Nome file
000325SC1.pdf
data
25/03/2000
Contesto
ENC
Relatori
A Colombo
R Colombo
MD Contri
Liv. revisione
Trascrizione
CORSO DI STUDIUM ENCICLOPEDIA 1999-2000
RICCHEZZA E POVERTÀ
IL LEGAME SOCIALE E IL SUO DISSESTO
25 MARZO 2000
6° LEZIONE
GLI A-PRIORI CHE COMANDANO IL PENSIERO DA KANT ALLA
PSICOLOGIA RECENTE
TESTO INTEGRALE
MARIA DELIA CONTRI
INTRODUZIONE
Il titolo oggi è Gli a-priori che comandano il pensiero da Kant alla psicologia recente.
Introduco brevemente l’argomento, il tema di oggi, anche con lo scopo di richiamare il filo rosso che
collega tutti gli interventi, le occasioni di questo Corso.
Il tema che approcciamo oggi — perché evidentemente è di tale vastità che non può essere che
approcciato per approssimazione — è la questione del rapporto del pensiero con la realtà a partire dalla
soluzione kantiana. Kant — vissuto tra il 1724 e il 1824 — è considerato il massimo rappresentante tedesco
dell’illuminismo e a buon diritto è considerato autore di una vera e propria rivoluzione filosofica rispetto agli
esiti di una filosofia arrivata ad esiti scettici per il fatto di porre che esiste un ordine dato precedente il
soggetto conoscente.
Kant taglia con questa problematica — per questo si parla di rivoluzione filosofica — che nasce da
un’impostazione di un ordine dato precedente. Noi esseri umani — dice Kant — conosciamo in relazione
alla nostra costituzione soggettiva. Le cose in sé, cioè indipendenti da tale costituzione, l’ordine in sé che
collega queste cose, potrà anche esistere, possiamo anche pensare che esista, ma non possiamo conoscerlo.
È la stessa conclusione, peraltro, cui arriva Freud e vi leggo semplicemente un passo a questo
proposito:
Il problema di una natura dell’universo non riferito al nostro apparato psichico-percettivo è una vuota
astrazione priva di qualsiasi interesse pratico.
Di conseguenza il pensiero, l’intelletto, individuale per definizione, è lui il legislatore universale, è
lui a porre l’ordine, sia quanto alla scienza, che quanto alla morale; ovverosia sia quanto ai nessi da porre tra
i fenomeni, sia quanto alle leggi di rapporto tra persone, tra individui. E tuttavia benché Kant sia autore del
detto Sapere audet, osa sapere, tuttavia l’impressione è che egli si arresti su una soglia che invece Freud osa
varcare, che la psicologia freudiana osa varcare. La soglia secondo cui parlare di una costituzione soggettiva
significa anche porre che c’è un soggetto costituente. È un’incertezza questa di Kant su cui si inserirà il
kantismo e il neo-kantismo successivo e tutte le psicologie che in qualche modo fanno riferimento a Kant o
al neokantismo, un’incertezza approfondita fino a reinghiottire l’idea di una costituzione soggettiva, negando
il costituente stesso. Faccio soltanto un esempio — che credo poi Alberto Colombo e Raffaella Colombo
espliciteranno in altri modi —di questa incertezza su cui Freud stesso è esplicito proprio alla fine della sua
1
vita, nell’ultimo anno, ovvero nel 1938; si tratta di un qualche cosa che Freud non aveva pubblicato ma i
curatori della pubblicazione delle sue opere avevano ritrovato fra i suoi appunti:
Lo spazio può essere la proiezione dell’estensione dell’apparato psichico.
ovvero, non è qualche cosa da pensarsi come dato, ma è una proiezione dell’apparato psichico.
Nessun’altra derivazione è verosimile, invece di una delle condizioni a-priori kantiana nel nostro
apparato psichico.
Non è una condizione a-priori dell’apparato psichico, ma è una proiezione dell’apparato psichico;
La psiche è estesa e di ciò non sa nulla.
Come possiamo comprendere questa formulazione freudiana, che la psiche è estesa e lo spazio non è
qualcosa che precede la psiche ma ne è una proiezione, ovverosia lo spazio non è un a-priori del pensiero ma
è costituito dal pensiero stesso? Si tratta di lavorarci sopra perché per Freud è un appunto cui non dà
sviluppo, per lo meno in questi termini.
Freud a questa formulazione si introduce attraverso altre formulazioni che gli derivano
dall’osservazione della psicopatologia, nella quale — secondo una formula freudiana — «l’identificazione
prende il posto del rapporto». Che cos’è l’identificazione? È farsi uguale all’altro, cioè abolire la distinzione
con l’altro. L’identificazione è farsi uno con l’altro; se ci si fa uno con l’altro non c’è più distinzione, non c’è
più spazio tra me e l’altro, e quindi cade anche il problema della legislazione del rapporto con l’altro e con
l’universo di tutti gli altri. A ciò consegue l’abolizione dello spazio. Se c’è rapporto c’è spazio: questo a mio
avviso vuol dire che la psiche è estesa.
In questo modo Freud prende posizione con un’inclinazione che percorre tutta la storia della filosofia
da Platone ai neoplatonici, a Spinoza, a Hegel, etc., a pensare Uno, un uno, in cui si disintegra sia Dio che
l’individuo.
Per Freud dunque lo spazio è costituito da un pensiero sano che mantiene la distinzione tra io e altro,
quella che noi abbiamo definito la distinzione dei posti di Soggetto e Altro.
Per Kant invece lo spazio, pur facendo parte della costituzione del soggetto è comunque una forma
che in qualche modo lo precede, non è costituito dal soggetto: fa parte della costituzione ma non è costituito
dal soggetto. Quindi, il pensiero costituisce lo spazio perché pensa la distinzione dei posti tra Soggetto e
Altro.
È nella psicopatologia che il pensiero abolisce lo spazio ed è un’abolizione propria della
psicopatologia che mira all’identificazione, che mira alla fusione, che mira al «come sarebbe bello capirsi
senza parlare», tutte possibili formulazioni che di fatto riducono il rapporto a telepatia.
Ma questa abolizione dello spazio non è soltanto della psicopatologia ma anche delle teorie
psicopatologiche che teorizzano l’essere umano come dominato ad esempio dall’attaccamento, mirante alla
fusione — perché poi ci sarebbero problemi di separazione — e quali che siano le spiegazioni di questa
effettiva e soggiacente abolizione dello spazio, quali che siano le spiegazioni più o meno volgari, ciò che dà
loro sostegno è proprio questa forma di abbandono del rapporto, e dunque della legislazione del rapporto,
dunque del soggetto costituente, in nome di una unità senza alcuna distinzione.
L’ultimo cascame di questa propensione, di questa abolizione del soggetto costituente è sicuramente
spiegarlo, poniamo, con l’istinto di sopravvivenza, annegando l’individuo in un qualche cosa di istintuale che
farebbe parte della specie umana.
Insisto sul fatto che è l’ultimo cascame, volgare — è la volgarità stessa di questo pensiero che
dovrebbe insospettirci — e tuttavia dominante, ma che potremmo ritrovare, se ricordate la lezione su Adam
Smith, questa unità di fondo, questo Uno nonostante le apparenti distinzioni, questa unità di fondo che
sarebbe garantita dalla gravitazione universale, dall’attrazione universale; in Weber è questa vocazione
professionale che spingerebbe l’individuo a muoversi apparentemente in modo individuale. Le formulazioni
che ritroviamo nella storia della filosofia e della psicologia possono essere le più diverse, ma soggiacente c’è
l’idea che il soggetto non sarebbe costituente e in fondo in fondo lo spazio precede l’atto costituente; lo
spazio è dato e tutto è colto in uno spazio dato; non tutto è colto in uno spazio costituito.
2
ALBERTO COLOMBO
NOTE SUL CONCETTO DI A-PRIORI IN KANT CON RIGUARDO ALLA
CRITICA DELLA RAGION PURA
Due indicazioni iniziali.
La prima concerne il titolo che darei alla disamina che sto per proporre se fossi chiamato a darlo; il
titolo potrebbe suonare così, in maniera molto misurata e quasi anodina: Note sul concetto di a-priori in Kant
con riguardo alla Critica della ragion pura. Darei questo titolo perché il taglio di questa trattazione sarà un
taglio principalmente di ordine informativo-illustrativo, ancorché ciò non mi esimerà dall’entrare in merito
alla questione che il titolo della sessione odierna.
