, un posto privilegiato al livello
locutorio, cioè proprio a quello in cui risiede il significato di un enunciato
(mentre il livello illocutorio darà spazio alla semantica nell’area degli effetti
illocutori che si devono produrre con il proferimento di un enunciato: la
comprensione del significato di un enunciato da parte dell’ascoltatore è uno
dei tre effetti che si devono concretizzare perché l’atto comunicativo possa
dirsi riuscito o felice).
Ebbene, premesso che, in linea con quanto scritto da Austin, neanche nel
Sull’interpretazione — l’opera cioè che dalla critica viene più specificamente
ritenuta il manifesto della teoria del significato secondo Aristotele — viene
mai definito che cos’è, sic et simpliciter, il “significato” tout court , molteplici
appaiono i luoghi testuali aristotelici in cui viene riconosciuta la priorità
dell’operazione di determinazione semantica. Tanto per cominciare, non è
un caso che nella Retorica Aristotele inserisca tra i luoghi comuni a tutti
i generi di retorica (cioè tra gli schemi argomentativi che costituiscono
l’intelaiatura strutturale di un’argomentazione) la definizione (ἐξ ὁρισμοῦ,
,  a ) e, immediatamente a seguire, l’individuazione corretta e minu. Certo, v’è il brano ,  a – nel quale si è soliti rinvenire le linee portanti della semantica
aristotelica, ma in nessun passo della stessa opera Aristotele definisce e/o dichiara in modo rilevante:
«Il significato è. . . », oppure: «definisco come significato. . . ».
. Il nesso tra precisazione semantica dei termini e retorica percorre tutto l’arco storico di
sviluppo di questa disciplina. Tralasciando per il momento il naturale richiamo al filone della retorica
semantica di Richards (alla retorica intesa come studio degli equivoci semantici dovuti all’uso
scorretto dei nomi), si pensi alla retorica giudiziaria degli status causarum delineata da Cicerone nel
De Inventione (I, ): per capire bene di cosa si sta discutendo in un’aula di tribunale, è necessario prima
individuare correttamente la tipologia di reato per cui è processato l’imputato. Tale individuazione,
che naturalmente è rilevante per il peso delle eventuali sanzioni da infliggere, passa attraverso la
corretta definizione della fattispecie in discussione e la correlativa denominazione della stessa: cambia
molto per l’imputato che ha rubato degli arredi sacri in un tempio se lo si accusa di furto o di
sacrilegio (salvo potere cumulare le accuse). Non casuale peraltro appare in proposito l’attenzione
che Austin ha sempre mostrato nei confronti del mondo del linguaggio giuridico e giudiziario.
. Dopo aver fatto una serie di esempi includenti definizioni elaborate da personaggi famosi
(Platone e la definizione del “divino” in Apologia di Socrate  B sgg., l’oratore Ificrate e la sua