La Voce Irredentista n. 1 - MOVIMENTO IRREDENTISTA ITALIANO

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LA VOCE IRREDENTISTA
Bollettino del Movimento Irredentista Italiano
Numero 1
Editoriale
A chi ascolta la nostra voce
Il lettore si chiederà per quali motivi un gruppo di giovani (o meno giovani) abbia deciso di rispolverare un
termine desueto ed affascinante, familiare eppur poco conosciuto: irredentismo. Un termine legato ai ricordi
di scuola oppure alla toponomastica e alle varie vie Cesare Battisti, Nazario Sauro, Guglielmo Oberdan oppure
alle piazze dedicate all'Istria, alla Dalmazia, alla Venezia Giulia. Od ancora alla Corsica, a Nizza, a Malta... Da
alcuni decenni a questa parte è stato solo questo, sino ad ora purtroppo è stato solo questo. L'irredentismo
è quel movimento d'opinione, quella corrente di pensiero volta liberare i territori linguisticamente,
culturalmente ed etnicamente appartenenti ad un popolo in base al principio di nazionalità ma sottoposte al
dominio straniero per cause storico-politiche. L'irredentismo storicamente si è sviluppato alla fine del XIX
secolo ossia dopo l'Unità d'Italia quando intellettuali e politici sentivano l'esigenza di una religione civile
fondata sulla Patria, sul culto della Patria in modo che, fatta l'Italia, si formassero gli italiani che per secoli
erano stati divisi ed in lotta tra loro mentre le varie dominazioni si susseguivano nella Penisola. L'obiettivo
era quello di far sì che gli italiani potessero finalmente sentirsi tali ossia un popolo ma ci vorranno decenni
affinchè ciò potesse concretizzarsi: il bagno di sangue della Grande Guerra, l'impresa di Fiume ed il fascismo
che però ha trasformato col tempo il genuino sentimento patriottico in nazionalismo, dunque esagerandolo
ed, anzi, esasperandolo. L'irredentismo invece nasce dall'amor di Patria senza alcuna velleità di
prevaricazione sugli altri popoli. Esso non è terminato con la fine della Prima Guerra Mondiale e col ritorno
del Trentino, dell'Alto Adige, della Venezia Giulia, dell'Istria e di Zara all'Italia: vi è stata in seguito l'impresa
di Fiume, l'impresa più grande dell'irredentismo, condotta dal Poeta Soldato Gabriele d'Annunzio che ha
determinato l'annessione della città all'Italia; vi sono state organizzazioni irredentiste in Dalmazia, nel
Nizzardo, in Corsica, a Malta, nel Ticino (così come pure nel Regno) che anelavano al ricongiungimento delle
loro terre al Bel Paese. Gli eventi iniziali del secondo conflitto mondiale hanno fatto in modo che l'Italia
riconquistasse parte della Dalmazia, il Nizzardo e la Corsica ma la sconfitta e la successiva guerra civile hanno
determinato la perdita di queste regioni così come pure delle terre orientali occupate dagli iugoslavi di Tito,
il quale purtroppo ha trovato non pochi fiancheggiatori anche in Italia. Malgrado la guerra civile che
contrapponeva le truppe regie e i partigiani (alleati degli angloamericani) ai militi della RSI (alleati dei
tedeschi) si sono verificati tra i due schieramenti tentativi d'intesa al fine di creare un fronte comune contro
i titini che minacciavano d'occupare Fiume, l'Istria e la Venezia Giulia, sfortunatamente non coronati da
successo ma che dimostrano che anche in quei drammatici anni vi era chi sapeva superare lo spirito di parte
e la rivalità politico-ideologiche in nome dell'Italia. Il trattato di pace di Parigi del 1947 non solo ha confermato
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la sovranità iugoslava sulla Dalmazia e quella francese sul Nizzardo e sulla Corsica ma ha imposto all'Italia la