La seconda indicazione concerne il fatto che la locuzione, il sintagma a-priori non fa eccezione
rispetto a tutte le altre locuzioni, termini, parole, verbi del lessico filosofico e non soltanto del lessico
filosofico, nel senso che anche questo sintagma è stato usato in svariate accezioni, in una pluralità di
impieghi, con connotazioni diverse e talora disparate e allora sarà mia cura, essendo io convinto della
massima che è meglio essere pedanti che fuorvianti, cercare di calibrare esattamente in quali valenze d’uso
— e già ho usato il plurale — Kant impiega la locuzione a-priori, nel contesto della Critica della ragion
pura. Non mi occuperò della Critica della ragion pratica, o della Critica del giudizio, degli scritti civili,
politici di Kant. Mi occuperò della Critica della ragion pura, prima edizione nel 1871.
Al fine appunto di sgomberare il campo da possibili equivoci, comincio subito un’operazione di
servzio a questo scopo per ricordare l’intralcio che all’intelligenza dell’argomento circa l’ a-priori viene da
un impiego non infrequente nella lingua e nei discorsi correnti di questa stessa locuzione, di solito in
posizione aggettivale, e semanticamente apparentata a un sostantivo, apriorismo, che è un sostantivo
confezionato sulla locuzione a-priori. Quando si sente usare il termine a-priori o il termine apriorismo nella
lingua e nei discorsi correnti, di solito che cosa si intende con questi due termini? Quando si sente parlare di
atteggiamenti aprioristici, prese di posizioni a-priori, etc., poi queste espressioni di solito, nell’accezione
corrente, si intendono atteggiamenti per i quali coloro cui vengono attribuiti siffatti atteggiamenti aprioristici
viene giudicato come uno che vuoi occasionalmente, vuoi sistematicamente, si regola secondo un abito
intellettuale dogmatico, renitente alla critica, più o meno arrogantemente attestato su una frontiera di
pregiudizi ostinati.
Nulla di tutto ciò, nessun lembo di questa accezione ricorre negli impieghi filosofici della locuzione
a-priori. Quindi, sgomberiamo il campo da questo possibile equivoco che può derivare dall’interferenza
della lingua comune. Legittimissimo che la lingua comune usi questo termine e i suoi derivati in questa
accezione, ma non è quello di cui si tratta in sede filosofica e nella sede filosofica e nella tradizione filosofica
dell’occidente. Anzi, a questo proposito si potrebbe parlare addirittura di un’ironia della sorta a pensare allo
slittamento che dall’accezione o dalle accezioni filosofiche, il termine a-priori con il suo sostantivo derivato,
apriorismo, ha subito sino ad assumere la valenza che questi termini hanno nel linguaggio corrente, perché
nei suoi impieghi di esordio, la locuzione a-priori serve non già per disegnare un atteggiamento intellettuale
dogmatico, renitente alla critica e che quindi non intende e non vuole dare ragioni di ciò che dice, ma nei
suoi esordi di uso nel medioevo il termine a-priori indica un tipo di dimostrazione, un tipo di inferenza, un
paradigma di argomentazione, quelle dimostrazioni che appunto sono dette a-priori, dalle quali differiscono,
essendone in qualche modo l’inverso, le dimostrazioni dette a-posteriori.
Che cosa si intende nel lessico filosofico medievale con dimostrazioni a-priori e con dimostrazioni aposteriori?
Con la denominazione dimostrazione a-priori si nomina abbreviatamente ciò che non
abbreviatamente, ma per esteso, dovrebbe essere chiamato dimostrazione a-priori ad posteriorem, così come
il nome delle dimostrazioni a-posteriori è il nome dimostrazione a-posteriori a priorem.
Cosa vuol dire che una dimostrazione dimostra a-priori ad posteriorem o viceversa?
Vuol dire che una dimostrazione quando è a-priori ad posteriorem è una dimostrazione che procede
dalla conoscenza di ciò che precede sino a concludere alla conoscenza di ciò che segue.
Mentre una dimostrazione a posteriori ad priorem compie il cammino inverso: sul fondamento della
conoscenza di ciò che segue inferisce la conoscenza di ciò che precede.
3
Ma cosa vuol dire «ciò che segue» e «ciò che precede»?
Queste due locuzioni indicano due posizioni nell’ordine ontologico: ciò che precede nell’ordine
ontologico e ciò che segue nell’ordine ontologico.
Ora, siccome per ciò che precede nell’ordine ontologico si intende ciò da cui ciò che segue dipende,
«ciò che precede» e «ciò che segue» ultimativamente sono sinonimi di causa ed effetto. Perciò, una
dimostrazione a-priori ad posteriorem è una dimostrazione che sul fondamento della conoscenza delle cause
inferisce la conoscenza degli effetti, e una dimostrazione a posteriori compie il cammino inverso.
Volevo solo ricordare che negli esordi d’uso le locuzioni a-priori e a-posteriori sono impiegati per
indicare modelli, paradigmi, tipi di inferenze.
Attraverso un processo di assestamento lessicale e teoretico ricostruibile, ancorché non lineare, tra
l’estremo medioevo e il corso della modernità filosofica si è determinato uno spostamento semantico di
queste due locuzioni; uno spostamento semantico per cui queste due locuzioni hanno ricevuto una estensione
d’uso in virtù della quale queste due locuzioni, che eventualmente — ma ormai dal punto di vista della
pratica linguistica in filosofia l’uso è in qualche modo decaduto — continuando a indicare due paradigmi di
dimostrazione, di inferenza, di deduzione, passano prevalentemente a indicare due tipi di giudizio.
Perciò le due locuzioni, nella modernità, vengono ad indicare e prevalentemente nell’uso che se ne fa
due tipi di giudizio.
E questo è l’impiego che anche Kant fa di questi due sintagmi, distinguendo quindi fra giudizi a-priori e
giudizi a-posteriori.
Ma che cosa si intende, e che cosa intende Kant quando parla di giudizi a-priori e giudizi a
posteriori? Qual è la definizione di queste due nozioni?
Per intende la definizione dell’uno e dell’altro, di questi due modelli di giudizio, è bene cominciare
con il secondo, cioè con il definire quel tipo di giudizio che è il giudizio a posteriori, perché questo tipo di
giudizio ha il vantaggio di poter essere definito subito in maniera autonoma.
Stante infatti il processo storico di assestamento lessicale che l’espressione a posteriori a ricevuto nel
corso della modernità, in virtù della quale questa espressione è divenuta sinonimo di empirico, o di
appartenente all’esperienza, o semplicemente di esperienza, ne risulta che giudizi a posteriori sono per
definizione quei giudizi che si fondano sull’esperienza. Questa è la nozione, anche kantiana e principalmente
kantiana, di giudizio a posteriori.
Ma che cosa significa fondarsi sull’esperienza? In Kant, ma non solo in Kant, significa ricevere
dall’esperienza la garanzia della propria verità. Un giudizio a posteriori è un giudizio che fondandosi
sull’esperienza riceve dall’esperienza la garanzia della propria verità.
Ma allora di nuovo occorre domandarsi che cosa si intende di esperienza. Anche in Kant, sia pure
con alcune complicazioni che sono introdotte dalla modernità filosofica, e che anzi in Kant risultano
ulteriormente spiccate e accresciute, anche in Kant vige una nozione di esperienza che domina e attraversa
largamente la storia e le tradizioni filosofiche dell’occidente.
Qual è questa nozione di esperienza che anche Kant adotta? È quella nozione di esperienza per cui
con la parola «esperienza» si intende l’immediata presenza o anche si intende il piano o la dimensione del
constare e del constatato; o anche si intende il campo di ciò che dandosi, offrendosi, si mostra per così dire
da se stesso per quello che è, in quello che è, così come questa forma, in quanto ora in atto si dà, si offre, si
mostra da sé, non mediante altro, e per ciò che è.
Il privilegiamento nella tradizione filosofica di questa accezione del termine esperienza sta nel
convincimento che solo in questo senso l’esperienza è in grado di garantire e di garantire irrefutabilmente i
giudizi e gli asserti che su di essa si fondano. Solo se così assunta, l’esperienza come immediata presenza,
certifica innegabilmente e cioè non soltanto plausibilmente, verosimilmente, probabilisticamente, ma
innegabilmente i giudizi che le si appellano.
Ma allora quali giudizi si fondano sull’esperienza in questo senso? In altre parole, qual è il criterio
secondo cui si stabilisce se un giudizio si fonda o non si fonda sull’esperienza?
