Economia Finanziaria e Monetaria
Lezione 7 - Efficacia e desiderabilità di politiche
monetarie discrezionali – Indipendenza BC,
Inflation Targeting, Regola di Taylor e Great
Moderation
Economia Finanziaria e Monetaria
Giovanni Ferri
1
Bari, EIMF 2012
0. Outline
Scaletta della lezione 7
1. Indipendenza della Banca Centrale (CBI)
2. Inflation Targeting
3. Regola di Taylor
4. Great moderation
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Giovanni Ferri
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1. Indipendenza della Banca Centrale (CBI) – 1
Un’ampia letteratura successiva a Barro-Gordon ha esaminato la
questione dell’indipendenza della Banca Centrale (BC).
Infatti, Barro-Gordon mostra che una policy rule è superiore alla
politica discrezionale, nel conseguire un tasso di inflazione di
equilibrio più basso. Barro-Gordon trova che anche la reputazione
del policy maker, pur migliorando l’equilibrio discrezionale, non
consente di raggiungere il risultato della policy rule.
Lavori successivi si sono concentrati su come prevenire che il policy
maker persegua sorprese inflazionistiche (al fine di abbassare il
tasso di disoccupazione al di sotto del livello naturale).
Una possibile risposta è nominare migliori policymakers. Alcuni
lavori di Ken Rogoff hanno mostrato the il problema dell’alta
inflazione “da politiche discrezionali” può essere mitigato, o
evitato, nominando un banchiere centrale “conservatore”, cioè che
non ama l’inflazione.
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Bari, EIMF 2012
1. Indipendenza della Banca Centrale (CBI) – 2
Barro-Gordon replicherebbero che la spinta alla sorpresa
inflazionistica (per ridurre la disoccupazione) viene dal governo,
non direttamente dalla BC.
Allora, questo pone il problema dell’importanza dell’indipendenza
della BC che, isolata così dall’influenza del governo, non
soffrirebbe il bias inflazionistico anche se pratica politiche
discrezionali.
Esaminiamo ora l’evidenza empirica sulla relazione tra Central Bank
Independence (CBI) e il livello e la variabilità dell’inflazione. Il
paper di riferimento è Cukierman et al. [Cukierman, A., B.
Neyapti, and S. Webb. “Measuring the independence of central
banks and its effect on policy outcomes.” The World Bank
Economic Review 6 (3):353-398, 1992; CWN].
La CBI ha due dimensioni: Indipendenza di obiettivi e Indipendenza
di strumenti.
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1. Indipendenza della Banca Centrale (CBI) – 3
L’indipendenza di obiettivi è la libertà che la BC ha di scegliere gli
obiettivi della politica monetaria.
L’indipendenza di strumenti è la libertà che la BC ha di selezionare le
politiche appropriate che producono un certo risultato per
l’economia.
Una BC può avere indipendenza di strumenti senza avere
indipendenza di obiettivi (o più di rado viceversa): es. un gruppo
di paesi che praticano l’inflation targeting (cfr. oltre) hanno
indipendenza di strumenti ma non indipendenza di obiettivi: hanno
un obiettivo di inflazione tipicamente assegnato dal governo ma
possono scegliere le migliori politiche per conseguirlo.
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Bari, EIMF 2012
1. Indipendenza della Banca Centrale (CBI) – 4
In genere, gli economisti credono che la BC dovrebbe avere
indipendenza di strumenti senza avere indipendenza di obiettivi.
L’argomento di base è che in un paese democratico la BC
dovrebbe rispondere alla gente. Quindi, i rappresentanti del popolo
(cioè i politici) dovrebbero scegliere gli obiettivi di policy, ma
abbastanza libertà deve essere concessa alla BC su come
raggiungere tali obiettivi.
Le principali domande sono due: 1) Come si misura la CBI? 2) Qual
è l’impatto della CBI sulla performance macroeconomica?
CWN presentano tre differenti misure di CBI:
- 
un indice di indipendenza legale;
- 
una misura del tasso di ricambio dei governatori delle BC;
- 
un indice basato sulle risposte a un apposito questionario rivolto a
vari paesi.
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1. Indipendenza della Banca Centrale (CBI) – 5
CWN misurano la CBI basata su questi differente approcci per 72
paesi, ne calcolano il rango e studiano la relazione tra CBI e
performance d’inflazione nell’economia.
CWN trovano che misure legali della CBI sono importanti
determinanti di bassa inflazione nei paesi sviluppati ma non nei
PVS; nei PVS conta di più il basso ricambio dei governatori.
CWN verificano anche l’impatto della CBI sulla variabilità
dell’inflazione. I risultati mostrano che il ricambio è positivamente
correlato con la variabilità nei PVS e la misura di indipendenza
legale è negativamente correlata con la variabilità dell’inflazione
nei paesi sviluppati.