cessione di Zara, di Fiume, dell'Istria e della maggior parte della Venezia Giulia alla Iugoslavia malgrado prima
della guerra non pochi croati auspicassero un intervento italiano che li "liberasse" dal giogo di Belgrado e
nonostante l'orrore delle foibe, la pulizia etnica, il genocidio perpetrato da Tito e dalle sue truppe ai danni
degli italiani della Venezia Giulia, dell'Istria e di Fiume tra il 1943 e il 1947, che ha causato 15 mila morti
(secondo alcuni 30 mila) e nonostante le atrocità commesse sugli italiani di Dalmazia, i campi di
concentramento e l'esodo di 350 mila nostri connazionali. Sul confine occidentale Briga e Tenda vegono
assegnate alla Francia benchè De Gaulle avesse dichiarato di non pretendere nulla dall'Italia. Per ora non
posso dilungarmi su questi avvenimenti ma essi saranno oggetto del lavoro di tutti gli autori della Voce
Irredentista. Movimenti e personalità politiche del dopoguerra hanno trattato la questione del confine
orientale con esitazione e indifferenza o addirittura hanno sostenuto Tito, salvo -è il caso di dirlo- luminose
eccezioni. Le foibe e l'esodo sono stati presto dimenticati per il "quieto vivere" e per motivazioni di
"solidarietà" politica; l'irredentismo è stato confuso ed associato al fascismo dunque demonizzato. L'Italia, a
parte il caso di Trieste nel '54, non tenterà più di liberare le terre irredente, come dimostra l'assurdo trattato
di Osimo del 1975. Ancora oggi, nonostante storici e giornalisti coraggiosi abbiano raccontato queste vicende
storiche, pochi italiani le conoscono. Abbiamo, a differenza d'altri popoli, la memoria corta e ci interessa solo
il fatto (o fattaccio) d'oggi, il gossip, lo scandalo. Ma un Paese che ignora il proprio ieri non può avere un
domani, come diceva Indro Montanelli. La Voce Irredentista vuole avvicinare il lettore alla storia, alla cultura,
all' attualità delle terre irredente. Essa è la voce del MIRI, del Movimento Irredentista Italiano ossia di un
movimento fondato sul patriottismo e non sulla faziosità politica i cui punti fondamentali e i cui intenti
possono essere sempre consultati sulla Voce. Qui non vi sono colori politici, livree di partito; qui vi sono
soltanto i colori della Bandiera. La Voce si propone di dar voce a chi non ha voce (concedetemi il giro di
parole), a chi non ha potuto dire la sua. A chi, in questo 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia è, proprio
come un secolo e mezzo fa, oppresso dallo straniero. Sì, questo come primo editoriale è un po' lungo e
dettagliato, ma doveroso. Vi risparmio pertanto un'anticipazione degli articoli successivi e spero vogliate
goderveli voi leggendoli in tutta calma e tranquillità dalla vostra postazione. Ringrazio sin d'ora i fondatori
del MIRI,i responsabili della Voce, gli autori, i curatori tecnici e della grafica e, soprattutto, ringrazio il lettore
per l'attenzione che di certo non mancherà di mostrare al nostro lavoro.
Domenico Verta
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Sommario
OLTRECONFINE
SOLO UN'ILLUSIONE: DAILA TORNA ALLO STATO CROATO
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ITALIA
MA CHE SUCCEDE A TRIESTE?
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STORIA
INDEFICIENTER (I PARTE)
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LE DONNE E LA STORIA
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SOLO UN'ILLUSIONE: DAILA TORNA ALLO STATO
CROATO
Sembra l'epilogo di una storia già sentita,
il tragico finale che nessuno voleva
sentire, illudendosi che il monastero di
Daila tornasse veramente ai benedettini
italiani. Ma le storie a lieto fine non
esistono in Istria, non esistono più da
quasi
settant'anni.