Anche rispetto a questa domanda Kant si allinea a una larga tradizione quanto alla risposta, nella
quale convergono anche posizioni filosofiche disparate, ma che quanto alla risposta alla domanda qual è il
criterio in base al quale giudizi si fondano sull’esperienza convergono.
La risposta kantiana, che si iscrive in questo largo consenso, è quella risposta secondo la quale
sull’esperienza si fondano tutti e soltanto quei giudizi, quelle proposizione, che rigorosamente si limitano a
registrare, a rilevare, ad annotare ciò che l’esperienza attesta, cioè ciò che nell’immediata presenza
4
immediatamente si presenta così come si presenta e nella misura in cui si presenta, senza aggiungervi, né
introdurvi, o immettervi null’altro, nulla di più.
Ciò significa che i giudizi che si fondano sull’esperienza, cioè quelli che Kant chiama «giudizi a
posteriori» sono tutti e soltanto giudizi descrittivi e non giudizi interpretativi dell’esperienza. Descrittivi
l’esperienza e non interpretativi dell’esperienza, se per interpretare l’esperienza occorre comunque in
qualche modo integrare l’esperienza e cioè espandere il contenuto del giudizio oltre i confini di ciò che
effettivamente è attestato.
Osservo incidentalmente che la questione cruciale diviene allora quella di appurare ciò che in verità è
esibito o non è esibito dall’esperienza.
Allora, con ciò è chiarito che Kant con giudizi a posteriori intende giudizi che si fondano
sull’esperienza, cioè il giudizio che si comporta nei confronti dell’esperienza così come l’ho descritta.
I giudizi a posteriori possono essere anche chiamati giudizi empirici. Rispetto ad essi, in prima
istanza i giudizi a priori possono essere caratterizzati negativamente, cioè oppositivamente, come quei
giudizi che non si fondano sull’esperienza e che se si fondano, si fondano altrimenti, cioè si fondano
indipendentemente dall’esperienza.
Ma ora ciò che è interessante comprendere è quale sia la sollecitazione per così dire filosofica, teoretica, che
sollecita Kant a porre attenzione a quel tipo di giudizi che sono i giudizi a-priori. A questa domanda, molto
condensatamente, si deve rispondere che questa sollecitazione che sollecita Kant ad occuparsi di giudizi a
priori è costituita dalla sollecitudine di Kant per le sorti della conoscenza scientifica, cioè è costituita dalla
premura di Kant di assicurare un’adeguata fondazione al sapere scientifico, ovvero una congrua
assicurazione della scientificità della scienza. È questa la ratio per cui Kant si occupa di giudizi a priori e non
perché così gli passa per la testa.
Se così è, se Kant si deve occupare di giudizi a priori perché è sollecito nei confronti delle sorti della
conoscenza scientifica, in ciò è implicitamente detto anche che Kant ritiene che la scienza — e anche qui
Kant fa parte di un coro molto esteso e variegato di consensi —, qualsiasi scienza, per il fatto di essere tale,
non può fondarsi sull’esperienza. O, il che è lo stesso, non può risolversi solamente in giudizi a posteriori. Se
fossero disponibili soltanto giudizi a posteriori — questo è il convincimento di Kant — non si darebbe
scienza. Ma non è soltanto il convincimento di Kant; è anche, in qualche modo, il convincimento di Hume, è
anche il convincimento di Leibniz; è anche il convincimento di Cartesio, ma è anche il convincimento di
Aristotele. Non si darebbe scienza non perché i giudizi a posteriori fondandosi sull’esperienza si fondino su
qualche cosa […] l’esperienza ha virtù fondante per Kant. I giudizi sintetici a posteriori sono per Kant
giudizi fondati, fondandosi sull’esperienza, ma perché la virtù fondante dell’esperienza, cioè la potenza
fondante dell’esperienza è incongrua, è insufficiente, è inidonea a sostenere la responsabilità di garantire la
verità di quel tipo di conoscenze che sono le conoscenze scientifiche. E allora, per capire la ragione per cui
l’esperienza è inidonea a fondare quel tipo di conoscenza — quindi non a fondare conoscenza qualsiasi, ma
quel tipo di conoscenza che sono le conoscenze scientifiche — occorre intendersi su che cosa si intende per
conoscenza scientifica, o meglio intendersi su che cosa Kant intende per conoscenza scientifica. Mi limito a
dare la definizione kantiana di conoscenza scientifica, essendo da tener conto dalla premessa che ogni
conoscenza, per il fatto di essere conoscenza, è ciò che si traduce sempre in un giudizio. Quindi, domandarsi
quali sono i requisiti necessari e sufficienti perché una conoscenza sia scientifica è lo stesso che domandarsi
quali sono i requisiti necessari e sufficienti perché un giudizio e la proposizione che esso contiene — un
giudizio non è altro che l’atto di pensare e di asserire una proposizione, siano un giudizio e una proposizione
scientifici. Ora per Kant — ma anche qui Kant è in larga compagnia — una conoscenza scientifica è tale se e
solo se i giudizi che la esprimono non soltanto sono veri e fondati, cioè sono evidenti, perché in questo senso
anche i giudizi a posteriori sono veri e fondati ed evidenti. Ma anche se e solo se essi sono universali,
necessari e idonei a incrementare il sapere. Tre altri requisiti oltre a quelli di verità e fondatezza concorrono a
disegnare per Kant la figura del giudizio e la figura della conoscenza scientifica.
Anche qui Kant è d’accordo con una larghissima schiera di suoi predecessori e contemporanei. Secondo
Kant l’esperienza è inidonea a fondare giudizi scientifici appunto perché l’esperienza è inidonea a fondare la
verità di giudizi universali e necessari, cioè inidonea a garantire la verità di giudizi che abbiano i requisiti di
universalità e necessità, cioè di giudizi il cui modulo enunciativo è il seguente: tutti gli x non possono non
essere y. Ecco il modulo enunciativo di un giudizio che è insieme un giudizio universale — tutti gli x — e un
giudizio che connette secondo necessità il predicato al soggetto: non possono non essere, cioè è necessario
che siano y. L’esperienza è inidonea a fondare questi giudizi in quanto godono dei requisiti o pretendono di
godere dei requisiti di universalità e necessità, perché l’esperienza non attesta esaustivamente la totalità degli
oggetti che appartengono a una classe. Certo che l’esperienza attesta un corvo, due corvi, tre corvi, mille
5
corvi, etc., ma l’esperienza non attesta che tutti i corvi che essa attesta siano tutti corvi; perciò l’esperienza
non attesta esaustivamente la totalità degli elementi che appartengono a una certa classe e perciò l’esperienza
non è in grado di fondare giudizi universali. L’esperienza non è neanche in grado di fondare giudizi
necessari, cioè giudizi che connettono predicato e soggetto secondo necessità. È pur vero che è accaduto di
constatare che avvicinandolo a una fonte di calore un pezzo di cera si è alterato di stato, ha mutato
consistenza. È vero che ciò è capitato di constatarlo in una seconda occorrenza, in una terza, in una quarta, in
una miliardesima occorrenza. Ma è pur vero che l’esperienza non attesta che essendosi la miliardesima volta
alterata la consistenza del pezzo di cera avvicinato a una fonte di calore, non sarebbe potuto accadere
diversamente. Attesta che accade così, ma non attesta che è impossibile che non accada così. È questo il
rilievo di Hume e su questo rilievo Kant è d’accordo.
Allora, in quanto i giudizi a posteriori non possono essere, in quanto fondati sull’esperienza, giudizi
universali necessari, l’esperienza, i giudizi a posteriori, non sono e non possono essere statutariamente dei
giudizi scientifici. Certo, sono noti anche giudizi che non si fondano sull’esperienza e che fondandosi si
fondano altrimenti che sull’esperienza. Kant lo sa bene: glielo insegna una più che millenaria tradizione.
Quali sono questi giudizi già noti che si fondano fondandosi indipendentemente dall’esperienza?
Sono tutti quei giudizi il cui prototipo e principio primo è costituito dal plesso di quei due principi che sono
gli stranoti principi di identità e non contraddizione. Tutti i giudizi la cui figura ricalca, si esempla, sulla
figura del principio di identità e del principio di non contraddizione, sono giudizi fondati e che si fondano
indipendentemente dall’esperienza, in quanto partecipano di quella verità innegabile che è la verità che
appartiene al principio di identità, che nella formulazione moderna di solito è formulato con la formula «A è
A», e al principio di non contraddizione, che nella formulazione moderna è di solito formulato con la
formula «A non è non A».