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2. Inflation Targeting – 1
L’Inflation Targeting Framework (ITF) nasce verso la fine degli anni
‘90, quando Bernanke et al. [Bernanke, Ben S.; Laubach, Thomas;
Mishkin, Frederic S. and Posen, Adam S. Inflation Targeting:
Lessons from the International Experience. Princeton: Princeton
University Press, 1999] lo sintetizzano così:
Inflation targeting is a framework for monetary policy (MP)
characterized by the public announcement of official quantitative
targets for the inflation rate over one or more horizons, and by
explicit acknowledgment that low and stable inflation is MP’s
primary long-term goal. Among other important features of
inflation targeting are vigorous efforts to communicate with the
public about the plans and objectives of the monetary authorities,
and, in many cases, mechanisms that strengthen the central bank’s
accountability for attaining those objectives. (p. 4)
ITF si muove nel solco delle implicazioni di Barro-Gordon ed è
coerente con un approccio operative di regola di Taylor (cfr. oltre)
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2. Inflation Targeting – 2
Gli economisti e i MP makers sono da tempo convinti che una
politica monetaria di successo deve avere una “ancora nominale”,
una variabile che la BC possa usare per dare disciplina alle sue
decisioni di policy e convincere gli agenti economici che la BC è
disciplinata.
Varie ancore nominali sono state usate in diversi paesi/periodi: es. gli
aggregati monetari come M1 o il tasso di cambio. In quest’ultimo
caso, viene fissato il valore della valuta e la BC conduce la politica
monetaria per sostenere il cambio fisso.
La motivazione dietro Bernanke et al. è che l’abbandono da parte di
molti paesi dei tassi di cambio fissi e i crescenti problemi associati
a scegliere gli aggregati monetari appropriati per guidare le
decisioni di politica monetaria, nell’ambito di sistemi finanziari
sempre più complessi, ha indotto i policymakers a cercare una
nuova ancora nominale.
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2. Inflation Targeting – 3
Negli scorsi decenni molti paesi si sono mossi verso l’ITF. L’ancora
nominale, in questo caso, è il tasso di inflazione: ci si aspetta che
la BC segua una politica monetaria rivolta a conseguire l’obiettivo
d’inflazione prestabilito.
Bernanke et al. descrivono l’ITF, rispondono ad alcune critiche e
studiano l’utilità dell’ITF per analizzare le scelte di policy.
Secondo Bernanke et al., l’ITF è un sistema di condotta della politica
monetaria che ha le seguenti caratteristiche:
l’annuncio di obiettivi ufficiali di inflazione a certi orizzonti;
l’esplicito riconoscimento che l’obiettivo della politica monetaria è la
stabilizzazione dell’inflazione;
la BC è ritenuta responsabile di conseguire gli obiettivi prestabiliti;
maggiore comunicazione col pubblico sui piani e obiettivi della
politica monetaria.
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2. Inflation Targeting – 4
In passato l’ITF è stato adottato da: Canada, U.K., Nuova Zelanda,
Australia, Finlandia, Spagna, Svezia e Israele. Secondo Bernanke
et al., anche le decisioni di politica monetaria delle BC di
Germania (pre-EMU) e Svizzera ricadono in questa categoria. I
comportamenti della BCE e della Fed sotto Greenspan
incorporano anch’essi alcune delle caratteristiche centrali dell’ITF.
Tra le caratteristiche più salienti, si nota che nessun paese chiede alla
BC di conseguire l target di inflazione nel breve periodo. Ciò
implica che i MP makers non si preoccuperanno solo
dell’inflazione: sugli orizzonti brevi, è chiaro che le fluttuazioni
dell’output verranno considerate. Poiché si assume che la politica
monetaria non abbia effetti di lungo periodo sull’output, ha senso
pensare che il solo obiettivo di lungo periodo del policy maker sia
stabilizzare l’inflazione.
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2. Inflation Targeting – 5
Il grado di accountability della BC varia tra paesi: la Nuova Zelanda
lega espressamente la durata del mandato del governatore della BC
all’abilità a conseguire gli obiettivi fissati, cosa che non viene fatta
esplicitamente negli altri paesi con ITF. Secondo Bernanke et al.,
l’annuncio del target, anche senza esplicite sanzioni, può
disciplinare la BC perché c’è una perdita di reputazione e prestigio
e il bisogno di chiarire perché la BC abbia fallito il target.
Bernanke et al. argomentano che ITF non implica:
che le mani dei MP maker sono legate (alla BC si lascia generalmente
spazio di intervenire discrezionalmente in caso di ampi shock);
eliminare tutta la discrezionalità del policy maker: la limita ma non la
cancella;
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ng an inflation
targetTargeting
of 2% a year.
2. Inflation
–6
Infatti, si potrebbe sostenere che l’ITF amplia la CBI anziché ridurla:
ue that inflationes.
targeting
enhancesnoncentral
independence
insteadpolitiche che hanno
il governo
può bank
forzare
la BC a fare
effetti positivi di breve periodo ma negativi di lungo periodo
mple, the government
could not force the central banker to undertake
poiché la BC deve rendere pubbliche le informazioni sulla sua
abilità
di raggiungere
di lungo
periodo. Ciò dovrebbe
tive short run and
negative
long run e↵ectsl’obiettivo
because the central
banker
impedire che il banchiere centrale sia tirato pe rla giacchetta dai
l information about
the ability to reach the long-term target. This
politici.