Quando
i
frati
benedettini di Daila vennero sfrattati dai
titini, non poterono portar via nulla, beni
mobili e immobili vennero strappati loro
da Tito, e i religiosi in un attimo divennero
esuli, e come altri 350.000 giuliano-dalmati lasciarono per sempre la loro terra. Si stabilirono a Praglia, in
provincia di Padova, e li ricominciarono a vivere. Ma torniamo ai giorni nostri: il complesso di Daila, che
comprende sia edifici che diversi ettari di terreno, venne ceduto, durante il governo ultranazionalista di
Tudjman, alla chiesa croata, nella specifico alla diocesi di Parenzo e Pola. I benedettini sfrattati già anni
addietro hanno richiesto la restituzione dei loro terreni e beni, o almeno un indennizzo in denaro e a tal scopo
hanno costituito presso uno studio notarile a Pola, la Società "Abbazia d.o.o.". ll Vaticano, dopo vari
tentennamenti ha finalmente deciso all'inizio di agosto 2011, la restituzione del monastero di Daila ai legittimi
proprietari: vista l'opposizione del vescovo della diocesi di Parenzo e Pola, il Papa ha ricorso alla sospensione
per un minuto di tale vescovo e alla nomina di Mons. Santos Abril y Castelló, giusto il tempo della firma, la
quale era stata rifiutata dal religioso croato. Seguono giorni di scandalo, i benedettini sfrattati, assumono
immediatamente l'aggettivo di "italiani", peccato che il contenzioso sia tra Santa Sede e diocesi di Parenzo e
Pola, e sia l'Italia che la Croazia non centrino molto, anche se il silenzio della prima è alquanto grave. La difesa
croata si concentra sul fatto che i benedettini furono risarciti dallo Stato italiano, secondo gli accordi di Osimo,
e di conseguenza non è possibile un secondo risarcimento. Fattostà che il denaro versato dall'Italia fu esiguo
e comunque la Chiesa ha delle regole ecclesiastiche che si rispettano all'interno di tale Istituzione Religiosa e
il potere più alto è nelle mani del Papa, il quale ha deciso da tempo l’azione da intraprendere. Probabilmente
questo sfugge al governo croato, che sostenendo il vescovo ribelle di Parenzo e Pola, spera di poter
nazionalizzare una seconda volta il monastero. Passano i giorni e finalmente l'8 agosto si ha la notizia della
vittoria dei benedettini, e del trasferimento di monastero e terreni nella Società "Abbazia d. o. o.". Ma è una
falsa speranza: mentre tutti si illudono e inneggiano alla giustizia trionfale, la Croazia si prepara al contrattacco,
e l'11 agosto si ha la terribile notizia che Zagabria è tornata in possesso di Daila. L'escamotage usato è
meschino ed ha l'amaro sapore di una farsa. In pratica è stato annullato il "documento di restituzione",
(restituzione sarebbe stato ridare il monastero ai religiosi italiani, non alla nuova diocesi slava insediatasi dopo
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la loro cacciata), con cui Daila era passata dallo Stato croato alla diocesi di Parenzo e Pola, ed in tal modo
tutto il complesso è tornato nelle mani di Zagabria e il Vaticano non ha alcun potere di riprenderselo, in quanto
si parla ora di bene dello Stato e non di bene della Chiesa. Questo pare essere l'amaro finale di una storia che
pareva finita come nei film, con la vittoria della giustizia. Ma questo non è un film, questa è la dura reazione
di stampo ultranazionalista di una nazione che temeva il ritorno, seppur simbolico, di italiani che furono sfrattati
da Tito, poco importa se erano religiosi, in Croazia c'è spazio solo per il clero croato!
Sebastiano Parisi
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MA CHE SUCCEDE A TRIESTE?
Trieste è l'ultimo baluardo italiano che guarda a una Venezia Giulia scomparsa, a cui vorrebbe dare il colpo di
grazia la manovra economica, che inserisce la provincia giuliana tra quelle da eliminare, insieme a Gorizia. Ma
cosa sta avvenendo in quel frammento d'Italia? C'è stato innanzitutto il sinistro matrimonio jugoslavo celebrato
in piazza Unità, con tanto di bandiera
della Federazione, tricolore violentato
con una stella rossa al centro e tanti bei
canti partigiani, proprio quegli inni
intonati durante l'occupazione della
città da parte dei titini. L'orrore non è
finito qui, visto che il sindaco triestino
ha avuto la brillante idea di scendere
giù dal municipio e unirsi alla simpatica
festicciola, con tanto di foto con gli
sposi. Poco importa che il "primo"
cittadino abbia negato di aver visto
vessilli jugoslavi, ci sono le foto a testimoniare tutto. Ma su quella lingua di terra non è accaduto solo questo.
Ricordiamo che oltre al sindaco, in municipio è presente un titino sfegatato di etnia slovena, sotto i colori di
Rifondazione Comunista. Questo è grave, siamo d'accordo, ma non c'è due senza tre: sono da poco comparsi
negli uffici comunali triestini foto del dittatore jugoslavo e calendari a stile nostalgico del boia di migliaia di
italiani. Sono passati quasi 60 anni da quando il capoluogo della Venezia Giulia insorse contro il Governo
Militare Alleato. Quelli furono giorni storici, determinanti per il ritorno della città all'Italia. Ma i triestini non si
fermarono, continuarono durante gli anni la lotta contro bilinguismo e trattato di Osimo. L’italianità, tanto
messa a rischio dai gravi eventi storici, fu rinsaldata e rinnovata. Ma oggi, in tempi di Europa unita e
multiculturalismo, tutto ciò è nuovamente a rischio. La ritrovata "amicizia" con gli sloveni, tanto voluta dal
presidente Napolitano sembra essere degenerata in qualcosa di grave: i titini non occupavano il municipio di
Trieste dal 1945, ma oggi, nel 2011, muti come pesci ci sono tornati e sono per assurdo alla guida di una città
che ha pagato col sangue la sua fede tricolore. Dopo decenni, l'ombra di Tito sembra essere più viva che mai.