Ora, certamente tutti i giudizi di questa famiglia, che hanno un tale capostipite nel principio di
identità e di non contraddizione, sono veri di una verità assolutamente certa. Certamente essi non mutuano
l’evidenza della loro verità dall’esperienza. Non è necessario andare a consultare l’esperienza per sapere che
un triangolo ha tre angoli.
Certamente, in quanto non mutuano l’evidenza della loro verità dall’esperienza, esse sono a-priori per
definizione. Essi sono certamente universali necessari, ma quanto all’essere giudizi scientifici falliscono.
Perché falliscono? Perché mancano dell’ultimo requisito e cioè della prerogativa di essere idonei a
incrementare il sapere. E infatti dicendo che un triangolo ha tre angoli, che un poligono è una figura piana,
che un bipede ha due piedi, che un numero pari è divisibile per due, molti passi avanti nel progresso del
sapere non se ne compiono. Questo perché questi giudizi sono siffatti che il contenuto del predicato —
poniamo «divisibile per due» — si esaurisce nel ripetere in tutto o in parte il contenuto del soggetto «numero
pari». È un po’ come dire che non aggiungono nulla di nuovo al soggetto e quindi non incrementa il sapere.
Questi giudizi sono quei giudizi che Kant chiama appunto per questo analitici perché per trovare il
predicato basta far passare, sfogliare, per così dire, il contenuto del soggetto e prima o poi si trova il
contenuto che funge da predicato.
La conclusione di Kant allora qual è? È che solo giudizi sintetici, cioè giudizi non analitici, ma in cui
il predicato aggiunge qualche cosa di nuovo al soggetto, che siano a-priori, cioè che siano fondabili non
sull’esperienza, soddisfano lo statuto della conoscenza scientifica. E soddisfano lo statuto di ogni sapere in
cui la conoscenza scientifica si incarna. Allora questa è la ragione per cui Kant pone attenzione innanzitutto
ai giudizi a-priori e poi in particolar modo e in seguito, circoscrivendo la sua attenzione, i giudizi a-priori
che siano sintetici, perché soltanto i giudizi sintetici a priori sono i giudizi propri della conoscenza
scientifica.
Quindi la salvezza teoretica della conoscenza scientifica passa o è addirittura, coincide con la
salvezza teoretica, cioè con la possibilità di garantire la disponibilità di giudizi sintetici a priori. Il mandato
teoretico della critica della ragion pura consiste per l’appunto nell’ accertare come e se siano possibili questi
giudizi sintetici e il successo della critica della ragion pura, che Kant ritiene di avere conseguito, sta
nell’assolvimento di tale mandato: nel provare la disponibilità di giudizi sintetici a priori.
Non posso qui certamente ripercorrere neppure sommariamente come Kant procede in questa
fondazione; ricordo soltanto che questa fondazione ha la sua leva per così dire in quella che Kant chiama la
rivoluzione copernicana, cioè un rovesciamento della concezione del regime dei rapporti tra conoscenza e
oggetti della conoscenza; un rovesciamento del regime dei rapporti, in altre parole, tra soggetto conoscente e
oggetti conosciuti. Questo rovesciamento, molto grezzamente, in che cosa consiste? Consiste nell’accertare
che non per qualsiasi oggetto, ma per quell’oggetto che sono gli oggetti dell’esperienza, il rapporto tra la
conoscenza, il soggetto conoscente da un lato e gli oggetti conosciuti dall’altro, non è tale per cui una
6
conoscenza per essere vera deve piegarsi, flettersi, sull’oggetto pensato come presupposto all’attività
conoscitiva stessa, andando per così dire ad aderire ad esso in modo tale da riceverne l’impronta e
rispecchiarlo velocemente. No, al contrario: non per qualsiasi ordine di oggetto, ma per quegli oggetti che
sono gli oggetti dell’esperienza, in quanto oggetti dell’esperienza, vale che sono essi oggetti che per essere
oggetti dell’esperienza, cioè per poter essere iscritti nello scenario dell’esperienza, devono essi regolarsi,
modellarsi, conformarsi, al soggetto conoscente e alla sua attività conoscitiva. È solo mostrando che così è,
mostrando, accertando cioè la verità della tesi della rivoluzione copernicana che è possibile fondare giudizi
sintetici a-priori. Quale sia il raccordo non posso, per ragioni di economia di tempo, stare a illustrare in
maniera circostanziata, esauriente. Mi limito a dire che questa è la mossa strategica di Kant.
Questo comporta anche dei ritocchi della nozione di verità per Kant. Dico ritocchi, calibrature, e non
rovesciamenti, della nozione di verità, perché se si sostiene che in Kant c’è un rovesciamento della nozione
classica di verità, si dice cosa falsa, fuorviante; Kant aggiusta per così dire, la dottrina classica circa il
concetto di verità. Qual era il nucleo della dottrina classica del concetto di verità? Sempre e comunque la
verità di giudizi e di proposizioni, cioè con il termine di verità ciò che corrisponde all’aggettivo vero in
quanto attribuito a giudizi o a proposizioni, la dottrina classica sosteneva che veritas est adæquatio
intellectus et rei. Ora se il termine adæquatio si intende concordanza tra l’intelletto e la cosa che l’intelletto
conosce, Kant non ha obiezione a ciò, non ha obiezioni se con adæquatio si intende concordanza, nel senso
che anche per Kant è vero che una proposizione è vera solo se essa dice come stanno le cose, solo se e solo
se il suo contenuto è in accordo alla realtà a cui si riferisce. In questo senso Kant non si scosta dalla nozione
già aristotelica dalla verità come corrispondenza ai fatti e si trova anche Kant sull’asse Aristotele-Tarskij.
Tarskij è un logico contemporaneo tra i più autorevoli che ha rilanciato la concezione aristotelica della verità
come corrispondenza ai fatti.
Certo anche per Kant è vero che la proposizione «la neve è bianca» è vera se e solo se la neve è
bianca. Ciò che Kant rettifica è la teoria, la concezione relativa a ciò che rende possibile questa concordanza.
Certo che la verità si dà sempre e soltanto se si dà concordanza. Ma ciò che rende possibile questa
concordanza, le condizioni che rendono possibile la concordanza e l’accertamento della concordanza, non sta
nel fatto che è il soggetto conoscente che deve flettersi sull’oggetto conosciuto per lasciarsene improntare per
rispecchiarlo, ma all’inverso è l’oggetto conosciuto in quanto oggetto dell’esperienza che per essere tale deve
adattarsi, modellarsi con le condizioni dell’attività conoscitiva del soggetto conoscente. Ma a che cosa deve
adattarsi l’oggetto della conoscenza per adattarsi al soggetto conoscente e alla sua attività? Deve adattarsi a
quella che Kant chiama forme a-priori della soggettività. E allora ecco la seconda valenza della locuzione apriori in Kant: prima essa — e contemporaneamente — è stata impiegata per qualificare un tipo di giudizio:
ora la locuzione qualifica delle formule, cioè delle configurazioni, delle disposizioni, dei modi di essere della
soggettività; e siccome la soggettività per Kant si articola in sensibilità, intelletto, ragione, ci saranno forme
a-priori della sensibilità, forme a priori dell’intelletto, forme a priori della ragione. La critica della ragion
pura è chiamata innanzitutto a provvedere a quell’azione banale, ma indispensabile, che è accertare quale e
quante sono le forme a-priori della sensibilità, dell’intelletto, della ragione. Deve affrontare cioè quella che
Kant chiama una questio facti, una questione di fatto: quali e quante sono le forme a-priori della sensibilità,
dell’intelletto, della ragione.
Una questio facti, una questione di fatto — e l’espressione è pregnante — perché infatti per Kant le
forme a-priori il soggetto se le trova ad avere. Le forme a-priori della soggettività non sono forme a-priori
allestite ad libitum dal soggetto. Il soggetto si trova ad avere quelle forme a-priori lì e non altre. E la critica
della ragion pura può soltanto accertare quali esse sia e quante siano, ma non può accertare perché il soggetto
abbia quelle forme a priori lì e non altre. Rispetto a questa domanda Kant risponde che a questo proposito
ignoramus et ignorabimus. In questo senso le forme a-priori sono dei fatti della soggettività. Di esse il
soggetto può fare l’inventario e il censimento, ma che non sono decretate dal soggetto e di cui il soggetto, il
soggetto conoscente e con che l’uomo non può neanche sapere perché ha quella forma a-priori lì piuttosto
che un’altra.