Facciamo
piccola
digressione
per capire meglio:
the central banker
againstunabeing
arm-twisted
by politicians.
matematicamente possiamo descrivere la funzione obiettivo di un
MP maker ragionevole nella forma:
athematically, we Pcan describe
the
objective
function
of
a
reasonable
⇥
⇤
1 ⌧
⇤
2
⇤
2
er in the form Et ⌧=0 ↵(yt+⌧ yt+⌧ ) + (⇡t ⇡ ) , where y is
⇤ is the targeted rate of
ential GDP),dove
⇡ is ytheè rate
of
inflation
and
⇡
ln(GDP), y∗ è ln(potential GDP), π è il tasso di inflazione e
π∗ è il target d’inflazione.
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2. Inflation Targeting – 7
α è il peso che il policy maker dà alle fluttuazioni dell’output relative
alle fluttuazioni dell’inflazione (α = 1 implica che ambedue sono
trattate allo stesso modo, α = 0 che il policy maker non si
preoccupa delle fluttuazioni dell’output. ecc.). Questo tipo di
funzione di perdita è assai usato in letteratura.
Bernanke et al. sottolineano che l’ITF non implica necessariamente
una funzione di perdita con α = 0. A patto che consegua il suo
obiettivo di più lungo periodo, il banchiere centrale è libero di
perseguire altri obiettivi nel breve termine: stabilizzare il tasso di
cambio, rompere una bolla azionaria, raffreddare un’economia
surriscaldata, far rimbalzare un’economia stagnante, ecc. Bernanke
et al. descrivono l’ITF come “discrezione controllata”: un sistema
che permette al policy maker di usare la sua discrezione, mentre il
target d’inflazione costituisce un controllo esterno che egli non
abusi della sua discrezione.
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2. Inflation Targeting – 8
Il target che viene indicato ottimale varia da paese a paese ma,
secondo Bernanke et al.:
il target dovrebbe essere basso ma non essere zero (le misure
dell’inflazione sono distorte verso l’alto, quindi un’inflazione
nulla sul convenzionale CPI potrebbe in effetti indicare deflazione
nell’economia; shock negativi inattesi in un ambiente a zero
inflazione possono portare alla deflazione che, a sua volta,
contribuirebbe a creare una crisi finanziaria);
conviene concentrarsi su una misura di core CPI (escludendo i prezzi
volatili del cibo e dell’energia).
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3. Regola di Taylor – 1
La letteratura economica mostra che la decisione delle BC
sull’obiettivo di tasso d’interesse a breve termine è ben sintetizzata
dalla cosiddetta regola di Taylor, cioè:
it = α 0 + α1π t + α 2 ( yt − yt ) + ρit −1
ove it è il tasso a breve che la Banca centrale sceglie sulla base dei
parametri, tutti positivi: α1 (il peso dato all’obiettivo d’inflazione),
α2 (il peso dato all’obiettivo di contenere l’output gap ossia la
deviazione del PIL dal suo livello potenziale) e ρ che esprime il
desiderio di effettuare uno smussamento del tasso di interesse
(cioè di non muoverlo troppo bruscamente). Quando πt<0 (cioè
siamo in deflazione) e anche l’output gap è negativo (cioè siamo in
recessione) e inoltre it-1 è già stato portato a zero, allora la regola
di Taylor implica la fissazione di it<0, cosa che, normalmente, non
è possibile. Ne segue che l’output gap diviene ancor più negativo e
la caduta dei prezzi si intensifica, causando una spirale
deflazionistica che può risultare instabile (Benhabib et al., 2001).
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3. Regola di Taylor – 2
[Benhabib J., Schmitt-Grohé S., Uribe M. (2001), The Perils of Taylor Rules,
in“Journal of Economic Theory“, vol. 96, pp. 40-69]
Da tempo Krugman [Krugman P. (2000), The Return of Depression Economics,
W.W. Norton & Company, New York] suggerisce che anche in trappole
della liquidità indotte da tassi nominali ormai a zero e deflazione
continua si può ridare forza alla politica monetaria assegnandole
l’obiettivo di generare aspettative di inflazione e abbassare così il
tasso di interesse reale, stimolando in questo modo la domanda
privata. Accelerando la creazione di base monetaria si può
ingenerare negli operatori l’aspettativa che in futuro il valore della
moneta si riduca in termini di consumi (cioè i prezzi crescano)
ovvero in rapporto alle altre valute (un deprezzamento dello yen,
foriero di inflazione importata). Ma la ricetta di Krugman non pare
essere mai stata seguita con determinazione in Giappone.