La giunta intende estendere il bilinguismo sulla città, e non solo con lo sloveno, ma anche col serbo-croato.
Ovviamente è inaccettabile, specialmente dopo aver constatato che il bilinguismo con l’italiano oltreconfine
arriva fino a Pola, escludendo quindi sia l’Istria orientale che quella centrale, per non parlare poi di Quarnaro
e Dalmazia dove appaiono solo nomi in croato e gli italiani, specie da Fiume in giù, sono in via d’estinzione. E
ora si vorrebbe trasformare Trieste in quello che non è? Purtroppo questa vergogna era nell'aria da tempo, da
anni il 1° maggio più che la festa dei lavoratori, sembra essere diventata, nella capitale giuliana, la festa della
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"liberazione" della città (il 1° maggio 1945 gli jugoslavi entrarono a Trieste), e nei cortei organizzati dai
facinorosi spuntano troppo spesso bandiere jugoslave e vessilli stranieri. Quanto deve durare ancora tutto
questo? Non sarà di certo la volontà di pochi nostalgici titini a sconvolgere una città che ha sempre versato
sangue per la sua redenzione e per la Patria. I triestini non permetteranno tutto questo: il loro spirito, il loro
attaccamento al tricolore avrà la meglio e Trieste non perderà la sua identità. Il significato di quella lingua di
terra che raggiunge l’Istria a Muggia, è sconosciuto ai più. Quella è la Venezia Giulia, una regione che fu
grande e, nonostante tutto, tornerà ad esserlo!
Sebastiano Parisi
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INDEFICIENTER -
Città di Vita - (I PARTE)
La febbre era scesa da poche ore. Il Poeta aveva trascorso una notte insonne e per il malessere fisico e per
ciò che doveva compiere. Era il mattino dell’11 settembre 1919 ed il tenente Frassetto, uno dei “giurati”di
Ronchi, bussò alla porta della Casetta Rossa, la dimora veneziana di d’Annunzio non senza apprensione per la
salute dell’illustre inquilino. Il Poeta, benché febbricitante, smise il pigiama di seta nera con ricami in oro per
indossare l’uniforme di tenente colonnello dei Lancieri di Novara unitamente alla decorazioni e alla piastrina di
mutilato di guerra. Aveva già chiesto un motoscafo all’Ammiragliato ma senza dare spiegazioni: incredibilmente
ottenne la lancia personale dell’ammiraglio, la caricò anzi stracaricò di bagagli per raggiungere il pontile di San
Giulian dove lui e i suoi compagni avrebbero trovato di lì a non molto un’automobile,una FIAT cabriolet rossa
che li avrebbe condotti a Ronchi di Monfalcone. Ma bisogna qui ricorrere ad un flashback. Con la battaglia di
Vittorio Veneto (ottobre-novembre 1918) le nostre truppe inflissero un duro colpo agli Imperi Centrali
segnando la disfatta dei tedeschi sul fronte italiano e la dissoluzione dell’esercito austroungarico. I nostri
avanzarono rapidamente verso Trento e verso Trieste liberando le terre irredente che da tempo si trovavano
sotto il dominio degli Asburgo e che a testimonianza della loro italianità avevano visto il sacrificio di Cesare
Battisti, Guglielmo Oberdan, Nazario Sauro, Damiano Chiesa ,Fabio Filzi oltre ad altri 670.000 caduti nella
guerra che stava per finire. I territori in questione erano il Trentino, l’Alto Adige, la Venezia Giulia, l’Istria, la
Dalmazia e le sue isole ed erano stati promessi dalle potenze dell’Intesa (Inghilterra, Francia e Russia) all’Italia
in cambio dell’entrata in guerra contro l’Impero Austrungarico. Questo era il famoso Patto di Londra del 1915
e gli Italiani agivano in base ad esso tuttavia…bisogna fare delle precisazioni. Le potenze dell’Intesa ci
concedevano, oltre alle regioni suddette, solo la parte settentrionale della Dalmazia nonostante questa fosse
sempre stata legata all’Italia sin dai tempi di Roma e di Venezia (gli italiani costituirono la maggioranza della
popolazione sino alla metà del 1800 quando la politica di snazionalizzazione dell’Austria favorì l’elemento croato
con massicci trasferimenti di slavi dell’interno; malgrado ciò Zara e alcune isole rimasero a maggioranza italiana
mentre altrove la cultura e la lingua italiana -difese strenuamente dalle nostre comunità- continuarono ad
esser presenti) e soprattutto…non ci assegnavano la città di Fiume! Situata sul golfo del Carnaro, la città era