È proprio questa concezione kantiana dell’uomo come soggetto munito di un apparato formale che
egli si trova ad avere, ciò che apre l’interrogativo se Kant possa essere considerato uno dei capostipiti e uno
degli ispiratori di quelle teorie che non semplicemente ammettono una dimensione a-priori, o anche
semplicemente usano questa espressione e si tratta di vedere in quale senso, ma sostengono apertamente o
non apertamente l’esistenza di a-priori che comandano il pensiero. Questo è l’aspetto sotto il quale la
sessione odierna del Corso incontra la posizione di Kant.
7
Ora è pur vero che su un pensatore come Kant la letteratura è sterminata e le letture, le griglie
interpretative svariate e talora marcatamente reagenti. Tra queste non sono mancate certo anche letture
psicologichiste dell’opera kantiana, in particolare della Critica della ragion pura. Esse anzi sono comparse
abbastanza precocemente. Gli iniziatori di questa lettura psicologistica di Kant sono più di uno; cito in
particolarmodo Jacob Fries, pensatore vissuto fra la fine del settecento e i primi decenni dell’ottocento, il
quale dà una lettura di Kant secondo la quale il corredo delle forme a-priori, cioè quello che Kant
caratterizza in modo tale che poi viene chiamato l’apparato trascendentale della soggettività, viene conno
come un plesso di funzioni psichiche, concepito quanto meno in modo similare a dispositivi e a congegni
psichici. In questa linea, allora, di lettura della Critica della ragion pura, è facile pervenire ultimativamente
alla conclusione che essendo il pensiero, sia come intelletto, sia come ragione, attrezzato di forme a-priori,
anche il pensiero sia regolato da dispositivi che sono automatismi psichici, e che impererebbero negli atti e
nei processi di pensiero.
Non sto sostenendo che Fries arrivi chiaramente a questa conclusione, ma si può dire che ha
preparato il piano inclinato per arrivarci. Ed è attraverso approcci di questa indole che si può riproporre
anche oggi, nel contesto degli indirizzi e delle discipline della psicologia scientifica un nuovo ritorno a Kant,
soprattutto nelle neuroscienze, ma anche nelle discipline neuropsicologiche e cognitivistiche è possibile, sul
fondamento peraltro di dubbie analogie, nel parlare di schemi, di reti, di moduli, trovare i termini di un rinvio
a Kant come una sorta di precursore.
In questa sede non posso che limitarmi ad annunciare il mio convincimento e ad abbozzare soltanto
uno schizzo di dimostrazione.
Il mio convincimento è che una lettura psicologistica della teoresi kantiana, in particolare della teoria
della conoscenza — La critica della ragion pura è essenzialmente una teoria della conoscenza — e della
dottrina circa il pensiero, sia del tutto inetta, non regga al confronto con i testi kantiani, e segnatamente con
l’impianto stesso della Critica della ragion pura. Più dettagliatamente, ritengo che il trattamento della
dottrina kantiana delle forme a-priori, cioè quel trattamento che intende le forme a-priori come congegni,
dispositivi, automatismi, meccanismi procedurali, che in maniera cogente, natural-psicologistica governino
comandando il pensiero, sia un trattamento del tutto fuorviante e deformante, che non dà a Kant quel che è di
Kant. Poi Kant potrà essere criticato e subissato di critiche per molte altre ragioni, ma a mio avviso,
ammesso che questa possa essere una critica, non per questa.
Argomento molto concisamente questa mia tesi, innanzitutto per quanto riguarda lo spazio e il
tempo. Certo per Kant lo spazio e il tempo sono forme a-priori, ma sono forme a-priori di che cosa? Non
sono forme a-priori del pensiero, ma sono forme a-priori della sensibilità, cioè sono i moti costitutivi del
soggetto, secondo i quali il soggetto stesso si trova ad essere costituito, conformemente ai quali e solo
conformemente ai quali possono essere dati oggetti dei sensi, sia del senso esterno, sia del senso interno.
Cioè spazio e tempo sono apparati, a livello di sensibilità della soggettività, tali per cui soltanto secondo i
modi dello spazio e del tempo, quel soggetto conoscente in quanto percipiente che è l’uomo può percepire gli
oggetti. È un fatto che noi percepiamo oggetti collocandoli nello spazio e nel tempo; o meglio percepiamo
oggetti percependoli dislocati nello spazio e nel tempo. Il di più che Kant dice è che il fatto constatabile che
la percezione di oggetti tra i quali si sono intrattenute relazioni spazio-temporali, dipende dal fatto che queste
relazioni spazio-temporali sono indotte negli oggetti, dalla costituzione stessa a livello della sensibilità del
soggetto, tale per cui nessun oggetto può darsi a quel soggetto così costituito con forme a-priori spaziotemporali se non lasciandosi ordinare, dislocare nello spazio e nel tempo. Punto e basta. Le forme a-priori
della sensibilità, spazio e tempo, sono ciò mediante cui oggetti sono dati, cioè sono percepiti, non ciò
mediante cui oggetti sono pensati e perciò in quanto non sono forme a-priori del pensiero, neppure spazio e
tempo possono comandare al pensiero.
Certo ci sono anche forme a-priori del pensiero, dell’intelletto e della ragione, che sono le
celeberrire dodici categorie, per quanto riguarda intelletto, e le altrettanto celeberrime idee trascendentali o
idee della ragione per quanto riguarda la ragione.
Ma questo significa allora che l’intelletto, che è l’organo dei giudizi, come lo definisce Kant,
l’organo delle conoscenze, è per così dire suddito rispetto alle sue forme a-priori, cioè ai concetti puri, alle
categorie, tra cui spicca in particolar modo quella teoria così essenziale per la scienza che è la categoria di
causa-effetto? Certamente no. L’impianto stesso della critica della ragion pura sta a testimoniare che la
risposta deve essere negativa, perché certamente l’intelletto è vincolato a quelle forme a-priori lì che sono le
dodici categorie per giudicare, nel senso che ha a disposizione quelle e non altre, ma quanto all’uso e
8
all’avvalersi di queste forme a-priori certamente l’intelletto non è suddito delle forme a-priori stesse, nel
senso che non è in preda, quasi che delle sue dodici forme a-priori e dei suoi dodici concetti puri o categorie,
l’intelletto non possa non avvalersi, non possa non impiegarle conoscitivamente, sotto una spinta per così
dire di irresistibile coazione all’uso. L’impianto della Critica della ragion pura testimonia che Kant non la
pensa così, tant’è che il baricentro della Critica della ragion pura consiste nel porre in questione la
legittimità dell’uso delle categorie. Allora, se l’intelletto di quel soggetto pensante e conoscente che è l’uomo
fosse in preda alle categorie, neanche l’intelletto di quel signore che è Immanuel Kant avrebbe mai e poi mai
potuto sottrarsi alla malia delle proprie forme a-priori mettendone in questione la legittimità del loro uso
conoscitivo. Certo che Kant poi risponde a questa questione, che è una questio non più facti, ma una questio
iuris, come la chiama Kant, una questione circa la legittimità del valore conoscitivo delle categorie. E Kant
risponderà affermativamente, mostrando come è legittimo usare categorie per conoscere oggetti, quali sono
gli oggetti dell’esperienza, perché anche rispetto alle categorie si può provare — e Kant ritiene di averlo
provato nella deduzione trascendentale — che gli oggetti dell’esperienza devono confermarsi alle categorie
per essere oggetti dell’esperienza. Ma questo è un risultato a cui l’esercizio critico dell’intelletto critico di
Kant perviene, non perché l’intelletto di Kant sia sotto la fascinazione delle categorie, o la compulsività ad
adottare le categorie quasi che l’apparato categoriale sia una sorta di plesso istintuale dell’intelletto.