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Bari, EIMF 2012
3. Regola di Taylor – 3
Negli USA grande attenzione viene sempre rivolta all’operato della
banca centrale. Il suo mandato, più ampio di quello della BCE, è
volto sia a mantenere la stabilità dei prezzi che a sostenere crescita
economica e occupazione. La politica monetaria attuata dalla Fed
ha rappresentato indubbiamente un faro nello scenario economico
della crisi e le decisioni prese nel corso dei mesi hanno sempre
creato una decisa reazione nei mercati finanziari. È importante,
quindi, domandarsi quale fosse l’impostazione della Fed negli anni
precedenti la crisi per capire se la sua politica abbia avuto un ruolo
nel determinare la Grande Crisi.
Per capire se veramente la politica monetaria abbia avuto un ruolo
nella crisi è necessario un esame ad ampio spettro. È utile partire
dall’andamento del tasso di interesse reale poiché esso ci fornisce
un’idea immediata di quale sia l’azione della politica monetaria,
essendo dato dal differenziale tra i tassi nominali e il tasso di
inflazione.
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3. Regola di Taylor – 4
La Figura seguente ci mostra l’andamento del tasso di interesse reale
statunitense calcolato come differenza tra il tasso sui federal funds,
ovvero il tasso di policy Usa, e il tasso di inflazione “core”, quello
cui guarda la Fed. Ciò che emerge è un livello del tasso di
interesse reale che ha toccato i suoi minimi storici proprio negli
anni antecedenti la Grande Crisi. L’allentamento monetario della
Fed a seguito degli attacchi terroristici del settembre 2001 e dello
scoppio della bolla delle dot.com ha condotto per un lungo
periodo, ben tredici mesi, il tasso di interesse reale al di sotto della
soglia dello 0%. Lo stimolo della Fed fu particolarmente intenso e
prolungato.
Una ulteriore prova di questo atteggiamento espansivo della Fed
possiamo trovarla confrontando l’andamento dei tassi sui federal
funds con ciò che ci suggerisce la Regola di Taylor [Taylor, J. B.
(1993). Discretion versus policy rules in practice, Carnegie Rochester
Conference Series on Public Policy, Vol. 39, pp. 195-214].
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3. Regola di Taylor – 5
Figura: Tasso reale (federal funds rate – inflazione core)
tasso reale
5
4
3
2
1
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mar-10
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mar-06
mar-04
mar-02
mar-00
mar-98
mar-96
mar-94
-2
mar-92
-1
mar-90
0
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3. Regola di Taylor – 6
Nel 1993 Taylor aveva proposto una semplice formula che
riproduceva in modo eccellente l’andamento dei tassi di interesse
sui federal funds tra il 1987 e il 1992. Essa è diventata un metro di
paragone per capire l’impostazione della politica monetaria della
Fed. La regola, in origine, non era stimata econometricamente, ma
proponeva dei coefficienti fissi che legavano l’andamento del tasso
di interesse nominale con il gap di inflazione e l’output gap.
L’espressione di base è piuttosto semplice:
i = 2 + Π + 0,5*(Π – Π*) + 0,5*(g-g*)
dove i è il tasso sui federal funds, Π è il tasso di inflazione dei
precedenti quattro trimestri, Π* è l’inflazione obiettivo, fissata al
2%, g è la crescita realizzata e g* è la crescita potenziale. Se
inflazione e crescita sono al loro potenziale il tasso nominale deve
essere al 4%, quindi un tasso reale del 2%.
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3. Regola di Taylor – 6
La Figura seguente confronta il risultato ottenuto attraverso questa
formula con l’andamento del tasso dei federal funds. Nel grafico
viene anche visualizzata la differenza tra i due tassi.
10
8
6
4
2
TR
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fedf
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mar-02
mar-00
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-2
mar-90
0
diff
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3. Regola di Taylor – 7
La TR conferma la precedente analisi. Si nota che anche a confronto
con la TR la politica monetaria della Fed negli anni pre-crisi
appare oltremodo espansiva. Se dal 1994 al 2001 i due tassi erano
stati simili, dal secondo trimestre del 2001 al secondo trimestre
2006 il tasso della Fed è stato sistematicamente più basso e la
differenza è arrivata a quasi tre punti nel 2003. Inoltre, il tasso
minimo individuato dalla TR nel periodo 2002-2005 è stato del
3,25 mentre la Fed si spinse molto più in basso, con tassi vicini
all’1 per cento. Anche la TR supporta l’idea di una fase
eccessivamente espansiva negli anni pre-crisi.
Possiamo comprendere meglio questa differenza di comportamento
se stimiamo la Taylor Rule attraverso una semplice elaborazione
econometrica. Seppur vi siano diverse cautele da seguire nello
stimare in modo semplice la Regola di Taylor [cfr. Österholm, P.
(2005). The Taylor Rule: a spurious regression?, Bullettin of Economic
Research, 57, 217-247] ciò che deduciamo è che la Fed è una banca
centrale molto più attiva di quanto prescrive la regola di Taylor.