da sempre a maggioranza italiana. Corpus separatum nell’ambito della monarchia asburgica per volere del
dispotismo illuminato di Maria Teresa,Fiume era retta da un governatore ungherese. Questo status particolare,
oltre a comportare un grande sviluppo economico, salvaguardò l’identità italiana della città anche quando nel
XIX secolo l’Austria cominciò a temere gli italiani in quanto essi per via del processo risorgimentale anelavano
a costituire nella Penisola uno Stato indipendente in netto contrasto con gli interessi asburgici. I governatori
magiari -nell’800 patrioti italiani ed ungheresi simpatizzavano contro l’imperialismo di Vienna- presero a ben
volere i fiumani tant’è che la snazionalizzazione non si ebbe e in città i nostri compatrioti rappresentavano non
solo il gruppo nazionale più popoloso ma anche la comunità più attiva e briosa tanto che mentre quasi tutti gli
italiani parlavano solo il loro idioma (oltre ovviamente al dialetto fiumano, una variante del veneto) gli altri
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gruppi nazionali conoscevano l’italiano come seconda lingua e gli ungheresi chiamavano la città col nome
italiano, Fiume. Nel 1918 erano presenti in città 28.911 italiani (62%), 9092 croati (19,6%), 4431 ungheresi
(9,6%), 1674 sloveni (3,6%), 1616 tedeschi (3,5%), 161 serbi (0,4%). Poco prima della caduta dell’Impero a
Fiume era sorto un Consiglio Nazionale Italiano che assunse il controllo della città in rappresentanza della
popolazione italiana e che, insediatosi nel Municipio, proclamò unilateralmente l’annessione di Fiume al Regno
d’Italia in base al diritto all’autodeterminazione dei popoli. Il Consiglio agì subito per prevenire le iniziative
croate che in effetti non si fecero attendere: anche loro crearono un Consiglio Nazionale, si insediarono nel
Palazzo del Governo reclamando l’annessione al Regno Serbo-Croato-Sloveno (SHS) ed agitatori croati,
unitamente a truppe serbe, entrarono a Fiume per seminarvi il disordine. Si verificarono violenze e
manifestazioni antitaliane da parte slovena e croata. Data la situazione e su richiesta del Consiglio Nazionale
Italiano, Roma inviò un contingente composto da Granatieri di Sardegna per proteggere i nostri connazionali
anche se insieme ad esso entrò pure un contingente americano. Le truppe iugoslave vennero evacuate in base
ad un compromesso che poneva la città sotto controllo interalleato con presenza militare italiana, americana,
inglese e francese mentre il Consiglio Nazionale Italiano assumeva il potere civile. Per quanto detto le pretese
croate su Fiume erano assolutamente illegittime: in base al principio di nazionalità (ossia un territorio
appartiene ad un popolo inteso come comunità con una propria lingua e una propria cultura quando esso è
nativo del luogo ed è in condizione di maggioranza numerica) Fiume era incontestabilmente italiana ed essa
non si trovava nei territori del Patto di Londra solo perchè nessuno aveva previsto la disgregazione dell’Impero
Austroungarico del quale Fiume sarebbe rimasta l’ unica grande città portuale. I nazionalisti croati, insieme a
quelli sloveni, addirittura miravano a portare il confine SHS al Tagliamento fagocitando così territori del tutto
italiani quando a est dell’Eneo i croati erano in maggioranza solo in qualche paesino dell’interno istriano e gli
sloveni in qualche centro minore della parte orientale della Venezia Giulia. Ma purtroppo c’era chi avrebbe
voluto accontentarli. Infatti al tavolo della pace emerse, tra i vari delegati, la figura di Woodrow Wilson, il
presidente degli Stati Uniti d’America. Egli in uno dei suoi famosi 14 punti affermò che “la rettifica delle frontiere
italiane sarà fatta secondo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili”. In teoria, nulla da eccepire. Wilson
però non sapeva nulla dell’Italia e delle sue zone di frontiera nelle quali le “linee di nazionalità” erano tutt’altro
che riconoscibili. Abituato evidentemente a tracciare confini negli immensi deserti americani dove ci sono solo
cactus e coyote, non diede grande importanza a Fiume e ai desideri dei suoi abitanti. Accolse pertanto le