Per queste ragioni io ritengo che se ci fermiamo alla Critica della ragion pura ogni utilizzo di Kant
come precursore di teorie che concepiscono il pensare, il giudicare le operazioni del pensiero come
governate da apparati dispositivi di comando, sia indebito, sia un ricorso indebito a Kant. Certo, sono nel
contempo convinto che non per ciò sia possibile sostenere che allora nella Critica della ragion pura emerge
una concezione della sovranità del soggetto: non emerge. Emerge una concezione tutt’al più della sovranità
teoretica del soggetto, che però non è la sovranità giuridica. E ritengo sia plausibile sostenere che Kant
riterrebbe inaccettabile che il sede teoretica si possa parlare di una sovranità giuridica, se per sovranità
giuridica si intende la sovranità di un costituente che pone in essere leggi, norme, che pone in essere la
costituzione. La costituzione c’è in sede teoretica, ci può essere, ma non può essere una costituzione
giuridica.
Concludo ricordando come spesse volte proprio la Dottoressa Contri ci ha ricordato quella sentenza
di Hobbes, la cui pregnanza è tale che merita di essere ripetutamente ricordata, secondo la quale Auctoritas,
non veritas, facit legem. Ebbene, conclusivamente per illustrare la posizione di Kant in ordine al sapere e alla
scienza — e ricordo che Kant per scienza e per sapere scientifico intende non ciò che oggi il sapere
scientifico pensa di sé, cioè di un sapere provvisorio, sempre rivedibile, sempre rettificabile — ma intende
per scienza e sapere scientifico un sapere definitivo che non sgarra rispetto alla nozione di episteme dei
greci. Kant rimane un greco anche sotto questo profilo, nel senso che è in vigore in lui quel concetto di
sapere che quanto alla intensità della certezza, della sua verità, è un concetto di sapere scientifico che
configura un sapere di certezza assoluta.
Rispetto al sapere, all’ordine del sapere, si potrebbe dire che la posizione di Kant potrebbe essere
così tradotta, parafrasando la sentenza di Hobbes, Scientia, non auctoritas, faciem veritatem. Per Hobbes
Auctoritas, non veritas, facit legem; per Kant in ascientia, scientia, cioè il sapere e la fondazione del sapere
che appartiene al sapere stesso, non auctoritas, facit legem. E quindi la sovranità del soggetto nell’ordine
teoretico è la sovranità di un soggetto la cui sovranità è il riverbero per Kant di quella sovranità che è la
sovranità innanzitutto del sapere. È il sapere che innanzitutto è sovrano, nell’ordine del sapere. La sovranità
del soggetto può essere soltanto la sovranità partecipata dal soggetto in quanto testimone di quel sapere che è
in qualche modo esso stesso un sapere sovrano e Kant pensa la Critica della ragion pura per l’appunto come
un sapere sovrano, rispetto al quale Kant è lo scopritore, il latore, il testimone, ma la verità delle tesi della
Critica della ragion pura sono per Kant una verità che non è istituita dal signor Kant, ma è scoperta in virtù
dei processi argomentativi fondativi delle tesi della Critica della ragion pura. Quindi, Scientia, non
auctoritas, facit legem.
C’è un detto di Einstein che dice «Nel campo della scienza non è possibile che si dia alcuna verità, e
chi in questo campo si erge come magistrato è destinato ad essere travolto dalle risate degli dei». Kant
sottoscriverebbe questa affermazione.
RIPRESA
Un’amica mi ha prima ripreso dicendo che ho fatto esempi di molte cose tranne che di giudizi
sintetici a-priori. Allora provvedo a sanare questa omissione, dicendo che per Kant un giudizio sintetico apriori è per esempio il giudizio della geometria. Prendiamo un giudizio elementare della geometria: anche la
9
geometria è una scienza sintetica a-priori per Kant, non analitica. Sintetica a-priori, così come anche
l’aritmetica. 7+5=12 è un esempio kantiano di giudizio sintetico a-priori; non è un giudizio analitico.
«La retta è la distanza più breve tra due punti»: questa condizione è una condizione sintetica a-priori,
sintetica e non fondabile sull’esperienza. Perché è sintetica? Perché nella nozione di retta non è inclusa la
nozione di essere la distanza più breve tra due punti. La nozione di retta è una nozione qualitativa: una linea
che non cambia mai direzione. Mentre la nozione di «distanza più breve tra due punti», nello spazio euclideo
ovviamente, è una nozione quantitativa, e perciò è chiaro che questa nozione non può essere inclusa in
quella. Perciò questo giudizio è sintetico. Che sia a-priori lo si prova provando che la geometria è fondata ed
è fondata appunto sulle forme a-priori, ultimativamente sul fatto che le forme a-priori della sensibilità sono
spazio e tempo, in particolar modo lo spazio.
Altro esempio di giudizio sintetico a priori è «Tutto ciò che comincia ha una causa»: questo è un
giudizio sintetico perché avere una causa non include la nozione di cominciare, di avere un inizio. Perciò la
nozione «Tutto ciò ha inizio, comincia ad essere, o anche diviene, ha una causa»: è un giudizio sintetico. Che
sia a-priori, che goda di una fondazione a-priori occorre accertarlo. Questo accertamento avviene mostrando
come questi giudizi sono fondati perché le categorie sono forme a-priori dell’intelletto che investono gli
oggetti e secondo cui molti oggetti si regolano.
RAFFAELLA COLOMBO
DA KANT ALLA PSICOLOGIA RECENTE: FREUD, NON KANT, FONDA
LA METAPSICOLOGIA
Dopo la lezione notevole di Alberto Colombo, mi soffermerò soprattutto sulla seconda parte del
titolo: da Kant alla psicologia recente.
Peraltro, già Alberto Colombo ha anticipato concludendo quello che andava concluso, ossia che nella
psicologia recente, contemporanea, là dove si facesse riferimento ad a-priori kantiani, soprattutto nel
cognitivismo, tutto questo è una corruzione di Kant, che non c’entra niente.
Inizio soprattutto dalla psicologia recente. In un libro appena uscito, Boncinelli e Galimberti,
intervista di Giovanni Maria Pace, E ora? La dimensione umana e le sfide della scienza. Galimberti filosofo,
Boncinelli biologo, interrogati circa gli a-priori kantiani si pongono in questo modo.
La domanda di Pace è questa a entrambi: «Siete studiosi della psiche, ma entrambi non ne avete
parlato. Per quale ragione?».
La risposta di Galimberti, come quella di Boncinelli, è un giudizio sullo stato attuale della
psicologia: nella psicologia non c’è psicologia. Nella psicologia attuale, scientifica o sperimentale, non c’è
psicologia: c’è altro.
Galimberti:
Oggi la psiche è trattata dagli psicologi in modo patetico e io provo, come forse anche Boncinelli, ad
ammettere che mi occupo di quell’argomento. La psiche costituisce, ciò nonostante, l’oggetto primo
della scienza. Quand’è che la scienza è diventata allarmante? Quando ha cominciato a discutere di
mente e cervello? E quando la filosofia diventa interessante? Quando discute dell’uomo. Appena si
arriva alla psiche scienza e filosofia diventano interessanti. Ma a presentarsi come psicologi c’è il
pericolo di fare una figuraccia. Gli psicologi sono rappresentati malissimo, perché le loro competenze
sono davvero ridicole rispetto a quelle del filosofo e dello scienziato. Allora, per evitare confusioni, è
meglio tenersi lontani da un sapere custodito da personaggi poveri culturalmente.
È un giudizio severo. Questa posizione, formulata a caldo, in una intervista, è una posizione
sostenuta da un altro autore contemporaneo, professore di filosofia alla Sorbona, membro dell’Istituto
Universitario di Francia, Pascal Engel; in un libro uscito da poco per Einaudi, dal titolo Filosofia e
psicologia, questo autore, di cui non condivido le tesi, almeno nel tentativo di conclusione, è stato istruttivo
per l’analisi approfondita della situazione che presenta e per i dati che porta; e segnala a sua volta come nella
psicologia scientifica ci sia molta meno psicologia di quanto non si pensi. La psicologia scientifica di oggi si
occupa di tutto, meno che di psiche. E semmai è lì che ci può essere un nesso con Kant, detto antipsicologista. Nesso prodotto per un errore, per una corruzione kantiana.
10
In un altro punto dell’intervista a Boncinelli e Galimberti, intorno alla domanda circa gli a-priori,
vediamo questo: Boncinelli, nei suoi progetti editoriali — autore del libro Il cervello, la mente e l’anima —
avrebbe questo titolo: Kant che ti passa. O per esteso: Se ti viene un dubbio metafisico: Kant che ti passa.
Lui dice:
Per ora, , nessun editore mi ha offerto un contratto. Che cosa vorrei scrivere? Che Kant era un biologo
eccezionale. Ha risolto nel settecento due problemi fondamentali: il problema della conoscenza, da un
lato, e il problema della morale dall’altro. La biologia moderna ha rivendicato totalmente queste
conquiste di Kant.