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Bari, EIMF 2012
3. Regola di Taylor – 8
La Tavola 1 riporta in breve i risultati della regressione. Si nota che
entrambi i coefficienti sull’inflation gap e sull’output gap sono più
elevati di quelli imposti da Taylor. Ciò implica che la Fed è stata
molto più attiva nel muovere i tassi in risposta ad oscillazioni
dell’inflazione e del Pil e ciò ha comportato, in determinate
situazioni, una reazione superiore rispetto a quella preventivata da
Taylor, che invece aveva imposto un peso di 0,5 su entrambi i gap.
Da questa analisi possiamo tratte quattro conclusioni. La prima è che
la politica monetaria della Fed è stata troppo espansiva negli anni
precedenti la crisi. Ciò ha sicuramente dato impulso alla crescita
delle bolle e dei disequilibri. La seconda è che anche in passato
(cfr. due Figure precedenti) la politica della Fed era stata
altrettanto espansiva, ma poi non si erano verificate crisi di così
grande portata. Forse per questo motivo il ruolo della politica
monetaria quale concausa della Grande Crisi non ha suscitato un
giudizio univoco da parte degli economisti nel corso del tempo.
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Bari, EIMF 2012
3. Regola di Taylor – 9
Economia Finanziaria e Monetaria
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Bari, EIMF 2012
3. Regola di Taylor – 10
Ad esempio, in una indagine effettuata nel 2008 [Forte, A., Pesce, G.,
(2009). The International Financial Crisis: an Expert Survey, SERIES, No. 24,
Dipartimento di Scienze Economiche e Metodi Matematici – Università di Bari]
il ruolo della politica monetaria della Fed nel determinare la crisi
finanziaria fu collocato al sesto posto su quindici possibili cause
nel giudizio di ben 720 fra economisti, esperti finanziari e
giornalisti d’economia. A questa conclusione si potrebbe obiettare
che proprio i diversi periodi ultra-espansivi hanno permesso nel
tempo la costruzione di quelle bolle cui l’ultima fase di politica
monetaria accomodante ha dato la spinta finale prima della
detonazione. In terzo luogo, da questa seconda riflessione deriva
che seppur sia ormai indubitabile che la politica monetaria della
Fed sia stata eccessivamente accomodante negli anni precedenti la
Grande Crisi è pur vero che le cause di questa non possono essere
attribuite esclusivamente all’operato di un solo policy maker.
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Bari, EIMF 2012
3. Regola di Taylor – 11
Per ultimo, osservando la parte finale dei due grafici siamo indotti ad
affermare che anche in questi mesi la Fed sta continuando ad
operare in modo eccessivamente espansivo, comportamento che
potrebbe favorire una nuova crisi nel prossimo futuro. Sia il tasso
reale, sia la Taylor Rule ci dicono che è ormai giunto il momento
di cominciare a riportare il tasso nominale verso livelli più elevati.
Più si aspetterà, maggiori potrebbero essere le conseguenze.
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4. La Great Moderation – 1
L’impostazione neoliberista della politica monetaria, che discende
dalla NMC e si incarna nel dibattito su CBI, ITF e trova strumento
applicativo nella Regola di Taylor, ha la sua massima espressione
nell’idea (o ideologia) della Great Moderation.
Il riferimento d’obbligo è ancora a Bernanke [Bernanke, B. S., (2004),
‘The Great Moderation’, remarks at the Eastern Economic Association,
Washington, DC, 20 February]: “One of the most striking features
of
the economic landscape over the past twenty years or so has been
a substantial decline in macroeconomic volatility … the variability
of quarterly growth in real output (as measured by its standard
deviation) has declined by half since the mid-1980s, while the
variability of quarterly inflation has declined by about two thirds
… Several writers on the topic have dubbed this remarkable
decline in the variability of both output and inflation ‘the Great
Moderation’ (GM) … Similar declines in the volatility of output
and inflation occurred at about the same time in other major
industrial countries, with the recent exception of Japan”.
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Bari, EIMF 2012
4. La Great Moderation – 2
Traiamo ancora da Bernanke (2004):
“Reduced macroeconomic volatility has numerous benefits. Lower
volatility of inflation improves market functioning, makes
economic planning easier, and reduces the resources devoted to
hedging inflation risks. Lower volatility of output tends to imply
more stable employment and a reduction in the extent of
economic uncertainty confronting households and firms. The
reduction in the volatility of output is also closely associated with
the fact that recessions have become less frequent/severe.”
Why has macroeconomic volatility declined? Three types of
explanations: 1) structural change; 2) improved macroeconomic
policies; 3) good luck.
1. Structural change: Changes in economic institutions, technology,
business practices, or other structural features of the economy
have improved the ability of the economy to absorb shocks:
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4. La Great Moderation – 3
- 
- 
improved management of business inventories, made possible by
advances in computation and communication, reduced the
amplitude of fluctuations in inventory stocks (an important earlier
source of cyclical fluctuations);
the increased depth and sophistication of financial markets,
deregulation in many industries, the shift away from
manufacturing toward services, and increased openness to trade
and international capital flows may have increased
macroeconomic flexibility and stability.