richieste iugoslave e fece una ramanzina agli italiani affinché rinunziassero alle loro rivendicazioni con un
manifesto rivolto al popolo italiano evitando perciò di ricorrere alla diplomazia. Quest’atto poco educato suscitò
le ire degli ex combattenti e l’unanime sdegno del mondo politico del Bel Paese. I nostri delegati, Sidney
Sonnino e Vittorio Emanuele Orlando, lasciarono in segno di protesta la Conferenza di Versailles mentre
d’Annunzio ribadiva i sacrosanti diritti dell’Italia sulla Dalmazia e su Fiume. Qui il clima era a dir poco esplosivo
e la forza di presidio interalleata, comandata dal generale Francesco Grazioli, ebbe gravi difficoltà nel
mantenere l’ordine. A difesa dell’italianità della città contesa era sorta intanto la Legione Fiumana
(un’organizzazione paramilitare) al comando del dalmata Giovanni Host Venturi, un ex ufficiale degli Arditi.
Praticamente si verificavano violenze ogni giorno e ai primi d’agosto del 1919 si ebbe un sanguinoso scontro
tra soldati francesi, filo-iugoslavi, e il contingente italiano sostenuto dai volontari di Host Venturi: i francesi
ebbero sette morti. Vi furono clamorose proteste da parte francese, il nostro governo dovette scusarsi e venne
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costituita una commissione d’inchiesta interalleata che determinò lo scioglimento della Legione Fiumana e
l’allontanamento dei soldati italiani da Fiume. Indebolito dalla crisi interna, il governo italiano non seppe
reagire. Fu stabilito che le truppe italiane dovessero lasciare la città all’alba del 25 agosto. I primi a partire
dovevano essere i Granatieri. Il loro esodo fu commovente poiché la popolazione tentò di impedire la partenza:
”Non lasciateci in mano ai croati!” gridava la gente. Usciti dalla città, i soldati non fecero però molta strada. Si
fermarono infatti a Ronchi di Monfalcone in preda alla rabbia e al malcontento per quella iniqua decisione che
in pratica consegnava Fiume agli iugoslavi. Ufficiali e soldati decisero d’attuare un pronunciamento nonostante
la legge prevedesse la corte marziale per simili atti. Si rifiutarono perciò di eseguire gli ordini ricevuti e
organizzarono invece una spedizione che doveva portare alla liberazione di Fiume e al suo ricongiungimento
all’Italia. Ci voleva però un comandante prestigioso per dare lustro all’impresa: tutti pensarono a Gabriele
d’Annunzio. Ed infatti gli insorti lo contattarono immediatamente. [continua...]
Domenico Verta
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LE DONNE E LA STORIA
Donne. Simbolo da sempre di grande forza, non fisica ma morale e spirituale. Donne massaie che mandavano
avanti una casa e un’intera famiglia (composta da moltissimi figli, un tempo) senza mai batter ciglio o dar
segno di debolezza. Le donne sono sempre state parte integrante di qualunque evento storico, perché anche
le donne sono la storia. Solo che non se ne parla. Avete mai sentito di eserciti di donne? Dubito. Raramente i
libri di storia si occupano di donne che non rispettano i confini sessuali, soprattutto in tema di guerra e uso
delle armi. Forse avrete sentito parlare di regine “guerriere”, perché si sa: talvolta in successione ad un re, c’è
una donna; una regina. E le guerre non aspettano gli uomini per scoppiare. Parlo di Semiramide di Ninive (che
creò il regno assiro) e Boadicea, che condusse una sanguinosa rivolta degli inglesi contro l’impero romano;
solo un paio di esempi, naturalmente. Ma delle donne comuni, che come i soldati si esercitarono con le armi
e andarono in battaglia, i libri di storia non se ne occupano. Eppure, nessuna guerra è stata combattuta senza
partecipazione del “gentil sesso”. Numerosi furono i popoli che si avvalsero delle donne in guerra. Esistono
anche molti racconti sulle donne guerriere nell’antica Grecia: donne temute, addestrate fin dall’infanzia alla
sopportazione e alle privazioni fisiche. Di fatto, esiste un solo esempio storico documentato di donne guerriere,
quello di un esercito delle popolazioni fon del Dahomey, l’attuale Benin. Queste donne, benché abbiano tenuto
testa alle armate degli europei colonizzatori, risultano nei libri di storia al massimo come una nota a piè pagina.