Per la prima volta Kant ha detto: «Qualcuno potrà anche millantare una conoscenza obiettiva del
mondo, ma a me non interessa com’è il mondo, perché io lo posso solo conoscere e sapere a modo
mio. E questo modo mio trascende me, ma non la specie umana cui appartengo, nel senso che sono
attrezzato dal punto di vista biologico-culturale per vedere il mondo in una certa maniera».
Boncinelli segnala:
Questo Kant lo diceva nel settecento. Allora come oggi i fisici ne sono rimasti soddisfatti. Chi non è
soddisfatto della risposta sono i filosofi. Ma per lo scienziato la risposta è più che sufficiente.
Ma Boncinelli stesso…
… questo è il massimo di bonus che mi riprometto di ottenere dai miei studi: capire come l’uomo
conosce il mondo partendo da una certa struttura cerebrale, avendo dei vincoli, avendo certe
categorie.
Galimberti alla domanda «Che cosa ne pensa di questa cultura di Kant in chiave biologica?»
risponde:
Boncinelli opportunamente ricorda come Kant abbia compiuto quella rivoluzione copernicana che ci
hanno insegnato al liceo. Noi non conosciamo dal mondo perché lo osserviamo, ma perché lo
interroghiamo. Non bisogna comportarsi, secondo Kant, davanti alla natura come uno scolaro che beve
tutto ciò che dice il maestro, ma come un giudice che obbliga l’imputato, cioè la natura, a rispondere
alle sue domande.
Già in questo avete inteso, in paragone a quello che diceva Alberto Colombo, come ci sia uno
scivolamento, come ci siano già delle interpretazioni, delle riduzioni. Ma il fatto più importante riguardo la
psicologia, è che nella psicologia attuale di psicologia non ce n’è: ciò che si tratta non è la psiche, ma sono
altri fatti.
Una domanda attuale, anzi la ricerca attorno a cui si svolge la psicologia contemporanea, sono le
leggi del pensiero. In realtà non sono più leggi del pensiero, perché il pensiero dalla psicologia attuale è
sparito come termine, come concetto. Sono forse leggi della logica? Ma se fossero leggi della logica,
potrebbero essere dette leggi psicologiche? Questa è la domanda che parte da Kant, cioè la domanda che il
lavoro di Kant ha introdotto.
Kant stesso nella Critica alla ragion pura aveva segnalato che l’io che pensa non può essere oggetto
di conoscenza così come altre conoscenze; se fosse un oggetto della conoscenza, così come altre, sarebbe un
fenomeno della natura. Ma questo porterebbe la ragione a una contraddizione, questa sarebbe psicologia
empirica. Quindi, noi possiamo dire, noi diciamo che non ci sono leggi del pensiero, ma anche gli a-priori
che fonderebbero leggi logiche come leggi del pensiero, queste non sono leggi psicologiche.
Una prima riduzione di Kant, segnalata proprio da Alberto Colombo, è stata proprio questa: Kant, i
suoi a-priori, le categorie logiche che introduce, come condizione per una possibile esperienza, queste non
possono non essere leggi psicologiche. Quindi Kant avrebbe fatto una psicologia. E a questo punto sì si
dovrebbe dire che se questa fosse la psiche l’individuo non sarebbe legislatore, il soggetto non sarebbe
legislatore. Queste leggi se le ritroverebbe come struttura del pensiero, ma non istituirebbe il pensiero.
[…]
Intanto la psicologia scientifica in tutte le sue versione — comportamentismo, psicologia sociale,
cognitivismo, neuropsicologia, etologia — tutte le scuole, gli orientamenti vari nella psicologia detta
11
scientifica attuale in tutto ciò, ciò che va riscontrato è che non ci sono queste leggi, ossia non sono leggi
psicologiche. Sono leggi di comportamento. Cioè sono leggi di altro tipo; sono leggi che connettono,
collegano direttamente o gli stimoli, gli eccitamenti, ai comportamenti, senza considerare la realtà psichica,
detti anche nella psicologia scientifica «stati mentali», oppure sono leggi puramente fisiche, biologiche,
neurologiche, comunque fisiche. È semmai la psicologia cognitiva contemporanea ad aver fatto un passo
verso la psicologia del senso comune. Cioè riconosce che eventi mentali ci sono, ma non sono delle
rappresentazioni soggettive coscienti; cioè il soggetto non ha conoscenza alcuna delle sue rappresentazioni.
Queste rappresentazioni sono oggettive e vanno spiegate in altro modo. Non si possono spiegare neanche
tramite comportamenti. Quindi, la psicologia scientifica lascia libera la psicologia del senso comune — noi
diciamo la psicopatologia — di procedere con le sue leggi statistiche o impostate sulla statistica, perché gli
eventi mentali, gli stati mentali, la mente ha un’altra via. Cioè il soggetto non avrà mai conoscenza, non può
avere conoscenza della sua psiche. La psiche è fatta di rappresentazioni oggettive e di processi altrettanto
oggettivi.
Comportamentismo e cognitivismo perché abbandonano il pensiero e la psicopatologia perché procede con
teorie che possono trovare una conferma scientifica proprio per il fatto che la psicologia scientifica nega che
esista pensiero.
Cosa c’entra tutto questo con Kant?
Ciò che Alberto Colombo ha presentato questa mattina è stata la prima parte delle due critiche, cioè
La critica della ragion pura. La seconda parte, La critica della ragion pratica, è per Kant un tutt’uno, una
grande critica. Il progetto presentato da Alberto Colombo è composto di tre parti. Noi possiamo dire con
Kant che la Critica della ragion pura è […] e questo per lasciarla come un tutt’uno non accrescibile ai
posteri, come un’eredità che Kant lascia. Cioè una metafisica in cui la ragione non sia più in difficoltà, così
come questo è accaduto per la fisica o per la matematica. Ed è in questo senso che prende il suggerimento di
Copernico e chiama il suo lavoro «una rivoluzione copernicana».
L’apparente fallimento della prima, cioè il fatto che la ragione arrivi a pensare soltanto dei fenomeni,
per Kant è il limite, ma questo limite non è un limite negativo: questo limite permette di creare uno spazio
libero per la ragione, ma per un altro uso della ragione, non conoscitivo puro, ma uno spazio tale per cui la
ragione arrivi a essere soddisfatta in se stessa. La ragione può essere soddisfatta in se stessa se può arrivare a
sapere circa le tre idee trascendentali: libertà, Dio, anima. Sono queste idee, questi incondizionati ad avere il
primato e a compiere la metafisica, ossia a soddisfare la ragione.
Quindi, la Critica alla ragion pura è a fini esplicativi, ed è per arrivare alla Critica alla ragion
pratica, cioè per arrivare a ciò che nella seconda sarà una sorta di a-priori e che sarà l’imperativo categorico.
C’è un altro modo di approccio, un altro uso della ragione.
Per Kant la ragione detta pratica e la ragione in sé è detta pratica nel senso che ha uno scopo e lo
scopo pratico della ragione è raggiungere un fine: il fine della ragione è di arrivare a una conoscenza
razionale. Il fine della ragione come ragione pratica è che l’individuo razionale arrivi a partecipare del
sommo bene, in quanto adeguato al valore morale della sua persona e non soltanto delle sue azioni.
La ragione pura è di per sé solo pratica e dà all’uomo una legge universale che chiamiamo la legge
morale: è questo lo scopo della ragione ed è in questo scopo che la ragione è soddisfatta. La legge
fondamentale della ragione pratica è questa: agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre
valere congiuntamente, insieme, come principio di una legislazione universale. Cioè agisci in modo che la
massima della tua volontà individuale valga anche o unitamente o contemporaneamente come principio di
una legislazione universale. In questo modo la ragione individuale è soddisfatta, è certa, e ha una certezza
circa la conoscenza, circa il sapere, cioè ha un valore universale.
È questo il grande merito kantiano: l’aver individuato nel pensiero, perché tra ragione e intelletto lui
individua un nesso di servizio reciproco; non che intelletto e ragione siano giustapposti e giudizio altrettanto,
ma è un costrutto unico; lui dice che il pensiero individuale mediante la ragione ha un valore universale e
questo significa che l’individuo, o la ragione di un individuo, ha la possibilità di essere legislatore sopra ogni
cosa, sopra ogni conoscenza.