2. Improved macroeconomic policies (e.g. MP):
Better MP contributed to increased economic stability:
- 
Output and inflation volatility tend to move together (BlanchardSimon, 2001). In particular, output volatility in the US greatly
declined between 1955 and 1970, when inflation volatility was
low. Both output volatility and inflation volatility greatly rose in
the 1970s and early 1980s and both fell sharply after about 1984;
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4. La Great Moderation – 4
- 
the highest volatility in both output and inflation of the 1970s, also
saw MP perform quite poorly (Romer-Romer, 2002).
Subsequently, MP may have helped moderate the variability of
output as well.
3. The good luck hypothesis:
Great Moderation could depend on the shocks hitting the economy
having become smaller and more infrequent (Ahmed et al., 2002;
Stock-Watson, 2003).
“My view is that improvements in MP, though certainly not the only
factor, have probably been an important source of the Great
Moderation. In particular, I am not convinced that the decline in
macroeconomic volatility of the past two decades was primarily
the result of good luck … I will provide some support for the
"improved-monetary-policy" explanation for the GM”
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4. La Great Moderation – 5
The Taylor Curve and the Variability Tradeoff:
Economic theory and the relationship output/inflation volatility.
Assume that: 1) MP makers accurately understand the economy
and choose policies to promote the best economic performance
possible, given their objectives; 2) stable and unchanging structure
of the economy an distribution of economic shocks. Then standard
macroeconomics implies that, in the long run, monetary
policymakers can reduce the volatility of inflation only by
allowing greater volatility in output, and vice versa.
The ultimate source of this long-run tradeoff is the existence of
shocks to aggregate supply, e.g. an aggregate supply shock, like a
sharp rise in oil prices caused by disruptions to foreign sources of
supply. In the conventional analysis, an increase in the price of oil
raises the overall price level (temporary é inflation) while output
and employment ê.
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4. La Great Moderation – 6
MP makers thus face a difficult choice. If they choose to tighten
policy (short-term interest rate é) to offset the effects of the oil
price shock on the general price level, they may succeed--but only
aggravating decline in output. Likewise, if they choose to ease in
order to mitigate the effects of the oil price shock on output, they
will raise the inflationary impact. Hence, in the standard
framework, the periodic occurrence of shocks to aggregate supply
forces policymakers to choose between stabilizing output and
stabilizing inflation.
This tradeoff gives rise to the Taylor curve. Graphically, the Taylor
curve depicts the menu of possible combinations of output
volatility and inflation volatility from which monetary
policymakers can choose in the long run.
Economia Finanziaria e Monetaria
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Figure 1 shows two examples of Taylor curves, marked TC1 and
TC2. In Figure 1, volatility in output is measured on the vertical
axis and volatility in inflation is measured on the horizontal axis.
As shown in the figure, Taylor curves slope downward, reflecting
the theoretical conclusion that an optimizing policymaker can
choose less of one type of volatility in the long run only by
accepting more of the other. A direct implication of the Taylor
curve framework is that a change in the preferences or objectives
of the central bank alone--a decision to be tougher on inflation, for
example--cannot explain the GM. Indeed, in this framework, a
conscious attempt by policymakers to try to moderate the
variability of inflation should lead to higher, not lower, variability
of output.
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Figure 1 Monetary Policy and the Variability of Output and Inflation
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REFERENCES
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How, then, can the GM be explained? Two possibilities. First,
suppose … that monetary policies during the period of high
macroeconomic volatility were not optimal, perhaps because
policymakers did not have an accurate understanding of the
structure of the economy or of the impact of their policy actions …
the result could be a combination of output volatility and inflation
volatility lying well above the efficient frontier defined by the
Taylor curve. Graphically, suppose that the true Taylor curve is the
solid curve shown in Figure 1, labeled TC2. Then, in principle,
sufficiently well executed policies could achieve a combination of
output volatility and inflation volatility as in point B, while less
effective policies could lead to point A. So, improvements in MP
might account for the Great Moderation, even in the absence of
any change in the structure of the economy or in the underlying
shocks, leading from point A to the efficient point B, where the
volatility of both inflation and output are more moderate.
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Figure 1 can also depict a second possible explanation for the GM:
rather than improved MP, the underlying economic environment
may have become more stable. More resilience to shocks or
reduced variance of the shocks would improve the volatility
tradeoff faced by policymakers: In Figure 1, the true 1970s Taylor
curve is given by the dashed curve, TC1, and the actual economic
outcome chosen by policymakers is point A, which lies on TC1.
Improved economic stability in the 1980s and 1990s, whether
arising from structural change or good luck, can be represented by
a shift of the Taylor curve from TC1 to TC2, and the new
economic outcome as determined by policy is point B.
Of course, more complicated scenarios featuring a mix of the three
explanations are also possible.
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Now I will try to support my view that the policies of the late 1960s
and 1970s were particularly inefficient, for reasons that I think we
now understand. Thus, as in the first scenario just discussed (in
Figure 1 a movement from A to B), improvements in the execution
of MP can plausibly account for a significant part of the GM.