Ok, fino ad ora abbiamo parlato di vere e proprie guerriere; ma per quanto mi riguarda, è guerriero anche chi
lotta con le unghie e con i denti seppur senza usare le armi. Senza analizzare anno per anno la storia, voglio
solo esaminare ciò per cui questo giornale si adopra; pertanto è di donne irredentiste che voglio parlarvi,
donne che col loro coraggio, la loro tenacia e determinazione hanno contribuito a portare avanti la causa
irredentista. Parlo dunque di una piuttosto rinomata Irene Scodnik (1850-1940), moglie di Matteo Renato
Imbriani, o di Bice Rizzi (1894 - 1982). E poi ancora, Fortunata Morpurgo, alias Willy Dias (1872-1956),
irredentista appassionata, amore da cui prese poi una dolorosa distanza, abile scrittrice di romanzi sottilmente
attraversati da accenti critici. Ancora fervide irredentiste furono Enrica Barzilai Gentili (1859 - 1936) e, ancor
più, Carolina Coen Luzzatto (1837 - 1919), quest'ultima nota anche come zia di Carlo Michaelstaedter, direttrice
del "Corriere di Gorizia". A cavallo del secolo sembra infine significativa la figura di Elody Oblath Stuparich
(1889 - 1971), amica di Slataper e autrice più tardi di un'autobiografia di impronta autoanalitica giudicata di
grande modernità. Nella seconda metà del secolo, come si è detto, il dibattito irredentistico, oltre che sociale,
si andò animando e alcune figure femminili si misero in luce, come Elisa Tagliapietra Cambon (1842-1913),
poetessa che teneva un salotto molto animato, oppure Caterina Croatto Caprin (1840-1922), innamorata della
cultura italiana e fervida irredentista, o Emma Conti Luzzatto (1850-1918), fattasi ebrea, che si richiamava
nella sua opera piuttosto all'ambito tedesco e nordeuropeo. Accanto a queste ultime figure, per molti versi
ancora legate ai tradizionali modelli femminili, altre donne seppero affrontare anche i nuovi dibattiti, come la
poetessa e traduttrice Elda Gianelli (1856-1921), che nel 1908 porterà una relazione al Congresso Nazionale
Donne a Roma, o meglio ancora la giornalista Adele Butti (1848-1909), amica di Guglielmo Oberdan e, più
della sorella Argia, impegnata politicamente, fervente mazziniana e convertita alla lotta per i diritti dei lavoratori
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e delle donne Ancora va ricordata la bella figura di Giuseppina Martinuzzi di Albona (1844 - 1925), letterata e
giornalista come le sorelle Butti per le pagine dell’ "Operaio", che collaborò con la Società Operaia Triestina. Il
dibattito politico ormai infiammato la vide protagonista, talora mutando di prospettive, ma perseguendo
sempre una propria ricerca coerente, lottando prima per la causa irredentista e poi per quella socialista, fino
alla scelta comunista del 1921, dedicandosi tutta all'insegnamento tra i più deboli, la "maestra dei poveri". Si
impegnò anche nel dibattito sui diritti delle donne, tenendo conferenze sull'emancipazione femminile, e
partecipò al Convegno di Roma del 1908. Ricca di talento e passione, amava profondamente la sua patria ma
non sopportava le antinomie nazionalistiche e sognava un clima di collaborazione, di civile convivenza,
superando magari le barriere linguistiche con un mezzo diverso come l'esperanto. Per questo primo numero
de “La Voce Irredentista” vi ho dato un semplice assaggio della partecipazione femminile alla causa. Pian piano
scopriremo e analizzeremo meglio il loro contributo, la loro vita e il loro esser donne.
Lucrezia Sordelli
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