Insomma, in questo modo Kant segnala la competenza individuale quanto al pensare.
Ma se noi vediamo più da vicino il modo di procedere è anzitutto ciò che riguarda il principio della
ragione pratica, il postulato della ragione pratica, l’imperativo categorico, cioè posto analogamente agli a12
priori del pensiero, cioè come condizione della possibilità di conoscere, se vediamo l’imperativo categorico
noi dobbiamo constatare che l’individuo che conosce per Kant è un individuo che per essere degno di
conoscere, degno di soddisfare la sua ragione deve operare una rinuncia.
Nella Critica alla ragion pura la rinuncia era metodica ed era neanche una rinuncia, ma era quella
della ragione pura circa gli a priori dell’esperienza. Ma nella ragione pratica, cioè nell’uso pratico della
ragione si tratta dell’individuo. L’individuo, natura umana come dice Kant, che ha una doppiezza:
soddisfatto nell’uso pieno della sua ragione, tendente comunque a non usare pienamente della sua ragione
ma tendere ad altri scopi.
Per usare pienamente della sua ragione, e quindi essere soddisfatto della sua ragione, l’individuo per
Kant deve operare una rinuncia: la rinuncia all’interesse; a ogni interesse, a ogni affetto. Insomma per
operare bene la ragione deve essere governata da un imperativo categorico che comanda.
Kant dice: chi mi legge sarà infastidito nel sapere che la ragione deve operare con dei comandi, ma
nessuno di noi obietterebbe l’esistenza e gli interventi della polizia. Che ci sia un corpo di polizia, cioè che ci
sia un potere giudiziario, interessa a ciascun cittadino che grazie alla polizia può occuparsi dei propri
interessi tranquillamente. Così per la ragione. Nel suo uso pratico, cioè finalizzato alla soddisfazione, la
ragione corre il rischio di essere evitata, perché l’individuo andrebbe su altre strade, cercherebbe altri
interessi. Per questo quest’azione poliziesca, di comando dell’imperativo categorico.
È solo in questo modo che la ragione può essere tribunale. Questo lo dirà alla fine della Critica della
ragion pura e questo è notevole e sta proprio in questo il grande merito, la competenza e la sovranità della
ragione.
Quando alla fine della Critica della ragion pura Kant introduce la ragione pratica segnala già: la critica
della ragion pura può essere considerato come l’autentico tribunale per tutte le controversie che la
concernono. Cioè tutte le controversie che concernono la ragione non vanno risolte altrove, appellandosi ad
altre autorità: il tribunale è la ragione stessa. Essa infatti non è competente nelle controversie concernenti
immediatamente gli oggetti, essendo invece destinata a determinare e giudicare i diritti della ragione in
generale, in conformità dei principi della sua istituzione originaria.
Ma a cosa arriva la ragione, se nel suo uso puramente speculativo, conoscitivo, che ci fa conoscere il
campo dell’esperienza, non le è stato possibile soddisfarsi, cioè essere padrona a casa propria? E la ragione
stessa spinge verso idee trascendentali, quelle in cui troverebbe appunto la propria soddisfazione, quelle che
Kant chiama il sommo bene. Che cosa ci resta da fare? Ci resta sì un altro tentativo — è quello che ho
anticipato prima — cioè quella di vedere se la sua soddisfazione la potrà trovare nel suo uso pratico.
L’interesse della ragione rimane su tre domande: che cosa posso sapere? Che cosa debbo fare? Che
cosa mi è lecito sperare? Queste tre domande che derivano dal canone della ragione pratica, queste tre
domande dobbiamo dire che non sono domande che attestano della competenza individuale.
Che cosa posso sapere? Che cosa debbo fare? Che cosa mi è lecito sperare?
La competenza individuale è pienamente formulata in un principio, certo, tale per cui queste non
siano interrogativi aperti, ma siano delle asserzioni. Questa conclusione la raggiunge Freud. Ed è questo il
punto su cui volevo concludere.
La soddisfazione come soddisfazione del pensiero è posta, la troviamo in Freud quanto in Kant. Noi
possiamo ben dire che Freud nel suo procedere è rigorosamente kantiano. Io non l’ho mai letto ma lo
segnalo: il Progetto di una psicologia è scritto seguendo le tracce delle due critiche di Kant avete degli indizi
di questo nell’articolo La negazione, sul giudizio. Quando poi Freud non segnala espressamente il
riferimento a Kant.
Ma Freud non è con Kant. Anche noi non siamo con Kant.
Si può dire che Kant sia, nel suo intento di costruire una metafisica compiuta in se stessa in cui la
ragione sia soddisfatta nella sua indagine, così come la ragione può essere soddisfatta nella sua indagine
nella matematica e nella fisica, cioè nelle scienze, nel costruire questo impianto di questa metafisica
compiuta rimane impigliato o rimane in sospeso circa l’argomento della cosa in sé, che lo costringe a porre
— perché questo è Immanuel Kant che pone la soddisfazione della ragione nei tre trascendentali, mentre sarà
Freud a dirci che l’individuo non è di per sé interessato a conoscere o a sapere circa il sommo bene.
L’interesse di un individuo è sollecitato dall’esperienza di soddisfazione, è orientato al principio di piacere
posto da lui, ma i contenuti della soddisfazione sono liberi. Che si tratti di Dio, dell’immortalità dell’anima o
di quant’altro, i contenuti sono liberi.
È Freud che fonda una metapsicologia. Noi possiamo dire che la metafisica di Freud è la
metapsicologia. Cioè non c’è più una distinzione, un riferimento a un essere incondizionato di cui l’ente
sarebbe la sua apparenza.
13
Quanto al nesso sapere-conoscenza, anche Freud, kantianamente, segnala che la conoscenza è a
posteriori: cioè, si conosce ciò che deriva dall’esperienza. Pensare è diverso da conoscere. Pensare o sapere
precede il conoscere, ma il conoscere non sarà mai a priori. Questa è già una critica che aveva segnalato
Mariella l’anno scorso.
Affrancato da un debito che limita la ragione kantiana, il pensiero per Freud è libero di procedere
meditando la legge, premeditando l’azione, la legge che è legge di rapporto in cui l’Altro è già preso dentro,
è già coinvolto. Per Kant l’Altro è colui che deve essere trattato in modo rispettoso e che potrà essere trattato
in modo rispettoso solo seguendo un orientamento morale dato da un imperativo: agisci in modo tale da far sì
che la tua massima della volontà valga come legislazione universale.
Potremmo dire — questo è una deduzione — che Kant è stato obbligato a impostare la critica alla
ragione nelle sue due parti in questo modo e a porre l’imperativo categorico come imperativo pensando
l’individuo, cioè la natura umana, come capace di ragione, però limitata e quindi bisognosa di un controllo, il
controllo dell’imperativo, per il fatto che esisterebbero delle tendenze verso interessi che sarebbero contrari
alla ragione. Che cosa sono? Gli istinti.
È stato invece Freud ad abbandonare il termine di istinto per introdurre quello di pulsione che noi
abbiamo compiuto descrivendolo come moto. Il moto del corpo pensato nella sua legge porta già al di là
dell’organismo il corpo stesso; quindi non ci sono fenomeni.
È Freud che l’ha fatta finita con una concezione che avrebbe in sé una preistoria. Intendo con
preistoria un periodo, un momento della sua esperienza che sarebbe pre-civile, pre-etico, cioè senza habitus.
L’uomo per Freud inizia con l’habitus. Giacomo Contri ci diceva che Adamo ed Eva in paradiso vestivano
l’abito da sera. Avevano l’habitus, una civiltà.
Il comando, per il pensiero retto dal principio di piacere, è un sovrappiù patologico, un eccesso
patologico. I comandi così come li troviamo nella psicologia recente hanno la stessa precondizione:
l’individuo non ha pensiero — avrà istinti, avrà quant’altro — e il comportamento dell’uomo lo
individuiamo noi, cioè lo si individua dall’esterno. È in questo modo che io trovo, non direttamente, un nesso
tra la psicologia recente, Kant, e Freud dall’altra parte.
Freud come colui che ha ripreso il lavoro e il merito di Kant compiendolo con un emendamento di
questo errore kantiano di ritenere l’uomo assoggettato a degli istinti ed è la psicologia come scienza che non
è psicologia.
© Studium Cartello – 2007
Vietata la riproduzione anche parziale del presente testo con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine
senza previa autorizzazione del proprietario del Copyright
14