Second, more subtly, I will argue that some of the benefits of
improved MP may easily be confused with changes in the
underlying environment (that is, improvements in policy may be
incorrectly identified as shifts in the Taylor curve), increasing the
risk that standard statistical methods of analyzing this question
could understate the contribution of MP to the GM.
Reaching the Taylor Curve: Improvements in MP Effectiveness
MP makers are uncertain on the workings of the economy, e.g. the
channels by which MP is transmitted, and even on the current
economic situation as data are lagging & imprecise. Thus, in
practice, MP will never achieve the reduction in macroeconomic
volatility as would be possible with full understanding.
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But, many economists have argued that MP during the late 1960s and
the 1970s was unusually prone to creating volatility, relative to
both earlier and later periods (DeLong, 1997; Mayer, 1998; Romer
and Romer, 2002). For economic historians the relative
inefficiency of policy during this period arose because MP makers
held important misconceptions about policy and the economy: 1)
central bankers were overly optimistic on the ability of activist
MPs to offset shocks to output and to permanently reduce
unemployment. Second, MP makers underestimated their own
contributions to the inflationary problems, believing instead that
inflation largely depended on nonmonetary forces (i.e. MP makers
suffered excessive "output optimism" and "inflation pessimism.”)
The output optimism of those years had several aspects:
a) at least initially, the view that policy could exploit a permanent
inflation-unemployment tradeoff (Phillips curve). This view is
now discredited, on both theoretical and empirical grounds.
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b) estimates of the rate of unemployment sustainable without igniting
inflation (NAIRU) were typically too low (below 4%);
c) economists of the time may have been unduly optimistic about the
ability of fiscal and MP makers to eliminate short-term
fluctuations in output and employment ("fine-tune" the economy).
Inflation pessimism was the increasing conviction of policymakers in
the 1960s and 1970s, as inflation rose and remained stubbornly
high, that MP was an ineffective tool for controlling inflation. As
emphasized in recent work on the US & the UK (Nelson, 2004),
during this period policymakers became more and more inclined to
blame inflation on so-called cost-push shocks (e.g. union wage
pressure, price rises by oligopolistic firms, increases in commodity
prices due to adverse changes in supply conditions) out of the
control of the MP makers rather than on monetary forces.
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The combination of output optimism and inflation pessimism during
those years was a recipe for high volatility in output and inflation,
resulting in high inflation without delivering the expected higher
output and employment. Also, the Fed's periodic attempts to rein
in surging inflation led to a pattern of "go-stop" policies, in which
swings in policy from ease to tightness contributed to a highly
volatile real economy as well as a highly variable inflation rate.
MP makers lamented the high inflation but did not see their own role
in its creation. Ironically, their errors in estimating the natural rate
and in ascribing inflation to nonmonetary forces were mutually
reinforcing. On one hand, as unemployment stayed well above
their estimates, they tended to attribute inflation to outside forces
(e.g. firms & unions) rather than to an overheated economy. On
the other hand, their view that exogenous forces largely drove
inflation made it more difficult for them to recognize that their
estimate of the sustainable rate of unemployment was too low.
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Policymakers took several years understand that sustained antiinflationary monetary policies worked [Primiceri, G., 2006, “Why
Inflation Rose and Fell: Policymakers’ Beliefs and US Postwar Stabilization
Policy,” Quarterly Journal of Economics:867-901]. These policies were
enacted successfully after 1979, under Fed Chairman Volcker.
The basic Taylor rule relates the Fed's policy instrument, the fed
funds rate, to deviations of inflation and output from the desired
levels. Estimates of the Taylor rule for the late 1960s and the
1970s reflect output optimism and inflation pessimism, finding
weaker responses to inflation and stronger responses to the output
gap than in more recent periods. Weak responses to inflation let
inflation and inflation expectations rise and thus added volatility to
the economy. Also, strong responses to the output gap created
additional instability. As output optimism and inflation pessimism
both waned under the force of the data, policy responses became
more appropriate and the economy more stable, i.e. MP moved the
economy closer to the Taylor curve (in Fig. 1, from A to B).
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Improved MP or a Shifting Taylor Curve?
Improvements in MP moving the economy closer to the efficient
frontier given by the Taylor curve can account for part of the GM.
But, various studies have questioned the quantitative importance
of this effect and emphasized instead shifts in the Taylor curve,
brought about by structural change or good luck. For example,
Stock & Watson (2003) simulate how the economy would have
performed after 1984 if MP policy had followed its pre-1979
pattern. Though inflation performance after 1984 would clearly
have been worse, Stock & Watson find that output volatility would
have been little different. They conclude that improved MP does
not account for much of the reduction in output volatility since the
mid-1980s. Instead, noting that the variance of the economic
shocks implied by their models for the 1970s was much higher
than the variance of shocks in the more recent period, they
embrace the good-luck explanation of the GM.
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Both the structural change and good-luck explanations of the GM are
intriguing. But, an unsatisfying aspect of both explanations is the
difficulty of identifying changes in the economic environment
large enough and persistent enough to explain the GM. In
particular, it is not obvious that economic shocks have become
significantly smaller or more infrequent, as required by the goodluck hypothesis.
Certainly, pro-stability changes in the economic environment have
occurred in the past decades. But, an intriguing possibility is that
some of these changes, rather than being truly exogenous, were
induced by improved MP. That is, better MPs may have resulted
in what appear to be (but only appear to be) favorable shifts in the
economy's Taylor curve. Consider some examples:
1) MPs that curtailed and stabilized inflation may have stabilized the
structure of the economy too, as predicted by Lucas (1976)
critique that economic structure depends on the policy regime.
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High and unstable inflation increases the variability of relative prices
and real interest rates, e.g., distorting decisions on consumption,
capital investment, and inventory investment. Also, high, variable,
and unpredictable inflation deeply affected decisions on financial
investments/money holdings.
2) changes in MP could affect the size/frequency of shocks hitting the
economy. Indeed, econometricians typically infer shocks from
movements in macroeconomic variables they cannot otherwise
explain. Shocks in this sense may certainly reflect the MP regime:
e.g., consider the cost-push shocks so important in 1970s' view on
inflation. Unexplained wage & price changes in this period, seen
by analysts as shocks to wage & price equations, could in fact be
the result of earlier MP actions, or MP actions expected for the
future by wage- and price-setters. For instance, Barsky & Kilian
(2001) prove that the extraordinary increases in nominal oil prices
of the 1970s were made feasible primarily by earlier expansionary
MPs rather than by truly exogenous political or economic events.
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3) MP can also affect the distribution of measured shocks by
changing the sensitivity of pricing and other economic decisions to
exogenous outside events: e.g. significant movements in the price
of oil and other commodities continued to occur after 1984.
However, in a low-inflation environment, with stable inflation
expectations and a general perception that firms do not have
pricing power, commodity price shocks are not passed into final
goods prices to nearly the same degree as in a looser monetary
environment. As a result, a change in commodity prices of a given
size shows up as a smaller shock to output and consumer prices
today than it would have in the earlier period. Likewise, there is
evidence that fluctuations in exchange rates have smaller effects
on domestic prices and economic activity when inflation is less
volatile and inflation expectations are stabilized (Gagnon and
Ihrig, 2002; Devereux, Engel, and Storgaard, 2003).
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4) changes in inflation expectations, which are ultimately the product
of the MP regime, can also be confused with truly exogenous
shocks in conventional econometric analyses. Goodfriend (1993)
suggested, e.g., that insufficiently anchored inflation expectations
have led to periodic "inflation scares," in which inflation
expectations have risen in an apparently autonomous manner.
Increases in inflation expectations have the flavor of adverse
aggregate supply shocks in that they tend to increase the volatility
of both inflation and output, in a mix that depends on how strongly
the MP makers act to offset these changes in expectations.
Theoretical & empirical support that inflation expectations may
become an independent source of instability grew recently. The
reaction of MP makers to inflation strengthened: e.g. the estimated
coefficient on inflation in the Taylor rule rose from less than 1
before 1979 to much above 1 more recently (Taylor principle).
Support for the view that inflation expectations can be an
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independent source of economic volatility has also emerged from
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Support for the view that inflation expectations can be an
independent source of economic volatility has also emerged from
the extensive recent literature on learning and macroeconomics
(Evans & Honkopohja, 2001): e.g. Orphanides & Williams (2003a,
2003b) have studied models in which the public must learn the
central bank's underlying preferences regarding inflation by
observing the actual inflation process. With learning, inflation
expectations take on a more adaptive character; in particular, high
and unstable inflation will beget similar characteristics in the
pattern of inflation expectations. As Orphanides & Williams show,
when inflation expectations are poorly anchored, so that the public
is highly uncertain about the long-run rate of inflation that the
central bank hopes to achieve, they can become an additional
source of volatility in the economy. An analysis that did not
properly control for the expectational effects of changes in
monetary policy might incorrectly conclude that the Taylor curve
had shifted in an adverse direction.
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Conclusion
GM, the substantial decline in macroeconomic volatility over the past
20 years is striking. Whether the dominant cause of GM is
structural change, improved MP, or simply good luck is an
important question. Improved MP has likely contributed not only
to reduce inflation volatility but to reduce output volatility too.
Also, as a change in the MP regime has pervasive effects, some of
the effects of improved MPs may have been misidentified as
exogenous changes in economic structure or in the distribution of
shocks. This conclusion is optimistic for the future, because MP
makers will likely not forget the lessons of the 1970s.
The policy explanation of GM deserves more credit than it has
received. But, the debate remains open. The MP hypothesis has
potential deficiencies as well: e.g. one might question whether the
change in MP regime was sharp enough to have those effects or
ask whether it can explain the 1950s. Clearly, the sources of GM
will continue to be an area for fruitful analysis and debate.
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